Leggere il Gattopardo a vent’anni ti fa impersonare nel nobil giovane Tancredi, che pur essendo squattrinato è forte, bello e ardito. Rileggerlo qualche lustro dopo ti avvicina allo zio principe don Fabrizio Corbera con tutti i suoi dilemmi legati all’età. Le riflessioni sul fine vita di Corbera riescono a creare un ponte immaginifico tra le riflessioni del principe e di chi legge ( almeno per chi sta anagraficamente sopra ai 50) quale bilancio di una vita con i successi, i suoi rimorsi, i suoi errori e le sue illusioni. L’autore Giuseppe Tomasi di Lampedusa nacque a Palermo il 23 dicembre 1896 e morì a Roma il 26 luglio 1957, figlio di Giulio Maria Tomasi (1868-1934) 11° principe di Lampedusa, Duca di Palma, Barone della Torretta. Il padre Giulio prese il nome dell’avo Giulio Tomasi detto il santo, nato a Ragusa Ibla nel 1614 nell’attuale Palazzo degli Arezzo di Donnafugata. Giuseppe Tomasi fu molto legato alla madre, Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cuto, donna dalla forte personalità. La nobile siciliana ebbe una tale influenza sul figlio da comprometterne il matrimonio. Giuseppe infatti nel 1932 si era sposato con la nobile psicanalista di origine lettone Alexandra Wollf Stomersee, ma il matrimonio era durato poco per le forti incompatibilità tra suocera e nuora che vivevano a Palermo sotto lo stesso tetto. 
Tuttavia il conflitto della prima grande guerra fece ritornare la moglie in Sicilia. Il padre Giulio, morto nel 1934, ebbe un rapporto distaccato con il figlio e forse anche con la moglie, questo in parte giustificherebbe il legame tra Giuseppe e la madre. Il Tomasi visse una infanzia solitaria, come lo stesso ebbe a descriversi da piccolo, rinchiuso nel palazzo di famiglia, dove “era solito parlare più con gli arredi che con le persone”. L’autore visse in un momento di transizione politica che vide l’Italia attraversare due guerre ed in una, la prima, vi partecipò. Giuseppe Tomasi ricevette sin da piccolo una educazione letteraria che gli venne impartita nella propria dimora. Tuttavia ebbe modo di allontanarsi molto presto dall’ambiente nobiliare palermitano ove ci si appellava con il predicato nobiliare anziché con il proprio cognome. Un piccolo mondo antico di soldatiana memoria. In età da ginnasio Giuseppe Tomasi arrivò a Roma ed uscì fuori dall’ambiente palermitano fatto di frequentazioni circoscritte al proprio ceto plasmato da riti decadenti. Tornò in Sicilia e ripartì per Roma per frequentarne l’università. Di seguito viaggiò in Europa, ed il riferimento, nel romanzo quando il principe don Fabrizio intrattiene il colloqui con Chevalley rivolgendosi ai giovani siciliani sostenendo che: bisogna farli partire quando sono molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è già fatta” è a se stesso, non trovando evidentemente tra i suoi conterranei o la gente che frequentava menti aperte, mitteleuropee, ma siciliani chiusi nel loro immobilismo o scetticismo verso le istituzioni, i saperi, l’evoluzione dei costumi che altri letterati hanno ben saputo raccontare da Vitaliano Brancati a Gesualdo Bufalino.
La spinta a scrivere il romanzo, probabilmente già maturata, almeno nelle idee, prende le mosse nell’anno 1954, quando Giuseppe Tomasi accompagnò ad un convegno di letteratura il poeta Lucio Piccolo che doveva dialogare con Eugenio Montale. Tornato a Palermo, l’entusiasmo e il clima letterario dell’ambiente frequentato dal nobile cugino Lucio Piccolo lo spinse tra il 1954 e il1957 a scrivere il romanzo del Gattopardo, che tuttavia verrà pubblicato postumo per la precoce morte del Tomasi. Il libro, il principe siciliano, fece in tempo a spedirlo alla Mondadori. Il manoscritto tuttavia venne rifiutato dalla casa editrice perché il consulente dell’allora Elio Vittorini il 2 luglio 1957 con una lettera indirizzata allo scrittore gli negò la possibilità di pubblicarlo, ritenendolo non corrispondente “alle linee critiche della letteratura”.Il libro molto più avanti sarà pubblicato dalla Feltrinelli di Milano con un successo letterario inaspettato.
Il Gattopardo racconta l’esistenza del principe di Salina, e si svolge in periodo ricompreso tra la primavera del 1860 al 1910. Sono 50 anni di storia che hanno visto il tramonto della corona iberica presente nell’isola prima del passaggio ad una Italia che sarà unita dalla Casa Savoia piemontese che si avvarrà dell’aiuto di Giuseppe Garibaldi e delle sue camicie rosse, prime vittime di un cambiamento diverso da quello sperato.
Il romanzo,diviso in otto parti, narra l’esistenza di un autorevole aristocratico Don Fabrizio Corbera principe di Salina nel cui stemma è raffigurato un Gattopardo. Il libro inizia con una frase in latino “Nunc et in hora mortis nostrae, Amen” strofa finale dell’orazione dell’Ave Maria:una giornata tipica delle nobili famiglie che solevano adempiere il credo religioso quotidiano nelle loro dimore. L’autore descrive molto bene la scena con i vari personaggi, gli arredi, il gesuita Pirrone cappellano di famiglia, il cane Bendicò,e con grande abilità descrive subito il personaggio principale, Don Fabrizio Corbera, delineandone il profilo di persona sfiduciata, refrattaria a cambiare il corso delle cose: stava a contemplare la rovina del proprio ceto e proprio patrimonio senza….voler porvi riparo. Considerando che il personaggio è un principe e che in genere nella fantasia o nelle letteratura il principe ha sempre un ruolo epico, l’incipit del Tomasi si rivela del tutto geniale.
Tra i componenti della famiglia risalta una figura che farà da coprotagonista in tutto il romanzo: il principe Tancredi Falconieri, nipote prediletto ma squattrinato e orfano di entrambi i genitori. Un giovane molto sveglio che capisce che sta cambiando il clima politico dell’isola. La Sicilia nel 1860 sotto la dominazione secolare spagnola sta assistendo allo sbarco dei Mille capitanati da Giuseppe Garibaldi. Il vicereame spagnolo è ridotto ad una farsa. Il nipote Tancredi vuole partecipare al cambiamento perché ha capito che se vuole mantenere lo status quo deve farlo da protagonista insieme ai nuovi vincitori allo scopo di evitare che coloro che prenderanno il posto dei Borboni insidino il loro potere. Lo zio Fabrizio alla notizia di questo coinvolgimento del nipote, all’inizio sobbalza, ma il nipote con disinvoltura dice allo zio che se non ci siamo anche noi quelli ti combinano la repubblica se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”. Il principe Fabrizio Corbara, comprendendo che si sta avvicinando l’ennesimo mutamento politico che da millenni attraversa in maniera ineluttabile la Sicilia, è fiducioso di poter mantener integri i propri privilegi sociali ed economici nonostante il nuovo mutamento sia alle porte, semmai li vedrà leggermente intaccati. Pertanto si dimostrerà, giocoforza, benevolo al cambiamento, tanto che arrivato nell’immaginario feudo di Donnafugata inviterà i cittadini a votare per il Plebiscito. Nell’agosto del 1860 la rivoluzione garibaldina iniziata con lo sbarco a Marsala l’11 maggio era già quasi consumata; l’esercito borbonico si era dileguato alle prime cannonate e all’insurrezione della popolazione stanca e affamata. I Salina dal palazzo di Bisacquino nell’agosto del 1860 si mossero per la vacanza a Donnafugata. La rivoluzione era stata indolore; i garibaldini si erano presentati a palazzo con fare gentile e con “la mano sulla visiera del cappello”. All’arrivo delle carrozze del principe di Salina a Donnafugata non è cambiato “quasi nulla”, ci sono i maggiorenti del paese ad accoglierlo e alle loro spalle attaccate sui muri sdruciti e quasi ingialliti campeggiano i manifesti che annunciano il cambiamento politico. Tuttavia il principe Fabrizio è proprio qui che coglierà i primi segni di un cambiamento epocale a cui si dovrà piegare senza spezzarsi del tutto. Il primo segno di un ordine sociale in mutazione lo coglie all’arrivo a Donnafugata dove il suo nuovo atteggiamento, fin troppo cordiale, ne segna il declino. Un altro segno di cambiamento lo coglie la stessa sera dell’arrivo a Donnafugata nel pranzo riservato alle personalità del paese. Tra gli ospiti che riceve a palazzo c’è il sindaco Don Calogero Sedara, uno che si è arricchito a dismisura con mezzi leciti ed altri meno. Don Fabrizio per il pranzo non intende mettere a disagio gli ospiti, pertanto sceglie di riceverli con un abbigliamento non di gala, nonostante il pranzo lo fosse, con lo scopo di non imbarazzare gli ospiti che magari non lo possedevano. Tuttavia al pranzo Don Calogero Sedara, che incarna il cambiamento, si presenta in frack imbarazzando il principe, che è costretto a ricevere in abito da pomeriggio un ospite che ostentava, ancorché in maniera buffa (sotto l’abito elegante calzava stivaletti) un atteggiamento da pari. Quindi, nonostante Don Calogero sia un villico che possedeva oramai più terra del principe a Donnafugata, inconsapevolmente e forte dell’avvenuto cambiamento che invertiva quasi ruoli, riesce ad imbarazzare Don Fabrizio che in quel momento, suo malgrado, tocca con mano i primi frutti del mutamento politico. L’effetto per il principe è più forte della notizia dello sbarco dei mille, perché Don Calogero Sedara è come se avesse aperto una porta senza bussare, il nuovo che avanza grazie al nuovo potere politico e all’immensa fortuna accumulata. L’umore del principe verrà mitigato dall’ingresso di Angelica, la figlia di Don Calogero Sedara, al pranzo di gala. La sua bellezza, l’educazione ricevuta in un collegio fiorentino frutto della ricchezza economica del genitore, scuoterà tutti i componenti della nobile famiglia. La giovane borghese, che porterà una ventata di aria nuova a palazzo Salina, presentandosi per accompagnare il padre al pranzo, distrarrà il principe, vecchio latin lover, e farà innamorare il nipote Tancredi che a fine estate chiederà allo zio Don Fabrizio di domandare la mano a Don Calogero della bellissima figliola. Tancredi motiva la scelta in contraddizione con i costumi del rango nobiliare per la differenza di classe che intercorreva tra le due famiglie con la giustificazione che il “livellamento dei ceti” sia una conseguenza del cambiamento storico in corso. Il romanzo, mai banale, pieno di metafore che tradiscono la passione per Stendhal, conduce il lettore per mano nel barocco siciliano del giardino incolto di manzoniana memoria, oppure le nature morte, nella descrizione delle pesche fatta da Tancredi che ricorda i tratti della pittrice lombarda Fede Galizia o nella descrizione della cacciagione che guarnisce le portate.
 L’apparire nella vita e nella scena del cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo a Donnafugata è uno dei momenti topici del romanzo. Il Cavalier Aimone propone a Don Fabrizio di entrare nel parlamento sabaudo a Torino.”Lei rappresenterà la Sicilia per far udire la voce della sua bellissima terra che si affaccia nel panorama del mondo moderno”.Don Fabrizio con aria serafica risponde:se si fosse trattato di una carica onorifica avrei accettato” - “abbia pazienza Chevalley, adesso mi spiegherò; noi siciliani siamo stati avvezzi a una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai vicerè spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto adesione, non partecipazione. In questi sei ultimi mesi, da quando Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un vecchio membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento… Sono almeno venticinque secoli che portiamo il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il là; noi siamo bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo una colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra”. In questo breve ma intenso discorso c’è la voluttà del pessimismo, che tra i narratori siciliani ricorda il Verga anche se con un angolo visuale diverso, che connatura Don Fabrizio e che si trasforma in un immobilismo intellettuale che cerca di trarre linfa in una rassegnazione atavica storicizzata ed ineluttabile. Don Fabrizio pur assistendo ai cambiamenti in corso si rifiuta di parteciparvi. La sua posizione di rendita e di prestigio che dura da secoli è l’unica cosa durevole e inattaccabile dell’ambiente in cui si trova a vivere, e pertanto per spirito di sopravvivenza si adatta ma non arretra provando pietà nella accezione della pietas nei confronti dei nobili e dei borghesi,arrivando a concentrarsi verso il nipote e la giovane fidanzata quando a casa Pontelone a Palermo la sera del ballo pensa che la gioventù è solo una fase di passaggio e che ti rende forte solo in apparenza solo perché la vecchiaia è ancora lontana. “Il sonno caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali;e sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia nuovi regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente, la nostra sensualità è il desiderio dell’oblio…desiderio d’immobilità voluttuosa… Da ciò proviene il pre-potere di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto”. Le titubanze di Chevalley sui discorsi del principe che non afferrava, erano giustificate secondo Salina perché Chevalley per comprendere avrebbe dovuto prima “ almeno un anno vivere in Sicilia insieme ai siciliani”. Don Fabrizio incalza con un pessimismo che passa dall’uomo alla natura: “mi sono spiegato male, ho detto i siciliani avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente il clima il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più delle dominazioni estranee e gli incongrui stupri (qui si riferisce al fatto di subire dominazioni e tradizioni altrui) hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra l’asprezza lasciva e la mollezza dannata; che non è mai meschino… come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali, questo paese che ha l’inferno intorno a Randazzo (bruttezza) e la bellezza della baia di Taormina (contraddizioni), ambedue fuori misura, quindi pericolosi. … Da noi sei mesi di fuoco da maggio a ottobre come sulle città maledette della Bibbia. In ognuno di questi mesi se un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia di tre persone. E poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima entrambi crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti, tutti questi governi sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte enigmatiche e con concretissimi esattori di imposte spese altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d’animo”.
Uno spiraglio di ottimismo?
Non nego che alcuni siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna farli partire quando sono molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese calunniato che la normalità civilizzata è qui, la stramberia è fuori.” Don Fabrizio conclude il discorso con l’emissario piemontese suggerendo di conferire la carica senatoria a Don Calogero, ritenendo che essendo lui l’espressione sociale del nuovo che avanza, abbia le carte in regola per affrontare questo nuovo ordine sociale imposto dall’alto. Don Fabrizio si tira fuori dimostrandosi disilluso dal cambiamento propugnato dal nuovo in quanto a modo suo lo ritiene già vecchio prima di iniziare.
Chevalley in un ultimo disperato tentativo dice al nobile:Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nella quale giace quello che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera agli uomini senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedara; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori”.Don Fabrizio risponde:lei si è sbagliato quando ha detto che i siciliani si vorranno migliorare…i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria”.Chevalley congedandosi pensa:Questo stato di cose non durerà, la nuova amministrazione cambierà le cose.” Don Fabrizio pensa in maniera opposta che lo stato di cose durerà, ma non per sempre perché poi si dovrà ricambiare e conclude: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene, e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueranno a crederci il sale della terra”.
Come in una illusione negativa di matrice leopardesca Don Fabrizio resterà prigioniero di un mondo che è già cambiato nella sua ricercata e ostinata solitudine.
La parte sesta del romanzo rappresenta la fase finale della vicenda di Don Fabrizio Corbara. Il principe aspettando gli ospiti da presentare alla nuova società, ovvero la futura nipote Angelica, sarà costretto ad arrivare per la prima volta ad una festa prima del dovuto. In genere il rango lo obbligava ad arrivare a metà festa. La serata lo annoia ma non ne può far a meno. L’unico momento gioia lo assapora quando Angelica lo invita a ballare il valzer. Il resto della serata si divide tra la sopportazione dell’ufficiale garibaldino Pallavicino, espressione della nuova classe politica dirigente, la tristezza nel vedere la classe nobiliare fatta da ragazzi troppo chiusi nelle case ed avvezzi a sposarsi tra parenti per non disperdere il patrimonio o consolidarlo e i pensieri della morte. Un fine vita accettato anch’esso con rassegnazione. Un pensiero ricorrente che non abbandona Don Fabrizio e che in punto di morte vede come una giovane dama che lo preleva. Don Fabrizio in punto di morte rifiuta la confessione non perché si sente innocente ma perché reputa meschini i peccati commessi per dover importunare un prete in quella giornata di afa.
 Nel romanzo la famiglia Salina rimarrà chiusa nell’illusione di poter far a meno del cambiamento. Illusione spezzata dall’autore nel finale del romanzo quando nel 1910 le figlie superstiti di Don Fabrizio, tutte rimaste nubili, sono intente a rivendicare il valore simbolico delle reliquie accumulate nella cappella della famiglia, triste metafora del potere della casata, che dichiarate false da un alto prelato in visita al palazzo, istericamente vengono buttate nell’immondizia insieme alla pelliccia del cane Bendigò imbalsamato da cinquant’anni.
Il romanzo segna la rottura della fase della letteratura legata al neorealismo ed è improntato su ricordi ed esperienze personali mitigati con la fantasia. Il Tomasi sintetizza nel romanzo con eleganza e raffinatezza i difetti di una società le cui radici sono come la gramigna, difficili da estirpare, e proprio per questo i problemi antropologici evidenziati ci appaiono sempre attuali riuscendo a cambiare il costume ma non la sostanza.
Roma, luglio 2018
Redazione