Giovanni Cardone Dicembre 2022
Fino al 29 Gennaio 2023 si potrà ammirare presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma la mostra Domenico Morelli. Immaginare cose non viste a cura di Chiara Stefani con Luisa Martorelli. L’esposizione è stata l’occasione per vedere un’ampia parte del ricchissimo ed eterogeneo fondo dell’artista insieme ad opere provenienti anche da altre istituzioni pubbliche o da collezioni private, con l’esposizione di una trentina di dipinti e 9 bozzetti, 9 sculture, un corpus di 48 tavolette a olio su legno con dipinti di paesaggio realizzati nella costa a sud di Napoli, un grande cartone a tecnica mista e una cospicua selezione di 160 opere su carta, tra gli oltre 800 fogli appartenenti al fondo Morelli conservato dalla Galleria Nazionale. A quasi settant’anni dalla Mostra di disegni allestita nel 1955 da Palma Bucarelli a Valle Giulia, Domenico Morelli torna ad essere protagonista nelle sale Via Gramsci della Galleria Nazionale, come già lo era stato, nel 1907. Era appena stato trasferito, da Napoli a Roma, il fondo costituito da opere grafiche, cartoni, bozzetti e dipinti rimasti nell’atelier dell’artista alla sua morte e acquistato dallo Stato: Francesco Jacovacci, allora Direttore della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, lo aveva parzialmente allestito all’interno di quattro sale di Palazzo delle Belle Arti a via Nazionale.
La gestazione dei dipinti di Domenico Morelli è un processo di continuo ripensamento delle soluzioni compositive ideate dopo un attento studio sul Vero, i cui singoli elementi vengono analizzati più volte, prima di raggiungere la versione ritenuta ottimale. Mentre il ventaglio di tecniche impiegate dall’artista su carta spazia dall’uso di grafite, carboncino, sanguigna e pastello – accompagnati in vari casi da lumeggiature a biacca, nonché dall’inchiostro bruno, spesso abbondantemente acquarellato – all’acquerello e alla tempera in varie tonalità, talvolta su tracce di matita, i bozzetti annullano nel colore l’attento studio grafico di ogni foglio ad essi preparatorio. Per la prima volta dall’inizio del secolo scorso, viene mostrata al pubblico la tela del dipinto incompiuto Il trovatore tra le monache, ambita a suo tempo dal mercante francese Jean-Baptiste Michel Adolphe Goupil e oggetto di un apposito intervento conservativo da parte degli allievi dell’Istituto Centrale per il Restauro. Dopo la pulitura, le preziose cornici dei dipinti appaiono nella varietà delle loro tecniche: intagliate e decorate a foglia di oro zecchino e argento meccato, a cui era stata aggiunta, in un caso particolare, l’applicazione di una striscia di tessuto sulla superficie lignea. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Domenico Morelli apro il mio saggio dicendo : Il XIX secolo che noi tutti conosciamo è quello che una consolidata tradizione storiografica chiama l’Ottocento lungo: in termini cronologici l?epoca che si apre con la conclusione delle grandi rivoluzioni settecentesche in Europa con la fine delle guerre napoleoniche e con la diffusione, dopo il successo in terra inglese, della società industriale; e si chiude con lo scoppio della prima guerra mondiale. È il grande e complesso fenomeno della “rivoluzione industriale” che segna tradizionalmente la demarcazione tra età moderna ed età contemporanea. Si tratta di un fenomeno di lunga durata, che accompagna per decenni la storia mondiale, con scarti temporali tra le diverse aree geologiche, con effetti cumulativi che si modificano nel tempo. Ma si tratta anche di un fenomeno che affonda le sue radici nei secoli precedenti, e che ha dato vita a lunghi dibattiti storiografici . Alcuni contestano il titolo di “rivoluzione” trattandosi, non di un puntuale avvenimento databile ad un anno preciso, ma di un processo che ha i suoi precedenti più o meno lontani nello sviluppo dell’economia, nel commercio internazionale e oceanico, nell’accumulazione capitalistica, nelle tradizioni manifatturiere nel rapporto con l’agricoltura, negli orientamenti religiosi ideologici e culturali, nelle condizioni favorevoli alla libera iniziativa individuale, nella storia in generale della “civiltà occidentale”. Si può comunque continuare a far uso della classica e abituale espressione di “rivoluzione industriale” pur nella consapevolezza dei problemi che solleva, ma nella convinzione della sua sostanziale aderenza alla fase iniziale di una grande trasformazione. Queste condizioni si verificano per la prima volta in Inghilterra, dove l’agricoltura aveva conseguito miglioramenti importanti nella condizione, nella resa e nella produttività; dove l’attività commerciale nell’interno del paese, ma soprattutto negli scambi coloniali e internazionali, aveva conquistato importanti mercati di sbocco e consentiva una considerevole circolazione di merci e di capitali. Non meno importanti furono alcune innovazioni tecniche che resero più rapide alcune fasi del lavoro manifatturiero e consentirono di sfruttare altre fonti di energia oltre a quelle tradizionali. Queste invenzioni furono il primo passo verso la costruzione di macchine sempre più complesse e più costose. Il fortissimo aumento della produttività del lavoro e il sistema di fabbriche erano diventati in Inghilterra, e stavano diventando in altre regioni, i due elementi fondamentali del processo di trasformazione industriale. Mutamento importante nella organizzazione del lavoro, e si ebbe di conseguenza anche un ulteriore incremento di operai all’interno di una fabbrica. Le quattro maggiori potenze, oltre la Francia, erano l’Inghilterra, l’Austria, la Russia e la Prussia. Nel 1814 queste quattro grandi potenze si erano impegnate a mantenere per un periodo di vent’ anni gli accordi e la sistemazione politico – territoriale che sarebbero stati elaborati dai trattati di pace. Sul piano della storia delle istituzioni diplomatiche e del diritto internazionale giova ricordare che per mantenere la pace si stabiliva allora una procedura di consultazioni periodiche tra le grandi potenze, che diede vita a quel sistema del congresso o concerto d’Europa, innovazione e precedente importante nello sviluppo delle relazioni internazionali, quasi un primo tentativo di accordo per la sicurezza collettiva. Tutti gli stati europei furono rappresentati al congresso di Vienna , ma le linee essenziali della nuova sistemazione furono concordate tra le quattro grandi potenze. Fu ridisegnata la carta politico - territoriale dell’Europa, scambiando, unendo, assegnando popoli e territori. Si tenne poco o nessun conto delle istanze popolari e nazionali e della crescita della pubblica opinione che avevano acquistato dimensione e peso mai prima raggiunte, contribuendo a modificare l’assetto della società e le basi della politica. Conviene tuttavia, per ben comprendere i caratteri dell’età della Restaurazione, non trascurare il fatto che, salvo alcune eccezioni, le riforme istituzionali e sociali consolidatesi durante il governo e l’occupazione di Napoleone non potevano essere revocate e annullate senza provocare nuovi sconvolgimenti, assolutamente indesiderati dalle potenze vincitrici. Il congresso di Vienna volle soprattutto la restaurazione della legittimità dinastica, il ritorno dei legittimi sovrani. Nei rapporti tra le potenze il congresso adottò il principio di equilibrio. Per quanto attiene ai regimi politici e alla politica interna dei vari stati la situazione si presentava complessa e per vari motivi più delicata. Il significato della generalmente restaurata legittimità dinastica, il vagheggiamento delle tradizioni e la ricerca dei diritti storici contrapposti alla rivoluzione, il nuovo prestigio e rispetto per i sentimenti e le istituzioni religiose non erano dappertutto interpretati allo stesso modo e non portarono dovunque alle stesse conseguenze. La ripresa cattolica , ma soprattutto la rinnovata alleanza fra il trono e l’altare, furono componenti importanti della restaurazione. Dopo il Congresso di Vienna ci fu la proliferazione di teorie e movimenti molteplici, che esplosero nella generale rivoluzione europea del 1848. In questi trentatré anni di transizione si riflette sulla serie di “ismi” tuttora viventi che sorsero in quel periodo. Il termine “liberalismo” comparve per la prima volta nella lingua inglese nel 1819, “radicalismo” nel 1820, “socialismo” nel1832, “conservatorismo” nel 1835. Gli anni 1830 segnano la nascita di “individualismo”, “costituzionalismo”, “umanitarismo” e “monarchismo” . “Nazionalismo” e “comunismo” datano al 1840. Soltanto nel 1850 il mondo di lingua inglese usò il termine “capitalismo” e solo più tardi si sentì parlare di “marxismo” anche se le teorie di Marx risalivano al 1840. Molte di queste idee erano nate con l’Illuminismo, se non prima.
La comparsa di tanti “ismi” indica che la gente veniva dando alle sue idee un carattere più sistematico; si riconsiderava la società nel suo insieme. Senza gli “ismi” creati nel trentennio circa seguito alla pace di Vienna è impossibile capire o anche parlare della storia successiva del mondo. L’unico “ismo” che non era di natura politica era il Romanticismo usato anch’esso in Inghilterra per la prima volta nel 1840 per descrivere un movimento nato mezzo secolo prima. Esso fu principalmente una teoria della letteratura e dell’arte. In tutto questo trentennio ci furono agitazioni e sommosse nell’intera Europa sia dovute al popolo che alla nuova classe sociale che stava nascendo, la borghesia; proprio questa ebbe l?effetto di estraniare il mondo del lavoro. I timori che avevano assillato in questi anni i poteri europei costituiti si avverarono nel 1848. In tutta l’Europa continentale vi furono crolli di governi e ricomparvero come in un sogno gli orrori delle guerre del Settecento. Il movimento rivoluzionario scoppiò spontaneamente per cause endogene da Copenaghen a Palermo e da Parigi a Budapest. Qualcuno attribuì questo fenomeno alle meccanizzazione delle società segrete. Molti in Europa volevano sostanzialmente le stesse cose: governo costituzionale, indipendenza e unità nazionale, fine del servaggio e dei vincoli feudali dove ancora esistevano. Esisteva quindi un corpo di idee comuni. Ma comunque anche se scosse l’intero continente questa rivoluzione non ebbe sufficiente forza propulsiva, e fallì rapidamente come aveva trionfato. Dopo il 1848 anche si ha una svolta. Alla depressione, alle incertezze, alle carestie degli anni quaranta succede un periodo di più intenso sviluppo, di grandi operazioni finanziarie, di ripresa degli investimenti e dell’occupazione, di rapida crescita del commercio internazionale. La prima esposizione universale dei prodotti industriali che si svolse a Londra dal maggio all’ottobre del 1851 fu uno di quegli avvenimenti che si prestavano ad essere celebrati come una dimostrazione dei prodigiosi successi della tecnologia industriale e delle prospettive di pace e di benessere. I progressi industriali ed economici, anche se non influirono immediatamente e in tutti i paesi, sulle condizioni di vita di operai e contadini, qualche miglioramento cominciarono a produrlo, e alimentarono comunque speranze e aspettative che, in generale, favorirono in Europa il ritorno all’ordine e ad una certa tranquillità sociale. Il nuovo problema, o il problema che i governi si dovevano porre in modo nuovo, era quello dell’opinione pubblica. I governi dovevano tener conto del fatto che alcuni dei principi della rivoluzione francese avevano, sia pure quasi insensibilmente, conquistato l’opinione pubblica e trovavano ora una diffusione di massa. La concessione della riforma elettorale del 1867, che estendeva il diritto di voto agli operai e agli artigiani delle città, è un esempio di preveggenza politica. Segni più eloquenti dei tempi che mutavano, furono l’abolizione della servitù della gleba e l’avvio della riforma agraria nella Russia zarista ad opera di Alessandro II.
Tuttavia le promesse di pace universale, che i più entusiasti sostenitori del nuovo ordine economico andavano sostenendo, non si realizzarono pienamente. Ci fu un progressivo affermarsi del principio dello Stato- nazione. Prima del 1860 gli Stati – nazione più importanti erano due: Inghilterra e Francia. La Spagna, unita sulla carta, era internamente tanto eterogenea da appartenere ad una categoria diversa. Portogallo, Svizzera, Olanda e paesi scandinavi erano Stati – nazioni, ma piccoli e periferici. Le organizzazioni politiche tipiche erano piccoli Stati comprendenti frammenti di nazioni disseminati attraverso l’Europa oppure grandi imperi composti di una molteplicità di popolazioni, e retti dall’alto da dinastie e burocrazie centrali, come i domini dei Romanov, degli Asburgo e dell’Impero ottomano. Dal 1860 o 1870 è prevalso un sistema di Stati nazionali. L’aggregazione unitaria di grandi nazioni divenne un modello per popoli, grandi e piccoli. Col tempo, nel secolo seguente, altri grandi popoli istituirono Stati nazionali in India, nel Pakistan, in Indonesia e in Nigeria. In misura sempre maggiore anche popoli di dimensione numerica piccola e media si considerano nazioni, aventi diritto alla propria sovranità e indipendenza il risultato fu la comparsa di Stati come la Cecoslovacchia, la Repubblica turca, Israele e la Repubblica irlandese. L’idea dello Stato - nazione ha avuto l’effetto sia di aggregare popolazioni in unità maggiore, sia di frantumarle in unità più piccole.
Nel XIX secolo, a parte la disgregazione dell’Impero ottomano, l’idea nazionale agì principalmente nel senso di creare unità maggiori al posto di unità più piccole. La carta d’Europa, dal 1871 al 1918, fu più semplice di quanto lo sia stata prima o dopo. In Italia esistevano da molto tempo una dozzina di Stati di notevole dimensioni, e alcuni altri di dimensioni minuscole. Parecchi di essi erano scomparsi con i moti italiani che avevano accompagnato le guerre della Rivoluzione francese. I governi dei diversi Stati in Italia erano in generale soddisfatti della propria indipendenza e separatezza, ma erano lontani dalle rispettive popolazioni. C’era una diffusa insofferenza per le autorità esistenti, e un crescente desiderio di uno Stato nazionale liberale che comprendesse tutta l ‘Italia e risuscitasse la grandezza dei tempi antichi e del Rinascimento. Questo sentimento il sogno di un “Risorgimento” italiano si era fortemente intensificato al tempo della rivoluzione francese e di Napoleone, ed era stato trasformato in un imperativo morale dagli scritti di Mazzini. Giuseppe Mazzini , che aveva dato alla causa dell’unità italiana un carattere quasi sacro, aveva visto le sue speranze di un’ Italia una e repubblicana fiorire per un breve momento e poi soccombere nella generale disfatta del 1848. Nelle tempeste del 1848 il papato era stato impaurito dal repubblicanesimo romantico e radicale di Mazzini, di Garibaldi e di altri agitatori, e non si poteva più contare sul suo appoggio per la causa nazionale italiana. Di queste lezioni fece tesoro i primo ministro del Piemonte, che dal 1848 era una monarchia costituzionale e dove adesso regnava Vittorio Emanuele II. Questo primo ministro dal 1852, era Camillo Benso conte di Cavour, uno degli strateghi politici più abili del tempo, e di qualsiasi epoca. Cavour era un liberale di tipo occidentale. Voleva fare del Piemonte un modello di progresso, efficienza e buon governo per gli altri italiani. Lavorò intensamente per radicare in Piemonte il costume costituzionale e parlamentare. Promosse la costruzione di ferrovie e impianti portuali, il miglioramento dell’agricoltura e l’emancipazione del commercio.
Fece una politica vigorosamente anticlericale, riducendo il numero delle festività religiose, limitando il diritto di proprietà immobiliare degli enti ecclesiastici, abolendo i tribunali ecclesiastici; tutto senza trattative con la Santa sede. Monarchico liberale e costituzionale, non aveva simpatia per le idee rivoluzionarie e repubblicane di Mazzini. Non riteneva che l’Italia potesse giungere a unità con i metodi delle cospirazioni e delle società segrete, con gli scritti esortativi introdotti di contrabbando dagli esuli politici, o con la proclamazione di idealistiche repubbliche radicali, come quelle del 1848, che avevano allarmato le persone più influenti del paese. Cavour adottò una “politica della realtà”. Era contrario ai repubblicani, ma non rifuggiva dal collaborare di nascosto con loro. Non idealizzava la guerra ma era disposto a farla per unificare l’Italia sotto casa Savoia. Nel 1860 l’Italia era cosi disposta: un Regno di Alta Italia, gli Stati pontifici nel mezzo, e il Regno delle Due Sicilie nel sud. Quest’ultimo minato da agitazioni rivoluzionarie. Un repubblicano ligure, Giuseppe Garibaldi, fece precipitare la situazione. Esso era “un eroe dei due mondi”, aveva combattuto per l?indipendenza dell’Uruguay, era vissuto negli Stati Uniti. Egli organizzò una schiera di circa 1150 seguaci per una spedizione armata nel sud. Cavour non poteva appoggiare apertamente questa impresa “corsara” contro uno stato vicino, ma favorì i preparativi per la partenza di Garibaldi. Questi sbarcò in Sicilia, e presto passò sul continente; i rivoluzionari si unirono a lui, e il governo delle Due Sicilie, arretrato e corrotto, e largamente malvisto dalla popolazione, crollò davanti a questa pittoresca invasione. Da Napoli, si accinse ad avanzare su Roma. Qui, si sarebbe scontrato non solo con il pontefice ma con l?esercito francese, e lo scandalo internazionale avrebbe avuto ripercussioni in tutto il mondo. Cavour decise che bisognava evitare questo passo estremo, ma utilizzare al tempo stesso i successi di Garibaldi. Nel settembre attraversa lo stato pontificio e penetrò nel Regno di Napoli, contribuendo a sconfiggere sul Volturno l’ultima resistenza borbonica, ma togliendo anche l?iniziativa ai democratici costretti ad accettare l?immediato plebiscito di annessione e a rinunziare alla marcia su Roma. Garibaldi era pronto ad accettare la monarchia come la soluzione migliore del problema dell’unificazione italiana.
Il capo delle Camicie rosse, già nemico dei re, acconsentì a percorrere le vie di Napoli in una carrozza scoperta a fianco di Vittorio Emanuele II, fra le acclamazioni della folla. I plebisciti svoltasi nelle Due Sicilie dimostrano una volontà quasi unanime di unirsi al Piemonte. Il plebiscito si tenne anche negli Stati pontifici, a eccezione di Roma e della regione circostante, e diede lo stesso risultato. Un parlamento che rappresentava tutta l?Italia tranne Roma e il Veneto si riunì nel 1861, e proclamò formalmente il Regno d?Italia, con Vittorio Emanuele II re. I democratici premevano per la conquista di Roma e lo stesso Cavour non poteva sottrarsi alla aspettativa generale e all’obbligo morale che la città fosse proclamata solennemente capitale d’Italia. Ma era prevedibile il rifiuto della chiesa, e cosi fu da parte di Pio IX. In questo contesto si inserisce il tentativo garibaldino di marciare su Roma partendo dalla Sicilia con un gruppo di volontari, nella speranza di ripetere la fortunata impresa del 1860. Il governo dovette però intervenire per evitare uno scontro con la Francia, che alla fine ritirò le sue truppe da Roma e l’Italia trasferiva la sua capitale da Torino a Firenze e si impegnava a non attaccare lo stato pontificio. Ma l’Italia non rinunziava formalmente a Roma. La guerra tra Austria e Prussia nel 1866 offriva l?occasione di ottenere il Veneto. Ci furono ripercussioni all’interno del governo italiano, che lo indebolirono. Ancora un volta, Garibaldi ebbe una certa libertà d’azione per tentare la conquista di Roma. Napoleone III inviò nuovamente un corpo di spedizione armato. Dopo questi episodi i rapporti tra Italia e Francia divennero pessimi e Napoleone III si trovò isolato contro l’attacco della Prussia di Bismarck nel 1870. Il governo italiano approfittò allora della situazione per occupare finalmente Roma, il 20 settembre 1870. Di fronte alla confermata intransigenza ed ostilità del papato, che negava ogni riconoscimento al regno d’Italia e denunziava la presa di Roma come una violenta usurpazione, lo stato italiano regolò i rapporti con la Santa Sede con un atto unilaterale, la legge delle guarentigie. Ispirata ai principi enunciati da Cavour, la legge rinunziava ai vecchi diritti giurisdizionali, dichiarava sacra e inviolabile la persona del pontificie, ne tutelava la libertà e la indipendenza, garantiva l?immunità diplomatica, concedeva una dotazione annua e il godimento, con privilegio della extraterritorialità, dei palazzi del Vaticano, del Laterano e della villa di Castelgandolfo. Le differenze regionali fra Italia settentrionale e meridionale non scomparvero con l?unificazione; e non scomparve neanche l?illegalità in Sicilia e nel Napoletano con la cacciata dei Borbone. La nuova Italia era parlamentare ma non democratica. Il periodo che appariva tanto obbrobrioso ai patrioti, i lunghi secoli seguiti all’età rinascimentale, era ormai terminato con le glorie di un Risorgimento vittorioso. Tra il 1860 e il 1876 l’Italia fu governata dagli uomini della destra moderata, eredi di Cavour, che affrontarono con decisione i primi problemi posti dalla rapida unificazione. Fu represso il brigantaggio meridionale, che testimoniava in maniera drammatica le difficoltà della integrazione nazionale. Si diede grande impulso alla costruzione delle ferrovie, si adottò una politica economica liberista che rispondeva agli interessi agrari delle classi dirigenti italiane.
Fu unificato il sistema fiscale, giudiziario e amministrativo estendendo sostanzialmente a tutto il paese le istituzioni piemontesi. Era la soluzione più semplice e più rapida e in certo modo obbligata per la precarietà della situazione e per il fatto che soltanto il Piemonte aveva goduto fino ad allora delle garanzie costituzionali. Pesante fu, soprattutto, la pressione fiscale che gravava fortemente su alcuni consumi essenziali. Simbolo della nuova fiscalità divenne la odiata tassa sul macinato che colpiva i cereali all’atto della macinazione nei mulini. Gli uomini di governo della destra poco o nulla concedevano alla ricerca della popolarità. Operavano con senso quasi religioso del dovere da compiere o con spirito giacobino per salvare la fragile unità nazionale, minacciata da destra e da sinistra. Non si può negare l?efficacia della loro opera di governo, anche se le libertà politiche, mai soppresse, furono talora limitate e malcontento e malessere si diffondevano nel paese. Nel 1876 la sinistra guidata da Depretis sostituì la destra nel governo con quella operazione che prese il nome di “rivoluzione parlamentare”.
Veri e propri partiti nel senso moderno si organizzarono soltanto a partire dagli anni Novanta, sull’esempio del partito socialista, fondato nel 1892, che a sua volta guardava sull’esempio della socialdemocrazia tedesca. La riforma elettorale del 1882, che portò gli elettori ad oltre due milioni e affiancò al requisito del censo quello dell’alfabetismo, allargò il consenso delle istituzioni. Si era ancora lontani dal suffragio universale, ma conviene ricordare che la percentuale di elettori nell’Inghilterra di quegli anni era poco più alta di quella italiana. Nel panorama dei sistemi politici europei l?Italia seguiva una evoluzione che la avvicina soprattutto alla Francia e all’Inghilterra, senza però dimenticare il modello autoritario tedesco. Situazioni simili a quella italiana successero anche negli altri stati europei, uno fra tutti la Germania, dove Bismarck si impegnò fortemente per l?unificazione tedesca. Nel complesso l?epilogo bellicoso e cruento degli anni Sessanta non aveva incrinato la fiducia nell’inizio di un?età positiva e nelle sorti progressive dell’umanità che aveva cominciato a diffondersi e a prevalere, ancora prima degli anni Cinquanta, ed era destinata ad improntare di sé la cultura più diffusa e autorevole, almeno fino ai primi anni del Novecento. Nel ventennio tra il 1850 e il 1870 già erano maturate, nella cultura e nella maggioranza dell’opinione pubblica europea, idee, concezioni, visioni del mondo che, pur nella varietà degli accenti, delle ispirazioni e della aspettative, prendendo coscienza delle trasformazioni in corso, condividevano un sostanziale ottimismo giustificato dal nuovo prestigio della “scienza”. Il prestigio della “scienza” era notevolmente aumentato per le ricerche e i risultati conseguiti nel campo della fisica, della chimica e della biologia. Di particolare importanza fu la elaborazione del concetto di energia. Sul piano ideologico, e in una concezione generale del mondo, ancora più incidenti furono le teorie della evoluzione, della selezione naturale e artificiale, enunciate nelle opere di Charles Darwin. Tutto ciò appariva in aperta contraddizione con la verità letterale della Bibbia. Ne nasceva un?aspra polemica e una netta contrapposizione su due fronti: scienza, cultura moderna, liberalismo, radicalismo su un fronte che considerava con sufficienza le istanze religiose e tradizionaliste; dall’altra c?era la posizione di rifiuto e di difesa in cui si chiude la Chiesa cattolica, condannando il mondo moderno. Sul piano politico c?era la riaffermazione del potere temporale del Papa e la piena condanna del liberalismo, del principio della sovranità popolare, della separazione della Chiesa dallo Stato. Sul piano della letteratura e dell’arte conviene guardarsi dal caratterizzare questa età in modo semplicistico e univoco. In un primo momento sembrarono prevalere le tendenze realistiche, più direttamente influenzate dall’osservazione “scientifica”, non bisogna dimenticare che già affiorava l?impressionismo, lo psicologismo, e resisteva l?eredità del romanticismo. È un epoca ad orientamento scientifico, materialistico, positivistico, ma è anche un epoca romantica, idealistica, ansiosa di servire lo spirito dell’uomo e di salvaguardare il suo patrimonio culturale. Ci fu un lungo periodo di pace tra le maggiori potenze europee dopo il 1871, e le poche minacce di guerra e guerre che ci furono , vennero prontamente bloccate o interessarono solo marginalmente l?Europa. Gli stati europei che furono coinvolti in vere e proprie guerre e in rilevanti operazioni belliche, si trovarono a combatterle fuori dai confini dell’Europa. La guerra tornò nel Mediterraneo e in Europa solo nel Novecento. Stabilità politica, nel senso in cui se ne parla, non vuol dire assenza di tensioni anche acute, di contrasti di classe, di accesa lotta politica; vuole soltanto dire che le tensioni, i contrasti, le lotte si svolsero nell’ambito di un quadro istituzionale che si dimostrava capace ci contenerle, magari modificandosi, senza subire, però, radicali stravolgimenti. L’economia mondiale intorno al 1870 si può dire che era dominata dal primo paese che aveva conosciuto lo sviluppo capitalistico e la rivoluzione industriale: la Gran Bretagna. La posizione economica e l’organizzazione dell’impero, di cui l’India era la parte più preziosa, avevano costituito il così detto imperialismo del libero commercio: una posizione e un monopolio assicurati dalla stessa primogenitura industriale, che veniva esaltata dai liberisti come effetto dell’azione spontanea delle forze produttive e di una armonica divisione del lavoro sul piano nazionale ed internazionale. Dopo questi anni però sembrò delinearsi una crisi del sistema economico internazionale, forse dovuta alla sovrapproduzione e alla speculazione favorita dagli altissimi tassi di sviluppo della produzione e degli scambi negli anni precedenti. La crisi del 1873 non era la prima che toccasse il sistema industriale, già nel 1866 ci fu una crisi finanziaria ma che rientrò subito. L?attenzione che richiamò questa crisi era perché gli effetti non si videro solo nel ramo finanziario ma anche sulla produzione industriale, e da qui inizia un lungo periodo di difficoltà economiche al quale, prima che il titolo gli fosse contestato e strappato dalla crisi apertasi nel 1929, fu dato il nome di grande depressione. Questa depressione fu veramente tale soltanto per l’Inghilterra, che vide scosso e abbattuto il suo primato mondiale. Gli Stati Uniti e la Germania avanzarono impetuosamente, ed anche la Francia si sforzò di adeguarsi al generale ritmo del mercato. Processi di integrazione nazionale avevano luogo, comunque, in tutti i paesi dell’Europa occidentale con la diffusione delle ferrovie e l?istruzione elementare obbligatoria. La parossistica corsa da parte delle grandi potenze alla conquista delle colonie e alla fondazione di imperi, la competizione economica e politica e la conflittualità che si estendono ad ogni parte del mondo sono state definite come l’età dell’ imperialismo. È una definizione che può essere accettata come la più efficace ad esprimere sinteticamente la forza espansiva della nuova economia industriale e la sua dimensione mondiale. Dopo il 1896 ci fu la ripresa economica preparata dai mutamenti strutturali in campo industriale. Le ripercussioni sugli scambi internazionali sono immediatamente visibili con una espansione senza precedenti. Ma il clima di pace che aveva favorito e ancora consentiva il funzionamento del sistema monetario e lo scambio di merci, il flusso di uomini e di capitali, comincia ad essere scosso. I motivi di conflitto, che non erano mancati neppure negli anni precedenti, si fanno più insistenti. La volontà e la fiducia di poter risolvere pacificamente i contrasti, soprattutto tra i contrapposti blocchi in Europa, vengono declinando. Profondi sentimenti di insoddisfazione e di inquietudine animano i circoli intellettuali, fin poi allo scoppio della guerra nel 1914 . Il vero fatto nuovo che si verifica allo scorcio del Settecento non è l'incremento dei soggetti classici, ma l'apparizione di un nuovo soggetto particolare: la storia come concetto astratto. L'affresco dell'Allegoria della Storia, terminato dal Mengs nella Sala dei Papiri in Vaticano nel 1772, costituisce in proposito un esempio decisivo soprattutto per l'ubicazione: personifica e glorifica infatti una divinità, sconosciuta al vecchio Olimpo e tale da corrodere, col suo ineliminabile e perpetuo richiamo alla relatività e al divenire, qualsiasi altra divinità di qualsiasi Olimpo conosciuto. Questa sola osservazione basta a far cadere tutti gli schemi correnti sul neoclassicismo o ne impone quanto meno l'integrazione in una ben diversa prospettiva. Si tratta di una prospettiva realista o di una prospettiva idealista? Se per realismo intendiamo un movimento di rispondenza alle posizioni culturali più vere, cioè a quelle che permettono la massima apertura d'orizzonte consentita epoca per epoca, è probabile che la “Storia” del Mengs si inserisca energicamente in una prospettiva realistica a dispetto di tutto il suo apparente mitologismo e classicismo. Ricordiamo il quadro degli Orazi di David, esposto a Roma, e il quadro di John Singleton Copley Il parlamento rifiuta di consegnare a Carlo I i deputati sotto accusa esposto a Londra, entrambi nel 1785. Quest'ultimo era sicuramente un bel gesto d'indipendenza e un bel monito alla corona britannica, molto più diretto e circoscritto del bellicoso ma vago appello eroico degli Orazi. La verità è che non il tema classicista accomuna i due quadri, segnando quindi la svolta, ma l'intento dichiarato da un lato di far fruttare gli insegnamenti della storia e dell'altro di rispettare l'oggettività storica nello studio dei costumi, dell'ambiente architettonico. É proprio in virtù dello storicismo che si spiega il passaggio di un artista come Copley a forme di verismo narrativo impensabili stando agli schemi correnti dell'età neoclassica. Quel tipo di storicismo spiega in modo soddisfacente le più belle e grandiose impennate veriste e drammatiche dello stesso David. Il Mengs definiva nel 1772 sotto forma di personificazione allegorica una teoria che già cominciava ad avere qualche applicazione e le due applicazioni più importanti si realizzarono contemporaneamente tredici anni dopo nei due citati quadri di oratoria civile di David e Copley. La cesura, anzi la svolta storica, può dunque tranquillamente cadere sul 1785: resta inteso che la qualità della svolta implica che un atteggiamento verista consapevole è già nato. Proprio per il suo modo di nascita non si trattava di un verismo attivo e frammentario come ne erano già esistiti, ma di un verismo ai fini etici e politici, inscindibile dalla coscienza di un certo orizzonte storico e da una certa concezione generale del reale. Quando il crollo delle ambizioni napoleoniche portò con sé nella tomba, dopo il 1815, l'oratoria civile sotto qualsiasi forma ma specialmente sotto forma di riferimenti classico romani, la pittura migliore scartando la mediocrità ufficiale fu verista al livello sublime e del piccolo mondo quotidiano: si pensi al vero come tragicità, violenza e forza fisica in Gericault, oppure al vero come intimità e raccoglimento dei paesisti di Barbizon a Corot e a un certo Delacroix. Paradossalmente in Italia, dove aveva trovato personificazione simbolica la teoria della Storia, non trovò corpo una vera applicazione della teoria. Pittori delicati e sapienti come Domenico Corvi non si allontanano molto, nello scorcio del Settecento , dalle formule tardo barocche, e il Camuccini non solo nella tematica ma anche nella forma non va oltre la prima fase oratoria, con un vero che non sia quello neoraffaellesco. É poi tipico il rifugiarsi nello studio e nella contemplazione dell'arte del passato. Lo stile di Felice Giani o di un Pianelli costituiscono l'espressione più forte e ricca della tendenza a vedere la classicità sotto forma di mito popolare, staccato da ogni immediato impegno civile. Solo l'Appiani, tra i neoclassici italiani, raggiunse in qualche modo una nuova e vera potenza di verità pittorica, probabilmente nei Fasti di Palazzo Reale a Milano, certamente in alcuni ritratti, tra i più belli dell'epoca. Ma il capolavoro, la pala con l' Incontro di Giacobbe e Rachele, rappresenta in modo eccellente la capacità di Appiani di sfuggire a ogni schema: compostezza neoclassica e luminismo si fondono mirabilmente creando una visione di straordinaria trasparenza pittorica, che è un omaggio al mondo tipicamente lombardo di echi culturali di affetti, di suggestioni profondamente sentite e autentiche perciò espressione di quel realismo effettuale, non ideologico, che è sempre di ogni opera d'arte degna del nome. Dopo il 1815 il processo si accentua, e nel periodo che chiamiamo ormai romantico il filone non è dato dalle grandi composizioni storiche o religiose di un Hayez o di un Podesti, ma dalla ritrattistica, dalla veduta e dalla pittura di genere. É spiacevole constatare che occorressero i vincoli o le libertà canonicamente concesse dai generi pittorici per dar modo agli artisti di applicare quel principio di verità che era pur sempre il retaggio vivo dell'età precedente. Ciò significa che quel principio veniva accettato solo frammentariamente e a compartimenti stagni. Angelo Inganni, fecondissimo e uniforme nell'esecuzione vivace e armoniosa, fu l'esponente di una larga schiera di vedutisti e di veristi dell'età romantica penetrando con la sua produzione molto addentro nell'Ottocento (morì nel 1880), anche quando numerose violente rivoluzioni avevano già scosso quanto meno il mondo della pittura: si vede la Piazza Loggia sotto la neve dipinta nel 1879. Le sue vedute e i personaggi popolari che le affollano sono descritti con bonaria arguzia e semplicità. Bisogna supporre che la spinta al risveglio della coscienza verista, che certamente veniva da Parigi da un lato e da Firenze e Roma dall'altro, influenzasse largamente il corso della pittura italiana già intorno al 1848- 1849. Una rapida scossa di come i pittori che si sogliono chiamare romantici rispondessero all'istanza di verità (e di storicismo) non potrebbe aver termini senza almeno un cenno all'opera del Carnovali. Nei temi si richiami al vero in senso stretto perché, a parte i dipinti a soggetto sacro o mitologico, i paesaggi e i ritratti stessi sono sempre trasformati da un aperto continuo riecheggiamento di forme della grande tradizione della pittura: del Coreggio, di Tiziano e tanti altri. Questo atteggiamento di continuo rifarsi alla pittura in quanto secolare, nobilissima tradizione di linguaggio, escludendo ogni verismo o realismo programmatico e puramente ottico, permetteva di realizzare un realismo spontaneo e più segreto, per cui era bandito il bello ideale, ma era ammesso il bello della pittura e tutto ciò che poteva manifestare l'essenza. Questo particolare tipo di realismo del Carnovali, non era teorizzabile e può essere compreso come manifestazione di rispondenza alle posizioni culturali più elevate in un determinato momento storico. Anche il verismo in quanto ricerca di un oggettività storica aveva finito con il rimanere limitato quasi soltanto ai temi, senza incidere se non minimamente sul modo di realizzare le forme. Goya già da parecchio tempo aveva proclamato che i contorni non esistono in natura e che l'occhio umano non li ha mai visti. Altri pittori in Europa avevano compreso e affrontato il problema: per esempio Corot. Ma questo intorno al 1848, avveniva in privato, quasi in “camera caritatis”, perché pubblicamente correva l'obbligo di inviare alle esposizioni non il dipinto eseguito dal vero, ma quello eseguito in atelier secondo i canoni della composizione accademica. Pena l'accusa di mancare d'invenzione e di non conoscere la Storia. Il passo avanti da fare era in direzione di una seria estensione alle forme, anzi di un approfondimento, del principio di verità: il giudizio sul mondo non poteva essere affidato allo storico e al letterato, e solo in via subordinata al soggetto che vede. Doveva essere affidato in primo luogo al soggetto che vede e la pittura doveva essere un modo di esprimere questo giudizio attenendosi a ciò che l'occhio vede e a come lo vede: niente contorni ma chiaroscuro e colore secondo i loro rapporti; niente soggetti di storia passata, inverificabili se non per tramite del letterato o dello studioso, ma soggetti reali a portata di ognuno e tuttalpiù di storia presente, anzi di cronaca. Se si deve cercare una data alla presa di coscienza del “passo da fare” sopra indicato, credo che vada cercata, in Francia, negli anni precedenti la rivoluzione del 1848 e, si accentra nel nome di Courbet. Per lui il verismo come metodologico consapevole emerge nel 1846, ma non è un fatto isolato, come lascia volentieri vedere la critica tradizionale: Corot e i paesisti di Barbizon si muovono nella stessa direzione, e vi è anche una letteratura che segue direttrici analoghe. Anche fuori dalla Francia avviene qualcosa del genere, e precisamente nel meridione italiano, anche se in sordina, in forme miniaturizzate e svolgendo un tenue, esitante filo. Se Giuseppe Palizzi si recò a Parigi tra il 1844 e il 1845 per un qualche motivo pittorico, fu certo perché riteneva nuova e importante la sua maniera di dipingere dal vero per colori e toni, e perché riteneva di dover verificare sul posto i primi risultati di quanto si andava teorizzando. Gli svolgimenti successivi dell'arte di Giuseppe Palizzi sono coerenti con questa partenza, confermano l'attenzione per Courbet oltre che per i paesisti del Barbizon. Il fratello Filippo dovette, invece, ragionare in modo differente: analitico, preciso, instancabile, utilizzò le esperienze di Giuseppe, ma si diede a esercitare la sua osservazione del vero e la corrispondente resa pittorica passando da singole figure ai particolari, dai particolari ai singoli oggetti, dai singoli oggetti o dai particolari di nuovo all'insieme. Maturò così già nel 1854 uno stile suo, del tutto nuovo in Italia, che mantenne sempre. Domenico Morelli avvertì bene la natura tecnica della rivoluzione palizziana nelle sue memorie. In quelle memorie è racchiusa anche una dichiarazione preziosa per comprendere a quali compromessi poteva andare incontro il nascente verismo: dopo aver dichiarato la sua ammirazione per Filippo Palizzi, il Morelli affermava però che si trovavano agli antipodi nel campo artistico; rappresentava figure o cose, non viste ma immaginate e vere ad un tempo. Così dicendo, reintroduceva, sotto l'istanza verista, l'invenzione e la pittura di storia, accettando quell' istanza solo per metà: si alla verità del tono e dei colori, no all'abolizione della pittura di storia o d'invenzione. Il mezzo verismo di Morelli era di fatto un realismo, l'unico consentito nella situazione italiana, in cui il pensiero politico di un quadro come lo Spaccapietre di Courbet sarebbe stato forse comprensibile, ma non pertinente. Il particolare realismo di Domenico Morelli non era neanche questa volta teorizzabile oppure generalizzabile senza danno. Sono innumerevoli i quadri che la riduzione del verismo a fatto unicamente tecnico, produsse nel centro e nord Italia. Lo stile palizziano era nuovo in quanto affermazione coerente ed integrale, ma lo studio del vero adottando toni e colori da “plein-air”, svincolati dalle regole accademiche delle mezze tinte, delle luci e delle ombre, aveva qualche precedente nell'ambiente romano. Ricordiamo il trasteverino Nino Costa, figura singolare di patriota e di pittore, i cui studi sistematici e non occasionali dal vero avevano avuto inizio almeno dal 1850. Peregrinando per il meridione d'Italia e per la campagna romana, ebbe occasione di eseguire parecchi studi interessanti dal vero e di osservare, discutere e apprendere dagli stranieri di passaggio quanto la spinta verista fosse forte anche fuori dall'Italia. Non era sicuramente però, uno stile così radicale come quello del Palizzi.
Il “sentimento del pensiero” attraverso il quale Costa asseriva di voler filtrare il vero, si traduceva in alterazioni cromatiche e dei contrasti chiaroscurali e in certi schemi compositivi che davano un carattere molto personale alla sua pittura, costituiscono il germe del neorinascimentalismo, quasi florealismo, che mise in atto chiaramente dopo il '70. A Firenze il verismo non ebbe manifestazioni serie fino al 1855, anno in cui l'eco dell'Esposizione universale di Parigi arriva tra i tavoli del Caffé Michelangelo, ad essi si aggiunsero poi le parole del Morelli. Ma dal 1860 il movimento era ormai dichiaratamente un movimento unitario a carattere nazionale, inseparabile dal movimento unitario politico. Dipingere dal vero era insieme una tecnica e una filosofia e come tale fu intesa da artisti napoletani, pugliesi, emiliani, veneti e insomma provenienti da ogni regione d'Italia e concentrati o di passaggio a Firenze per il clima di relativa libertà instaurata dal governo granducale prima del '60 e il grande evento di elezione a capitale del nuovo Stato Nazionale fino al '70. Si spiega così come tanti artisti non toscani della seconda metà dell'Ottocento abbiano un periodo macchiaiolo, ma anche chi non passò mai in Toscana o vi andò solo di sfuggita attraversò questo periodo. É inspiegabile che l'esigenza dello studio dal vero all'aria aperta escludesse o limitasse di molto, almeno in una prima fase, i temi che non fossero paesisti. Dovendo realizzare quadri di figure si preferì attenersi agli interni domestici, per i quali più facile era trovare modelli disposti a posare docilmente. Furono affrontati anche temi d'interesse tipicamente sociale, come nel caso della Sala delle agitate a San Bonifacio di Telemaco Signorini del 1865. Nel quadro è presente una certa drammaticità nei contrasti di luce e nella crudezza delle fisionomie, ma la scena si presenta con un certo distacco, come in una fotografia scattata con comodità durante una prova di recitazione, e non è facile allontanare il sospetto che il pittore si sia in certa misura compiaciuto nel risolvere con estrema bravura tutte le difficoltà prospettiche e luministiche. Il rispetto della verità ottica poteva portare a limitare alla mera tecnica il principio stesso del verismo e che poteva portare ad un generismo di nuovo tipo, non più romantico ma verista; si rischiava di trasformarlo in una nuova accademia. Anche Morelli ebbe questo interesse ma lui non verifica sul posto le sue visioni sbozzate alla brava come gli altri. Se la drammatizzazione fu una delle direttrici dello sviluppo del principio verista, l'altra fu la critica sociale. Dirette manifestazioni si ebbero tra il '61 e il '69 ad opera del Cammarano: Ozio e lavoro (1863) è un quadro molto esplicito da questo punto di vista, anche se pittoricamente si presenta come un paesaggio campestre dipinto a macchia. Dopo di che i dipinti a soggetto sociale si moltiplicarono dando luogo a quella particolare forma di verismo che prese il nome di verismo sociale. Questa linea di sviluppo fu ben rappresentata dal Fattori, con numerosi dipinti. I nostri artisti dopo aver partecipato attivamente al moto risorgimentale non avevano che da raccogliere i fili delle loro esperienze, intendere il significato degli avvenimenti di cui erano attori, scoprirne il senso più vivo e profondo di cui illuminare la propria attività artistica oltre che umana. Ma, proprio nel periodo delle cospirazioni, o sui campi di battaglia, gli artisti vennero a trovarsi in stretto contatto con quella classe borghese, che ebbe il merito pure altissimo di aver voluto e raggiunto l'unificazione d'Italia. L'arte, una volta venuta nella determinazione di rispondere per suo conto a un impegno sociale, invece di schierarsi virilmente e costruttivamente nella lotta, veniva a sfociare in un pessimismo piagnucoloso e catastrofico e andò incontro alla miseria, non indicando e mettendo in luce i valori dell'uomo, non esaltando piuttosto il lavoro e nobilitando la natura umana con lo scoprire e indicare negli individui le qualità più alte, ma avvilendo quegli individui, degradandoli, presentandoli nei loro momenti di miseria e di abiezione. Anche l'arte, vestita di umanitarismo e di preoccupazione sociali, si rivolgeva alla vita della povera gente. Ma più che questo genere di soggetti, il verismo del secondo Ottocento preferì si diceva, i toni lamentevoli e tragici: il drammatico, nei suoi aspetti anche teatrali e coreografici, prese ad imperversare sulle tele. Fu il tempo dei vagabondi, dei derelitti, delle “scellerate”, degli sventurati d'ogni genere, presenti nei quadri a narrare in angosciosi atteggiamenti il loro dramma pietoso. Su questa strada Teofilo Patini col suo Erede doveva toccare il vertice singolare di veristica drammaticità, nella desolazione di una nascita e di una morte, avvenute sotto lo stesso segno dello squallore e della miseria. Tutti i temi dei suoi quadri li attinse a quegli episodi di miseria, che nelle strade e nei tuguri desolati si ripeteva ogni giorno. In Bestie da soma sempre il Patini si commuoveva alla contemplazione del momentaneo riposo di tre raccoglitrici di legna, sfinite dalla fatica di dover portare sulle spalle, come bestie, pesanti fascine. Il gusto delle arti figurative risultò ad un certo momento orientato verso un simile atteggiamento umanitario sociale, al di fuori di ogni distinzione di scuole o di regioni. In moltissimi titoli di opere, anche di artisti importanti, sono chiari quei legami di cui si diceva con la mentalità e il gusto del tempo, mentre in quelle di altri artisti che non raggiunsero un livello di dignità e di decenza indispensabile all'opera d'arte quei titoli diventano talvolta addirittura assurdi e incredibili. Il senso della mediocrità e cattivo gusto è raggiunto anche nei titoli, basterà citarne solo alcuni: La scellerata (Lega), La figlia di nessuno (Signorini), Il viatico dell'orfana (Toma), Lo studente bocciato (Cammarano) e tanti altri. Patini continua a produrre quelle sue opere che come sottolineavano le cronache del tempo della sua morte “non si possono guardare senza sentirsi stringere il cuore”; è suo quel Pulsazioni e palpiti che tanta buona gente ha intenerito e mossa alle lacrime. Tra i pittori chi prima di ogni altro approfittò di tutte le possibilità implicite nel nuovo linguaggio fu il napoletano Michele Cammarano il quale già nei primi anni dopo l'unità supera i limiti della ricerca formale, che in fondo era alla base dell'estetica macchiaiola. Il rifarsi, come alcuni pittori toscani volevano, teorizzando la “macchia”, ai quattrocentisti minori, significava, del resto, favorire una sfuggita al problema dell'arte moderna che era ed è quello di dare consistenza e contemporaneità alle esperienze umane, politiche e morali del proprio tempo. Se i macchiaioli avessero in tal senso concepito la loro pittura essi si sarebbero inseriti nel grande filone dell'arte democratica francese ed avrebbero percorso le tappe che da Courbet portano agli impressionisti . Invece l'orizzonte dei macchiaioli è molto più ristretto e provinciale e il loro linguaggio sovente si compiace della rustica sommarietà dell'espressione plebea, del toscanismo popolare. In Cammarano, insomma, si rivela fin dai suoi primi anni di attività artistica il bisogno di “far grande”, di calarsi generosamente nella tematica più scottante e attuale possibile e di obbiettivarla al modo di un Nievo meridionale o, se si vuole, di un Verga anticipato. Egli, come i suoi compagni d'arte napoletani, viene attratto dal quadro storico nella sua essenza umana in cui l'episodicità e la casualità di dati e personaggi, non annullano i valori passionali primitivi. Ben altra è la concezione del quadro storico in un Toma o in un Morelli. In Toma, ad esempio, non sono le idee di fondo a determinare la scelta di un dato tema, di un determinato soggetto. Per Morelli il quadro storico era una esercitazione compositiva, in cui avevano valore preminente i dati dell'addobbo e del pretesto coloristico. Vogliamo dire che non era il pretesto storico a rendere storico un dipinto ma era il suo contenuto e la partecipazione morale dell'artista a quel contenuto a renderlo tale. Certo è che, il vigore verista che Cammarano ricercava in ogni sua opera, se gli impedì ogni volo lirico e ogni abbandono poetico, fece però di lui il solo pittore dell'Italia unita che seppe quasi dovunque evitare la retorica nonostante l'impeto delle proprie convinzioni politico - sociali. Il pittore abruzzese Teofilo Patini, che abbiamo citato poco più indietro, frequentò la scuola di Palizzi prima e di Cammarano poi, ma la sua formazione pittorica fu autodidatta e insidiata da un pungente ossequio verso gli studi letterari che egli aveva intrapreso a Napoli e in seguito interrotti per dedicarsi alla pittura. L'interruzione di tali studi in Patini, che ebbe un' adolescenza ordinata e ligia ai valori della famiglia, operò segretamente come un rimorso, si inserì nel suo spirito come un tarlo, producendo un vuoto senza rimedio. Una sorta di dovere incompiuto nel quale s'infirmarono talvolta le sue iniziative migliori. E non è da confondere in lui la letteratura con la socialità, che sempre più distintamente andò affermandosi nella sua opera fino a trionfare nella trilogia dell' Erede, Vanga e latte e Bestie da soma, di cui abbiamo già parlato. Certo in Patini la denunzia era forte, prolungata, inequivocabile. Nelle sue opere più significative s'allontana poco a poco dai modi della pittura napoletana allora dominanti, ripiega in modo impressionante sui motivi della vita tragica e squallida dei contadini della sua terra. I personaggi del Patini non sono mai ribelli, ma rassegnati, vinti, vittime della miseria, della vita e nel presentarceli il pittore tende solo a muovere la compassione. Le sue opere che furono ammiratissime al suo tempo ebbero però la sventura di dare l'avvio a una pletora di imitazioni di gusto gretto e provinciale, corrotte fino ad un verismo di mestiere e riflettenti la vita nei suoi miasmi sociali, con un fare piagnucoloso, vuoto, privo di ogni sincerità. A Firenze e in Toscana il naturalismo macchiaiolo, già negli anni del pieno Risorgimento, era stato un movimento di autentica rinnovazione. I macchiaioli in generale scelsero a soggetto dei loro quadri le case coloniche, gli animali più malinconici e gli uomini più dimenticati, pastori e contadini, barrocciai e butteri, ma in generale giustificavano quel loro indirizzo artistico, non con ragioni sociali, profonde e involontarie ma con ragioni estetiche esplicite e programmatiche. “L'arte – scriveva Cecioni deve essere una sorpresa fatta alla natura nei suoi momenti normali e anormali, nei suoi effetti più o meno strani”. Quella della “sorpresa fatta alla natura” era quindi una formula come un'altra e valeva su per giù quanto la formula del bello ideale e del vero storico, perché la natura si lascia sorprendere e gli artisti del Caffé Michelangelo volevano sorprenderla nei momenti e negli effetti che desideravano. È certo che dopo il '70 il gruppo dei macchiaioli aveva incominciato a perdere compattezza. La lotta per l'affermazione di un ideale comune si era in qualche modo conclusa, ora ogni artista cominciava una esperienza più individuale, seguiva maggiormente suggestioni di gusto e impulsi diversi. Le difficoltà, l'ostilità ufficiale della nuova Italia umbertina, la grettezza provinciale contro cui dovevano urtarsi i macchiaioli non favorirono certo l'affermarsi di una linea artistica così indipendente e coraggiosa. Così; a differenza del movimento impressionista che riuscì ad imporsi con un crescendo di successi, il frutto delle conquiste macchiaiole andava disperdendosi per finire, nell'evoluzione della pittura italiana, in un aneddotica priva di una visione più generale della realtà, in una pittura sempre più soddisfatta dei suoi limiti. In questa situazione Giovanni Fattori più di ogni altro punta i piedi e contende alla durezza delle proprie vicende il diritto di continuare ad essere se stesso fino alla fine. I limiti del verismo sociale sono, facilmente individuabili nella sua tendenza edificante e pietistica, che gli da ora quel fastidioso tono deamicisiano ora quella intonazione illustrativa e pedagogica non meno noiosa. Ciò è detto senza negare le ragioni reali che si agitavano in questo movimento. Uno studio del verismo d'intento sociale in Italia non può non concludersi se non con il vagliare le posizioni dei pittori divisionisti che delle idee socialiste fecero addirittura fermento della propria arte. Siamo al progetto di lavoro del Quarto stato, che Giuseppe Pellizza pensò col titolo di Fiumana e la fiumana appunto è questa, delle plebi che diventano proletariato in un unità con i filosofi e con gli artisti e gli intellettuali alla testa. Per Pellizza, sorto da un paese di vivaci lotte agrarie, il socialismo fu qualcosa di ben preciso, non un umanitarismo vago bensì il risultato di una coscienza di classe in formazione . Il Morelli nacque a Napoli nel 1826, da genitori poveri; e non volle seguire la carriera ecclesiastica, come la madre avrebbe desiderato; ma cominciò a procurarsi il pane nell?officina di un meccanico; essendogli divenuto insopportabile quel mestiere, e sentendosi l?anima piena di ispirazioni per le cose belle e la mente ricca di visioni pittoriche, entrò nell?Accademia di Belle Arti di Napoli, dove insegnava la pittura Don Camillo Guerra e Don Costanzo Angelini il disegno. L’ambiente artistico di quel tempo era un ambiente così detto accademico, rigido, in cui l?insegnamento si mostrava parimenti severo e freddo. Morelli aveva già la mente piena di letture di Lord Byron. Già il mondo medievale, il mondo delle festose e colorite immagini ariostesche, aveva penetrato l’anima di lui con tutto il fascino; cosicché egli si trovava a disagio in quell’ ambiente pieno di Lacoonti, di Caracolli, di Antinoi e di Discoboli, tutti i gesso, dai quali non si poteva allontanare se non dopo n lunghissimo tirocinio, per poi essere ammessi allo studio del nudo e della pittura. Una capatina a Roma valeva molte lezioni di tutte le Accademie di questo mondo per chi avesse sentito veramente il fuoco sacro dell’arte; e questo fuoco Morelli lo possedeva in tutta la sua forza divampante.
Egli anelava il momento di vedere Roma: quegli studi rigidi e metodici, fatti all’Accademia di Napoli, erano per lui come una punizione al suo genio divinatore e tutti sono concordi nel credere che Morelli doveva maledire quel periodo scolastico. Crediamo che quegli studi fermi, severi e monotoni siano stati un ottimo fondamento alla fantasia morelliana. Morelli, dovette fare studi molto utili e seri, poiché l?opera sua, anche in principio della sua carriera, è sempre equilibrata e le sue fantasie non turbarono mai le leggi fondamentali della sua estetica, e della pura estetica latina. Quelle sbadate pennellate e quelle disinvolte messe in scene dei suoi personaggi e quelle così dette macchie o bozzetti, che sembrano usciti quasi per mera combinazione del suo cervello, quanta esperienza invece racchiudono, e come sono sempre ossequenti alle pure leggi del bello e del magnifico classico stile! Morelli potette fare una capatina a Roma senza sconvolgersi le cervella, e poté dire come il Coreggio, quando vide Raffaello a Roma: “Son pittore anche io”. Tornato da Roma nell’anno 1845, fece il concorso per il pensionato e lo vinse insieme con l’Altamura. Il quadro di concorso, l’Angelo e Goffredo è un quadro di figure terzine che già raccoglie in sé tutto il movimento artistico del tempo e mostra una individualità ed un modo di sentire tutto proprio. Quel quadro fu senza esitanza approvato, e Morelli ritornò in Roma vincitore. Ma poco vi poté rimanere: dopo i fatti del 1848 egli dovette restare a Napoli. Fu nel 1849 che gli fu dato il permesso di fare una scappatine a Firenze. In questo periodo eseguì quadri di piccole dimensioni, tutti più o meno di soggetti romantici, come Il bacio del corsaro, come Vanderwelde tra i pirati, come I martiri al rogo. Se Morelli divinava un nuovo mondo pittorico, già destava le più accanite discussioni; l?ambiente di Napoli non era poi così muto e freddo come si crede. Morelli nel suo studio, nel Gran Palazzo di Tarsia, è intento a dare gli ultimi ritocchi al grande quadro: Cesare Borgia all’assedio di Capua. Nel 1855, alla grande Esposizione in Napoli, vedemmo Gli Iconoclasti, pittura diversa dal Cesare Borgia: questa più delicata, più condotta, più dorata e di una superficie gustosa, piacevole, elegante, Gli iconoclasti erano una pittura assai robusta, non dorata, ma spinta nei colori e grigia nelle tinte fondamentali e di una superficie grezza, che lasciava vedere il lavorio dei ruvidi pennelli. Allontanandosi di qualche metro dal quadro, l’effetto era sbalorditivo: un rilievo da far sembrare le figure vive, i colori che non trovavano i simili in tutta l?Esposizione. La folla era enorme presso a quella tela, e molti censuravano, e molti andavano in visibilio. Il resto dell’Esposizione era vuoto, e la gente usciva dalle sale criticando ed ammirando ad un tempo; non sapevano che diavolo fosse questa pittura, che rimescolava in loro tutte le passioni, che li sensibilizzava come corde elettriche. Primo pensiero del Morelli, dopo il successo de Gli iconoclasti, fu di vedere l?arte moderna e antica in Europa; ed insieme col signor Tipaldi12 e poi col Vonwiller viaggiò e vide l?arte della Francia, nel Belgio, in Olanda, in Germania, e di ritorno si fermò a Milano, e poi a Firenze. A Milano si legò in amicizia strettissima col Pagliano e conobbe l?Hayez, che già vecchio ebbe per il Morelli grande ammirazione. Morelli si fermò lungamente a Milano e vi dipinse in parte i quadri del Lara, del Bagno pompeiano ed altre tele; poi si arrestò a Firenze ed in questa città gli artisti si strinsero attorno a lui e volevano che restasse con loro. Ma Morelli era napoletanissimo,e già la nostalgia lo riprendeva. Egli ritornava in Napoli e compiva La mattinata fiorentina, I freschi di Venezia, La barca della vita (fig. pag. 74), e poi I profughi di Aquileia. Ritornato dal suo viaggio all?estero e nell’Italia superiore, dipinse per il Principe di Cassaro un quadro di grandi dimensioni: Un episodio dei Vespri siciliani. È superfluo dire della colorazione di questo quadro e della sapiente composizione di esso: questo è fra i capolavori del maestro. Nel 1862, ebbe luogo la prima Esposizione Italiana a Firenze; e parecchie delle opere del Morelli a cui abbiamo accennato, vi furono mandate da Napoli. Già prima dell’Esposizione di Parigi del 1867, Morelli era maestro di pittura nell’Istituto di Belle Arti, chiamatovi da Cesare Dalbono, il direttore esemplare di quell’Istituto che ne resse le sorti trionfali per diciotto anni; e già in quella grande Esposizione la scuola di Morelli e di Palazzi si pronunziò così fortemente, da destare le più vive ammirazioni fra quei grandi artisti succeduti al Delaroche ed al Delacroix, e poi Regnault e lo spagnolo Fortuny, due geni rapiti all’arte immaturamente. Fu nel 1878 che Morelli eseguì il celebre quadro le tentazioni di Sant’ Antonio. Ed in questa magistrale opera più che mai si rivelano le facoltà intuitive e divinatrici di lui. Morelli era come il vero artista deve essere, cioè egli sapeva quello che non sapeva e vedeva e ciò che non aveva mai visto. egli ricostruisce e libera la figura del santo dalle goffaggini, dalle paure e dalle stupidezze infernali, cui anche i più grandi maestri, prima di lui, l'avevano assoggettato. Egli risale alla semplicità giottesca, con l'anima ricca delle lussureggianti visioni bizantine. Morelli muore la mattina del 13 agosto 1901, l'anno stesso della fine di Giuseppe Verdi, del quale era molto amico. Dopo la sua morte, lo Stato italiano acquistò dalla famiglia per la somma di "centomila lire", i vari quadri, bozzetti, acquerelli, disegni che erano rimasti nello studio dell'artista . Ricordiamo l'ultima opera completa dell'artista, altamente suggestionante: L'angelo della morte. L'angelo stende il funebre lenzuolo, che si fa di marmo a misura che copre la bella fanciulla morta. I fiori olezzano intorno ed un sole primaverile illumina la scena. Questa tela è commovente oltre ogni dire, e la esecuzione pittorica, pur essendo tutta morelliana, ricorda la fine tecnica dei quattrocentisti. Risplende in esso la formula mistica della modernità, che nell'opera di un latino, riprende la purità estetica, liberandosi dalle caricatura e dalle scapigliature nordiche . Prima della rivoluzione del Quarantotto, l?ambiente accademico napoletano risultava opprimente. Brevi sortite a Roma e a Firenze, per Morelli una ventata di ossigeno lontano da quel mondo arroccato che perpetuava aridamente l?esercizio di copia della statua e il disegno a contorno, “…il chiaroscuro, il colore erano cosa secondaria: nulla quasi mai di vero”. Quando si reca a Roma per la prima volta nel 1845, dopo aver conseguito il premio per il dipinto Dante e Virgilio nel purgatorio, si immerge nelle osservazioni delle pitture del Rinascimento, della Cappella Sistina, del San Pietro in Vincoli ed altro. Incontra artisti di tutte le nazionalità, osserva le pitture antiche e quelle moderne; resta colpito dalla maniera adottata dal Cenacolo dei pittori nazareni, gli unici a riproporre antiche ad affresco e modelli d?interpretazione del Tre e Quattrocento. Nel decenni di formazione che va dal 1845 al 1855, per Morelli Roma è il punto costante di riferimento. Vi ritorna in segretezza anche dopo il Quarantotto, quando l?accademia borbonica, più repressiva, non consente più la studio fuori sede ai propri allievi e quindi a chi, come lui, aveva conseguito il pensionato artistico, dal 1851 al 1855. Firenze è l’altro punto di riferimento dei suoi studi sul Rinascimento e sul Medioevo. La raggiunge segretamente per la prima volta nel 1851, appena terminato il saggio sul Neofita e poi nel 1853, quando si trova nella fase di genesi del Cesare Borgia a Capua, faticoso soggetto, studiatissimo dai modelli francesi, ispirato alla “Storia d?Italia” di Guicciardini. Morelli si convince sempre di più di visitare luoghi; esprime tensioni di conoscenza su ogni versante dell’arte; intreccia relazioni con tutti e si rende noto a tutti, fuori di Napoli. Il confronto con altri artisti e la conoscenza delle fonti della letteratura del passato diventano un binomio indissolubile nella ricerca di un percorso figurativo nutrito dalla conoscenza di modelli antichi e moderni e dal valore della storia come una verità svelata, quasi una lezione per i contemporanei. Eppure, quella visione della composizione così attentamente studiata, anche nella brillante soluzione della folgorazione crepuscolare che schiarisce l’orizzonte dalle tenebre non raggiunge la geniale soluzione de Gli iconoclasti, il dipinto che lo rende celebre. Villari gli aveva suggerito l’idea “della distruzione delle opere” e Morelli aveva cercato un soggetto che significasse “martirio dell’anima”, concentrandosi nella realizzazione di un?opera, la sofferenza subita al tempo della persecuzione iconoclasta. Alla metà del secolo la storiografia patriottica, la letteratura, la musica e la pittura guardano al Medioevo come all’età nella quale si trovano le radici della conculcata identità nazionale, e un campione di questa identità doveva apparire ne Gli iconoclasti e nel soggetto di quel monaco Lazzaro, sorpreso nei sotterranei della chiesa di San Giovanni a Costantinopoli a dipingere immagini sacre e per questo condannato da Teofilo al taglio della mano. Nell’operazione inventiva de Gli iconoclasti si può vedere la grandiosa esaltazione poetica del passato che traduce il primo suggerimento di Villari: rappresentare la distruzione delle opere. Il dipinto evoca un avvincente e raffinato sentimento della cultura del passato che si coglie nell’innesto del pathos figurativo in cui è immerso Lazzaro, ma anche nel fondo scena del luogo sacro dove sono dipinte alcune decorazioni bizantine. Il tronco dell’architettura, che si staglia al centro del dipinto, offre simbolicamente un iconografia sacra e un motivo decorativo neobizantino in mediocre stato di conservazione, al di sotto del quale si scorge un marmo sconnesso e sbrecciato nell’angolo, e questo degrado si riscontra anche nella fascia mediana delle decorazioni superiore con ampie cadute di colore. Il valore de Gli iconoclasti, quindi, non va ridotto a quello di una semplice scena drammatica nella quale sono protagonisti i carnefici e le vittime, ma deve essere ricondotto al contesto de luogo rappresentato, quel medioevo sacro che esige rispetto per la sua conservazione, configurandosi come il modello ideale di uno stile del passato nel quale confida l’Europa cristiana per il suo Risorgimento. Il dipinto che gli era costato una fatica grandissima esemplifica la nuova poetica del verismo storico e decreta il successo personale in tutta l’talia, al punto da suscitare ancora “giustificati entusiasmi” dopo sette anni dalla sua apparizione, in occasione della prima Esposizione Nazionale di Firenze. Dopo il 1855, come abbiamo già detto, compie un viaggio d?istruzione per le capitali dell’arte perché “…gli stranieri sono gli unici capaci di vedere più esattamente i nostri maestri antichi, in moltissime cose, li studiano no per insinuazione del maestro, ma di proprio intendimento”. In questo modo Morelli compiva quella missione personale che lo voleva “paro con i grandi artisti del secolo”. Apprezza il rigore dei tedeschi, il metodo di studio, l?approccio filologico per le tecniche antiche dell’affresco, ma soffre davanti a quei quadri che non si identificavano pienamente con la sua concezione dell’arte: “non sapevo giudicarla e mi sentivo umiliato”. Il quadro tanto ammirato sul quale sarebbe tornato varie volte, è il celebre L’astrologo Seni dinanzi al cadavere di Wallenstein di Karl Theodor von Piloty che fonda la fama del pittore monacense ed è tuttora considerata la sua opera migliore. Quello che deve aver maggiormente impressionato Morelli è la composizione essenziale e solenne concentrata su due figure soltanto, quel felice connubio tra pittura di storia e di sentimento, la tecnica perfetta, la preziosità delle stoffe, i raffinati accordi cromatici che rivelano l’influenza del colorismo franco-belga; si rifà anche alla tragedia dedicata a La morte di Wallenstein di Friederich Schiller, nella messa in scena di grande effetto e nell’accentuazione di numerosi particolari, come per esempio il tappeto rosso sul quale il generale assassinato è adagiato. La letteratura è anche alla base del dipinto Tasso e le due Leonore (1839; Dusseldorf, Kunstmuseum) di Karl Ferdinand Sohn (1805-1867), ispirato al Torquato Tasso di Goethe che aveva portato a termine il dramma nel 1789. Stando ai documenti a disposizione, Morelli non ha potuto vedere il quadro del pittore berlinese, professore dal 1832 alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di Dusseldorf, ma nella creazione di una sottile situazione psicologica, affidata agli sguardi e al gioco delle mani, il Tasso e le due Leonore di Sohn avrebbe potuto avere un innegabile interesse per la sua futura ricerca dedicata a Torquato Tasso che legge la Gerusalemme Liberata ad Eleonora d’Este . Non sappiamo con esattezza quanti giorni Morelli abbia trascorso in Germania ma, grazie ad una lettera inviata a Pasquale Villari , conosciamo con esattezza la data del suo arrivo a Berlino, il 30 luglio 1885. Le lettere del Morelli inviate dalla Germania a Pasquale Villari e alla moglie Virginia, a prescindere dalle comunicazioni private notizie dai suoi cari, rivelano particolarmente bene il suo stato d?animo, da collocare tra lo “scoramento” e la “rabbia” a vedere tanta grandezza in quel suolo, grandezza di arte e di civiltà”. In un? altra sottolinea i “mezzi infiniti” a disposizione degli artisti che hanno un posto di notevole rilevanza nella società, una situazione che gli provocava continue sofferenze, soprattutto paragonandola con quella italiana e napoletana in particolare . Dopo il giro di istruzione in Germania e le successive tappe presso scultori e visione di affreschi, Morelli si reca in visita all’Esposizione Universale di Parigi nel 1855. L?intelligenza arguta da segni di insofferenza quando riscontra che i buoni pittori italiani “non hanno esposto le loro opere migliori”, e purtroppo i francesi “hanno campo largo per calunniarci”.
Se di fronte all’arte tedesca sente decisamente la superiorità del rigore metodologico per l’interpretazione dei testi antichi, di più difficile decifrazione è il suo rapporto con l?arte francese; di ammirazione totale ma anche di soggezione. Anche la Sicilia, o per meglio dire con l?ambiente artistico e culturale siciliano, a giudicare da quanto emerge dagli ultimi scandagli, hanno segnato seppure in maniera episodica e discontinua, l?intero percorso di Morelli. Va detto subito che piuttosto che di veri e propri committenti è più corretto parlare di acquirenti siciliani di opere di Morelli. Negli anni Venti e Trenta del Novecento, quando è davvero impressionante la quantità di opere di Morelli presenti sul mercato, in particolar modo bozzetti e ritratti, si registra l?ingresso dei suoi dipinti anche in prestigiose raccolte siciliane. Un aspetto su cui vale la pena soffermarsi riguarda gli allievi e seguaci siciliani di Morelli e, più in generale, la sua influenza sulla pittura del secondo Ottocento in Sicilia. A partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, per molti giovani artisti siciliani che scelsero di andare a studiare e lavorare a Napoli, la figura carismatica di Morelli, non solo come caposcuola di prestigio ma anche per i suoi incarichi istituzionali e per il ruolo di egemone nel mercato artistico meridionale e non solo, ha rappresentato un sicuro punto di riferimento . Tuttavia, senza l?osservazione di alcuni francesi, visti a Parigi nel 1855, non si sarebbe avuta l’ispirazione di alcuni capolavori, come il Bagno pompeiano del 1861 o l?idea di originalissimi dei Vespri siciliani realizzata per il Principe di Cassero nel 1859. Una tappa mai troppo valutata del viaggio dell’estate del 1855 è Londra, anche se Morelli non ne trae stimolanti riflessioni sulla pittura, notando negli inglesi una specie di dilettantismo smaliziato: “delle puerilità o meglio innocenza d?arte, ma un poco troppo innocente…” Ne apprezza i ritratti femminili, osservando la pittura dei preraffaelliti, e anche “l?ingenuità apparente e il fascino in ogni più piccola parte”, commentando l?insistenza dei pittori inglesi sui dettagli. Dell?esperienza inglese subisce, invece, il fascino della qualità della vita e dell’organizzazione del lavoro dell’artista di fronte alla più grande creazione del suo tempo: il “South Kensigton Museum” con le annesse scuole di arti applicate e artigianato . Dopo il 1860 la vita di Morelli subisce un radicale cambiamento. Viene coinvolto sempre di più dalle istituzioni pubbliche e da varie iniziative private nella partecipazione della costruzione della vita civile del nuovo Stato unitario nel quale credeva fermamente. Si interessa dei giovani, della riforma dell’Istituto di Belle Arti, dei diritti ad una nuova istruzione dell?artista e viene chiamato dalle autorità cittadine e nazionali prendere parte alle commissioni per i numerosi interventi che dalla fine degli anni Sessanta in poi implorano iniziative da affrontare nel campo della conservazione e del restauro dei monumenti e delle opere d’arte nell’esercizio della tutela del bene pubblico, fondamento dei principi dello Stato unitario. A partire dal 1864, la Casa Reale investe Morelli della nomina di consulente per l’acquisto di opere d?arte in vista della realizzazione di una Galleria d?Arte Moderna al Museo di Capodimonte. Egli promuove l'arte moderna, privilegiando i risultati migliori dei giovani che si sono fatti conoscere alla mostra della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli, libera struttura di promozione artistica sorta nel 1862. Per la Casa Reale presta la sua collaborazione fino al 1869, quando, chiamato a titolare della classe di pittura in Accademia, un anno prima , è preso a tempo pieno anche sul versante dell’elaborazione di uno statuto della scuola, per il rinnovo dei modelli didattici e la promozione di una più adeguata promozione artistica. Il dibattito sulla fondazione del Museo Artistico Industriale che vede lavorare insieme Morelli e Palizzi da protagonisti assoluti, si accende in quegli anni ed è fervidissimo fino al 1877, anno in cui la città di Napoli è pronta a dimostrare in un consenso nazionale, l’Esposizione Nazionale di Belle Arti, quanto la memoria del proprio passato rappresenti un esempio efficace per rifondare i principi del nuovo operare artistico. l progetto del Museo, trovando notevoli consensi in una buona parte dell’aristocrazia locale, prende il via, per Regio decreto nel 1880, con uno statuto redatto dal Principe Gaetano Filangieri, da Demetrio Salazar, da Morelli e Palizzi . Dopo la nomina della cattedra di pittura nel 1868, Morelli si fece subito interprete delle istanze di rinnovamento da più parti auspicate e, già profondamente sentite con forza all’indomani dell’unità d’Italia, soprattutto dagli allievi. Si oppose con tutta la commissione all’abolizione degli insegnamenti di pittura e scultura. Un tale provvedimento avrebbe potuto significare la non esistenza della stessa Accademia. Il Morelli con Filippo Palizzi, con chiarezza e con grande modernità di pensiero, indicarono, la risoluzione della crisi in cui versava l’Accademia: “il nuovo dovrebbe istruire i giovani in quegli elementi dell’arte del disegno per applicarli a tutte quelle arti che danno forma ai corpi, e a quelle che si servono delle linee e colori per abbellire decorare le superfici”. L’istituzione, dunque, doveva da una parte perfezionare i mezzi di preparazione degli allievi, poi da avviare per le strade più praticabili delle arti industriali, dall?altra mirare a sorreggere e sviluppare la formazione di quelli, assai più rari, dotati di forte istinto artistico, destinati all’arte pura. Fermamente convinti che l?arte non è frutto di solo istinto ma anche il risultato di un profonda e costante educazione, Morelli e Palizzi si adoperarono affinché nell’Accademia fossero presenti due precisi orientamenti formativi. Gli insegnamenti furono divisi, infatti, in due sezioni: la prima comprendeva le discipline che indirizzavano i giovani all’ esercizio della pratica delle arti minori; la seconda comprendeva le Scuole di Pittura, Scultura, Decorazione e Architettura. Approvato lo statuto con R.D. dell’8 novembre 1878, Filippo Palizzi fu nominato dal ministro De Sanctis presidente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, con il compito di attuare il relativo regolamento di applicazione. Nella difficile e faticosa opera di rinnovamento dell’istituzione, Domenico Morelli fu sempre al suo fianco, legato da un profondo sentimento di amicizia e stima, non solo come sostenitore, ma anche come suo attento consigliere. Morelli dotato di un temperamento vivace e di un carattere espansivo, a differenza di Palizzi taciturno, viveva con gli allievi e li rendeva partecipi delle proprie esperienze artistiche, compiute sia in Italia che all’estero, cercando di nutrire in essi quello spirito di libertà capace di trasformare gli insegnamenti in stimolo alla ricerca di nuove forme e modelli. Con straordinaria sensibilità e conoscenza tecnica trasmetteva il proprio sapere attraverso l?esperienza diretta, nel rispetto costante delle singole individualità degli allievi. Un’ansia di libertà e un desiderio di rinnovamento, che dalla lezione del passato traevano forza e vitalità, caratterizzarono questa prima fase del suo insegnamento in Accademia, dal 1868 al 1881. L’impegno, la tenacia e l?assiduità profusi da Filippo Palizzi e da Domenico Morelli nel tentativo di riqualificare l?Accademia non ebbero, tuttavia, immediate conseguenze. E alla fine del 1880 dava dignitosamente le dimissioni dall?incarico di presidente, che furono accolte con Regio Decreto il 13 febbraio 1881. Anche Morelli, che aveva sempre condiviso e sostenuto la politica di rinnovamento del Palizzi, per solidarietà si dimise dal suo posto di titolare della Scuola di Pittura. Ma non per questo soffocò la sua vocazione di insegnante. Nei dieci anni successivi il suo impegno di riformatore e di didatta fu rivolto, infatti, fondamentalmente da un lato al Museo Artistico Industriale, che egli aveva contribuito a fondare nel 1878 con Palizzi, e dall’altro all’attività pittorica, ricevendo, nel contempo, numerosi riconoscimenti e cariche onorifiche, a riprova del vasto prestigio ormai acquisito. Nel 1891 per volontà del Ministro Villari, deciso a porre rimedio alle condizioni preoccupanti dell’Istituto, Filippo Palizzi fu richiamato alla Presidenza del Real Istituto di Belle Arti e Domenico Morelli all’insegnamento, con la direzione della Scuola di Pittura, di Figura e di Ornamentazione. Si apriva il secondo periodo dell’attività d Morelli come docente (1889-1901): periodo, tuttavia, meno fruttuoso sebbene il fascino del maestro operasse come potente stimolo. Il lavoro di riordinamento dell’intero sistema scolastico della Istituzione, cui Filippo Palizzi si era accinto insieme a Domenico Morelli all’indomani del suo insediamento, fu molto difficile e impegnativo . Non esiste ricostruzione dell’Ottocento napoletano che non consideri Palizzi e Morelli dei veri e propri pilastri dell’impalcatura storica degli avvenimenti artistici napoletani nella seconda metà del XIX secolo. Eppure, non si può immaginare una coppia di artisti, e di amici-artisti, più diversa, dal punto di vista sia del temperamento, che delle scelte pittoriche. Tanto Palizzi era scontroso e quasi rude, quanto Morelli era aperto e portato alle pubbliche relazioni, con una nota di ostentazione che arrivava all’autocompiacimento.
La differenza si coglieva subito, perfino nell’aspetto esteriore di due artisti. Pur avendo entrambi umili origini e pur avendo conosciuto la fame negli anni giovanili, una volta arrivati alla notorietà hanno dato di se stessi immagini opposte. Morelli vestito con una sobria eleganza, con la barba fluente e lo sguardo vivace, si mostra sicuro di sé e accredita l?immagine dell’artista di successo, che ha accumulato cariche prestigiose, fino a quelle di senatore del Regno nel 1886, e che si divide tra committenze altolocate; Palizzi ci appare vestito più semplicemente, con un aria quasi contadinesca, e con un espressione corrucciata e severa che tradisce il suo rude, introverso e anche un po’ testardo, ma di una rettitudine rara, di chi non si spiega “a fare arte da commercio”. La diversità fra i due si è manifestata in tante occasioni, ma ci appare evidente anche nelle parole di Morelli, nella famosa commemorazione di Filippo Palizzi, scritta poco dopo la sua morte e letta presso l?Accademia Reale il 21 Giugno 1900. In tale scritto si percepisce tra le righe l’ammirazione e la stima di Morelli per le capacità dell?amico, ma anche una sorta di rivalità che gli fa prendere le distanze e gli fa circoscrivere, la portata della sua riforma e l?orizzonte della sua ricerca. La differenza fra i due riguardava scelte di fondo e toccava da vicino le loro rispettive scelte poetiche: “Noi due eravamo agli antipodi: io sentivo che l?arte era di rappresentare figure e cose, non viste, ma immaginate e vere ad un tempo; io non amavo i contadini vivi, eppure li amavo negli studi di Filippo Palizzi. L’analisi che egli faceva sulla proprietà di un colore, sulle combinazioni di un bianco sull’altro mi educava ad osservare e comprendere l?effetto e l?espressione. Ma l’applicazione, oh l?applicazione per lui era facile e comoda, per me era difficile! E poi, egli aveva vista poca pittura; e, senza distrarsi dalla sua, nessun ricordo di nessun altro artista gli passava per la mente, quando dipingeva nel suo studio…Io, invece avevo visto troppe e diverse pitture non solo, ma le amavo tutte; in tutte ritrovavo bellezze e mi studiavo di ricordarle”. Palizzi è dunque, nel ritratto che c’è ne dà Morelli, un pittore quasi naif, di poca cultura, impegnato solo ad osservare il vero. Anche se questo non corrisponde esattamente alla realtà e rientra quasi in un cliché utilizzato spesso dai pittori di orientamento realistico, ossia quello di intenderli come pittori “senza stile e senza maestri”. Anche se nella lunga storia il legame fra Palizzi e Morelli non è privo di ombre e talvolta di vere divergenze, rimane comunque fortissimo e si rinsalda nei momenti difficili che i due artisti hanno dovuto affrontare in relazione ai loro incarichi istituzionali . Morelli, per educazione, per vocazione e per una questione squisitamente generazionale, si mostrò propenso ad accogliere a piene mani la lezione che la fotografia era andata offrendo alla pittura e al suo rinnovamento già dal suo primo apparire; una lezione che si era poi manifestata con forza sempre maggiore soprattutto a partire dagli anni Sessanta, dopo la prima apparizione ufficiale della fotografia nell?ambito del Salon di Parigi del 1859, quando più evidenti erano diventati i contributi del nuovo mezzo allo studio del vero, alla sua restituzione e alla sua interpretazione formale. Il pittore, lettore attento di quanto di più avanzato si scriveva allora nell?ambito letterario e in quello storico-artistico, aperto a tutte le novità tecniche e tecnologiche dell?opera, accorò infatti alla fotografia, da subito e in maniera sempre più fitta e ricorrente, un posto di non trascurabile importanza, sia utilizzandola come modello e strumento del proprio lavoro pittorico, sia sfruttandola come veicolo di diffusione della propria opera. Malgrado fosse avvertito dei limiti della fotografia nell’ambito della documentazione pittorica, iniziò ben presto a farne ricorso, specie per procurarsi, come indica il suo epistolario con Pasquale Villari, una documentazione rapida e iconograficamente fedele di ciò che andava man mano producendo e immaginando spinto dal desiderio di avere immediato riscontro di giudizio da parte di chi gli era più vicino e che egli considerava in grado di appoggiarlo e incoraggiarlo nel proprio procedere . L’Oriente e la Bibbia prendono un interesse centrale negli studi del Morelli, i documenti fotografici gli servono per la ricostruzione dei luoghi del Vangelo e del paesaggio di Cristo, ma anche a raggiungere la giusta sintonia con i modelli cromatici, prodotti dall’incanto suggestivo della pittura di Fortuny. Morelli non appare mai tormentato dalla mancanza di una conoscenza diretta del luoghi che, viceversa, molti artisti del suo tempo affrontavano, grazie all’aiuto di committenti e mecenati. I metodi di approccio della ricerca e dell’elaborazione pittorica restano sempre gli stessi di prima. Morelli osserva e studia tutti i materiali possibili prima di accedere alla composizione finale: si serve di tutti gli strumenti di comunicazione del suo tempo, i tradizionali come la fotografia, innanzitutto, per i luoghi dell’Oriente che non andrà mai ad esplorare e poi le stampe e i libri, oltre alla letteratura colta. Accetta ogni fonte di curiosità e di conoscenza, anche la più stravagante. Il primo dei soggetti cristologici è Cristo che passeggia sulle acque del mare, dipinto meno riuscito secondo il Villari, mentre ben altro è il suo giudizio sull’Imbalsamazione di Cristo del 1867. Con una scelta tematica nuova, Morelli mette a fuoco il rituale della deposizione in una forma misconosciuta dalla tradizione cattolica. Sfonda i retaggi superstiti del modello accademico della composizione religiosa esaltando il nuovo registro di contenuti con una qualità cromatica originalissima. Si appoggia a Renan per lo studio della figura di Cristo, della vita e degli aspetti umani secondo l?interpretazione del cristianesimo avanzata da Renan, è rivisitata attraverso la filologia semitica, l?archeologia del Vicino Oriente, applicando i metodi dell’ermeneutica laica tedesca. Questa esperienza mistica lo accompagna da Gli amore degli angeli (1875) ispirato a Thomas Moore, nel quale al centro della rappresentazione “le grandi ali bianche trascinano tra i fiori dell?Eden”, all’ultimo Cristo ministrato dagli angeli. Renan è, inoltre, lo spunto per interessi antropologici che rivelano la crudele realtà degli esorcizzati. Il dipinto de Gli ossessi (1876), con le sue anime deformi che invocano aiuto a Gesù, sullo sfondo di un arido paesaggio della Palestina, è un opera di drammatica spiritualità cristiana, modulata da una inquadratura scenografica inusitata. È dipinto per un collezionista al quale Morelli è molto legato, Giuseppe Verdi, diventato negli anni di maturità quasi un suo consulente artistico. La spiegazione scientifica e razionale delle guarigioni di Gesù, che non poco scandalo lo destarono nel mondo cattolico, colpisce la fantasia di Morelli che puntava l?attenzione sulle deformità dell’essere umano. La nuova tensione per la verità e la conoscenza della storia delle religioni includeva sia le tematiche del cristianesimo sia quelle del mondo islamico; Morelli si mostra aperto alla conoscenza di quell’universo culturale così diverso e studia con passione e senza alcuna remora morale e le diversità delle religioni cogliendo per ciascuno di quei mondi dell?uomo un interesse che esalta i valori della spiritualità. Tutto tornerà utile alla realizzazione di un dipinto che induce Morelli a pensare già dal 1872 al Maometto prega con i soldati nel deserto oppure Maometto. La preghiera prima della battaglia di Od concepito in due diverse versioni per committenti diversi. Il soggetto desta sorpresa per la sua straordinaria attualità: è già fissata l?ineluttabile essenza di un popolo che lega il sentimento della religione alla difesa del proprio territorio. Questa potenza evocatrice è dipinta in una scena dove il popolo, prima del combattimento, prega davanti al suo profeta. Morelli fa derivare dalla tavolozza e ai “tipi orientali” di Fortuny solo quello che ritiene necessario alla traduzione del racconto biblico, nelle finalità di un linguaggio recettivo degli stimoli e della conoscenza che si va svolgendo seguendo un ductus pittorico sempre tutto personale. Esaurito il ruolo di egemonia della chiesa e quello paternalistico del Borbone, con al costruzione dello Stato unitario, l’artista è al crocevia di una profonda crisi d’identità. La nuova classe borghese non è ancora in grado di assegnare all’artista un ruolo nuovo se essa stessa faticosamente cerca di costruirsene uno per sé. Il caso Morelli è una delle eccezioni italiane formatesi nel nuovo Stato unitario che singolarmente si offre come esempio di artista nuovo tramutatisi in uomo di cultura. Con la sua intelligenza e con l?arguzia del suo operato artistico, egli prende parte attiva alla storia del suo tempo. Morelli venne condannato dal gruppo intellettuale toscano del Caffé Michelangelo e dal rappresentante dell’ala più moralista, Andrea Cecioni, di aver ceduto “all?arte della moda”. L?accusa maggiore di Cecioni si fa greve in riferimento a Le tentazioni di S. Antonio , tra le opere più struggenti della sua poetica mistica, totalmente incompreso dal pubblico del tempo. Il dipinto, acquistato da Goupil, e ceduto alla Galleria Pisani dopo aver partecipato a due grandi esposizioni, quella universale del 1878, e quella di Torino del 1880, suscita il commento malevolo di Cecioni per questo rapido passaggio da un mercante ad un altro, avvenuto in così poco tempo, ed offre l’occasione per esporre Morelli al pubblico. Le tentazioni è una complessa mistione di realismo e simbolismo; la scena s’incentra sulle espressività del santo rannicchiato sulla roccia mentre subisce le tentazioni femminili, in uno stato di allucinazione mistica dalla forte componente erotica, che è la bellezza dell’opera. Il suo San Antonio è vero perché è tentato da passioni che accendono la fantasia assumendo forme di donne voluttuose. Il pensiero mistico si fa reale toccando al sfera morale più profonda dell’uomo; lo spavento del volto del santo è procurato dalla tentazione di lasciarsi corrompere della insinuanti forme di femmine nude che occhieggiano volgari al di sotto della stuoia e minacciano di insinuarsi nella coscienza del santo, che resiste in una strenua sorveglianza, evidente nella contrazione del corpo. Un?interpretazione vera delle contraddizioni reali della vita umana, che ribalta a visione medievale della pittura fatta da simboli di mostri ripugnante si fa moderna attingendo al romanzo omonimo, edito nel 1845, di Flaubert per la sua revisione . Se le simbologie del medioevo evocano il sentimento allusivo delle conquiste civili del Risorgimento italiano, di ben altra natura è l’interesse di Morelli per le antichità classiche che vanno emergendo dalla città di Pompei, la piccola città di provincia alla falde del Vesuvio, inesauribile luogo di scavo dalla metà del Settecento. I dipinti con soggetti delle antichità di scavo sono testimonianze uniche e rivelatrici di un approccio molto diverso dai modelli antichi sui quali fa perno la prima formazione del pittore. Il dipinto del Bagno pompeiano introduce una nuova riflessione sul sentimento delle antichità. Il tema devia dal suo percorso tematico di formazione adottato fino a quel momento, rivelandosi con assoluta originalità mai fissata da nessuno prima di lui. Non solo è nuovo il soggetto, ma anche il luogo dello scavo. Morelli, nel concepirlo, ha finalità precise, afferma di voler “esprimere una semplicità voluttuosa, insieme ad una certa grazia caratteristica in ogni figura” e riesce nell’intento anche nell’impressione immediata offerta ai suoi compagni di studio. Il Bagno richiama l?attenzione ai valori quotidiani di un passato i cui luoghi sono più i templi greci e le vestigia del foro, ma abitazioni e terme frequentate da gente comune e per questo si mostrano ai nostri occhi nella loro essenziale e semplice verità. L’attenzione fissata ai modelli semplici e ispirati alla vita reale ha il solo obbiettivo di riprendere il valore intimo e sommesso dei colloqui che quel variegato consesso femminile è in grado di intrecciare nel chiuso e circoscritto spazio a loro concesso. Il significato recondito della bellezza non è affidato a una protagonista della storia remota ma alla pratica dei gesti quotidiani. Morelli, insomma, meno distante dalla storia attuale e certamente depurata dall’intento celebrativo del luogo archeologico . L’interpretazione sentimentale delle immagini e delle storie sacre che prevale in Domenico Morelli a partire dagli anni Settanta diviene subito paradigma di riferimento per chi, negli anni segnati da importanti riforme dell’iconografia religiosa e della nuova maniera di leggere i testi biblici ed evangelici, cercava modelli autorevoli per legittimare evasioni estetiche spesso in antitesi con l?ortodossia. “Io sto dipingendo una Madonna per te – scrive Morelli a Pasquale Villari, nel 1875, mentre gli preparava come dono di nozze la Madonna della scala d’oro - la vorrei fare bella assai e mistica ad un tempo; penso al carattere storico e leggendario, la vedo poetica e debbo farla pittorica, vedi che confusione, ciò non pertanto io dipingo, e la smania mi si è attaccata anche nel pennello”: come sempre l?artista teme che l’ispirazione, quasi intrisa nel colore della tavolozza, gli si cambi nella testa producendo disarmonie, mentre quella Madonna doveva riuscire la più bella di quelle dipinte fino ad allora, anche perché il primo pensiero in acquerello era stato tradotto dall’artista “ in un modo più possibile di sentimento”. La componente devozionale, presente nelle attenzioni affettuose di Morelli, si manifesta in apparizione fragrante e non estranea ai sensi, acuiti invece dalle materie preziose che accompagnano l?incidere gioioso della madre divina. L’ispirazione di Morelli è quella di trasfigurare la fisionomia di una giovane , madre terrena che mostra orgogliosa il proprio figlioletto in una moderna allegoria degli affetti familiari, quelli stessi che il pittore coltivava con particolare trasporto e dedizione e che trasferiva nell’opera arrichendoli, in questo caso di riflessi preziosi, di materiali e colori scelti con l’ansia di dare palpabile consistenza ad un terrestre paradiso irradiato dalla luce di traslati poetici. Idee e natura sia armonizzano nel quadro di Morelli richiamando appunto le discussioni degli anni Settanta: ad esempio, la convinzione di Angelo Conti che “l’idea degli idealisti è artifizio di concetti e la realtà dei realisti, fortuito apparire di fatti”, e che per risolvere la questione l?artista dovesse mirare ad un “realismo ideale” o ad un “idealismo reale”, un misto insomma di spontaneità e meditazione che la pittura di Morelli sembra perfettamente incarnare, non tralasciando di alludere a certi preziosismi di l’art pour l’art che non sarebbero infatti sfuggiti all’intelligenza mercantile di Goupil. L’affettuoso dialogo tra madre e figlio, tanto più commovente perché insidiato da funesti presagi, è molto radicato nella sensibilità e nell’esperienza di Morelli che, già ne 1848 e in dipendenza del canone purista, dipingeva per la chiesa di Gaeta la Madonna che culla il bambino, cantando la ninna nanna che gli angeli accompagnano col suono del salterio, dell’arpa e del liuto; soggetto quanto mai domestico e pervaso di lirismo ma anche robusto ed esemplare nella definizione di no stile capace di armonizzare sentimenti religiosi e laici, autobiografici ed universali. I retaggi dell’estetica del realismo ancora presenti in queste raffigurazioni della Madonna sfumano, e soprattutto nella pittura di genere sacro, quando Morelli, negli anni della vecchiaia, converte l’attenzione al dato in spiritualismo intensamente vissuto ma anche disposto alle immaginazioni orientali e agli stati d?animo che si venivano attestando come peculiari della cultura simbolista. La Madonna che Morelli dipinge ne 1883 per il Duca di Aralia è tutta affidata alla lirica degli astati d?animo, al potere trasfigurante d?una pittura alleviata dai riferimenti quotidiani e divenuta evocativa per via formale. Tutto ciò è il nucleo di pensiero che alimenterà di li a poco gli sconfinanti del misticismo estetizzante di fine secolo, le poetiche del vago e dell’indefinito, il rifiuto di ogni immagine positiva in favore di “una specie di visone complessiva fluttuante, sintetica, di forme e di colori, che lascino appena intravedere il simbolismo o ideismo musicale o quasi sopraterreno” del pensiero dell’artista . A partire dagli anni '70 Morelli si interessò sempre di più ai temi religiosi orientali, affrontati con lo stesso agire storiografico e di documentazione che aveva caratterizzato, negli anni precedenti, la sua pittura di argomento storico e letterario. Studi e letture che rivelano curiosità multiformi, dagli storici romani alle fonti del cristianesimo, alla storia islamica, in una ricerca non facile, talvolta frustante, ma originalissima, personale, di una pittura insieme visionaria e reale. Fino ad oggi le fonti letterarie di Morelli in materia di storia islamica non erano note, ma le lettere scritte a Villari hanno rivelato la sorprendente conoscenza di testi raffinati quali "Lives oh Mahomet and his successors" (Parigi 1850) dello scrittore americano Washington Irving, autore di fama internazionale interessato alle tradizioni popolari, al costume, alla storia americana, europea e orientale, dal quale Morelli trasse il tema biografico maomettano più volte affrontato negli anni '70 - '90, iconograficamente raro e non a caso pressoché censurato nella critica morelliana dei primi decenni del Novecento. Testi che insieme alle fotografie rimasero quale unica documentazione per il pittore. Nel filone della pittura orientalista, tanto spesso imitato e banalizzato, e in Morelli spesso intrecciato a quello della pittura di argomento biblico, il pittore eseguiva dunque una sua personale visione, da una parte storica e assolutamente non di genere, dall'altra venata di misticismo e fascinazioni profetiche. È più nota alla critica la conoscenza che Morelli aveva di Ernest Renan, fondatore degli studi semitici, sostenitore di una disciplina sostanzialmente filologica basata su quello che lui stesso, ex sacerdote che aveva perduto la fede, chiamava la science laique, in una controversa e non ortodossa visione della vita e della predicazione di Cristo che certo doveva aver colpito l'approccio individualista del Morelli cristiano ma intellettualmente laico. Morelli amava l'Oriente non per infatuazione generica o superficiale, ma perchè l'Oriente sembrava concretizzare la sua ricerca di un'arte che fosse sincera espressione di tensioni ideali e creative. Una ricerca e un modo di lavorare ai quali rimarrà fedele fino alla fine della vita, negli studi e nei dipinti di soggetto cristiano, alternando la pittura di harem o i temi maomettani ai soggetti dedicati alla vita della Vergine e di Gesù.
Contaminazioni e nodi concettuali, quelli tra l'Oriente e il cristianesimo, che oggi ci appaiono in tutta la loro drammatica problematicità, e che certo allora risultavano ancora più misteriosi e indissolubili. Non a caso in Morelli, soprattutto negli anni della vecchiaia, la dimestichezza con i Vangeli unita ad una profonda dimensione mistica diverranno abito mentale e di comportamento . L'inizio di una definitiva svolta nel percorso di Domenico Morelli è stato individuato nel Cristo che cammina sulle acque del 1865, opera, meno riuscita secondo il Villari, che apre l'ultima fase della produzione dell'artista e che evolverà naturalmente, intorno alla metà degli anni Ottanta, verso un sempre più evidenti simbolismo già in nuce nei primi lavori di questo secondo tempo della sua pittura. Nel 1867 Morelli espone alla quinta mostra della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli un quadro difficile, l'Imbalsamazione di Cristo, in cui Adolfo Venturi scorgeva l'influenza di Rembrandt, accompagnandolo in catalogo dal passo evangelico di Giovanni (18-19). Inizia, così, un percorso sul tema cristologico che accompagnerà, insieme con le storie mutuate dall'Islam, l'intero cammino di Morelli che si concluderà con Il pentimento di Giuda del 1900 e che andrà ad affiancare, se non a sostituire quasi del tutto, i temi di letteratura storica. Accanto all'Imbalsamazione di Cristo si deve porre il Cristo deriso, opera di grande forza e di maggior valenza, esposta alla sesta mostra della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli, accompagnata anche questa da una didascalia in latino. Il tema cristologico è affrontato in questi anni ponendo l'attenzione sul dato di veridicità, l'elemento che più degli altri risaltava agli occhi della critica contemporanea. Morelli non fa altro che raccontare gli episodi della vita di Cristo intesi come scene estrapolate da un racconto più lungo, una narrazione storica in itinere, per assecondare meglio queste scene in movimento, oltre che per dare maggiore importanza al paesaggio come osservò Villari, il formato delle opere muta: diviene più stretto e lungo; le figure assumono piccole dimensioni e partecipano a una scena orale. Esiste una relazione più volte evidenziata tra i dipinti del Morelli sul tema cristologico e i testi di Renan. Bisogna ancora stabilire quali testi conoscesse Morelli; ma è sicuro che a Napoli gli scritti di Renan ebbero una larga diffusione anche a opera delle maggiori testate giornalistiche che li pubblicavano a puntate. Il tema del Cristo, come emanazione dei suoi interessi, fu utilizzato da Morelli anche nell'attività didattica durante il suo primo e più fruttuoso periodo di insegnamento all'Accademia di Belle Arti a Napoli (1868-1881). Prese parte anch'esso insieme ai suoi allievi alla Mostra Nazionale di Torino nel 1880 con quattro opere tra cui Gli ossessi, dipinto a tema cristologico. Il critico Ferdinando Fontana apriva la dissertazione sulla sezione di pittura della mostra soffermandosi con un lungo rapporto sui lavori di Morelli e mettendo in evidenza, tra i suoi dipinti più mistici proprio quello de Gli ossessi. Dai primissimi anni Ottanta fino alla fine del secolo le opere di Morelli tenderanno ad un alleggerimento dei temi e della consueta complessità compositiva, fino ad attingere valenze sempre più spirituali e simboliche. Anche la prevalenza dell'uso dell'acquerello andava ad assolvere una funzione di tipo simbolista: i colori si fondono in un unicum con il disegno; il già felice rapporto figure sfondo dei dipinti degli anni Settanta diventa ancora più stretto tendendo ad unità indissolubile nelle opere dell'ultimo quindicennio del secolo, dove ormai l'impronta simbolista appare più marcata.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma
Domenico Morelli. Immaginare cose non viste
dal 21 Novembre 2022 al 29 Gennaio 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso