Edvard Munch

Un fantasma si aggira per il  mondo


Le storie, solitamente, raccontano percorsi lineari. Lo stesso avviene, perlopiù, con la storia dell’arte: sulla linea del tempo vengono registrati, avvenimenti dopo avvenimenti, personaggi dopo personaggi , i “periodi” progressivi delle vicende umane e, tra queste, anche quelle dell’arte.
Le stesse storie ubbidiscono a paradigmi descrittivi ed esplicativi che la tradizione fa proprie enucleandole, per esempio, nelle storie dei fatti e delle idee, ovvero dei personaggi-eroi e dei popoli. I risultati di queste tendenze storiografiche sono riportati negli “annali” delle diverse scuole di pensiero e mettono in luce, in forma a volte sorprendentemente nuova, fatti e personaggi del passato altrimenti destinati a mummificarsi in stereotipati  luoghi comuni.
Un altro modo  – ma meglio si direbbe “metodo” –  apparentemente alternativo, di leggere e interpretare la storia generale, e così anche la storia dell’arte, è quello “non lineare”, ma “episodico” o “per corsi e ricorsi”: un genere storiografico che rincorre le analogie ovvero le affinità tra fatti occorsi in tempi diversi, lontani gli uni dagli altri. L’intento storiografico, in questo caso, è quello di cogliere i sintomi  di vicende successive che quegli stessi sintomi hanno lasciato intravvedere o presagire. Sono prese allora in esame le cosiddette “cause”,  che, quando sono “piccole”, fanno la cronaca; e, quando sono “grandi”, fanno la storia. La nota caratteristica di quest’ultimo modo di procedere fa dello storico una figura alla stregua di un “esploratore”, interessato a scoprire non tanto tesori archeologici, quanto, piuttosto, “link” significativi e suggestivi tra accadimenti lontani, in genere scarsamente considerati dagli studi correnti.
 
È opportuno, a questo riguardo, magari in ambito di storia dell’arte, “fare un esempio”. Si prenda, come motivo di ricerca, il “sentimento della paura” (o dei suoi consimili, quali, “spavento”, “terrore”, “orrore”, “angoscia”), per vedere come se la cava il predetto esploratore.
Si ponga il caso che egli sia stato indotto nella ricerca da una situazione di pura casualità: l’essersi trovato tra le mani, e sotto il proprio sguardo, l’”Urlo di Edvard Munch (1863-1944).  L’esploratore in parola, invero, conosceva  l’opera del pittore norvegese; ma l’improvvisa apparizione di quell’immagine gli è risultata, lì per lì, foriera di una forte emozione. Come mai?
 
Doverosa pausa di riflessione , dopo quel breve ma intenso spaesamento.
 
Le vicissitudini del tempo presente e cioè le sanguinose scorrerie terroristiche, il ricordo della foto del volontario con in braccio il corpicino del piccolo Aylan annegato nel naufragio del gommone dei migranti, gli inauditi attacchi alle vestigia archeologiche di Ninive, Mosul, Nimrud, Hatra, Palmira e, per affinità “mimetica”, il crollo spaventoso delle torri gemelle, sono bastate per indurlo a ritenere che quell’”Urlo” esprimesse l’orrore dell’umanità ferita da così efferate crudeltà. L’immagine pittorica, in questo caso, si era fatta icona del sentimento di angoscia universale.
Ma, ad un autentico esploratore tutto ciò non è bastato. È tornato sull’immagine dell’”Urlo” e gli è parso evidente come  quel grido angoscioso venisse da lontano: non era stato il contrasto   dei colori complementari del blu e dell’arancio del cartone  che lo avevano intrigato, né, tanto meno, il conflitto delle linee (ondulate e diagonali) che nel dipinto generano disordine figurativo  e  aumentano l’impressione di insostenibile terrore. La sua attenzione non era stata catturata dalle due piccole sagome che paiono allontanarsi, indifferenti, dalla scena dello strazio alienato; non era stato neppure lo sciogliersi del paesaggio in campiture liquefatte; la sua curiosità non era stata attratta nemmeno dall’inverosimile e paurosa aurora boreale che occupava quasi metà della superficie del dipinto.
Ora, egli fissa la figura-ectoplasma in primo piano. È lì che si cela il quid che fa scattare l’emozione nell’osservatore:  la   silhouette dipinta è essa stessa la forma sonora di quel grido, un ululato più che un urlo, un grido lungo e raccapricciante che s’irradia ad onde concentriche su tutta la superficie del quadro, riverberandosi, come una radiazione, anche sull’osservatore.
L’ectoplasma, all’esploratore, ricorda ipso facto gli effetti del bombardamento su Hiroshima e Nagasaki: l’umanità sfigurata e sofferente per il supplizio delle radiazioni. Altro ricordo cruento è la bambina, nuda, che fugge dai bombardamenti in Vietnam. L’”Urlo, in altre parole, ad oltre centoventi anni dalla sua esecuzione, resta sintetica summa e denuncia di ogni catastrofe causata dalla cecità umana. A questa altezza di significato iconico non assurge neppure  Guernica”, realizzazione postuma rievocativa dell’eccidio della cittadina basca.
Quando si dice dell’arte lontana e indifferente  rispetto alle vicende della storia! Munch, oracolo vaticinante in edizione moderna, aveva presagito, senza alcun dubbio, i disastri prossimi di là a venire del primo conflitto mondiale, così come non gli era mancato l’estro di dipingere, in anteprima, la crisi imminente dell’esistenzialismo: solitudine, indifferenza, smarrimento, angoscia.
 
L’esploratore di cui sopra, protagonista involontario della “riscoperta” del capolavoro di Munch, rimboccandosi le maniche del pensiero, non pago della sua riflessione su quest’opera così emblematica, si sovviene sul momento di altre divinazioni, di altre rappresentazioni allusive delle disgrazie umane rintracciabili negli album degli artisti più grandi. Ed ecco apparirgli, sulla scena dei suoi ricordi, le immagini di James Ensor (1860-1949), di Arnold Bockin (1827-1901), di  Hieronymus Bosch (1453-1516) e, forse, del rappresentante più insigne  dei figuranti della follia umana, Francisco Goya (1746-1828). Detto con colpevole ironia: grazie al cielo, l’umanità, a quanto pare, non è stata mai parca nell’offrire agli artisti motivi di costernazione, e, perciò,  di dileggio, denuncia, allarme.
Ensor, benché capacissimo di anticipare la tecnica della pittura impressionista (La mangiatrice di ostriche, 1897), evoca con le sue pitture spaventosi sabba di maschere e scheletri. L’umanità è ridotta ai minimi termini nella sua vanagloriosa e ripugnante stupidità. Nella   “Entrata di Cristo a Bruxelles (1888) celebra l’esatto opposto dell’entrata di Cristo a Gerusalemme: una folla in maschera, tra delirio e sberleffo, accoglie il figlio di Dio come forse non si sarebbe visto neppure nella sua Via Crucis. Così ne “Il mio ritratto con maschere (1936), Ensor, al centro di una moltitudine mascherata, nella ricerca plausibile di un raggio di speranza, si vede smarrito  in un vortice di paura e solitudine.
Arnold Bocklin, riduce all’ultimo possibile stadio, quello dell’”Isola dei Morti (1880), la navigazione dell’esistenza umana: il dipinto sembra riecheggiare l’ultimo, strozzato “urlo” di Munch. L’immagine è ugualmente drammatica: un plausibile, bianco  Caronte, attraversando le acque del fiume Acheronte, trasporta in barca all’ultima meta (agli inferi?) l’anima dell’umanità. Nel chiuso abbraccio roccioso, dove s’annida un folto e tenebroso bosco di cipressi, non c’è speranza di resurrezione: le cime degli alberi eterni oscillano lievi al triste vento di morte.
Hieronymus Bosch nei “Sette peccati capitali” (ca. 1516), raduna su una tavola ed illustra non le sette meraviglie del mondo ma le sette perle dei vizi umani, con tanto di giudizio divino e condanna all’inferno. È la mostra allegorica delle nefandezze umane, viste e caricaturate nella dignità di una pittura ideograficamente geniale. Se ne vedrà un simile seguito solo nella produzione di Georg Grosz (1893-1959).
Francisco Goya (1746-18289), strenuo e accanito oppositore dell’Inquisizione e della stregoneria, trasferisce nei suoi “Caprichos (1790-1799)  figure di inaudito, beffardo realismo, per rappresentare il lato oscuro della commedia umana (ignoranza, brutalità e, soprattutto, decadimento della ragione). Infatti, le ottanta tavole dei suoi Caprichos costituiscono una sorta di Fregio della follia universale all’insegna dell ’icastico motto “Il sonno della ragione produce mostri”.
 
 L’arte della pittura, allora, non ammannisce solo gustose pieces per il godimento interiore, squisitezze per lo spirito virtuoso e strenuamente appassionato del bello, ma anche formidabili manifesti  sulla caduta del buon senso, sulle bassezze e le brutture dei vizi dei singoli o di una popolazione o dell’intera umanità. Carlo IV di Spagna dovette adoprarsi non poco per sottrarre Goya alle grinfie dell’Inquisizione: come a dire che il potere, quello palese e quello occulto, è sempre in agguato, sospettoso e guardingo sulle mire di libertà dal dominio e dalla persecuzione. La storia si ripete, maestra a metà. Sull’arena della vicenda umana, ancora oggi, il sonno della ragione genera non solo mostri, ma anche schiere di vittime innocenti immolate per cause più grandi di loro, naufraghi in un mare senza approdi.