Giovanni Cardone Gennaio 2023
Fino al 10 Aprile 2023 si potrà ammirare al Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore Napoli la mostra Degas, il ritorno a Napoli a cura di Vincenzo Sanfo prodotta da Navigare srl e patrocinata dal Comune di Napoli. Il pittore e scultore Edgar Degas coltivò sin dalla giovinezza uno stretto rapporto con l’Italia e con Napoli. Per la prima volta una esposizione che celebra finalmente quel legame, con una selezione di quasi 200 opere originali esposte nella Sala del Refettorio del Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore, a pochi passi da Palazzo Pignatelli di Monteleone, residenza del nonno paterno e di parte della famiglia, meglio conosciuto come Palazzo Degas. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Degas e il suo rapporto con Napoli apro il mio saggio dicendo : Posso dire che giovanissimo Degas si affaccia alla vita l’arte in Francia sta cambiando volto . Dagli anni trenta si nota un lento ma costante processo di allontanamento dagli schemi promossi dalla scuola di Belle Arti, l’istituzione che a Parigi era il corrispondente dell’Accademia di Belle Arti in Italia, e una altrettanto costante crescita di libertà espressiva nello stile e nei soggetti. La regola classicista, in vigore anche nell’Accademia Reale di Belle Arti di Napoli, secondo cui il “bel disegno” deve costruire l’opera e certificare la precisione riproduttiva, comincia a essere sentita vuota di senso e non corrispondente alla funzione dell’arte, che ora taluni coraggiosi propongono come mezzo di rappresentazione cromatica della verosimiglianza oggettiva. Un momento di crisi istituzionale si ha in occasione del Salon l’esposizione organizzata periodicamente dalle Belle Arti del 1824, cui partecipano anche paesaggisti innovatori come l’inglese John Constable, promotore di una tecnica più rispettosa del dato naturale. All’avanguardia si collocano i pittori della scuola di Barbizon dal nome del villaggio ai margini della foresta di Fontainebleau che praticano la pittura all’aria aperta, metodo fino ad allora usato per abbozzare il lavoro. Tra il 1830 e il 1840 si afferma in Francia il positivismo, che investe i vari campi del sapere e dell’espressione artistica, introducendo in letteratura e nelle arti figurative la nuova estetica del realismo: l’arte si volge al dato reale, al fenomeno osservabile, privilegiando l’ambiente contemporaneo . I giovani pittori che aderiranno all’ Impressionismo appartengono per la maggior parte alla buona borghesia. Nati fra il 1830 e il 1841 nella capitale, o qui trasferitisi in giovane età si incontrano all’Ecole des Beaux – Arts e insieme si recano al Louvre per copiarne i capolavori. Sono di casa al Louvre soprattutto Manet, Degas e la Morisot. Prima di Barbizon e degli impressionisti, il primato indiscusso è appartenuto alla pittura di soggetto storico o mitologico sancito dall’arte ufficiale delle accademie. Tutto questo viene messo in discussione, attaccato e posto definitivamente in crisi da Gustave Courbet (“ èleve de la nature “ come ama definirsi ), con la sua fede nel realismo e la sua vocazione ideologica, di concerto con letterati quali Baudelaire, Champfleury e Proudhon. E’ ancora fresco il ricordo del Pavillon du Realism allestito dall’artista all’esterno dell’esposizione universale, in aperta polemica con opere quali “l’atelier del pittore” e “Funerale a Ornans”.Nello stesso tempo, Corot- altro grande maestro per i futuri impressionisti, tanto da spingere Pissarro a firmarsi anche “allievo di Corot “ scrive nel suo carnet: - “ Il bello dell’arte è la verità bagnata nell’impressione che abbiamo ricevuto di fronte alla natura”.8 Com’è Parigi nella prima metà dell’800 ? E’ una città che si avvia a diventare metropoli, governata da Napoleone III, nipote di Bonaparte, eletto prima presidente della seconda repubblica e poi, con il colpo di stato del 2 dicembre 1852, proclamato imperatore. L’anno seguente Napoleone III chiama alla prefettura della Senna il barone Georges – Eugène Haussmann, e lo incarica di trasformare in moderna metropoli la capitale che ancora ha molto del volto medievale, in più è afflitta da lacerazioni sociali, focolai di ribellioni , epidemie i moti del ’30, il colera del ’32 . Così, Haussman ha mano libera per reinventare- con l’aiuto di ingegneri, preferiti agli architetti- lo scacchiere urbanistico, attraverso la spettacolare rete dei” boulevards”: ampi viali sistemati secondo arditi giochi prospettici, spesso congiungendosi a “ V “, accompagnati dal verde degli alberi, su cui si affacciano caffè, ristoranti, negozi, eleganti appartamenti signorili le “maison rapport”, le case a più piani . L’Opèra, progettata dall’ingegnere Garnier, viene concepita come parte integrante di tale complesso; perno di tutto il sistema è l’Ile de la Citè, completamente trasformata. I “grand travaux” comprendono anche l’immensa ricostruzione fognaria. I boulevard, che mettono in comunicazione diretta il centro e la periferia, facilitano inoltre i movimenti di materiali e manodopera necessari alla nuova rete ferroviaria, gia in costruzione dal 1840.Parigi pian piano si va trasformando nella “ Ville Lumière”.Tale si presenta più tardi all’Esposizione Universale dell’89 con la prima illuminazione pubblica a gas esistente , in occasione della quale viene eretta la Tour Eiffel.

Intanto dal 1876 si sta costruendo la chiesa del Sacrè-Coeur edificio al centro di tutto un quartiere spesso frequentato dagli impressionisti, Montmartre .Molto diversa risulta la situazione napoletana di inizio Ottocento, questa differenza è dovuta in parte alla situazione storico-politica di grave deficit finanziario, eterno problema del regno di Francesco I . Nel 1821 le truppe austriache stanziano a Napoli, solo nel 1827 il Re ne ottiene il ritiro. Il loro mantenimento ha inciso in modo notevole sul bilancio statale. Dopo la partenza degli austriaci la sicurezza del regno resta affidata all’esercito napoletano del quale Francesco I, per quanto ha visto nel passato, non può fare sicuro affidamento per cui tratta l’arruolamento di regimi svizzeri mercenari. Dopo i disastrosi moti del 1820 qualche fiammata di libertà si accende di tanto in tanto nel regno ma sono guizzi sporadici e isolati, subito repressi, come quello del 1828 nel comune di Bosco, in provincia di Salerno. Qui il canonico De Luca solleva la popolazione chiedendo la Costituzione ma il moto viene subito soffocato e il castigo terribile, non si fa attendere: il comune viene bruciato e 26 persone, tra le quali il canonico De Luca, vengono mandate al supplizio. Durante il regno di Francesco I di Borbone Napoli, benché politicamente statica, progredisce, sia pure di poco, nel campo industriale. Diverse aziende aumentano la loro attività ed altre, anche se non di grande struttura vengono impiantate. C’è una buona produzione di lana, seta e cotone, la crescita di fonderie, stamperie, concerie, tintorie, fabbriche di saponi, di candele, di cappelli, di mobili e altre piccole industrie. Non è un gran che per il regno di Napoli che ha bisogno di una radicale ristruttura economica per risanare le rovinose finanze, eppure nonostante la situazione non rosea Napoli può vantare due primati: la prima nave a vapore, la “ Ferdinando I”, salpata il 27 settembre 1818 per il viaggio inaugurale Napoli – Genova, la prima compagnia di navigazione del Mediterraneo, fondata nel 1823 con il nome di Società Napoletana delle Due Sicilie. Per quanto riguarda la situazione delle Arti non ci sono più i vividi ingegni del secolo precedente, perché agli esuli del 1799 si sono aggiunti quelli dei moti del 1820, si può dire solo di Anton Pitloo, pittore di origine olandese iniziatore della “scuola di Posillipo” e di Giacinto Gigante, continuatore della suddetta scuola ma prettamente napoletano, che è da annoverare tra i maggiori paesaggisti moderni. Le regie scuole del Disegno sono state migliorate nei riguardi dell’inquadramento dei docenti e nella coordinazione degli insegnamenti, arricchite di specializzazioni e rette da norme didattiche ed amministrative, codificate razionalmente, ciò a partire dal 1815-1816 circa. Dal 1820 si vagheggia una riforma e un rinnovamento delle arti senza aver nulla di fatto concretato. Nel 1822 le Regie Scuole del Disegno sono unificate sotto un’ unica denominazione, nasce così la Reale Accademia delle Arti. Analogamente nello stesso anno viene varata una riforma approvata con R.D. 2 marzo 1822, resterà in vigore, con lievi modificazioni, per circa un quarantennio. La fotografia, si afferma in pochi decenni come la più popolare tra le arti visive del secolo. Nel 1849, appena dieci anni dopo l’invenzione di Daguerre, già centomila stampe fotografiche sono state vendute nella sola Parigi, e il pessimistico commento fatto nel 1850 dal pittore accademico Paul Delaroche “ da oggi la pittura è morta “, sembra a molti un giusto pronostico. Fra le prime vittime vi sono i pittori specializzati in ritratti in miniatura, che scompaiono dalla scena artistica fino a che, all’inizio del nuovo secolo, l’eccessiva popolarità dei ritratti fotografici non è tale da riportarli nuovamente alla ribalta. Ma la fotografia ha ormai sollevato l’arte da uno dei suoi compiti più limitanti, quello della pura riproduzione. Ora che il realismo è assicurato dall’apparecchio fotografico, che non mente nel documentare persone e luoghi, i pittori possono perseguire i loro scopi personali - come fanno gli impressionisti – con una nuova libertà .E per questo utilizzano anche la stessa fotografia. Se Degas ne fa un ampio e dichiarato uso, anche Corot, Bazille, Monet e Cezanne se ne servono spesso seppure sono riluttanti ad ammetterlo. La macchina fotografica influisce a vari livelli sul modo di guardare le cose. Degas parla della sua “ magica istantaneità “, qualità avvalorata dall’introduzione nel 1880 della prima macchina istantanea della Kodak.Anche Zola ne è un particolare estimatore e ne possiede una. Il funerale a Ornans di Courbet viene criticato per la sua somiglianza a un “ dagherrotipo sbagliato “, mentre l’atelier riproduce la posa di molte foto di nudi diffuse a Parigi in quegli anni.Gli effetti determinati dalla fotografia sulla generale sensibilità visiva dell’epoca, in particolare su quella impressionista, vanno ben al di là dell’uso che ne fanno i singoli artisti. Nonostante i progressi nelle tecniche dell’incisione, fino all’avvento della fotografia e poi della mezzatinta che permette alle immagini fotografiche di essere riprodotte in serie in giornali e riviste, nessuno ha un’idea precisa dell’aspetto della gente e dei luoghi che esulano dalla diretta esperienza personale. La fotografia produce una nuova consapevolezza visiva e un certo scetticismo sulle immagini idealizzate dell’arte accademica. Chi ha visto, per esempio, le foto di nudo di Julien Villeneuve non può più dare lo stesso valore ai nudi di Bouguereau, comincia seppure riluttante a chiedere ai pittori qualcosa di quel realismo che è dichiarata intenzione degli impressionisti esprimere. Ma la fotografia da anche un più specifico contributo operativo. Prima della sua invenzione, le opere d’arte del passato o di un diverso ambito geografico sono conosciute solo attraverso incisioni di livello più o meno buono. Tutto cambia con l’avvento di ditte specializzate, come gli Alinari di Firenze , che offrono eccellenti stampe fotografiche in bianco e nero di pitture e monumenti, ampliando così notevolmente la conoscenza dell’arte. In Francia il ruolo degli Alinari viene svolto da Adolphe Braun , che ottiene l’esclusiva per riprodurre i quadri del Louvre, fotografa anche l’arte contemporanea, scegliendo generalmente fra le opere ammesse al Salon. Alla fine del secolo dispone di novemila foto di opere moderne, fra cui molte di Millet, Corot, Puvis de Chavannes, una di Manet, due di Monet e cinque di Degas . Degas prima di servirsi della fotografia per i suoi dipinti, possedendo egli stesso un apparecchio fotografico di cui va particolarmente fiero, conosce attraverso Felix Braquemond incisore ,le stampe giapponesi , introdotte dallo stesso a Parigi nel 1856. Queste gli sono di grande impulso per l’elaborazione di uno spazio figurativo non convenzionale, sganciato dalla prospettiva centrale della tradizione pittorica occidentale. Degas si serve della neonata fotografia prima attraverso il dagherrotipo poi attraverso l’istantanea .In particolare si interessa agli studi fotografici sui cavalli in corsa realizzati da Eadweard Muybridge,traendone spunti per le sue celebri composizioni dedicate agli ippodromi. Sperimenta lui stesso la fotografia,sulla quale talvolta interviene direttamente, sovrapponendo la pittura all’immagine. L’originale taglio che Degas costituisce per molti dei suoi dipinti, rivela l’intenzione di offrire un’immagine istantanea della realtà, libera da schemi razionali, siano essi estetici o narrativi. L’immagine si presenta come una visione casuale, in cui le figure e le cose si distribuiscono nello spazio senza un’ordinata composizione prospettica o simmetrica. Tale scelta è evidente in alcuni dipinti degli anni settanta, come l’Orchestra all’Opèra del 1869, dove l’inquadratura ravvicinata della scena taglia la figura all’estrema destra e addirittura le teste delle ballerine sullo sfondo. La fotografia rappresenta il terzo occhio di Degas, infatti la competenza del pittore inizia dove comincia la “ visione “. Ma ciò che vede è in diretta dipendenza da “ come si vede “, e quest’ultimo è il risultato sia di un progetto che di un fenomeno contingente. Tuttavia perfino la casualità può essere attesa e perseguita: tutto consiste nel volerla o meno assumere come dato di conoscenza del mondo, come termine che contribuisce alla sua immagine o invece ne disturba i contorni. Mettere insieme la “ totalità “ antica con la “frammentarietà” moderna è stato uno dei ruoli che Degas ha imposto al proprio lavoro. In un simile contesto non può rimanere ai margini la tecnica fotografica, che si propone alla ribalta con la forza e l’invadenza delle tecnologie più avanzate. Per di più essa amplia la visione, ne entra a far parte con la sua specificità, ne propone uno sviluppo parallelo e allo stesso tempo diverso da quello dei linguaggi tradizionali. E’ perfino inutile soffermarsi sul fatto che Degas è in ogni caso ben conscio della prassi operativa fotografica e del funzionamento dell’obiettivo. Un dipinto come Giovanna e Giulia Bellelli del 1865, è significativo proprio in rapporto a quest’ultimo argomento: Giovanna appare infatti nel “fuoco” della lente, mentre Giulia si offre ad un campo sfuocato che la trasporta in uno stato di presenza assenza, impreciso e svaporato. La nuova musa è per lui un modo di vedere e come tale va sperimentata.

Non smette di “perseguitarla”, almeno fino alla metà degli anni Ottanta. Nella storia della fotografia Degas occupa una posizione centrale: non fosse altro perché, mentre gli strumenti avanzano verso un uso facile e meccanico, è il primo ad ammonire di non perdere le origini, di esaminare il mezzo nella sua specificità, di essere fotografi-fotografi e non fotografi –pittori, di lavorare sulla struttura della tecnica ricavando da lì le origini dell’opera. O meglio ancora, saprà estrarre dalla tecnica il linguaggio. Lo sguardo di Zoè Closier alle spalle di un Degas assorto in una riflessione che si prolunga fuori campo, il ritratto di Mallarmè e Renoir, Louise sognante, la danza di luce e nella luce della danseuse del corpo di ballo e le altre immagini dell’itinerario della maturità di Degas sono una riconferma che il suo “terzo occhio” è costruito per sottrarre l’effimero alla dispersione , essendo nato per veder coincidere nella specificità dei materiali e delle tecniche creative ciò che sta al di qua e al di là dello sguardo stesso. E ciò vale sia per la pittura, sia per la scultura e la fotografia . Il ruolo della fotografia nella cultura napoletana, non appare sicuramente secondario alla Francia infatti sin dalla sua comparsa sulla scena europea ci si rende conto della svolta che si sta realizzando nei percorsi formativi degli artisti europei già a partire dal 1855. In questa data Paul Nibelle critico francese scrive una recensione sulla rivista “La Lumière” a proposito dell’Esposizione Universale di Parigi che si tiene lo stesso anno. Nibelle conclude con la diagnosi di un mondo che per effetto dell’industrializzazione sta cambiando e auspica un ritorno, magari per stanchezza alle bellezze della natura che da sempre hanno ispirato l’arte. In effetti la sua diagnosi non è poi così peregrina. Ad attirare sempre più gli artisti è il ruolo di Parigi in quanto metropoli moderna, connesse a questo ruolo, tutte le diavolerie della moderna società industriale, compresi gli apparati tecnici del settore grafico, la fotografia, le novità delle arti applicate in generale e il tempio dove tutto questo si può ammirare, ossia le Esposizioni Universali. Così, si verifica tutto ciò che Nibelle ha constatato: dall’Italia partono precocemente i segnali di artisti e scienziati che desiderano aggiornarsi sui modelli francesi, mentre contemporaneamente, dalla Francia soprattutto i fotografi scendono in Italia per incamerare nel proprio repertorio quelle immagini di antica tradizione , famose fino a diventare in taluni casi stereotipi, del patrimonio artistico e paesaggistico italiano , segnatamente meridionale. Tra i fotografi di mezza Europa continua a persistere il mito dell’Italia come meta del Grand Tour e fra le tappe italiane più significative Napoli riveste un ruolo principale. Alcuni viaggiatori – fotografi documentano le aree archeologiche, gli oggetti d’arte e i monumenti della città. Altri si stabiliscono a Napoli impiantandovi il loro atelier e i propri uffici commerciali. Notevole è l’interesse che manifestano nei confronti della fotografia gli artisti napoletani. Gli scambi tra arte e fotografia nel corso dell’Ottocento sono fittissimi. La fotografia dei professionisti risente di schemi visivi diffusi da incisori e pittori, viene presa ad esempio per Napoli, la famosissima immagine del golfo presa da Posillipo con la quinta laterale del pino che passa pressoché inalterata dalle incisioni del primo Ottocento ai pittori della scuola di Posillipo al repertorio fotografico di molte ditte napoletane, fino alle cartoline. Artisti che utilizzano il mezzo fotografico lasciandosene influenzare sono Celentano, Palizzi, Morelli,Cammarano. Dai loro epistolari apprendiamo che fra di loro c’è un giro vorticoso di immagini fotografiche relative alla loro produzione: sono scambi con altri artisti di foto con dediche della propria città, come ricordo affettuoso oppure al fine di ottenere un parere, un giudizio o ancora con la speranza di una mediazione mercantile. Si sono accertati scambi in tal senso con Mosè Bianchi , gli Induno e i Macchiaioli. Morelli e Celentano cercano di procurarsi foto “ a qualunque prezzo” di dipinti soprattutto stranieri per studiarli, desiderano la riproduzione della Santa Cecilia portata al sepolcro di Bouguereau, di cui ha parlato loro Vertunni e danno l’incarico a Caneva noto pittore e fotografo romano, di eseguirla. Senza dubbio l’uso più interessante che costoro fanno della fotografia è quello in relazione diretta con la loro produzione pittorica e scultorea. Non è facile accertare con sicurezza il ricorso all’immagine fotografica all’interno del processo creativo, anche per la ritrosia di molti artisti ad ammetterlo; tuttavia alcune testimonianze inequivocabili ci sono. La più antica riguarda l’uso da parte di Filippo Palizzi del cliché verre , una tecnica eliotipica a metà fra l’incisione e la fotografia , appresa in Francia nell’ambiente della scuola di Barbizon durante il suo primo viaggio nel 1855. Insieme al fratello Giuseppe stringe amicizia con Nadar, come risulta da alcune sue lettere conservate nei suoi manoscritti. Per Bernardo Celentano la fotografia costituisce una tappa nella costruzione dell’opera, con un ruolo simile a quello svolto dallo schizzo preparatorio, dallo studio di un particolare o ancora dallo studio delle luci. Nel 1870 nelle memorie dell’ormai anziano scultore Tito Angelini leggiamo una vera e propria esaltazione del mezzo fotografico. Questa memoria viene letta presso la Reale Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti, in cui rivela senza ritrosie il suo personale uso di questo ausilio ed i vantaggi che ne derivano allo scultore: “Benché l’artista parla sempre meglio dell’arte propria, che delle arti sorelle, io dirò nondimeno, come dalla fotografia traessi vantaggio, perché nella statuaria grandemente mi sono giovato, e mi giovo della fotografia, cercherò di dimostrare, come con fotografie tratte da diversi punti d’una stessa figura, o d’un medesimo ritratto, io abbia potuto raggiungere la somiglianza, per modo che meglio non avrei potuto, se ne avessi tenuto lungamente a modello il vivente originale. La fotografia dà la sicurezza del contorno, perché vi presenta quello della natura stessa. Inoltre la spontanea movenza, e quella spigliata verità dei capelli, che secondo l’età si veggono più o meno morbidi allo sguardo del ritraente, non si possono ottenere modellando dal vero, dal perché in quelle poche ore, che si concedono alle sedute, onde ritrarre il busto di una persona, l’artista è ragionevolmente più intento a rendere l’insieme, che i particolari delle pieghe, dei capelli, e di quanto infine riguarda gli accessori,che formar debbono un armonico complesso.

L’artista finisce così per eseguire la cosa più difficile in arte, vale a dire i capelli,intagliandoli quasi sempre come di pratica: per modo che nella scultura di una epoca non lontana si veggono resi i capelli d’un vecchio nel modo stesso di quelli d’un giovane, e i capelli bianchi figurati come i neri, senza por mente, che il colore anche nella scultura si ravvisa per mezzo del delicato tocco dello scalpello, e per la diversità della intelligente esecuzione” . Per De Nittis la fotografia al pari di Degas, è uno stimolo ad ammodernare il taglio della composizione, per Michetti dopo essere stata alleata della pittura e soprattutto nella documentazione di eventi folklorici da lui osservati- comincia a costituire un’alternativa. Questo si verifica quando viene meno la fiducia nelle possibilità comunicative della pittura all’interno di un discorso realistico. E’ proprio la fotografia, a dispetto della sua fama di strumento mimetico per eccellenza, ad indicare la via verso una frammentazione ed un’analisi quasi ossessiva della realtà fino ai limiti dell’astrazione .Le origini della famiglia De Gas risalgono al 1500. Il nome De Gas si rintraccia in antichi documenti in “De Gast”,”De Guast”, “De Gas”; dopo la Rivoluzione Francese viene riunito in” Degas” come sempre l’ha utilizzato Edgar. La sua famiglia è originaria della bassa Langue D’oc, della città di Bagnols. I De Gas erano proprietari terrieri e signori proprio di questa città con il soprannome De Gast de Bagnols, che resterà soprattutto al ramo cadetto di questa famiglia.
Questo si trasferisce agli inizi del Cinquecento nella città di Orlèans dove un antenato di Edgar , Gabriel de Gast insegna giurisprudenza all’università. Già a partire dal 1576 i De Gast solevano riunire il cognome in una sola parola Degast come risulta da un’iscrizione latina:- “Gabrielis Degast Antecessoris Aurelii commentari in Duos Tit.- De impuberum et aliis substitutionibus-De sententiis quae pro eo quod interest proferentur”. Sotto il regno di Luigi XIV, quando dallo stesso monarca è istituito l’obbligo di registrazione di tutte le famiglie nobili, i De Gas si mettono in regola. La famiglia De Gas mantiene così il suo antico ceppo nobiliare, registrato l’8 novembre 1670 presso la diocesi d’Uzès città del dipartimento di Gard, è riportata nel Catalogo dei Gentiluomini della provincia della Langue D’oc, il cui originale si trova nell’archivio di Montpellier. Altri antenati di Edgar, un canonico della cattedrale d’Uzès, Paul De Gas, un capitano del reggimento d’ Ornac,Giuseppe De Gas, fanno registrare le armi di famiglia nell’”Armorial Gènèrale” de l’annèe 1696, nel “ Règistre de la Gènèralitè de Montpellier” al foglio 537. Il simbolo araldico della famiglia De Gas è un istrice sovrapposto alle armi di famiglia al centro di uno scudo, rappresenta l’antico ordine cavalleresco dei duchi d’Orlèans. Ciò sta a dimostrare gli stretti rapporti dei De Gas con il casato degli Orlèans. Questo spiega perché nel 1730 i discendenti di Gabriel, Seigneur De St. Gervaise,lasciano la Langue D’oc per l’Orlèans. I De Gas, nobili e cavalieri si dedicano come tutti i loro concittadini alla vita sociale e culturale del tempo, non restano inoperosi, si occupano di economia e finanza dando origine ai primi istituti di credito. E’ questa nuova attività economica di bancari che li tiene lontani dalla politica del momento, sarà salutare per loro in quanto li salverà dalla grande Rivoluzione del 1789. Pietro De Gas e sua moglie Anna Hul vivono nel periodo rivoluzionario a Meung piccola città della provincia d’ Orlèans, avranno una numerosa figliolanza. Si conoscono di quei figli solo i nomi di Renè Hilaire, di Augustin, di Marie. Riescono a superare incolumi l’ “annèe terrible”. Non si conosce con esattezza la ragione per cui Renè Hilaire è a Parigi durante la Rivoluzione. E’ il capostipite della famiglia nonché nonno di Edgar, nato ad Orlèans nel 1769 è il più intelligente e attivo, dal piglio manageriale. A Parigi è in pericolo di vita per un gesto di coraggio e spavalderia giovanile durante il Terrore,raccontato da lui stesso al nipote Edgar che a sua volta lo riporterà così all’amico Paul Valèry:-“Il ventotto luglio 1904, Degas, in vena di ricordi, mi parla di suo nonno, che ha conosciuto e di cui ha fatto il ritratto a Napoli. Questo nonno durante la rivoluzione faceva aggiotaggio sulle granaglie. Un giorno, nel 1793, mentre stava lavorando alla Borsa dei grani che allora si teneva a Palazzo Reale, un amico passa alle sue spalle e gli mormora: “ Taglia la corda!… Mettiti in salvo !… Sono a casa tua !”. Non perde tempo, prende tutti gli assegnati che può procurarsi, lascia immediatamente Parigi, sfinisce due cavalli, raggiunge Bordeaux, si imbarca su una nave in partenza. La nave tocca Marsiglia. La stessa nave, secondo il racconto di Degas ( che mi guardo bene dall’interrompere ), a Marsiglia carica della pietra pomice, cosa che mi pare inverosimile… Che andasse a cercare zolfo in Sicilia ? Monsieur De Gas arriva infine a Napoli, dove si stabilisce. Era un uomo così capace e onesto che, due anni dopo il suo arrivo, riceve l’incarico di creare il Gran libro del debito pubblico della Repubblica Partenopea, recente invenzione di Cambon . Sposa una giovane nobile di Genova, una Freppa, e mette su famiglia. Questo nonno con la minaccia del patibolo, che fugge così rapidamente dal Mercato dei grani, era stato iscritto nella lista dei sospetti per essere stato segnalato quale fidanzato di una di quelle famose “Jeunes vierges de Verdun”; molte pagarono con la vita l’accoglienza che avevano fatto, nel 1792, all’esercito prussiano entrato in Francia per ristabilire la Monarchia. Avevano ricevuto infatti con fiori e bandiere bianche queste truppe straniere, nemiche per gli uni, alleate e liberatrici per gli altri”. Dopo essersi salvato dal Tribunale rivoluzionario, Renè Hilaire De Gas , chiede protezione al governo napoletano e la ottiene subito, anche se gli stranieri di nazionalità francese non vengono visti di buon occhio dalla corte napoletana perché portatori di nuove idee rivoluzionarie sovvertitrici della monarchia.
Le speranze di un giovane emigrato sono tante, ha dalla sua parte il suo essere n

obile e aristocratico soprattutto nell’animo, possiede una grande capacità di adattamento alle varie situazioni, una notevole esperienza nonostante la giovane età in affari economici, una volontà di ferro che lo accompagnerà per tutta la vita. Non sono certo facili i suoi primi anni a Napoli. Ma si lega nonostante gli ostacoli profondamente a questa città che lo ha accolto a braccia aperte nel suo seno, vi si stabilisce considerandola come una sua seconda patria, anche se conserverà per sempre la cittadinanza francese e l’attaccamento alla sua terra d’origine; “ Per sentimento e – forse anche per convenienza tattica della sua vita in paese straniero, durante un’epoca in cui la società umana era in sovvertimento ovunque”. Renè Hilaire resta sempre lontano e al di fuori da ogni coinvolgimento politico, dedicandosi esclusivamente alle sue attività economiche e finanziarie. La sua è una saggezza di vita, determinata dai vari mutamenti politici e di regime che saranno frequenti anche a Napoli. Renè Hilaire nei suoi primi commerci a Napoli, conosce una famiglia genovese, quella dei Freppa. “ Facevano parte di una colonia di mercanti attivissimi della Repubblica di Genova, il cui quartiere sito verso gli approdi del mare era infatti chiamato “ Loggia di Genova”. La colonia era tanto numerosa che aveva fissato ancora un altro quartiere nel centro della città, nei pressi dell’antica piazza del Castello che si chiamava “ Genova la piccola”. Il nome indicava la grande importanza di quel raggruppamento etnico di famiglie tutte appartenenti ad un’altra “nazionalità” le quali straniere in Napoli, amavano vivere in località a sé stante, per comodità di rapporti e per darsi all’occorrenza reciproco aiuto e protezione. I Freppa invece pur essendo di nobile famiglia genovese si naturalizzarono napoletani registrandosi nelle chiese della Diocesi Arcivescovile di Napoli, in quanto da tempo avevano fissato in quella città la loro dimora.” Il membro più importante di questa famiglia è un teologo, Don Antonio Freppa , parroco della chiesa di S. Anna dei Lombardi, nei pressi del monastero di Monteoliveto. Renè Hilaire dopo il suo sbarco napoletano avvenuto nel 1793, trova lavoro presso il suo connazionale Bourguignon il quale è in rapporti di affari con Lorenzo Freppa, fratello di Don Antonio, conquistandone ben presto la fiducia e l’affetto. “ Casa Freppa era una importante casa di affari con doppia sede in Napoli e a Livorno. Ed a Livorno era nata precisamente Giovanna Aurora Teresa Freppa figlia di Lorenzo e di Rosa Aurisicchio, napoletana, che Renè Hilaire De Gas sposò poi nel 1804”. Solo la sorella Marie seguirà il fratello Renè Hilaire a Napoli, dove sposerà uno svizzero, Carlo Jean. A Parigi, per tutta la vita rimarrà il fratello Augustin, mentre il vecchio padre Pietro De Gas resterà nella sua Orlèans insieme agli altri figli. Sono sempre affettuosi i rapporti tra Renè Hilaire e Augustin, che gli farà da tramite nella divisione dell’asse ereditario paterno e sarà il suo fidato corrispondente in Francia nelle transazioni economiche e commerciali. “ Le lettere dei due fratelli si conservarono per circa un secolo e mezzo in casa De Gas a Napoli, ma dopo il bombardamento, che nell’ultima guerra colpì gravemente il palazzo De Gas in Napoli alla Calata Trinità Maggiore n. 53 se ne sono ritrovate tra le macerie ben poche. Ne trascrivo i passi più salienti, dai quali traspare uno stile pieno di spirito. Dalla lettera datata Paris le 10 Fdor An 12 di Augustin si rileva che Renè Hilaire si era recato in Francia per regolarizzare i suoi rapporti d’interesse con la famiglia d’origine prima di distaccarsene per sempre. Augustin si congratula col fratello, ancora impiegato presso il compatriota Bourguignon, negoziante in Napoli del suo prossimo cambiamento di posizione sociale, preannunziatogli dallo stesso Renè Hilaire”. Le lettere di Augustin portano la data del calendario rivoluzionario fino al 21 Frimaio dell’anno quattordicesimo, corrispondente al 12 dicembre del 1805, dal 7 gennaio 1806 riprende il calendario gregoriano ripristinato da Napoleone. Il 2 settembre del 1804 viene celebrato il matrimonio nella chiesa di S. Anna dei Lombardi , di Renè Hilaire con una giovanissima Aurora Freppa . Il Celebrante è lo zio della sposa don Antonio Freppa. In una lettera di congratulazioni per il matrimonio del fratello, Augustin annuncia anche il suo fidanzamento. La lettera è indirizzata alla “ Maison de Mr Laurent Freppa Negt Naples”. Da ciò risulta evidente la convivenza dei due novelli sposi in casa del padre di lei. Dalla loro unione nasceranno sette figli, quattro maschi e tre femmine. Una vera manna dal cielo, come è considerata agli inizi dell’Ottocento, una famiglia numerosa specificatamente meridionale. Il fratello Augustin che intrattiene con Renè Hilaire una fitta corrispondenza lo prende in giro paragonandolo ad un fittavolo di campagna:-“Te voilà, ma foi, comme un fermier, mon cher Hilaire, une demoiselle et deux garcons, le deuxième est sans doute venu malgrè la fraude”. Ma dopo il terzo figlio, seguiranno altre quattro nascite. Renè Hilaire diventa per i suoi parenti parigini “ le petit napolitain”. Alla primogenita viene dato il nome della nonna materna: Rosa. E’ battezzata dallo zio Don Antonio Freppa, nella chiesa dei Santi Giuseppe e Cristoforo. Il secondogenito Auguste , nato a Napoli nel 1807 è il padre di Edgar Degas.Anche lui risulta battezzato nella stessa chiesa. Il 22 aprile del 1809 nasce il terzogenito: Enrico. Quarto figlio è Edoardo, seguono poi Achille e altre due femmine Laurette e Fanny. Rispettivamente tutti nati a Napoli il 1805,1809, 1811, 1812,le ultime due il 1814 e il 1819. Tutta questa numerosa prole vive la sua esistenza a Napoli, moriranno nella stessa e saranno sepolti, i figli maschi nella cappella gentilizia della Famiglia Degas, che si trova tuttora nel Cimitero di Poggioreale. Viene fatta costruire da Renè Hilaire, su un suolo acquistato dal Municipio di Napoli nel 1841, per sé e per i suoi. Nello stesso anno, vi fa apporre la scritta in lettere di marmo bianco a rilievo “ Famille Degas” e il millesimo in cifre romane. Delle tre figlie , Rosa sposa il duca Giuseppe Morbilli di S. Angelo della piccola nobiltà locale, muore a Napoli il 25 marzo del 1879. E’ sepolta nella tomba del marito, nel cimitero di Poggioreale. La segnerà per tutta la vita il dolore per la perdita del giovane figlio ventenne, il duca Gustavo Morbilli, durante le barricate del 1848. Laurette sposa il 31 agosto del 1842 il barone e avvocato Gennaro Bellelli, muore nel 1897. E’ sepolta a Napoli nella tomba dei Bellelli. Fanny l’ultimogenita sposa il marchese Carafa di Cicerale, duca di Montejasi. Muore nel 1901. E’ sepolta nella tomba di famiglia del marito nella congrega dei nobili a Montecalvario. Il barone Bellelli è il protagonista del quadro “ La famiglia Bellelli” insieme alla zia Laura e alle figlie dipinto da Edgar a Firenze dove lo zio Bellelli si troverà esiliato insieme alla famiglia , per motivi politici. Zia Fanny con le sue due figlie, Elena e Camilla, sarà ritratta da Edgar nel dipinto conosciuto con il nome “La duchessa di Montejasi”. Fanny è una donna generosa, pia e caritatevole, dedita al volontariato come scrive un giornale cittadino :-“I poveri accorrevano a lei perché conoscevano il suo animo sempre pronto a lenire le miserie”. Dei quattro figli maschi , solo Auguste sposa una francese, vivrà in Francia alternando visite al padre Renè Hilaire a Napoli. A lui si associa il fratello celibe Achille fondano insieme “ Casa De Gas a Parigi”. Gli altri due fratelli fondano col padre la società “De Gas Padre e Figli”, dopo la morte del padre:-“De Gas Frères”. L’uno Edoardo Enrico rimarrà celibe, l’altro Giovanni Odoardo sposerà una nobile napoletana Candida Primicile Carafa . Auguste in Francia apprende la lingua francese, perché parla solo il napoletano. E’ apprendista in una banca di Parigi senza stipendio. Compie studi economici e commerciali in una scuola locale. Inizia la sua professione di bancario, non dimenticando mai di scrivere alla sua famiglia rimasta a Napoli. Intanto Renè Hilaire può definirsi un uomo molto ricco, ne è passato di tempo dal suo sbarco a Napoli e dalla sua prima nomina ad agente di cambio,ora possiede una vera fortuna in beni immobili, terreni, collezioni d’arte, una ricchissima biblioteca,con testi di Voltaire, Diderot, Rousseau, dipinti di Smargiassi e di Palizzi. E’ un uomo colto e sensibile alle manifestazioni dell’arte e del pensiero umano. Il suo acquisto più importante è quello del palazzo del principe Pignatelli di Monteleone sito in Calata Trinità maggiore, n.53, nei pressi della piazza del Gesù nuovo. Questo palazzo settecentesco costruito e progettato dall’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice diventa la residenza della famiglia Degas. Altra residenza di importanza notevole è villa San Rocco di Capodimonte, dove il nipote Edgar più volte passerà l’estate. Ritornando a palazzo Pignatelli, Renè Hilaire lo acquista nel 1832 definitivamente dopo lentezze amministrative, dal principe don Diego Pignatelli. E’ un palazzo ampio, dotato di un maestoso portale dove si alternano decori in piperno e fregi in marmo bianco: il cortile è spazioso, la scala principale tutta in piperno, le stanze sono grandi e luminose. Sulla facciata principale, al lato destro del portale, in alto vi è una lapide celebrativa in memoria di Edgar Degas, il grande artista che visse e tornò più volte in quella dimora. Una parte di questo palazzo verrà ereditata da Edgar e da sua cugina Lucie. “ Si è già notata la varietà dell’ortografia del cognome di questa famiglia anche in antichi documenti. Ma la persecuzione in Francia contro gli aristocratici durante la rivoluzione aveva consigliato tutti i componenti di casa “De Gas” di riunire ancora una volta le due particelle del loro cognome e chiamarsi “Degas”. Gli avvenimenti politici ai quali Renato Ilario aveva assistito in Napoli, nel 1798-99, gli consigliarono mantenere così riunito il suo cognome: ingenua per non dire puerile precauzione, al certo inutile e superflua, in Napoli. Non fu quindi il pittore Edgar a cambiare per primo l’ortografia del cognome. Quel che è strano è l’uso promiscuo, che della diversa ortografia del cognome fecero poi, in una o due sillabe staccate sia Renato Ilario che i suoi figli e nipoti Ilario De Gas ripristinò in due sillabe questa ortografia in due sole circostanze:- in occasione della nascita del figlio maschio Giovanni Edoardo quartogenito, mentre per tutti gli altri sei, usò il cognome con le due sillabe riunite, “Degas”; ed un’altra volta nell’acquisto di vari fondi rustici nel quale si costituì e firmò De Gas. Furono i figli di Auguste, Achille e Renè a ripristinarlo in New Orleans: “De Gas Brothers”, come si apprende dal fratello Edgar che nella sua lettera a Diha 11 nov. 1872, da New Orleans si servì della carta così ad essi intestata. Ma egli, Edgar, firmò sempre “Degas” .1 Degas nelle cui vene scorre un quarto di sangue napoletano, conserverà legami familiari stretti a Napoli , dove si recherà spesso dalla giovinezza alla maturità. Ricorda Paul Valery:-“ Durante uno di questi viaggi fu vittima di un furto in treno. Sosteneva che mentre dormiva, gli avevano fatto un’iniezione di una potente sostanza narcotica e che gli avevano sottratto il portafoglio contando su quel sonno profondo. Conservava di Napoli impressioni e ricordi su cui amava tornare. Parlava napoletano con la scioltezza e l’accento più autentici, a volte canticchiava brani di canzoni popolari, come se ne cantano laggiù agli angoli delle strade”. Ed è soprattutto a Napoli prima di ogni altro luogo in Italia, che scopre gli splendori del Rinascimento e i tesori dell’Antichità. Conoscerà ogni cosa di questa città, mosso da una curiosità insaziabile e da una ricerca inesauribile. Napoli con la sua luce è tutto, con i suoi odori e i suoi suoni, la sua gente triste e allegra, i suoi colori, i mille gesti quotidiani, non potranno renderlo insensibile. La loquacità, ma anche la povertà del ceto più umile lo colpiranno profondamente. A volte si sentirà uno di loro. Il giovane Edgar vive a Parigi con il padre in un appartamento al n. 4 di Rue Mondovì. Una stanza diviene il suo primo atelier. Conosce Soutzo, amico del padre che gli insegna la tecnica dell’aquaforte. Ha come amici dai tempi del liceo Ludovic Halévy, futuro scrittore, e Paul Valpincons, il cui padre collezionista e uomo di cultura possiede la famosa Bagnante di Ingres. Ha dissidi con il padre in quanto abbandona gli studi di Diritto. Inizia a frequentare l’atelier di Lamothe, che gli suggerisce di iscriversi all’Ecole de Beaux-Arts e gli trasmette la passione per Ingres. Degas soprassiederà a questo suggerimento prendendosi una pausa di riflessione. Ha dei problemi in famiglia che cercherà di risolvere:-“Fin dalla prima adolescenza Edgar Degas aveva mostrato una chiara, netta, predisposizione al disegno, e, giovinetto ancora, un’ avversione profonda agli studi preparatori ad una vita che dovesse dedicarsi essenzialmente ed intensamente agli affari di finanza, di cui era saturo l’ambiente di casa sua. Malgrado tutto completò i suoi studi presso il liceo parigino “Louis le Grand” di Parigi… si iscrisse pure nella Facoltà di Giurisprudenza, che però non frequentò per nulla, insistendo invece con fermezza, presso suo padre, perché gli avesse consentito di dedicarsi esclusivamente all’ Arte” . Dietro questa insistenza del figlio, il padre uomo colto e comprensivo non può che cedergli, anche nonno Hilaire da Napoli appoggerà questa decisione del nipote. “ …Suo nonno il saggio Renè Hilaire intervenne ancora una volta presso suo padre e pur deridendo la sua aspirazione- da lui uomo d’affari affatto incompresa- disse con la sua autorità la parola decisiva, che segnò l’avvenire di Edgar”. Nel 1854, compie il suo primo viaggio a Napoli. Alloggerà in casa di nonno Hilaire che avrà per lui un affetto particolare. “Così, nel 1854, Edgar si trattenne più a lungo in Napoli, in casa del nonno, e frequentò anche il “Reale Istituto di Belle arti” di Napoli, che fin dal 1822 aveva riunite riordinandole- tutte le varie preesistenti scuole pubbliche di disegno e di arti napoletane”.49 “Edgar Degas apprese, infatti, a Napoli le prime nozioni di disegno e di pittura sotto la guida di maestri napoletani. Nell’epoca, fra gli altri, vi insegnavano Giuseppe Mancinelli disegno; Camillo Guerra pittura; Tito Angelini scultura; e Gabriele Smargiassi paesaggio. “Irrequieto e insoddisfatto Edgar Degas volle però ritornare a Parigi, ove si iscrisse nel 1855 all’Ecole des beaux Arts. Insofferente ancora, appena l’anno dopo, nel 1856, abbandonò la scuola di Parigi e si mise in viaggio per l’Italia : fu di nuovo a Napoli e poi a Roma ed a Firenze, per attingere dai capolavori dell’arte classica italiana insegnamento ed ispirazione”. Il Grand Tour italiano è molto importante per Degas al pari di altri artisti stranieri, anche perché il graduale abbandono delle tradizioni dell’apprendistato lo rende indispensabile per gli artisti amanti della tecnica, ansiosi di appagare il loro desiderio di espressione con una qualità formale che ne fortifichi la portata. In Degas l’istinto è troppo precocemente controllato per non condurlo a cercare prima una forma espressiva, un metodo. Fin dalla prima giovinezza si esercita a dominare una tecnica ancora primordiale. In questo periodo “Le copie fatte, seguendo i maestri sembrano non aver avuto il solo scopo di divenire più abile nel disegno o nella composizione, o di elevare il suo stile, ma di acquisire gli elementi di un mestiere che mancava sia a lui sia ai contemporanei e agli immediati predecessori”. Per questo i viaggi in Italia sono dei pellegrinaggi alle fonti. Certamente la condizione sociale della famiglia Degas e la presenza nella penisola dei suoi membri lo favoriscono notevolmente. A Napoli fin dal 1854, quando sta per giungere a casa di suo nonno, il suo occhio si risveglia dinanzi allo spettacolo della natura:- “Lasciando Civitavecchia il mare è azzurro, poi è mezzogiorno, e diventa verde mela con tocchi di indaco al lontano orizzonte: all’orizzonte una fila di barche a vela latina sembra un nugolo di gabbiani o di gavine per tono e forma… il mare un po’ agitato era di un grigio verdastro, la schiuma argentea delle onde, il mare si dissolveva in un vapore il cielo era grigio. Il Castel dell’Ovo si elevava in una massa dorata. Le barche sulla sabbia erano macchie color seppia scura. Il grigio non era quello freddo della Manica ma piuttosto simile alla gola di un piccione”. Note asciutte non letterarie, prive di sensazioni ma precise e tali da individuare esattamente il luogo. Degas in alcuni rari paesaggi preferirà l’impressione immediata , ma questa si fonda su una sicura conoscenza di dati reali. Oltre alla natura che sembra incantarlo particolarmente a Napoli, non sarà così loquace per altri luoghi che visiterà in futuro. In questa città, Degas trova degli esempi che analizzerà. Ci ha lasciato un elenco di dipinti che l’hanno colpito particolarmente. “La vergine dalla lunga gamba” di Giulio Romano, “Papa Paolo III” di Tiziano, “Santa Caterina” di Correggio, “Leone X” di Andrea del Sarto, un dipinto di Claude Lorrain scelta curiosa che non s’inserisce molto logicamente nell’estetica successiva e per il quale Degas commenta:-“ Il più bello che si possa vedere, il cielo è d’argento gli alberi sono parlanti”.Amerà con trasporto l’arte antica, “ l’arte più forte e più incantevole”. Degas nei suoi carnet, non dà alcuna indicazione degli aspetti reali e anche curiosi della Napoli all’epoca dei suoi primi viaggi. Forse per pudore , disconoscimento di taluni aspetti della vita. Nessun altra età è più adatta per goderne, Napoli città favolosa e “corrotta” non offre alcun piacere a questo giovane irrigidito nella sua dignità?. Gustave Coquiot se ne stupisce:- “ A quell’epoca, 1856, nessun esercito della salvezza, nessuno scandalo aveva ridotto la brulicante prostituzione della città sudiciona. Il sesso folleggiava in piena esultanza”. Un romanziere viaggiatore, Flaubert, annota nella sua corrispondenza:-“Napoli è un soggiorno delizioso (frammento di una lettera alla madre del 1851). Le donne escono senza cappello in vettura, con dei fiori nei capelli e hanno tutte l’aria sfrontata. Ma non è che l’aria. A Chiaia (Chiaia è una grande passeggiata fiancheggiata da castagni verdi, in riva al mare, alberi a pergolato e mormorio di flutti) le venditrici di violette vi mettono a forza i mazzetti all’occhiello. Bisogna maltrattarle perché vi lascino tranquillo”. Un altro viaggiatore ottocentesco Louis Bouhilet dichiara:-“ Napoli è incantevole per il numero di donne che vi si trovano”.
Tutto un quartiere è pieno di prostitute che stanno sulla porta di casa . E’ l’antica vera Suburra. Quando si passa per la strada sollevano i vestiti fino alle ascelle per avere due o tre soldi. Vi inseguono in questa posizione. E’ ciò che ho visto di più incredibile in materia di prostituzione e cinismo. Anche il sole è innamorato. Tutto è lieto e facile. I cavalli portano ciuffi di penne di pavone alle orecchie”. Tutta questa canaglia non interessa Degas che persegue il suo itinerario culturale. E un altro insigne viaggiatore Guy de Maupassant ricorda della pittoresca mobilità del popolo napoletano:- “Napoli si sveglia sotto un sole sfolgorante, Per le sue strade comincia a brulicare la popolazione che si muove, gesticola, grida, sempre eccitata e febbrile, rendendo unica questa città così gaia. Lungo i moli le donne, le ragazze, vestite di abiti rosa o verde, il cui orlo bigio è limato al contatto con i marciapiedi , il seno avvolto in sciarpe rosse, azzurre, di tutti i colori più stridenti e più inattesi, chiamano il passante per offrirgli ostriche fresche, ricci e frutti di mare, bibite di ogni sorta e arance, nespole del Giappone, ciliegie”. E ancora Flaubert, che alloggia all’ Hotel Gèneve, in via Medina, trascorre gran parte del suo tempo tra le “città morte” della zona vesuviana e il Museo Nazionale, prima di affrontare una gita a Capri durante la quale rischia di naufragare, lascia la città traboccante di entusiasmo:- “Bisogna andare a Napoli per ritemprarsi di giovinezza, per amare la vita. Lo stesso sole se n’è innamorato”. Altra la situazione storico-politica della capitale del Regno delle Due Sicilie. Siede ancora sul trono, Ferdinando II di Borbone, che dopo aver represso con il sangue i moti liberali del ’48, “Rese consapevoli i liberali rimasti dell’impossibilità di fare del Regno delle Due Sicilie uno stato retto da leggi costituzionali e democratiche, in quanto, il re “bomba” dopo il 15 maggio i liberali designavano Ferdinando II con l’appellativo di re bomba , perché invece della Costituzione aveva dato ai napoletani le bombe dei cannoni non avrebbe mai rinunziato al potere assoluto, allora questi, mutarono indirizzo politico e cominciarono a pensare al regno come una parte dell’ Italia unificata sotto lo scettro di una casa italiana regnante : quella dei Savoia. Vengono condannati dal Borbone , i patrioti Silvio Spaventa, Luigi Settembrini, Filippo Agresti, Michele Pironti e Carlo Poerio. Sono considerati pericolosi, perché fautori di questa nuova politica. I processi, le condanne, le repressioni e le persecuzioni non scoraggiano i liberali. Prende coscienza sempre più la necessità di un loro inserimento nel Movimento Nazionale Italiano capeggiato da Giuseppe Mazzini che però rifiuta ogni forma monarchica e propugna l’ordinamento repubblicano. “Nel dicembre del 1856 avvenne l’attentato contro il Borbone, del soldato Agesilao Milano che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ebbe nessuna attinenza con le attività liberali in quanto l’attentatore agì di propria iniziativa e isolatamente. Nella ricorrenza della festa dell’ Immacolata Concezione, ebbe luogo al Campo di Marte una parata militare, mentre i reggimenti sfilavano, un soldato l’Agesilao Milano uscì dalle file e vibrò un colpo al re, che a cavallo assisteva alla sfilata, con la baionetta innestata sul fucile. Il ferro scivolò sul fianco destro del sovrano senza produrre altro danno che una leggera ecchimosi perché Ferdinando era protetto da una maglia d’acciaio portata sotto la divisa. Ben più rilevante fu la spedizione di Carlo Pisacane nel giugno dell’anno dopo, il 1857, che si concluse tragicamente. Come se non si sentisse più al sicuro nella capitale, dopo l’attentato, Ferdinando preferiva la reggia di Caserta e spesso si trasferiva a Gaeta…” Dunque è questo lo scenario che si schiude agli occhi del giovane Degas, durante la sua permanenza nella città partenopea. Durante il soggiorno napoletano del 1856, la sua attività pittorica si indirizza verso i paesaggi dei dintorni, appuntati nei suoi carnet, e verso i ritratti della sua famiglia. Qui dipinge i due ritratti delle cugine, “Giulia e Giovanna Bellelli” e “ Donna sulla terrazza” che riutilizzerà per “Semiramide che costruisce Babilonia” . Negli ultimi due dipinti sono evidenti i richiami a Flandrin filtrati da Lamothe. Tra la fine del ’56 e il luglio del ’57 Edgar soggiorna a Roma per il tradizionale studio dei maestri italiani. Si sposta di frequente nei dintorni di Roma o anche in viaggi più lunghi per tutta l’ Italia. Nel luglio del ’57 Degas è a Napoli dove esegue il ritratto del nonno paterno datato 6 settembre 1857. Il segreto della sua pittura risiede sin dai suoi inizi dalla costante messa in atto dei suggerimenti degli antichi maestri senza imitarli:- creare, muovendo dai loro principi qualcosa di completamente diverso. Bisogna imparare la semplicità del profilo e la purezza della linea del primo Quattrocento; la dignità della forma, la perfezione del modellato dal Pontormo e da Andrea del Sarto. L’umanità dovunque, ma non mai senza misura:-“ Il mistero di una figura di Leonardo non doveva essere ricercato nella sua eloquenza visiva, ma proprio nella mancanza di affabilità”. Incominciano ad affascinarlo le delicate armonie cromatiche:-“ cercò fin troppo spesso la patina del colore anziché il colore puro, l’oro opaco di un’antica vernice, l’azzurro pallido e nebuloso di qualche affresco umbro. Ma a differenza di Whistler, che cercò di anticipare il giudizio dei posteri dando artificiosamente alle sue tele la patina dei secoli, Degas non accentuò mai troppo questo elemento. Non diede mai un rilievo eccessivo ad alcuna cosa, ed è caratteristico che nei suoi viaggi in Italia si sia sempre fermato prima di arrivare a Venezia”. Inizialmente Degas si dedica alla pittura di Storia. Ciò significa seguire David, Ingres e i suoi maestri e costruire qualche “macchina colossale” attorno ad un soggetto antico o biblico :-“ tentò parecchie di queste vaste composizioni, ma nonostante alcuni ammirevoli elementi e le nobili intenzioni, qualcosa in esse non funzionava. Sembra quasi che Degas intuisse, inconsciamente che nella Parigi di Napoleone III il destino della pittura storica era segnato”. Quando passerà alla ritrattistica, tutta la sua acuta osservazione e la conoscenza del disegno antico gli verranno immediatamente in aiuto:- “La serie dei piccoli autoritratti nei quali fissò senza adularli i propri lineamenti mobili e un po’ malinconici, oppure gli studi penetranti che fece della sua famiglia, mostrano un Degas non inceppato da precetti né da regole. Essi rivelano una nuova concezione del ritratto, in cui la naturalezza e il carattere sono messi in rilievo al di là del formalismo da atelier”. Degas non ha mai dipinto ritratti su commissione. Il primo requisito per la sua arte è la simpatia che si instaura fra l’artista e il modello. Da tale rapporto nasce la sua tenerezza, l’acuta capacità d’osservazione non scevra da una pignola ironia quando scopre un tratto del carattere o un tic nel comportamento, che danno maggior concretezza alla sua visione. I soggetti delle sue opere sono sempre amici e membri della sua famiglia. Sui modelli prescelti Degas esercita un dispotismo tirannico. Interrompe a metà un ritratto, quando Madame Dietz Monnin posa per lui, e gli dà dei suggerimenti:-“ Aveva incominciato a dipingere un’opera a modo proprio e si accorgeva che la stava trasformando secondo il gusto del modello. Quando una bella donna voleva posare per lui, Degas le diceva bruscamente: “ Sì, mi piacerebbe farle un ritratto, ma la costringerei a mettersi una cuffia e un grembiule come certe servette”. E’ un giovane che promette bene sin dall’inizio del suo percorso artistico, geniale, solitario e un po’ riservato. Si è distaccato presto dalla narrazione storica, ora accetta i temi semplici e reali, più tardi le danzatrici, i cavalli, le donne che s’abbigliano e le lavandaie, il non finito inerente alla visione moderna s’inscrive adesso nella struttura della materia. Degas conserverà gelosamente i suoi esperimenti giovanili, ai quali terrà molto e nonostante l’ecclettismo, si riveleranno potentemente originali nel loro stile e nelle loro implicazioni e necessari al suo compimento futuro. La giovane maestria di Degas si manifesta nel ritratto di gruppo dei Bellelli, gli zii napoletani dell’artista. Basta un accenno in questa sede perché l’opera fu interamente concepita a Firenze e finita a Parigi. “La famiglia Bellelli”, acquistata dai musei francesi prima della dispersione dello studio dell’artista, è la sintesi e il vertice del soggiorno fiorentino, riepilogo e quasi anticipazione di tutti i legami con la sua famiglia napoletana. E’ uno straordinario esempio di introspezione psicologica. La coppia in disaccordo e le figlie in apprensione svelano al di là delle apparenze e delle pose il loro fondo segreto, nella luce dell’interno dove ogni oggetto domestico, compreso il piccolo dipinto del nonno, appeso alle loro spalle e morto recentemente, hanno un proprio significato. Uno dei preziosissimi ricordi di Ernest Rouart raccolti da Paul Valery ci rivela:-“ Degas molto difficilmente s’accontentava e raramente trovava che un quadro andasse bene.

Non che cercasse tranne nei lavori giovanili, l’esecuzione minuziosa, il finito, che altri hanno potuto trovare eccessivo,ma che nondimeno gli fecero creare quadri notevoli e sovente dei capolavori. Per essere soddisfatto bastava che la sua opera fosse compiuta, non nella perfezione dei particolari, ma nell’impressione complessiva che doveva dare; soprattutto nella costruzione e nella coordinazione degli elementi diversi da cui era composta, ossia nei giusti rapporti delle linee del disegno, dei valori e dei colori tra loro. Attribuiva un valore enorme alla composizione, all’arabesco generale delle linee, poi alla resa della forma e del modellato; all’accento del disegno, come diceva…”. Degas dopo la sua scomparsa, lascia ai posteri, centinaia di copie. Rivelate al mondo dalla vendita del suo studio e dalla sua famiglia. La pubblicazione dei suoi Carnets mostra un’attività intensa ed eclettica. Questo ha contribuito senz’altro a mostrarlo non come un vero innovatore, bensì come il continuatore di una grande tradizione, determinandone la particolarità all’interno del gruppo impressionista. Taluni ancora oggi pericolosamente sogliono mostrarcelo come il primo tra i pittori accademici piuttosto che il più singolare degli impressionisti. La sua posizione era intransigente, stabile, fissa:-“Bisogna copiare e ricopiare i maestri, e soltanto dopo aver fornito le prove d’un buon copista vi si potrà ragionevolmente permettere di dipingere un ravanello dal vero”. In Degas non era presente l’atteggiamento di derisione che avrebbe animato il tanto ammirato Delacroix nei confronti dei “preraffaelliti” francesi quando “parlano di tutti i nomi gotici della Scuola primitiva italiana, come se fossero loro amici”. Questa sua stretta ammirazione verso la tradizione non lo ha mai condotto al passatismo servile, al freddo accademismo. Il desiderio di far rinascere lo spirito del tempo passato, di ristabilire l’antica maniera di dipingere, non l’ha mai sfiorato. Ha solo voluto trovare nei predecessori, la parola giusta , la formula appropriata. Parla dell’Italia come “L’époque la plus extraordinaire de ma vie”. La maggioranza delle copie sono datate 1856 e 1858 quando studia sia all’ Ecole , al Louvre e al museo di Napoli. Rimane estasiato alla vista dei mosaici pompeiani nel Museo di Napoli e scrive: “ Comment oublier que l’antique, l’art le plus fort, est le plus charmant? Coloristes comme Veronese, audacieux et, tojours harmonieux…Copia Durer e i ritratti di Holbein e Clouet a Parigi, in Italia nel 1858 e nel 1861, ha luogo la sua maturazione di artista. Copia ancora Raffaello, Giorgione e Tiziano, Van Dyck e Velasquez. In un suo taccuino del 1860 vi sono appuntati dei disegni tratti da… Delacroix… Signorelli, Tiziano e Roger Wan der Weyden, dei rilievi Assiri e delle miniature mongole”. “ A quel tempo gli interessi di Degas spaziavano dalle civiltà del Mediterraneo al gusto per l’esotico”. Theodore Reff riporta un elenco di copie numerate, fatte da Degas a Napoli e conservate nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Degas, non solo al Museo, ma anche in giro per i luoghi sacri di Napoli. Sarà entrato nella chiesa del Gesù Nuovo, poco distante dal palazzo di nonno Hilaire. E’andato nella chiesa di Sant’Angelo a Nilo, eretta nella seconda metà del sec. XIV dal Card. Rinaldo Brancaccio in onore di San Michele, con annesso ospedale per i poveri: “ La maggior porta è sulla Via di Mezzocannone… La chiesa, così come vedesi oggi, fu rinnovata dal Guglielmelli; ora s’è n’è fatto un nuovo restauro. La tavola di San Michele sul maggiore altare è tra le bellissime di Marco da Siena; a sinistra è il sepolcro del card. Rinaldo fondatore, stupendo lavoro del Donatello, ( Degas, copia questo monumento) costruito per ordine del gran Duca Cosimo de Medici, esecutore del testamento del cardinale, che morì in Firenze”. Lo ritroviamo a percorrere i labirinti delle catacombe di S. Gennaro. “Intorno alle origini delle nostre catacombe, molto si è discusso, esse furono semplici sepolcreti, non mai cavi di pietra, né vie sotterranee; la prima notizia ripetersi dall’epoca della morte di S. Agrippino nostro vescovo al secolo II, quando il suo corpo fu quivi sepolto in avello gentilizio, e pè molti miracoli che da quella tomba operava il Santo, piacque a’ Napoletani di seppellirsi a lui dappresso. Sul principio del secolo IV il corpo del martire San Gennaro, fu sepolto quivi nelle cripte gentilizie. In queste tombe trovasi tracce di pitture e graffiti. Elegantissime sono le pitture tali che di nulla scapitano nel raffronto con quelle di Ercolano e Pompei, v’ha di mascheroni, ippocampi, cervi, ecc. sulla dritta di chi guarda son due rappresentanze di una donna con un uomo, e di tre donne.Sopra un adito murato laterale all’ambulacretto vedesi dipinto un santo vescovo, con due figure nell’arco Nel lucernaio è dipinta a forme colossali la Vergine col Bambino fra due Santi o Angioli e Loculi come il sepolcreto principale, adorni di rabeschi, fiori, conchiglie, uccelli, e molti nomi iscritti a lettere greche sulle pareti ad ocra rossa”. Degas continuerà a nutrirsi di opere d’arte, saranno il suo pane quotidiano. Non disdegnerà neppure la Cattedrale di San Gennaro e le sue meraviglie. Nella chiesa gotica di Santa Chiara, dall’interno allora barocco, Degas rimarrà sconvolto dalla distruzione settecentesca dei meravigliosi affreschi di Giotto e della sua bottega. Sotto gli stucchi ridondanti, rimane ben poco di quei capolavori. Si rifarà in parte gli occhi nella cappella palatina, di Castel Nuovo, unica testimonianza del periodo angioino al quale risalgono i preziosi frammenti della decorazione ad affresco negli strombi delle finestre, documento della permanenza di Giotto e del suo allievo Maso di Banco. Sarà questa la molla che lo spingerà ad Assisi. Napoli è un piccolo condensato di capolavori che alla sua curiosità sempre crescente, non può bastare. Verso la fine degli anni Cinquanta scrive all’amico Pierre Cornu:- “Sono ancora incerto, non ho uno stile mio. Spesso mi domando se sarò un pittore o uno scultore. Non ti nascondo che sono molto perplesso”. Quando Degas rientra a Parigi dopo aver viaggiato a lungo attraverso la nostra penisola, è il 1859. In quattro anni d’ Italia, la sua arte, ha compiuto una considerevole evoluzione. Suo padre Auguste, fervente critico della sua pittura, può constatare alla ricezione dei dipinti speditigli dal figlio, i progressi raggiunti da questi e gioisce nel vederlo finalmente libero da quel vuoto e triviale “disegno Flandriniano – Lamothiano e da quel colore grigio cupo”. Progressi tanto più evidenti ai suoi occhi in quanto giudica con severità la produzione dei compagni di viaggio del giovane Edgar:-“ il disegno di Tourny è corretto ma è molle, vuoto senza alcun vigore, da lontano somiglia a un disegno di una signorina, ha la stessa morbidezza”. Gli invii dall’Accademia di Roma,( frequentata da Degas e compagni, tra cui Gustave Moureau) esposti a Parigi nel 1858, “sono deplorevolmente deboli”, Lèvy fa “della pittura sfibrata, amalgama e reminiscenza del genere in voga in questi giorni”, Delaunay “imitatore di un Flandrin di non buona lega”. L’artefice dei miglioramenti di Degas è Gustave Moreau, come è stato sottolineato più volte. Questi gli permette di sbarazzarsi della pesante influenza di Flandrin e di Lamothe, di guardare altrove e in particolare Delacroix. Moreau segue un percorso parallelo: “cosciente che il disegno è la sua parte forte vuole d’ora in poi avviare i suoi sforzi sul colore dedicandosi “ a studi di valori e di toni decorativi” dove “lo studio del particolare non entrerà in nessun modo”; per fare questo moltiplica le ricerche tecniche utilizzando di volta in volta l’acquarello allo scopo di rendere “il tono compatto e l’aspetto dolce dell’affresco”, la “tempera lumeggiata con l’acquerello” per “imitare gli affreschi a olio” o anche il pastello”. E’ a Moreau che si deve l’interesse di Degas per questi procedimenti, e forse l’iniziazione al pastello. Impiegherà questa tecnica per effetti di “colorazione generale” in alcuni bozzetti della Famiglia Bellelli e di Semiramide. Degas alla ricerca di un suo personale linguaggio, volutamente , costantemente. Si guastano i suoi rapporti amicali con Moreau. Non si hanno testimonianze sui loro rapporti ulteriori, certo è che Degas non risparmierà più tardi all’ amico del Grand Tour italiano qualche parola caustica sulla sua pittura. Si allontanerà anche dal suo maestro Lamothe. Scriverà di lui di ritorno a Parigi nel 1859 :-“Lamothe è più idiota che mai” e si guasteranno i rapporti con il vecchio maestro. C’è tra i due pittori, un abisso. “L’Autoritratto di Lamothe del museo di Lione , cui Degas si ispira per i suoi primi autoritratti, riprende il celebre modello ingresco. Decisamente Lamothe è più idiota che mai; Il maestro non evolve e l’allievo, ancora incerto cambia molto rapidamente”. Il periodo della frequentazione di Moreau, viene apertamente contestato da Auguste Degas, sente il figlio in pericolo e troppo incline a seguire i suoi pericolosi consigli, di dedicarsi allo studio di coloristi come Rubens o Delacroix. Lo mette in guardia :-“ Hai osservato bene, contemplato gli adorabili maestri dell’affresco del XV secolo, te ne sei colmato lo spirito, hai disegnato o piuttosto eseguito degli acquerelli dalle loro opere per ricordarti dei loro colori. E il Giorgione l’hai bene analizzato nei suoi mirabili toni di colori, accompagnati da un così bel disegno di grande eleganza, te ne sei imbevuto?” Degas non seguirà i consigli di suo padre. Le numerose copie eseguite in Italia, sono per la tecnica , per il formato e per gli argomenti, molto diverse. Sono semplici abbozzi dal vivo o di memoria. Copie di un’intera opera o di un frammento, disegni ma anche dipinti su tela. Sono riprese scrupolose dell’opera studiata o variazioni su di un tema antico. O per riprendere una sua frase celebre esse sono la prova di un amore, di un piacere, che Degas serberà per tutta la vita. La scienza dei maestri antichi, la vastità del loro vocabolario saranno alla base della sua incessante ricerca. E attraverso la sua ricerca cercherà di penetrare i segreti della loro tecnica, “perseguendo per impossessarsene, la parola rara e l’espressione insolita.” Nel luglio del ’59 Renè, Marguerite e Thérèse De Gas sono a Napoli. Edgar sente molto la mancanza dei fratelli e specialmente delle due sorelle che sono diventate le depositarie delle sue confidenze. Nel marzo del 1860 intraprenderà un nuovo viaggio in Italia. E’ a Napoli dal 21 marzo al 2 aprile, qui dipingerà una Veduta di Napoli, dopodiché sarà a Firenze dallo zio Bellelli al quale farà un ritratto. L’opera di Degas più di altri artisti del suo tempo, è inscindibilmente connessa alle diverse tecniche da lui stesso utilizzate. Per i dipinti fa uso del pastello come dell’acquerello. Utilizza gouaches e colori a olio. Per le sue sculture cera, bronzo con l’aggiunta di altri materiali, quali la stoffa. Le diverse scelte sono motivate dal significato stesso delle opere che nello stesso tempo contribuiscono a determinare. Mai soddisfatto del suo lavoro, Degas sperimenta i più disparati procedimenti, andando anche alla ricerca di quelli usati dagli artisti dell’antichità. Anche nel suo metodo di lavoro Degas è estremamente scrupoloso. Esegue sempre molti disegni e studi preparatori e rielabora continuamente l’idea di base del dipinto finchè non ha assunto la sua forma compiuta, che non deve lasciar spazio alla minima incertezza, alla minima imprecisione. Nonostante l’aspirazione a una qualità istantanea dell’immagine, Degas non è un pittore che esegue di getto. Negli anni ’70, sviluppa la tecnica del monotipo, suggeritagli dal pittore Lepic: consiste in un disegno eseguito coprendo completamente d’inchiostro grasso nero una lastra di rame sulla quale si lavora con una spazzola dura o con uno straccio per dosare la luce e le ombre. Successivamente la lastra viene pressata su un foglio, ottenendo un’unica stampa. Talvolta con l’inchiostro rimasto sulla lastra Degas esegue una seconda stampa che risultando più chiara della prima, viene rialzata a pastello. Lavora anche con l’acquaforte ed esegue incisioni per cui usa anche la carta giapponese. Ma la tecnica che predilige è certamente il pastello, a cui ricorrerà di preferenza nella maturità, quando la vista gli si indebolirà gravemente. Non è possibile capire Degas senza conoscere le opere composte con questa tecnica, in cui la forma viene completamente frammentata, sbriciolata, dissolta, proprio in opposizione ai risultati dell’arte fotografica e alla superficie formalmente perfetta. Sperimenterà anche tecniche miste, unendo il pastello alla tempera, al guazzo e alla pittura. Tutta la produzione pittorica degassiana è accompagnata fin dagli esordi, sostenuta da numerosi studi e bozzetti scolpiti in bronzo. Attraverso la produzione scultorea, Degas ha modo di penetrare nella struttura stessa del movimento umano o animale. Quindi la scultura è elaborata e utilizzata sia come espressione artistica valida per se stessa , sia come studio preparatorio per opere che vengono poi realizzate con tele e pennelli. Il suo esordio nella scultura avverrà tardi nel 1881, quando viene esposta la sua ballerina di quattordici anni alla sesta mostra degli impressionisti. L’esposizione della ballerina sconvolge la critica del tempo:-“La ballerina di quattordici anni è uno degli apici della scultura, pur essendolo della pittura e del disegno. In più è qualcos’altro che non ha un nome. E’ una sorta di mummia allucinante; e nondimeno è la vita stessa …Nel tempo stesso un abbozzo e un punto d’arrivo. E’ la perfezione assoluta”. E ancora un altro giudizio:-“ Degas ha capovolto le tradizioni della scultura come ha da tempo scosso le convenzioni della pittura. Raffinata e selvaggia a un tempo , con il suo ingegnoso costume e le carni colorate che palpitano… questa statuetta è il solo tentativo veramente moderno che io conosca, nella scultura”. Una delle fissazioni di Degas riguardava il problema conservativo della sua arte: -“Il lato materiale dell’arte lo preoccupava molto, e cercava il miglior mezzo o la migliore sostanza fissativa, la miglior tela o la migliore preparazione, peraltro senza mai arrivare a una soluzione definitiva. Tutta la sua vita è trascorsa in ricerche, sia in campo estetico sia in campo tecnico, per ciò che riguarda l’arte. Non si lasciava scoraggiare né dalle difficoltà né dai problemi che incontrava. Al contrario, gli piaceva affrontarli, e, forse, se non fossero esistiti, li avrebbe creati: “Felice me, che non ho trovato il mio stile, cosa che mi farebbe imbestialire!”, proclamava…”. Troverà la sostanza fissativa sognata per i suoi pastelli grazie a un italiano, Chialiva. Questi gli procurerà la ricetta ancora oggi sconosciuta, che gli permetterà di consegnarli all’immortalità. “ I suoi pastelli diventarono fuochi artificiali dai mille colori, dove si dissolveva ogni precisione di forma in favore di una materia sfavillante di hachures”. La produzione Degassiana riguardante il soggetto paesistico è senz’altro la meno nota. La sua pittura è fatta di luci artificiali, di rappresentazioni di interni, di scene della vita moderna e di studi sul movimento. L’En plein air non interessa Degas che dichiara : -“Un dipinto è prima di tutto un prodotto dell’immaginazione dell’artista, non deve mai essere una copia. Se, in seguito, può aggiungere due o tre tocchi di natura, evidentemente non fa male. L’aria che si vede nei quadri dei maestri non è un’aria respirabile”. Molto interessante, in quest’ottica appare la serie dei piccoli paesaggi dipinti a Napoli e lungo il corso della penisola. I sui paesaggi saranno definiti “immaginari”. La sua tecnica sviluppata nei paesaggi arriva a vertici di lirismo raramente raggiunti nell’arte del suo tempo. Le immagini sono volutamente indefinite: Degas, non è interessato a una resa realistica della natura ma alle suggestioni interne che essa suscita. “Dai primi mesi del suo apprendistato artistico all’ultima decade della sua vita, Degas produsse paesaggi con ogni tecnica a sua disposizione e quasi in qualsiasi scala. Nei suoi primi vent’ anni, fece disegni di panorami francesi ed italiani, alternando acquarello, incisioni, olio su carta e su tela. Ammiratore dichiarato di Claude ( Lorrain), Corot e dei paesaggi di Fromentin e Delacroix, Degas fece il suo debutto professionale con un gruppo di grandiosi dipinti di storia, ognuno ambientato all’aria aperta…”. Gli influssi dell’arte napoletana nella formazione degassiana, sono rintracciabili nella riforma Palizziana- Morelliana di metà Ottocento. La riforma delle arti a Napoli interessa Degas sin dalla data del suo primo viaggio ( 1854 ). La sua è una mente ricettiva e sensibile al nuovo. Nell’ambiente artistico napoletano sa destreggiarsi magnificamente. E’ interessato all’arte di Filippo Palizzi :- “Filippo deve aver conosciuto a Napoli, dove spesso veniva a lavorare, il Degas. Edgar Degas ha avuto contatti frequenti e diretti con la pittura napoletana, è accertato… che nel 1854 egli era a Napoli, e probabilmente vi era da molto, se potè prendere contatto con il “Reale Istituto di Belle Arti” e i corsi di Mancinelli, per il disegno, di Camillo Guerra per la pittura, di Tito Angelini per la scultura e di Gabriele Smargiassi per il paesaggio. Se si escludono il Somarè e il Biancale, nessuno – mi sembra- ha tentato di approfondire questi legami tra una delle più grandi personalità dell’arte moderna e gli artisti napoletani. Si può tuttavia affermare che tra Palizzi e Degas i rapporti dovettero essere assai frequenti e le tracce si trovano sia nelle opere del pittore francese sia in quelle del pittore abruzzese… molti studi eseguiti da Filippo, per il grande quadro Caccia alla volpe della collezione Marzotto - opera datata 1850- hanno un cipiglio elegante che ritroveremo in certe opere del Degas”. Degas incontrerà di nuovo i Palizzi a Parigi in occasione dell’esposizione universale, del 1855, Giuseppe Palizzi vi espone Une vendange, della collezione Franco Russo. Un’opera concepita a Napoli in compagnia di Filippo, infatti è sorprendente la somiglianza con il naturalismo di un altro dipinto di Filippo Capre in pastura della raccolta Tommaso Leonetti di Napoli. Questi sono gli anni più fecondi non solo per Filippo e Giuseppe, ma anche per gli altri due fratelli Nicola e Francesco Paolo. Sono evidenti i contatti dei Palizzi con Degas e la pittura francese. Ciò rende Filippo più sicuro e comprende la validità del suo nuovo indirizzo artistico :-“ L’interesse che la pittura di Giuseppe offriva a Filippo è appunto nella rivelazione di questo nuovo mondo di luce e di atmosfera che, agendo sul suo spirito già predisposto, ne stimola la maturazione, gli dà sicurezza e coscienza di sé, lo rende atto a porsi alla testa del rinnovamento della pittura napoletana”.
Della napoletanità di Degas ha parlato come già accennato Paul Valéry:-“ arte napoletana , perché secondo una comune idea del partenopeismo , espressiva di movimenti, mimetica e vivente… ma il Valéry, enunciata un’ipotesi sostanzialmente vera sul carattere napoletano dell’arte di Degas, trascura d’analizzare la vera portata del mimetismo napoletano come costitutivo in nuce, d’essa”. Lo storico dell’arte Michele Biancale accende dubbi e perplessità sul vero significato delle parole di Valéry e continua:-“ Prima del Valéry che, come s’è visto, trova il fondamento del carattere napoletano di Degas nella mimica e nel gestire meridionali nessuno, o quasi di tutti i monografisti del pittore, pur notando la sua presenza a Napoli e in Italia nel periodo giovanile in cui le sensazioni si formano e si fissano in modo indelebile, dà seguito a tale fatto come se fosse puramente incidentale, niente affatto importante e senza sviluppo”. Soltanto il Blanche scrive:-« Ce Parisien éléve à Naples voit l’homme et la vie contemporaine avec l’oeil d’un moderne et d’un italien du Xv siécle ».126 Interessante il discorso, mi trova del tutto d’accordo. Degas si è sempre espresso in vernacolo napoletano lasciando i suoi contemporanei francesi stupefatti. La radice della sua arte è differente, più lontana dal terreno di cultura parigino. Quindi a voler escludere o ridurre :-“ il pariginismo dell’arte o almeno dai principi dell’arte di Degas c’è da muovere contro una barriera quasi insormontabile di giudizi ormai definiti, di opinioni generali, di nazionalismi col pennacchio, anche perché la vita parigina di Degas, …l’amore per quella metropoli, la sua curiosità quasi maniaca per alcuni lati di essa ne ha fatto l’artista più rappresentativo di tipi, d’usi, di costumi.127 Biancale avverte che ciò avviene anche per De Nittis e per Boldini considerati i pittori della vita moderna parigina e aggiungo amici di Degas. Tra i primi biografi di Degas, Paul Lafond, dopo aver precisato “che nel 1856 l’artista era in Italia, aggiunge: “ il venait d’atteindre ses vingt- trois ans et nous savons qui il avait une partie de sa famille a Naples” ma avverte prontamente: “il connaissait deja son metier de peintre”. Biancale è scettico e continua :- “… biografi minuti e precisi come il Lafond i quali sarebbero pure tratti al…riconoscimento d’un influenza italiana nella formazione di Degas, la respingono come un pericolo da scongiurare”.128 Oserei aggiungere che Lafond si sbaglia anche sulla data del primo viaggio di Degas a Napoli. E’ il 1854 la data esatta del suo primo viaggio nella città partenopea, ha vent’anni, e si trova riscontro di ciò in uno dei suoi primi taccuini, conservati alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Quindi in questa data, Degas non può conoscere appieno “son metier de peintre”. A Napoli come Lafond sa benissimo, Degas ritorna spesso in quanto suo nonno e gli zii lo ospitano frequentemente. Degas prima a Napoli dove va e viene di continuo, poi a Roma e nel ’57 a Firenze cosa che Lafond mostra di ignorare come pure afferma Biancale:- “ e dove dipinse La famiglia Bellelli di cui fu ospite per circa un anno, Degas dunque sarebbe stato refrattario ad influenze d’arte italiana recente e antica perché quel discepolo di seconda mano d’Ingres che è il Lamothe, che aveva sacrificato all’Olimpico la lezione appresa da Ippolyte Flandrin , gli avrebbe trasmesso l’inalterabile e insostituibile influenza di Jean Dominique, persino gli studi dal Mantenga e da Leonardo… sembrano nel giudizio dei biografi quasi un impiego del tempo nei suoi ozi italiani, una forma di dilettantismo. Tutto in Degas andrebbe riportato all’iniziazione d’Ingres”. E’ Biancale ancora a scrivere:- “ Ora Degas è per temperamento un esotico a Parigi. La differenza… tra lui e Manet è assai probante. Si sente che il carattere di Degas non è di genuina lega francese. La cosa è avvertita anche dal Lafond, il quale scrive: « Le antécedents héréditaires de Degas sont pour surprendre au premier abord. Son atavisme familial le destinait assez mal, semble-t-il, a devenir le parisien par excellence qui il fut, bien que nè d’un napolitain et d’un americaine ». Codesto figlio di un napoletano e nipote di una genovese ha mescolato in sè sangui differenti, e quello della madre rincalza, se possibile, il suo carattere meridionale…”. Osserva concretamente, fino in fondo, la vita moderna per riportarla sul piano dell’arte. Nessuno degli impressionisti rappresenta meglio di lui “tipi, usi, forme di vita sociale… Degas non trascurava neppure i pittori italiani che vivevano a Parigi.
Per non ricordare i suoi rapporti cordiali con De Nittis, generalmente noti, con Boldini fu alcun tempo in buone relazioni, ma il Lafond ci assicura che dopo un viaggio in comune i due, separatisi alla stazione, non si rividero più. Col pittore Chialiva esperto di tecniche pittoriche discuteva a lungo di procedimenti coloristici di vernici e di fissativi per i suoi pastelli”. A questo punto sorge spontaneo il desiderio di accertare quali siano gli artisti napoletani che hanno lasciato un segno indelebile nella sua arte. Ci pensa ancora Biancale che scrive:-“ Il Russo-Cardona che mi fornì molte notizie sulla permanenza a Napoli del Degas, e la cui moglie era la cugina dell’artista ( Biancale si riferisce alla cugina Camilla Montejasi, figlia della zia Fanny e moglie dell’ingegnere Pasquale Russo-Cardona), m’assicura che questi con i parenti abitava a Pomigliano D’Arco (località poco distante da Napoli, dove probabilmente Degas soggiorna a casa di zia Fanny) e che si recava a Napoli per acquistarvi colori e per visitarvi i Musei e qualche esposizione”. A questo punto Biancale formula l’ipotesi :-“che Degas, curioso d’arte e d’artisti, conobbe la riforma naturalistica di Filippo Palizzi il quale proprio in quegli anni andava dipingendo cavalli e cavalieri e insomma quelle scene di corsa che tanto doveva in seguito dipingere Degas?…sarà forse eccessivo pensare che anche Domenico Morelli dovette richiamare la sua attenzione? Se così non fosse, mi domando perché tutti coloro che videro nella Biennale del 1934 quel quadro di Degas, che rappresenta La duchessa Montejasi con le due figlie Elena e Camilla, zia e cugine dell’artista, pensarono con singolare e umana spontaneità al Morelli e in genere a scuola napoletana il cui spirito sembra soffiare nell’opera dipinta a Pomigliano d’Arco, da Degas giovine con signore e signorine d’un alta borghesia partenopea e con i caratteri inerenti a tale casta sociale”. La novità di questo dipinto aggiunge Biancale consiste “nella disposizione di più ritratti in un ambiente domestico, ove i napoletani per solito ponevano un personaggio isolato. Erano in ciò le prime avvisaglie Goyesche operanti con notevole anticipo sul giovane pittore, prima di Manet e di Renoir che dovevano, specialmente Manet, riprendere da Goya assai più il procedimento di un dipingere piatto che non i motivi di un comporre profondo e monumentale. Degas era intentissimo alla definizione dell’ambiente e del carattere dei personaggi che vi poneva…nel quadro dipinto a Pomigliano d’Arco, ambienti e caratteri sono definiti in modo supremo”. La duchessa Montejasi con le due figlie, esprime una certa libertà nella composizione rispetto all’altro La famiglia Bellelli, “ tutto è più sommario e più libero…c’è minore preoccupazione di un disegno visibile e maggiore impegno di un dipingere sfrangiato e aperto. I neri hanno una grana morelliana compatta su cui si staccano i grigi e i bianchi, più materialmente freddi nel napoletano più mordenti e alitanti in Degas, il fondo a tocchi e a strie, esatto nei rapporti e, fuori dell’amorfismo dei fondi uniti, respirante e vivente è tipicamente morelliano”. Aggiungerei ulteriormente di aver trovato il dipinto della Duchessa Montejasi molto somigliante ad un dipinto di Filippo Palizzi, La Marchesa Cimino. Entrambe le nobildonne sono simili nella posa, nel gesto delle mani raccolte sul grembo, nello sguardo. Oserei dire che le due donne sembrano quasi delle sorelle. Biancale continua:-“ Se questi ebbe mai curiosità di conoscere l’indirizzo del Regio Istituto di Belle Arti di Napoli non potè che riscontrarvi un insegnamento quasi parallelo a quello che si praticava a Parigi dai discepoli dell’atelier d’Ingres. Era da poco morto a Napoli Costanzo Angelini, nel 1853, che a Roma era stato collega d’accademia… di David, dal quale aveva potuto desumere e di prima mano,quel neoclassicismo che poi Degas doveva riprendere di seconda mano, dal Lamothe. L’Angelini con esso aveva posto, un saldissimo fondamento all’insegnamento del Regio Istituto, neoclassicismo puro che il nuovo titolare della cattedra di disegno Giuseppe Mancinelli tendeva a spostare verso idealità di Cinquecento e Seicento italiani che già si disponeva a diventare romantico storico in Morelli…”. Biancale trova altri riferimenti come Caravaggio, a cui Degas potrebbe essersi ispirato per il quadro Mademoiselle Fiocre dans le ballet de la Source “ se non proprio con le intenzioni costruttive, nel senso della luce del grande maestro”. Ma chi può conoscere fino in fondo ciò che ha impressionato Degas dei maestri antichi e dei contemporanei? Quelli conosciuti a Napoli, a Roma, a Firenze? Sono d’accordo con Biancale quando afferma “ che Degas non ignorò neppure la grandezza monumentale di Piero della Francesca”. Se ne trova traccia nel dipinto Semiramis élevant les murs de Babylone “ per quel senso prospettico e metrico che le figure rivelano e per quel cavallo, vero Palladio, di così differente concezione da quello caravaggesco”. Tutto questo non può certo derivargli da Puvis de Chavannes, il quale non amava il Rinascimento italiano, “ci par di sognarecontinua Biancale- quando leggiamo nel Lafond e negli altri biografi del Degas che questo perpetua l’arte schiettamente francese di Watteau, La Tour, Chardin, Fragonard,… e che il suo amore per Poussin nasce dalle qualità di luce, d’ordine, di grazia austera, seria e malinconica, qualità che sarebbero “ les revanches de l’esprit francais sur les tendances italiennes”. E chiaro che il Lafond ignora, la formazione del Seicento e Settecento francesi. Così non insisterebbe… a proposito di Degas, sul carattere genuinamente francese della sua arte, e andrebbe più cauto nel qualificare tale influenza per non incorrere nell’errore di attribuire a quei maestri francesi caratteri peculiari che per giudizio unanime sono considerati di derivazione schiettamente italiana, specie in Poussin”. Biancale contesta anche la discendenza da Ingres di Degas, in quanto nel maestro di Montauban vi scorge “ solo una purezza, una fermezza disegnativa, un equilibrio compositivo, un senso di stile sintetico, una somma infine di qualità che Ingres aveva appreso dal Cinquecento italiano nel quale ritrovava un impianto classico reso più espressivo dal carattere lineare del disegno formale”. Tutto fa pensare un “Degas italiano di sangue e di formazione artisticacontinua Biancale – attento… ai valori di contenuto e a quelli formali… fuori dalle ubbie di un impressionismo che s’esaltava d’un falso Plen-air ch’egli derideva, d’una pittura pura ch’egli non giustificava, almeno in quel modo, e d’una impassibilità espressiva ch’egli non accettava”. Ma ritorniamo a Napoli, non soltanto come scrive Paul Valery, “ perché il popolo napoletano gestisce e adopera la mimica espressiva, ma per ragioni puramente artistiche profonde che toccano il più grande Degas- scrive Biancale. Ma non vi sembra tipicamente meridionale quella sua aderenza alla vita sociale, quel suo interesse per ballerine, lavandaie, stiratrici, donne equivoche, piccole borghesi, cantanti di caffè concerto, modiste e via dicendo? Chi aveva mai pensato a ciò a Parigi? E Degas diceva non senza una punta d’umorismo che per il fatto che gli altri non se n’erano accorti egli aveva potuto dipingere simili soggetti. Non se n’erano accorti? Non si trattava di richiamo occasionale, esteriore; ma di disposizione naturale a sentirli come motivi d’arte”. Degas è un acuto osservatore, questo lo porta a confondersi con la folla degli omnibus parigini per osservarla, in ciò giustifica “ la sua posizione spirituale ch’è tipicamente meridionale” afferma il Biancale. “Artisti napoletani hanno trattato motivi simili a quelli di Degas, come Toma, Dalbono, Migliaro, Mancini Giovane. So bene che il Somarè…ha stabilito alcune connessioni tra l’arte italiana e quella francese…ma piegherebbe a carattere toscano macchiaiolo quello della pittura giovanile di Degas, che io interpreto come vagamente napoletana”. Sono d’accordo anche su questo punto con Biancale. Si ritrovano punti di contatto con l’arte italiana anche quando Degas comincia a dipingere cavalli da corsa e fantini. Degas, spiega Biancale non si rifà a De Nittis o a Fattori, quando più indietro nel tempo a Filippo Palizzi. I pesanti cavalli maremmani dipinti da Fattori non possono attirarlo, stagliati su terreni aspri sotto cieli tersi, statici nella loro solennità, non possono accendere in Degas il senso del movimento totale e continuo. Lo ricerca nel galoppo dei purosangue e nella danza delle ballerine, tra le quinte dei caffè- concerto e sui campi da corsa. A questo senso del movimento-“ rispondeva meglio il principio palizziano d’un disegno continuo e vibrato, vivente sotto o dentro la massa cromatica e non cristallizzato esteriormente nelle partiture ad incastro. Le adunate palizziane di cavalli e di cavalieri, come nel quadro della collezione Marzotto, cavalli di razza, già studiati nei loro atti più aderenti ad un determinato movimento, cavalieri di classe, certo borbonica, in stivaloni e cilindro,…rappresentativi di un’epoca…dico che coteste adunate di caccia costituiscono l’antefatto delle rappresentazioni di corse di Degas”. Biancale accosta il quadro Le viol di Degas ai dipinti d’interni di Gioacchino Toma, “Per Le viol basterà rifarsi alle camere delle pitture del Toma giovane intorno al 1862, nelle quali poneva le sue orfane, o ai piedi del letto o dinanzi ai cassettoni a rimembrare persone care scomparse, e basterà notare l’onda luminosa che soffia e pulsa quasi ad un modo negli interni dei due per darsi conto d’una disposizione, in loro quasi similare”. Riportando il discorso a Paul Valéry, il quale riconosce nella mimica e nella gestualità partenopea il fondamento dell’arte degassiana e vi riconosce non solo la gestualità del napoletano, ma anche la caratterizzazione sociale e professionale del napoletano stesso. “ Non è già una specie di mimetismo rivelatore nei napoletani dei loro sentimenti, che consiste l’arte di Degas ; ma nel cogliere nelle varie attitudini, socialmente classificabili, quelle che distinguono, la ballerina dalla modista, dalla lavandaia, dal suonatore d’orchestra, dalla donna in pensione, dal fantino di corsa e via dicendo. E’ dunque un’interpretazione della mimetica professionale di costoro … Entro cui si definisce il carattere di ciascuna di queste caste umane, che va inteso il gestire napoletano di Degas; e non altrimenti. La facoltà che hanno i napoletani di esteriorizzare il loro sentimento in espressioni di volto, di braccia, di mani, li porta certo a capire un simile atteggiarsi di sentimenti, o di abitudini, in altri; e li porta alla caratterizzazione d’esse. E’ come un istinto profondo; e Degas lo ha; e lo ha da Napoli”. Ma ciò che caratterizza la napoletanità di Degas è la sua ricerca non “d’un gesto naturale ma di quello acquisito per la necessità d’un mestiere,…che classifica una casta o un tipo d’umanità poiché per un meridionale, l’uomo non esiste nella sua accezione astratta ma si concreta in una professione o in un mestiere, nel senso che il meridionale non vede nell’uomo un uomo, ma un uomo in funzione della sua attività. Dal guardaportone all’Eccellenza c’è una serie… di attività che il napoletano non omette di speculare, di classificare, di nominare. Dirò di più: il napoletano, per uso finisce col dimenticare i nomi delle persone che deve praticare e le rimembra con un titolo c’egli sa come distintivo d’esse. Il dottore, il professore, il notaio, l’avvocato,…tengono per lui il luogo del loro stato civile”. Mi accodo a Biancale, e guardando i ritratti che ha dipinto Degas non posso non essere d’accordo con lui. “Non quelli anonimi, ma quelli cui ha inteso dare un nome: quello di de Valernes, del chitarrista Pagans, del visconte Lepic, di Desboutin ( l’assenzio )….”. Degas supererà questa classificazione per “ tramutarsi in un vero pittore di gesti. L’enorme serie delle sue danzatrici e delle sue corse di cavalli lo riportano alla notazione elementare del gesto in che sembra esaurire tutte le sue possibilità di osservatore. Così intesa l’arte di Degas si rivela chiaramente di stacco e d’impronta italiana, e precisamente napoletana.” Sono d’accordo, in massima parte con l’enunciato di Biancale. Come sono sicura degli inizi napoletani dell’artista. Un Degas di sangue italiano, ma anche di formazione artistica. Ha sempre considerato Napoli un po’ sua, così come le altre città italiane in cui ha vissuto. Napoli è stata un po’ come il primo amore, ha rappresentato il punto di partenza della sua arte, prima ancora di altre città d’Italia. Ora non c’è più incertezza sul suo percorso artistico.
La mostra e suddivisa in tre sezioni :
La prima, riferita agli anni giovanili di Degas, ricostruisce le atmosfere della Napoli di fine Ottocento, attraverso immagini storiche e l’analisi del ritratto del nonno Hilaire De Gas,primo importante dipinto realizzato a Napolidal futuro pittore impressionista, e quello della famiglia Bellelli, suoi parenti, proposti in mostra in una riproduzione multimediale. Con la seconda sezione, dedicata ai temi caratterizzanti l’arte di Degas: ballerine, prostitute, cavalli da corsa e
café-chantant della Belle Époque, l’esposizione entra nel vivo con una galleria di disegni, studi preparatori, numerose incisioni tra monotipi, litografie e xilografie, e tre sculture in bronzo. Tali opere risultano fondamentali per comprendere a pieno l’arte del “pittore delle ballerine”. L’attenzione alla forma e al segno, che si realizza attraverso lo studio, l’imitazione dei grandi maestri della pittura italiana oltre che del neoclassicista Ingres, insieme all’esercizio del disegno, lo accompagneranno fino alla morte. Il disegno, per Degas, rivela molto meglio della pittura la vera personalità di un artista. Anche quando entrerà nel gruppo degli Impressionisti e si dedicherà al colore, Degas non abbandonerà questa convinzione. Accanto alla produzione di disegni e incisioni dell’artista, rappresentata dalle serie
La maison Tellier e
La Famille Cardinal e, in facsimile, dal
Carnet di disegni per Ludovic Halévy, spiccano in questa esposizione numerosi altri celebri artisti tra cui Pablo Picasso (acquaforte
Degas e Desboutin, serie
La Celestine) e Jules Pascin (disegni a inchiostro
Maison Close). La terza area tematica riguarda aspetti più mondani della vita di Degas, le sue frequentazioni con altri artisti e gli anni più tormentati della sua esistenza minata dalla cecità. In questa parte della mostra, sono esposte opere pittoriche e grafiche di artisti napoletani, come Filippo Palizzi, conosciuto alla Reale Accademia di Belle Arti di Napoli, con il quale Degas condivise il dissenso per l’insegnamento accademico. L’area ospita anche altri illustri artisti come Domenico Morelli,Frank Boggs, Giuseppe Canova,Ferdinando Pappacena e Édouard Manet, con il prezioso olio su cartoncino
Vase de fleure. Infine, trentaquattro fotografie realizzate da Degas,
provenienti dalla Bibliothèque National de France, evidenziano l’interesse di Degas per la recente invenzione quale strumento di studio per il movimento del corpo umano e dei cavalli, accolta da molti Impressionisti.
Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore – Napoli
Degas, il ritorno a Napoli
dal 14 Gennaio 2023 al 10 Aprile 2023
dal Lunedì al Sabato dalle ore 9.00 alle ore 18.00
Domenica Chiuso