Giovanni Cardone Agosto 2022
Fino al 29 Gennaio 2023 si potrà ammirare presso i Musei Capitolini- Villa Caffarelli Roma la mostra Domiziano imperatore. Odio e amore, la mostra curata da Claudio Parisi Presicce, Maria Paola Del Moro e Massimiliano Munzi, la mostra ai Musei capitolini è promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. L’organizzazione è di Zètema Progetto Cultura ed è coprodotta dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e dal Rijksmuseum van Oudheden della città olandese di Leiden; essa è dunque il risultato di un accordo culturale di dimensione internazionale. In continuità con essa e riprendendo parte del progetto scientifico e dei prestiti, la Sovrintendenza Capitolina ha elaborato nella nuova mostra una diversa articolazione del racconto e del percorso espositivo anche grazie all’aggiunta di nuove opere. Densa di significato è stata la scelta della sede espositiva, in un luogo fortemente legato all’imperatore e da lui restaurato lussuosamente dopo l’incendio dell’80 d.C: il Tempio di Giove Capitolino, sulle cui fondamenta è stata costruita Villa Caffarelli. L’esposizione comprende oltre cento provenienti da tutti i musei italiani ed internazionali.  I musei che hanno collaborato alla mostra con i loro prestiti sono il British Museum di Londra, la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, il Musée du Louvre di Parigi, la Nederlandsche Bank, il Rijksmuseum van Oudheden di Leiden, il Badisches Landesmuseum di Karlsruhe, la Glyptothek di Monaco, i Musei Vaticani, il Museo Archeologico dei Campi Flegrei, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Parco Archeologico di Ostia e, da Roma, il Museo Nazionale Romano e il Parco archeologico del Colosseo - Antiquarium Palatino. Tra i prestiti, tutti importanti, risaltano l’aureo a nome di Domizia Longina, moglie dell’imperatore, con la rappresentazione del figlioletto divinizzato del British Museum; il ritratto sempre di Domizia Longina del Louvre; il rilievo del Mausoleo degli Haterii dei Musei Vaticani; le teste colossali di Vespasiano e di Tito divinizzati dal Museo Nazionale Archeologico di Napoli e i frammenti del Dono Hartwig del Museo Nazionale Romano. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Domiziano apro il mio saggio dicendo: Riflettere sulla cittadinanza significa richiamare il rapporto giuridico fondamentale che lega l’individuo all’ordine; sia l’ordine politico sia l’ordine sociale, in un equilibrio tra politico e sociale variabile secondo le culture giuridiche e i tempi storici. Questa affermazione di Azzariti, in apertura al suo saggio 'La cittadinanza' , contiene aspetti decisivi attinenti a tale figura: il legame tra l'individuo e la comunità; il nesso tra l'individuo e l'ordine costituito; la relazione tra il cittadino e lo straniero; la dimensione storica dei rapporti. A ben riflettere, indagare sulla cittadinanza significa, in ultima analisi, porsi il problema della convivenza civile; come scrive Enzo Bianchi: “è comunque indubbio che  dobbiamo ripensare alle categorie della cittadinanza, della stranierità, dell'ospitalità, non come mero esercizio dialettico o come astratti sistemi giuridici, ma come riflessione sul senso della nostra convivenza civile , sull'orizzonte che vogliamo dischiudere alla nostra società, sulla qualità della nostra vita e di quella delle generazioni a venire” . L'indagine storica consente di contestualizzare la figura della cittadinanza nelle diverse epoche e a seconda delle forme istituzionali (poi statali) che si sono succedute nel corso del tempo, rifuggendo da tendenze dogmatiche e formalistiche. “Insomma, ogni forma di stato, ogni ordinamento giuridico concreto, definisce una sua specifica forma di cittadinanza”. La cittadinanza attuale vigente negli ordinamenti democratici occidentali, è iscritta nella realtà dello Stato- nazionale, proponendosi come suo strumento politico e giuridico per la consociazione dei rapporti civili.
Con essa si organizza la posizione identitaria di tutti coloro che appartengono allo Stato in contrapposizione a chi è estraneo ad esso.  Decisiva è infatti l’impronta giuridica: “ la tendenza a identificare la cittadinanza come uno status civitatis, intendendo per lo più come status l’appartenenza di un soggetto a una determinata categoria, caratterizzata da una particolare sfera di capacità; perciò tale appartenenza si traduce in una posizione giuridica dei soggetti uniforme ed omogenea, fonte di particolari diritti e doveri “. La posizione dell’individuo è, quindi, sancita dall’ordinamento giuridico, cui egli appartiene per tradizione e cultura. Tale aspetto della cittadinanza è efficacemente espresso con il termine ‘Staatsangehörigkeit’ – come suona la cittadinanza in lingua tedesca – dove la combinazione delle due parole ‘Stato’ e ‘appartenenza’ descrive bene la sudditanza all’istituzione statale. L’individuo che si riconosce nei valori di una determinata nazione lingua, diritto, territorio, a volte religione si identifica con la società che lo annette, riconoscendogli uno status giuridico. Pertanto, l’efficacia dello status è da ricondurre alla sovranità statale ‘verticale’, che attribuisce diritti e doveri, tutele e vincoli. Il 18 settembre dell'anno 96 d.C., intorno all'ora quinta, l'imperatore Tito Flavio Domiziano viene assassinato nelle sue stanze, trucidato da 7 pugnalate. A compiere materialmente l'azione sono domestici di palazzo e anonimi frequentatori della corte, guidati dal cubicularius Parthenius e dal liberto Stefanus. I congiurati hanno già pronto un successore: si tratta dell'anziano senatore Marco Cocceio Nerva, che in meno di 24 ore riceve l'acclamazione della Guardia Pretoriana e la ratifica dei poteri dal Senato. Domiziano paga il suo atteggiamento dispotico, la sua saevitia, che negli ultimi anni aveva mietuto vittime anche tra innocenti e galantuomini. A decretare la sua condanna a morte comunque, sarebbero state però le due ultime, inspiegabili esecuzioni: quelle ai danni del liberto Epaphroditus, beniamino della corte flavia da trent'anni, e di Flavius Clemens, cugino e cognato dell'imperatore nonché padre dei futuri eredi designati alla porpora, gli ancora fanciulli Tito Flavio Domiziano e Tito Flavio Vespasiano. Questi gli unici fatti accertati relativi alla morte del tiranno e agli ultimi anni del suo regno; il resto si riduce, per usare le parole di Ronald Syme, “a poco più che alle abitudini del tiranno, all’elenco delle sue scelleratezze, e alla lista delle sue vittime, con accuse casuali o di poco conto per spiegare il loro fato”. Tuttavia, per una comprensione migliore degli eventi che precedettero immediatamente e che, a detta delle fonti, determinarono la congiura, occorrerà preliminarmente delineare un quadro quanto più possibile esaustivo delle relazioni intercorrenti tra Domiziano e i vari protagonisti della politica del tempo. Molto si è scritto su questo argomento, e a più riprese gli studiosi moderni si sono interrogati sulle ragioni della dannazione postuma dell’ultimo flavio, in particolare dopo che le ricerche, a partire dal lavoro dello Gsell, ne hanno rivalutato consistentemente non solo l’operato in ambito amministrativo, economico e militare, ma anche la condotta diplomatica e l’attitudine nei confronti del Senato. Nel meno lusinghiero dei termini, Domiziano non sembra essere stato un autocrate peggiore di alcuni illustri predecessori, come Tiberio, Gaio o Nerone, che non godettero certo delle simpatie degli storici e dei commentatori dell’epoca. Eppure mai come nel suo caso la condanna fu più radicale, assoluta, e pervicacemente duratura; senza contare l’unanime, e prevedibile, accanimento delle fonti letterarie, dobbiamo constatare come persino gli effetti della damnatio memoriae decretata dal Senato abbiano avuto un’estensione e un’incidenza enormemente superiori rispetto ai risultati riscontrati in occasione di simili provvedimenti contro altri imperatori: nel caso di Nerone, ad esempio, la cui accusa di perduellio esponeva le testimonianze epigrafiche e monumentali della sua esistenza al rischio di un’infamante abolitio e non solo fino a quando le condanne postume ebbero un effettivo valore politico, ovvero fino all’inizio della fase della cosiddetta anarchia militare, quando cominciarono ad essere applicate regolarmente da ogni princeps nei confronti del proprio predecessore, le circostanze politiche e storiche contribuirono pressoché in tutti i casi ad attenuare l’entità di ciascuna damnatio: Commodo ad esempio, fu riabilitato da Settimio Severo, che lo designò come proprio frater, al fine di legittimare una diretta discendenza dagli Antonini; Elagabalo subì in effetti una condanna post mortem radicale, ma le ragioni di quest’ultima dovrebbero piuttosto ricercarsi in una crisi di rigetto culturale e ideologica, e in ogni caso l’appena adolescente sacerdote di Emesa lasciò una ben effimera impronta nella politica romana. Insomma, Domiziano, non fu solo il primo a subire nel più pieno senso dell’espressione questo affronto alla memoria, ma fu probabilmente anche colui che ne pagò gli effetti nella maniera più completa. Si è spesso sottolineato come sia un fattore storico ricorrente che l’ultimo esponente di una dinastia paghi un tributo maggiore in termini di discredito e diffamazione postuma: era una pratica comune per i nuovi arrivati misurare i propri meriti e la propria eccellenza attraverso il confronto con i demeriti e l’indegnità degli immediati predecessori. Un’analisi comparativa di casi analoghi a quello del calvus Nero ci spinge però ad un’ulteriore considerazione: la morte di Nerone e quella di Commodo scatenarono una reazione a catena che presto deflagrò in guerra civile; le necessità di ricomposizione diplomatica successive condussero all’attenuazione della condanna del passato regime o addirittura alla sua totale riabilitazione. Domiziano non ebbe altrettanta fortuna; e la ragione potrebbe risiedere proprio nella particolare contingenza storica che seguì al suo omicidio: non vi fu guerra civile. La classe dirigente formatasi e ascesa agli honores sotto i Flavi dovette allora fare i conti direttamente col suo passato, attraverso un percorso di reticenze e ambiguità in mezzo alle quali lo storico moderno fatica enormemente a districarsi. Questo processo, apparentemente pacifico e indolore, dovette invece determinare opportunistiche scelte di campo e imbarazzanti voltafaccia, e impose il sacrificio ‘politico, s’intende’ di molte vittime in nome del nuovo corso e della completa revisione storica del passato. Saremmo tentati di far coincidere questa fase con il regno di Nerva, che in questa prospettiva si rivela di estrema importanza anche per una migliore comprensione delle ragioni della crisi del principato domizianeo, nonché della natura e delle caratteristiche della fronda politica sotto l’ultimo Flavio. Ho analizzato i rapporti di Domiziano con le varie componenti della classe dirigente imperiale e della corte, ripercorrendo le tappe più critiche del suo principato, esaminando nel dettaglio le liste delle sue vittime e, laddove possibile, le cause reali delle trame eversive ordite ai suoi danni; tutto questo allo scopo di individuare dei denominatori comuni della lotta politica e dell’opposizione al regime del figlio di Vespasiano. Solo in tal modo, a nostro avviso, sarà possibile avanzare verosimili ipotesi circa la composizione e la natura della cospirazione che tolse di mezzo l’imperatore. Uno degli elementi più problematici nello studio del principato domizianeo consiste proprio nell’individuazione delle ragioni dell’impopolarità del sovrano presso la classe dirigente, e del conseguente allargamento della fronda antiimperiale; in stretta relazione con esso, la definizione di una cronologia attendibile del processo degenerativo che portò all’assassinio del princeps, spesso accompagnata dall’identificazione di un momento decisivo, un salto di qualità nelle pratiche eversive che avrebbe spinto l’imperatore a una svolta autoritaria. Riteniamo assai difficile, se non impossibile, pervenire a una risposta credibile a tali problemi focalizzando l’attenzione sul solo regno di Domiziano, non foss’altro per la completa e capillare opera di mistificazione postuma messa in atto ai suoi danni da intellettuali e storici di estrazione senatoria. Uno degli obiettivi del capitolo IV, che avrà come oggetto principale la reggenza di Nerva, sarà appunto quello di spiegare l’impareggiabile sfortuna postuma dell’ultimo Flavio alla luce dei conflitti e delle tensioni politiche che animeranno il biennio 96 – 98. Nel capitolo III analizzeremo il riverbero di queste tensioni sugli equilibri dei comandi provinciali e sugli umori dei soldati. A questo proposito, è ormai opinione comune degli studiosi che vi fu continuità, di personale e di scelte di governo, tra i regni di Domiziano, di Nerva, e di Traiano; in effetti la congiura contro il figlio di Vespasiano fu, come vedremo, manovrata da insigni membri della classe dirigente formatasi proprio durante l’età flavia; ma come spiegare allora la freddezza dei rapporti tra Nerva e Traiano, in teoria due espressioni di questa continuità con la monarchia flavia, come rendere ragione di questi e di tutti gli altri indizi, che rafforzano in noi la sensazione che a Roma e nelle province, in quel breve e ambiguo periodo tra la morte di Domiziano e l’ascesa di Traiano, abbia avuto luogo non un pacifico passaggio di consegne tra un modello di principato ormai superato e uno “aureo”, ma un oscuro e sotterraneo conflitto per il potere assoluto? A questi interrogativi si cercherà di dare una risposta appunto nei capitoli III e IV. Resta comunque il fatto che reali fattori di conflittualità tra il figlio di Vespasiano e l’establishment dovettero necessariamente esistere; ragion per cui nel prossimo capitolo offriremo una panoramica delle ipotesi elaborate dagli storici moderni su questo argomento, cercando di sgombrare il campo, dove possibile, da interpretazioni a nostro avviso eccessivamente condizionate dall’ossequio a certi schemi radicati e sedimentati nella storiografia e nella tradizione antiche. Le considerazioni finora espresse, pur condivisibili e sicuramente valide nel delineare il contesto in cui operò, e fallì, il dispotismo domizianeo, appaiono tuttavia troppo generiche per essere pienamente soddisfacenti. Da esse si può partire però, per l’analisi di un fattore che fu probabilmente determinante nell’innescare la crisi politica e, conseguentemente, la fine violenta del regno dell’ultimo flavio. Ci sembra infatti che poco si sia detto finora sulla possibilità che l’avvelenamento del clima politico durante gli anni di Domiziano sia in parte consistente dovuto alle precoci preoccupazioni dell’imperatore, della sua corte e dei suoi amici, circa la successione .Vedremo, nei prossimi paragrafi, come ad esempio la posizione di Domitia Longina, e la sua relazione con il princeps, siano oggetto di bruschi cambiamenti nel corso del regno, e come tali oscillazioni, spiegabili soltanto con la difficoltà progressiva della moglie dell’imperatore a generare un erede maschio, abbiano avuto dei riflessi diretti sull’armonia e sulla stabilità dei rapporti tra il flavio e la classe dirigente. Quello che all’apparenza sembra un banale motivo di frivoli pettegolezzi, si rivela in realtà un problema sempre più ossessivo e pressante, e non abbiamo difficoltà a immaginare che un uomo ansioso e un meticoloso pianificatore come Domiziano abbia avuto enormi difficoltà a gestirlo. Non è soltanto la secolare esperienza delle dinastie europee d’ancien régime a spingerci verso un’interpretazione siffatta della crisi del principato; esistono alcuni indizi significativi in tal senso. Innanzitutto, era un fatto assolutamente noto che i Flavi fossero votati al principio ereditario: Vespasiano doveva almeno in parte al fatto di avere due figli l’opzione in suo favore quale candidato alla porpora espressa da Licinius Mucianus e dagli altri componenti delle Partes Flavianae ; egli stesso si trovò poi a fronteggiare, se dobbiamo credere alle fonti, un numero considerevole di congiure proprio a causa della chiara risolutezza con la quale perseguiva la successio in domo ; il duro scontro con Helvidius Priscus maior, e la successiva condanna a morte di quest’ultimo, rientravano nell’estenuante battaglia condotta per affermare il principio dell’ereditarietà . Vespasiano però, cresciuto e formatosi politicamente negli ambienti della corte giulio – claudia, e in particolare almeno per qualche tempo all’interno dell’influente circolo di Antonia Minore, ne ereditava la concezione di principato senza possedere gli stessi requisiti di nobiltà. Questa particolare condizione, oltre alle ben note conseguenze sul piano della condotta istituzionale che si traduceva nel tentativo di legittimazione attraverso il monopolio delle magistrature più importanti, produsse un effetto secondario, al momento forse inevitabile, visto a posteriori, rovinoso. La necessità di ridurre al minimo i rischi di usurpazione, amplificati dalla relativa modestia sociale dei propri antenati, spinse i Flavi a limitare l’estensione e la ramificazione del proprio network familiare, proprio al fine di evitare che un matrimonio legittimasse le aspirazioni di un capax imperii. È vero che la dinastia durò in tutto meno di 30 anni, e che il solo Augusto regnò di più, ed ebbe più tempo per intessere alleanze familiari, ma sin dall’inizio l’assai più ampia cooptazione di gentes patrizie, e la prossimità delle stesse alla Domus Augusta, testimoniano di una consapevole strategia non solo di ricomposizione politica, ma anche di ricambio generazionale. La stessa attitudine alla ricomposizione del ceto dirigente caratterizzò gli esordi della dinastia flavia, ma ne influenzò solo in minima parte la politica matrimoniale. Le conseguenze di questa impostazione emersero durante il principato di Domiziano.

Questi, non solo dovette affrontare le difficoltà legate all’assenza di discendenti maschi, ma, in un certo senso, contribuì ad accentuarle, facendo giustiziare l’intera linea maschile del ramo familiare discendente dallo zio Flavius Sabinus. È intuitivo come ciò, a un certo punto del regno, potesse autorizzare legittime aspirazioni da parte di chi, pur non essendo imparentato coi Flavi, vantava nobili origini. Merita a questo punto una citazione la sintetica ma illuminante considerazione di M. Griffin circa la peculiarità del principato: “Given that there could be no law of succession in a political system whose monarchical character could not be avowed, all of these (scil. the patricians) represented a potential threat, particularly if the emperor was childless”.  Un altro elemento importante, a sostegno della mia tesi, è rappresentato dall’imponente dote di relazioni “eccellenti” e influenti nonché di pericolose prossimità con insigni esponenti dell’opposizione stoica che Domitia Longina, una volta divenuta sposa di Domiziano, aveva portato con sé. Tali soggetti non avrebbero sicuramente mancato di far sentire tutto il proprio peso a corte, in particolare sulle scelte strategiche di orientamento dinastico dell’imperatore. La rottura di questo tipo di alleanza, lo aveva dimostrato trent’anni prima Nerone ripudiando Ottavia, avrebbe isolato l’imperatore, esponendolo a ripetuti tentativi di usurpazione. Possiamo allora facilmente immaginare come, in una situazione tanto delicata, la corte e gli ambienti più prossimi al princeps fossero il ricettacolo di voci, pettegolezzi, false notizie, miranti a esercitare pressione sull’imperatore, a influenzarne le decisioni, a condizionarne le scelte; l’infinita serie di dicerie raccolte dalle principali fonti antiche sul regno di Domiziano, che motivavano il pessimismo di R. Syme sulla possibilità dei moderni di pervenire a una ricostruzione attendibile del periodo, poteva derivare il suo nucleo originario proprio dall’incontrollabile proliferazione di soffiate provenienti dall’entourage del monarca, che non di rado avevano uno scopo politico preciso. Non si fatica a credere che un carattere come quello dell’ultimo flavio, per nulla incline al compromesso, poco diplomatico, arroccato quant’altri mai sulle proprie convinzioni, in primis quella della trasmissione dinastica del potere, abbia perso molto rapidamente il controllo della situazione, travolto dalla sua stessa incapacità di dissimulazione e dalle difficoltà di trattare un problema che intaccava in maniera così evidente, attraverso le prevedibili interferenze della corte, il suo arbitrio esclusivo e assoluto. La successione, questione di rilevante importanza già nel corso del primo secolo di principato, divenne durante il regno di Domiziano un fattore dirimente negli equilibri interni alla classe dirigente, a causa delle particolari condizioni sopra riassunte: attorno alle scelte dinastiche del princeps potevano comporsi nuove alleanze gentilizie e disgregarsene altre, determinando pericolose e spesso non prevedibili alterazioni dell’assetto di potere interno all’establishment. Date queste premesse, effettueremo nei prossimi paragrafi un excursus dei momenti di crisi del principato, di quelli documentati e di quelli presunti questi ultimi per lo più sulla base delle testimonianze relative alle vittime delle rappresaglie successive, cercando di individuare dei denominatori comuni in tali episodi, con un’attenzione particolare all’incidenza del motivo dinastico. Le preoccupazioni dinastiche dell’imperatore emergono in maniera abbastanza evidente sin dall’inizio del principato. Svetonio ci informa che Domiziano onorò la moglie Domitia Longina del titolo di Augusta nel corso del secondo anno di regno, e la notizia viene confermata da alcuni tetradracmi emessi nell’82. L’ufficializzazione del titolo dovette formalizzare un passaggio avvenuto, con tutta verosimiglianza, immediatamente dopo l’assunzione della porpora da parte dell’imperatore, se le minute dei Fratres Arvales attestano l’epiteto già nella seduta del 1° ottobre 81. L’atto, estremamente inusuale, faceva immediatamente seguito all’apoteosi decretata al fratello Tito, e si inseriva perfettamente in una strategia finalizzata a definire le premesse e i futuri sviluppi di un principato che nelle intenzioni di Domiziano doveva essere indiscutibilmente dinastico. In questa prospettiva il provvedimento acquisiva ancor maggior valore, nella misura in cui esso legittimava a posteriori la posizione dell’Augusta in quanto madre della progenie imperiale. E’ quasi certo infatti, che l’attribuzione tanto repentina a Domitia di questo titolo sia da collegarsi alla nascita del figlio maschio cui fa riferimento Svetonio all’inizio della biografia dell’ultimo flavio, e che avrebbe visto la luce nell’anno del secondo consolato del padre (73 d.C.). Il rilievo attribuito a Domitia Longina in quanto genitrice del futuro erede si mostra ancora più evidente dopo la morte di questi; ce lo documentano alcune evidenze numismatiche. Alcuni aurei dell’82 mostrano sul recto il volto dell’imperatrice accompagnato dalla legenda DOMITIA AVGVSTA IMP(ERATOR) DOM(ITIANVS), e sul verso un bambino nudo seduto su un globo che volge le braccia verso 7 stelle disposte a semicerchio sopra di lui la cui titolatura recita DIVVS CAESAR IMP(ERATORIS) DOMITIANI F. La rappresentazione allegorica verosimilmente trasfigurava nel mito eziologico della stella Arturo l’apoteosi del figlio di Domiziano.  Una seconda serie di emissioni, più tarda, circolante in sesterzi, reca l’immagine di Domitia seduta con un bambino maschio in piedi di fronte a lei; in legenda, DIVI CAESARIS MATER. L’apparente equivoco rappresentato dalla differenza di età dello sfortunato erede nel primo e nel secondo conio si spiega con tutta probabilità con un topos letterario: non avendo ancora raggiunto il giovane l’età adolescenziale, per rendere la nudità eroica propria della dimensione divina e contemporaneamente attenuare l’immagine della morte prematura, esso viene commemorato, nell’aureo, nelle sembianze di un bambino. Laddove a essere oggetto principale della riproduzione non è più il figlio di Domiziano, ma la madre di questi, ecco che il primo ritorna alle fattezze che doveva avere al momento della dipartita. Il che contribuirebbe a confermare che la data di morte dovesse risalire all’anno 82 o 83 quando il giovinetto doveva avere press’a poco 10 anni. Tale documentazione suggerisce alcune importanti considerazioni. Innanzitutto, a prescindere dalla validità delle teorie finora espresse circa l’uso del termine Caesar e il suo valore in età flavia, è fuor di dubbio che tale designazione sanciva formalmente, nelle intenzioni di Domiziano, il diritto legittimo del suo primogenito alla successione. In secondo luogo, l’apoteosi del giovane defunto rappresentava un atto senza precedenti: mai, fino ad allora, un onore del genere era stato tributato a un fanciullo concepito e nato non in purpura. L’imperatore comunicava così in termini espliciti quali fossero i suoi intendimenti in materia successoria, divinizzando il figlio e celebrando la madre che l’aveva partorito, come donna in grado di procreare, e quindi di assicurare la continuità della dinastia, egli si appropriava della prerogativa esclusiva della successione, inviando allo stesso tempo un implicito messaggio a tutti coloro che, per prossimità alla Domus Augusta o per requisiti di nobiltà, avrebbero potuto nutrire qualche speranza di ascendere alla statio principis, in particolare dopo la morte dell’erede diretto. In tal senso, altri elementi rendono percepibile la grande e ansiosa aspettativa di Domiziano circa le possibilità di una successione interna alla sua famiglia: a questa fase del principato risalgono infatti i busti che ritraggono Domitia adornata da un diadema imperiale, accessorio tipico delle principesse orientali; non solo, la frequenza con la quale il diadema compare nei ritratti di questo tipo specifico, rivela che probabilmente esisteva una serie tematica apposita; il motivo poi – aspetto ancor più insolito – si ripete anche su una moneta proveniente da Cotiaeum in Frigia. Tale enfasi celebrativa nei confronti dell’imperatrice non sembra altrimenti spiegabile che per effetto delle attese dell’imperatore verso una nuova maternità. Non deve dunque sorprendere che la morte del giovane rampollo della famiglia potesse lasciare degli strascichi, e causare non trascurabili turbative negli equilibri interni alla corte. Una serie di avvenimenti infatti segue l’improvviso decesso, e ha spesso indotto gli studiosi a istituire collegamenti che, a uno sguardo più approfondito, non sembrano pienamente giustificati. Procediamo con ordine. Nell’anno 83, annotano le fonti, Domitia Longina sembra cadere in disgrazia: Domiziano aveva scoperto la relazione adulterina che la moglie intrecciava col mimo Paride; soltanto l’intervento del prefetto del pretorio L. Iulius Ursus le avrebbe evitato la condanna a morte, cui invece non riuscì a sottrarsi lo sventurato attore. La donna venne allontanata, forse bandita, e l’imperatore poté finalmente rendere palese la sua passione per la nipote, Flavia Iulia, figlia di Tito e di Arrecina Tertulla, moglie di Flavius Sabinus IV, e convivere a palazzo con essa more uxorio, meditando addirittura nuove nozze. La separazione durò poco però; forse un ripensamento personale, più probabilmente l’onda montante della protesta popolare indussero il princeps a richiamare la moglie; il gesto riportò la pace a corte e per le strade.

Tuttavia l’imperatore non smise di frequentare Iulia. Questo episodio, che inaugurò in sostanza il principato, rappresenta un ottimo esempio di come il processo di revisione storica successivo alla morte del tiranno abbia avuto gioco facile a determinare un appiattimento della dialettica politica interna alla corte domizianea a una dimensione frivola e scandalistica, indispensabile per offrire materia prima alla vituperatio, anche, crediamo, grazie alle peculiari caratteristiche della comunicazione in una corte imperiale, per sua natura indiretta, ambigua e inintellegibile ai più, facilmente equivocabile col banale pettegolezzo. Cercheremo quindi di strappare il velo di Maia delle apparenze, procedendo a un esame approfondito delle testimonianze letterarie, che presentano molti aspetti decisamente implausibili. Primo fra tutti, la supposta relazione tra Domitia Longina e il mimo Paride. Strano, e sospetto, innanzitutto, il radicale mutamento di condotta dell’imperatrice, trasformatasi da moglie virtuosa a fedifraga in coincidenza, guarda caso, proprio con l’assunzione della porpora da parte del marito. Ancor meno comprensibile che l’adulterio venisse consumato con un attore, che occupava un gradino ben più basso nella gerarchia sociale del mondo romano rispetto a una matrona di nobilissimi natali. Il nome Paride poi, rievoca suggestioni orientali e si presta a fin troppo ovvie associazioni mitologiche. Non solo; una ricca letteratura scandalistica offre molteplici esempi di dame d’alto lignaggio impegnate in relazioni libertine con attori o amanti déclassés, il che rende assai probabile che la vicenda di Domitia e Paride rispondesse a null’altro che a un topos . Altrettanto falsa la ricostruzione della condotta tenuta da Domiziano, e delle ragioni che lo mossero. Secondo Svetonio egli avrebbe effettivamente divorziato dalla moglie; Dione poi riferisce che l’imperatore avrebbe ucciso di persona l’adultero. Entrambi convengono sul fatto che marito e moglie si riappacificarono, presupponendo un nuovo matrimonio, atto inevitabile dopo il divorzio. In questo modo però, Domiziano avrebbe infranto non una, ma due volte la Lex Iulia de Adulteriis; secondo questo provvedimento, infatti, l’assassinio dell’amante era ammesso soltanto in caso di flagranza di reato inoltre, la parte lesa ovvero il marito tradito avrebbe dovuto procedere immediatamente alla separazione legale. Il mancato adempimento di questa prescrizione avrebbe comportato un’accusa di lenocinium. L’intero apparato di mistificazioni viene completato dall’intreccio amoroso tra il princeps e la nipote Iulia: dopo averla rifiutata allorché gli venne offerta in sposa, a vantaggio di Domitia Longina, Domiziano cominciò a sviluppare un’accesa passione verso di essa solo dopo il suo matrimonio. Il ménage tra i due, iniziato, a detta di Svetonio, quando Tito era ancora vivo, sarebbe poi divenuto di pubblico dominio in occasione dell’esilio di Domitia, e si sarebbe trascinato fino alla morte violenta di Iulia, dovuta alle conseguenze di un aborto, l’ennesimo, cui l’imperatore l’avrebbe costretta nell’anno 89 probabilmente. Eppure, anche in questo caso, alcuni elementi rendono implausibile la vulgata letteraria: Iulia fu onorata della consecratio alla sua morte, e in un epigramma di Marziale, poeta di corte e di conseguenza particolarmente attento a non urtare gli umori del suo augusto committente, la sfortunata principessa, da poco mancata, viene evocata quale celeste protettrice di un nascituro tanto atteso dalla coppia imperiale; è quantomai evidente che il poeta si sarebbe risparmiato tali riferimenti se le notizie relative all’adulterio e agli aborti di Iulia fossero state attendibili. Il quadro testé descritto ha autorizzato, in maniera senz’altro legittima, la maggior parte degli studiosi moderni a liquidare questa congerie di voci come parti di una più articolata strategia di diffamazione postuma di Domiziano, incentrata in particolare sulla sistematica comparatio tra la sua immagine pubblica, ispirata da una politica di severa censura dei costumi e di forte controllo sulla condotta morale degli stessi rappresentanti del culto, e la sua vita privata, dissoluta e asservita alla lussuria, di cui l’ultimo flavio era al contempo interprete attivo (nella sua relazione con la nipote) e vittima inerte (nel suo ruolo di marito tradito e incapace di punire). Non a caso, infatti, le fonti antiche alternano con studiata premeditazione la descrizione delle traversie familiari del princeps alla cronaca dei più eclatanti interventi di correctio morum: Dione, ad esempio, fa seguire alla vicenda del bando di Domitia il racconto della punizione delle Vestali, le sorelle Oculatae e Varronilla; Plinio fa altrettanto con la condanna della Vestale massima Cornelia e dei suoi amanti in associazione alla descrizione dell’aborto fatale di Iulia; Svetonio stigmatizza l’incoerenza dell’imperatore evocando l’episodio dell’erasione dall’albo dei giudici del nome di un cavaliere che aveva ripreso in casa la moglie dopo che questa era stata ripudiata e accusata d’adulterio. Va tuttavia constatato che, a prescindere dalla vituperatio d’età nerviana e traianea, i pettegolezzi e le dicerie che ne fornirono l’alimento scaturirono dal contesto della corte domizianea, e colà trovano la loro ragion d’essere e le loro motivazioni occulte. Su di essi si costruì poi il processo di revisione storica successivo, ma ciò non toglie nulla al fatto che esistessero già in forma diversa probabilmente durante il principato di Domiziano. Una volta esclusa la reale consistenza di questi rumors, perlomeno nella forma in cui ci sono stati trasmessi, viene spontaneo chiedersi perché e come furono diffusi, quale fosse in sostanza la ragione politica che determinò l’esplosione dello scandalo dell’83, e di quelli successivi. A tal fine occorre però fare qualche passo indietro, e ripercorrere la biografia della protagonista principale, Domitia Longina. Lungo il percorso espositivo articolato in quindici sale, la mostra racconta, dunque, la storia di Domiziano, complessa figura di principe e tiranno non compresa dai contemporanei e successivamente dai posteri, che hanno basato il loro giudizio sulle fonti storiche e letterarie a lui, sostanzialmente, avverse. Più recentemente l’analisi delle fonti materiali in particolare epigrafiche ha restituito l’immagine di un imperatore attento alla buona amministrazione e al rapporto con l’esercito e con il popolo, devoto agli dei e riformatore della moralità degli uomini. Un imperatore che non pretese e non incoraggiò la formula autocratica “dominus et deus”, ritenuta da molti la motivazione profonda del clima di sospetti, terrore e condanne a morte sfociato nella congiura nella quale egli perse la vita. La violenta damnatio memoriae che, secondo la drammatica testimonianza di Svetonio e Cassio Dione, avrebbe comportato subito dopo la sua morte l’abbattimento delle statue che lo ritraevano e l’erasione del suo nome dalle iscrizioni pubbliche, fu in realtà limitata ad alcuni contesti e non trova conferma nel numero di ritratti giunti fino a noi a Roma e in tutto l’Impero. Il racconto della vita di Domiziano è affidato alle cinquantotto opere provenienti dalla mostra di Leiden e alle trentasei aggiunte per l’edizione romana: ritratti in marmo ed in bronzo di personaggi imperiali e di divinità, elementi di decorazione architettonica in marmi bianchi e colorati e oggetti di piccole dimensioni in oro e bronzo. Prima opera e icona dell’esposizione, a Leiden come a Roma, è il celebre ritratto di Domiziano conservato nei Musei Capitolini.

Da esso parte il percorso espositivo e sviluppato lungo cinque grandi tematiche: Domiziano, imperatore e caro agli dei; l’esaltazione della gens Flavia e la propaganda dinastica; i luoghi privati di Domiziano, dalla casa natale sul Quirinale al palazzo imperiale sul Palatino e alla villa di Albano; l’intensa attività costruttiva a Roma; l’impero protetto dall’esercito e retto dalla buona amministrazione. La statua del Genio di Domiziano è al centro della prima sala, dedicata alla caducità della vita, rappresentata idealmente da ritratti infantili, allusivi all’imperatore e al figlioletto morto prematuramente, e dalla vetrina “del tempo della vita”: sul quadrante di un orologio, soluzione concettuale e visiva per far percepire con immediatezza lo scorrere veloce ed inesorabile del tempo, otto oggetti-simbolo simboleggiano i momenti cruciali della vita dell’imperatore, indicati dal pugnale-lancetta che ucciderà Domiziano. La galleria dei ritratti mostra l’evoluzione dell’iconografia di Domiziano nel tempo. Accompagnano l’imperatore il padre Vespasiano e il fratello Tito, nonché le Auguste Giulia figlia di Tito e Domizia Longina, le cui ricercate acconciature sono emulate dalle dame di età flavia, ma anche la sua familia allargata, composta da liberti e schiavi. Alla damnatio memoriae decretata dal Senato all’indomani del suo assassinio riportano invece due iscrizioni e una moneta, sulle quali il suo ricordo è stato cancellato. Il concetto di continuità dinastica dominò gran parte delle azioni di Domiziano, arrivando all’esaltazione della gens Flavia attraverso l’erezione di archi onorari al fratello divinizzato e, sul luogo in cui sorgeva la casa natale, mediante la costruzione del Templum Gentis Flaviae, monumento di ripresa ma anche di rottura con il luogo e con la tradizione del Mausoleo di Augusto. L’eccezionale testa colossale di Tito divinizzato e i frammenti del Dono Hartwig mostrano la maestosità concettuale e dimensionale del complesso templare dedicato alla famiglia Flavia. La tematica dei luoghi privati dell’imperatore prende avvio dal contesto del Quirinale, il colle sul quale Domiziano nacque, per arrivare alla grandiosità architettonica e decorativa delle ville fuori Roma e, soprattutto, del Palazzo imperiale sul Palatino, opera dell’architetto Rabirio. È questo il luogo dove l’imperatore appariva come dominus e dove l’opulenza e il lusso flavio maggiormente si esprimono, grazie a nuovi linguaggi architettonici e decorativi, che ricorrono al massiccio impiego di marmi colorati. Il percorso attraverso i luoghi pubblici domizianei illustra l’intensa attività edilizia sviluppata sia nella ricostruzione degli edifici distrutti dall’incendio dell’80 d.C. sia nella realizzazione di nuovi monumenti funzionali alla propaganda imperiale. Tra questi il Foro Transitorio, costruito da Domiziano ma inaugurato dal successore Nerva, e la progettazione di una sistemazione urbanistica dell’area tra Quirinale e Campidoglio attraverso lo sbancamento della sella montuosa che univa i due colli. Sarà possibile avere la percezione di questo intervento attraverso un video immersivo realizzato appositamente per la mostra e destinato a diventare uno dei prodotti della comunicazione del Museo dei Fori Imperiali. Negli edifici per gli spettacoli (Stadio, Odeon, Anfiteatro Flavio) si manifestava maggiormente il consenso popolare; l’impressione e l’atmosfera che essi suscitavano nel pubblico sono evocate dal calco del sepolcro di Quinto Sulpicio Massimo, morto a undici anni, la cui iscrizione ricorda la brillante partecipazione del bambino prodigio al terzo agone capitolino di poesia greca, e dalla moneta in bronzo con l’effigie del rinoceronte, mai visto a Roma prima dei giochi nell’Anfiteatro voluti da Domiziano. Nella sezione su Domiziano “fuori da Roma, fuori dai confini”, introdotta dalla pianta dell’Impero, sono affrontati il rapporto con l’esercito e l’attività edilizia e monumentale nelle città e nei territori dell’impero, conferma di una coesione non solo militare ma anche sociale.
Musei Capitolini – Villa Caffarelli Roma
Domiziano imperatore. Odio e amore
dal 13 Luglio 2022 al 29 Gennaio 2023
dal lunedì alla domenica dalle ore 9.30 alle ore 19.30