Quella di Chiara Mu non è un’arte facile. Presenta infatti diversi tipi e livelli di difficoltà, ravvisabili anzitutto negli strumenti espressivi di cui si serve. Ben lontana, sinora, dalla produzione di oggetti di qualunque genere, la cornice teorica prevalente del suo lavoro è quella del
site/situation-specific: all’interno di essa l’artista opera per mezzo delle tecniche dell’installazione e della
performance, quasi sempre combinate. Non per caso, Chiara Mu è solita definire i suoi interventi come “installazioni performative”.
Inscritte nella tradizione che cerca di evitare qualsiasi possibile mercificazione del prodotto estetico, si tratta dunque di operazioni di natura effimera, destinate ad un’esistenza limitata nel tempo, talvolta assai breve, che devono imporsi sull’oblio, sfidando la naturale evanescenza della memoria. La scelta della specificità dei luoghi, d’altra parte – è sempre bene ricordarlo – se da un lato svincola dalle costrizioni più o meno ideologiche del cubo bianco delle istituzioni, dall’altra fa perdere all’autore i benefici dell’effetto-museo, rendendo talora problematica la determinazione del
frame artistico (specie ai non addetti ai lavori).

A queste difficoltà, che risiedono immanenti nelle condizioni di possibilità del
medium, bisogna aggiungere poi una base concettuale di accessibilità raramente immediata: le opere di Chiara Mu, le sue costellazioni simboliche, reclamano sempre una partecipazione impegnativa da parte del fruitore, invitato di norma ad elaborare in maniera ponderata le suggestioni e le sollecitazioni fornite dall’artista.
Tale complessità, ad ogni modo, legata anche ad una robusta preparazione teorica, pur senza costituire un freno all’apprezzamento, è uno degli elementi che rendono meritevole di attenzione il pensiero sottile e ingegnoso di Chiara Mu: il premio per chi si confronta con le sue articolate macchine per pensare è solitamente ricco sul piano cognitivo e pieno di riverberi emotivi, che tendono ad imprimersi in profondità nella coscienza del suo pubblico.
Tra gli argomenti ricorrenti nella ricerca dell’artista emerge con evidenza il tema dello spazio, esplorato metodicamente fin dagli iniziali studi di scenografia, e che trova nelle pratiche del
site-specific il più naturale laboratorio d’elezione. Occorre precisare, comunque, che tale tema viene attraversato non nella sua declinazione fisica, bensì nella prospettiva fenomenologica e antropologica dello “spazio vissuto”. In altre parole, al centro della poetica di Chiara Mu si colloca lo spazio concepito nella sua dimensione fisiognomica, intrisa di emozionalità, e non il contenitore misurabile cartesiano. È sempre il “luogo”, quindi, in questa prospettiva, a suggerire le opportunità di intervento, in virtù della sua storia, delle sue risonanze semantiche, delle sue qualità espressive e atmosferiche e talvolta della sua funzione. Lo spazio è un deposito di senso, una partitura virtuale che suona grazie alla presenza forte dell’artista o dei fruitori da lei sapientemente orientati.
L’altro polo nodale nel discorso artistico di Chiara Mu è rappresentato dal nesso con coloro che penetrano nel suo mondo. Le installazioni performative da lei congegnate prevedono un considerevole grado di interazione con l’audience. Non si inquadrano, tuttavia, nel sistema dell’arte relazionale censito e teorizzato da Nicolas Bourriaud (
Estetica relazionale [1998], Milano 2010), incline perlopiù alla creazione di comunità. Prospettano, infatti, un rapporto singolare ed esclusivo tra artista e fruitore: le sue opere, del resto, sono riservate quasi sempre alla ricezione di una sola persona per volta. Il fruitore viene invitato ad entrare in un gioco psicologico (o percettivo) del quale normalmente ignora le regole, il cui carattere straniante intende favorire la messa a fuoco delle condizioni di esperienza di un luogo, di un atteggiamento, di un’azione. Nelle situazioni allestite da Chiara Mu, arte e vita si mescolano in modo inestricabile, sottraendosi deliberatamente alle possibili commistioni con le dinamiche del teatro tradizionale. Il pubblico non è mai semplice spettatore, non assiste ad una recita, non si trova al cospetto di un personaggio fittizio. Gli effetti maieutici cui mirano le strategie di coinvolgimento architettate, del resto, tradiscono una certa impostazione psicanalitica, che l’artista rivendica come strumento rilevante nella costruzione relazionale.

Tra le opere che meglio incarnano il connubio tra le varie componenti dell’arte di Chiara Mu,
Mi dimenticherò di te tutti i giorni del 2011 tematizza in modo emblematico la “manipolazione” di certe esperienze ordinarie dello spazio e del tempo, tipica dei suoi interventi. La materia dell’opera era costituita, per così dire, dal duplice elemento da un lato del campiello della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista a Venezia – uno spazio monumentale carico di storia, oggi ridotto quasi esclusivamente a via di transito (fuori, comunque, dalle rotte turistiche più frequentate) – e dall’altro dalla coscienza che di esso hanno le centinaia di passanti che ogni giorno lo attraversano. L’azione concepita dall’artista consisteva nel prendere per mano i “viandanti” e accompagnarli da una parte all’altra del Campiello all’alba e al tramonto, prestando ascolto ai loro pensieri, al fine di modificare sensibilmente la percezione usuale di quello spazio particolare mediante, anzitutto, la rottura di un atto abitudinario. La forma impressa all’“installazione”, in questo caso, appare funzionale a trasformare la banalità del passaggio quotidiano in un evento fuori dell’ordinario, nonché a riconfigurare profondamente l’essenza del luogo, sottratto alla trasparenza insignificante e risarcito di un’opacità piena di senso.
La reiterazione dell’intervento per trenta giorni, inoltre, è il dispositivo pensato per rendere la presenza discreta di Chiara Mu una sorta di qualità ulteriore e duratura del magnifico spazio di San Giovanni Evangelista; presenza destinata, una volta terminata la performance, a riverberarsi nella memoria di coloro che ne hanno fatto esperienza e che continueranno a percorrere il tragitto segnato dall’artista.
Abbiamo rivolto qualche domanda a Chiara Mu, sollecitandola su alcuni punti che occupano un posto importante nell’agenda delle questioni che www.news-art.it intende esplorare non episodicamente.
Qual è il concetto di arte di cui ti servi per fecondare la tua creatività?
Utilizzando le parole di Claudia Castellucci, drammaturga e fondatrice della compagnia teatrale Societas Raffaello Sanzio, immagino l’arte e l’atto del creare come il “concepire un abbraccio che stringe insieme alienazione ed intimità”. Penso l’arte come quel linguaggio che mi porta costantemente a ri-formulare la condizione di finitezza mia e dell’altro da me. Si tratta dunque di un incontro che necessita di un tempo ed uno spazio, e il luogo che offro a me stessa ed al fruitore per questo incontro è sempre la visione di un contesto specifico che mi ha catturato e sedotto in modo imprescindibile.
Cosa ti ha condotto a scegliere la prospettiva del site/situation specific come cornice prediletta della tua espressione?
Mi è congeniale interagire con spazi che per motivi ogni volta diversi mi affascinano, stimolano in me il desiderio di saperne di più. Inizia così un gioco in base al quale, sovvertendo gli elementi che a mio avviso costituiscono lo spazio, cerco e trovo una chiave di lettura che possa sedurre anche gli altri e che parli della mia adesione concettuale e/o emozionale allo stesso. In qualche modo dunque “rispondo” a domande che il luogo non ha posto, eppure non resisto a prescrivergli una mia ricetta surreale per rivelarne una visione del proprio “doppio”, parafrasando lo specchio magico di Lewis Carroll.
Hai studiato arte a Londra. Le tendenze del mondo anglosassone hanno influito in maniera significativa sui tuoi orientamenti? Quali sono, in ogni caso, i tuoi punti di riferimento principali del passato e del presente?
Influito è poco… Ma, più che tendenze, ciò che mi ha formato radicalmente è l’approccio critico costante che definisce il sistema educativo delle arti in Inghilterra. Un sistema al cui centro non è collocato il docente ma lo studente con la sua pratica artistica, intorno alla quale ruotano
tutors (spesso artisti e curatori di spessore a seconda della scuola scelta) che cercano metodicamente di decostruire il lavoro fatto o solamente progettato. Alla fine ci si confronta con il poco che sembra essere rimasto in piedi ed è nel raccogliere umilmente i pezzi che inizia il gioco della comprensione intima ed a volte feroce dei propri limiti e delle proprie necessarie forme.
Di punti di riferimento del passato, nel senso di artisti ormai storicizzati del contemporaneo, ce ne sono molti cui sono affezionata in modo quasi infantile ed il cui studio continua ad inspirarmi, da Beuys a Pino Pascali, da Fabio Mauri a Valie Export, Gordon Matta-Clark, Sophie Calle… Riguardo al presente, osservo con interesse il percorso di alcuni artisti, per altro ben diversi tra loro: i progetti
site-situation specific di Jeremy Deller e Francis Alÿs, gli esperimenti relazionali di Tino Seghal, le provocazioni concettuali (e non) di Andrea Fraser e la potente visione poetica installativa di Miroslaw Balka. Dal punto di vista critico-curatoriale mi trovo in forte sintonia con gli studi portati avanti negli ultimi 10 anni da Claire Bishop sulle politiche della partecipazione alla
time-based art.
Come mai hai scelto di privilegiare la fruizione dei tuoi lavori da parte di una sola persona per volta. Si tratta di un’opzione polemica nei confronti delle posizioni che intendono l’arte come un medium atto a trasformare gruppi di persone in comunità? Inoltre, esiste per te un fruitore modello?
Da un punto di vista prettamente psicologico tendo a voler evitare le dinamiche “da branco” che spesso si determinano durante la fruizione di opere d’arte. Non mi interessa ri-affermare nella mente di chi esperisce il mio lavoro la sua condizione di fruitore, come avviene invece a teatro, dove si ha coscienza costante della propria condizione “spettatoriale” poichè ci si riconosce in uno spazio deputato (la platea) e nelle necessità e nei comportamenti delle persone sedute accanto. Ritengo che una fruizione di gruppo rafforzi la distanza, ovvero la quarta parete invisibile, che ancora divide l’artista e chi si muove all’interno dell’opera. Nell’attuare strategie relazionali tra spazio, oggetti e corpi performanti per una sola persona alla volta, miro a portare il fruitore ad un contatto intimo, veicolato in modo altamente provocatorio o fortemente accogliente. Io, fisicamente o tramite la realizzazione del mio lavoro, sono lì, completamente esposta e chiedo altrettanta disponibilità ad esserci, a vivere ciò che accade, reagendo come ci si sente ma nel rispetto imprescindibile delle condizioni date.
Puoi raccontarci qualcosa del progetto e della genesi di Mi dimenticherò di te tutti i giorni?
Sono di origini veneziane eppure continuo a perdermi a Venezia… Credo che per apprezzarla ci si debba davvero lasciar andare a non trovare più la strada. Ho sempre avuto un luogo speciale, un campiello che giocavo a perdere e ritrovare quando ero piccola. Intervenirci aveva lo scopo di ri-qualificare la fruizione di quello spazio urbano per gli abitanti della città, cosi impegnati ad evitare turisti con andatura veloce e furba da non abbracciare più – almeno con lo sguardo e con il proprio passaggio – lo spazio circostante.
Le tue opere, talvolta (consapevolmente) provocatorie, hanno delle ricadute immediate sull’ethos del pubblico. Altri, del resto, propongono performance ben più “caustiche” delle tue. Ciò solleva la delicata questione dei confini etici degli artisti. Ci sono comportamenti che non sono, a tuo parere, tollerabili nel nome dell’arte? Inoltre, ritieni che debbano esistere dei limiti etici anche nelle risposte del pubblico di fronte alle sollecitazioni che talvolta fanno appello alla libera reazione dell’inconscio di chi prende parte alle opere?
Qualsiasi tipologia di lavoro che comprende chi esperisce l’opera come parte integrante della stessa deve necessariamente considerare i confini dell’agio e/o del disagio imposti ed il rispetto della persona nella sua libertà e volontà di scegliere come muoversi all’interno. Non a caso infatti definisco i miei interventi “strategie” relazionali. Ammetto però di aver alterato il limite per una buona riuscita dell’opera almeno in un caso... Ho di recente realizzato una
performance a Milano in cui ho fermato uomini a caso per strada, uno alla volta, dicendo loro che li avevo visti mentre perpetravano atti di violenza su donne. Si trattava di un evento artistico per conto del Comune di Milano, volto a sensibilizzare sulla violenza subita dalle donne. Lasciavo il malcapitato dopo circa 3, 4 minuti di conversazione astiosa ed una ragazza lo raggiungeva consegnandogli un volantino che presentava l’evento, permettendogli finalmente di contestualizzare un atto così intenso in una cornice interpretativa precisa. Sono stata minacciata e buttata a terra in quella situazione, ho scientemente provocato una reazione forte su chi non poteva aspettarsi un atto del genere. Il fine non era gratuitamente masochistico o sadico ma mi interessava replicare e rovesciare la fenomenologia della violenza che molte donne conoscono e che devono affrontare senza aver alcun “diritto di replica”. Ritengo questa
performance un esempio di arte politica nella misura in cui ha creato disagio, ha disturbato, oltraggiato proprio un pubblico maschile generico, quello stesso che storicamente non è stato in grado – non fino ad ora – di assumersi collettivamente una responsabilità culturale di genere, come invece è avvenuto sul piano delle pratiche politiche femministe. Non credo che questo mio intervento avrebbe avuto lo stesso senso e lo stesso impatto se ogni uomo fosse stato avvertito prima.
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Altra cosa è confrontarsi con fruitori che varcano scientemente il limite del rispetto verso l’opera, per competizione narcisistica con la stessa. Nel corso di 10 anni di pratica artistica ho subito alterazioni e distruzioni parziali di alcune mie installazioni, all’interno delle quali l’essere ammessi uno alla volta era una regola che attestava – ed ancora attesta – la mia assoluta fiducia verso chi vuole esperire il mio lavoro. Voglio credere che chi cerca l’arte, in luoghi deputati istituzionali o no, risponda al desiderio di confrontarsi con la possibilità di una visione del reale diversa dalla propria. Per cui operare consapevolmente una distruzione della stessa, che sia un oggetto, uno spazio, un tempo o un incontro, mi è davvero di difficile comprensione e ritengo non debba passare sotto silenzio mai.
Quali sono, a tuo avviso, o quali vorresti che fossero i parametri per giudicare la tua arte?
Farne esperienza diretta (non considero appropriate le opinioni di chi pretende di saperne qualcosa dalla documentazione prodotta a posteriori) e che sia possibile per chi l’ha vissuta farci casa all’interno, per un minuto, per mezz’ora o
endlessly nella propria testa.
Chiara Mu è nata a Roma nel 1974. Dopo il diploma in Scenografia conseguito presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (2001) ed in Tecniche Fotografiche B/N presso l’istituto E.Rolli di Roma (2002), ha studiato per due anni al Chelsea College of Art and Design di Londra, dove ha ottenuto il Master in Fine Art (2009). Nel 2011 è stata resident artist presso lo Studio 943 a Kunming, Yunnan in Cina. Tra le mostre più recenti alle quali ha preso parte vanno ricordate, almeno, “Nonostante Tutto” (Galleria OltreDimore, Bologna, 2012), “Vetrinale” (Roma, 2012), “Seminaria Sogninterra” (Maranola di Formia, Latina, 2012), “Mi dimentichero’ di te tutti i giorni” (Comune di Venezia, per conto della galleria Edieuropa-Qui Arte Contemporanea di Roma, 2011).
Francesco Sorce, 15/04/2013