Nel caso di
Edward Hopper (1882-1967), il gioco si fa addirittura allettante: l'artista americano ha lasciato tante di quelle opere che parlano da sole senza la necessità (come nel caso, per esempio, di
De Chirico o di tutta l'arte informale) di interrogarsi sul loro contenuto e/o sul loro significato. È molto probabile che, in questo frangente, entri in ballo una circostanza straordinaria: avvertire quelle opere non come accadimenti estranei alla nostra esperienza, ma, piuttosto, come ferma-immagini, fotogrammi di situazioni emblematiche nelle quali, pur oggi, ci riconosciamo e ci imbattiamo. Non sono immagini critiche del loro e del nostro tempo, riferibili al disfacimento del nostro essere (si pensi a
Picasso) allusive o allucinanti (come in certi dipinti espressionisti, in
Munch magari), enigmatiche e disarmanti (come nello stesso
De Chirico): sono, al contrario, "flashes d'agenzia", che nulla tolgono e nulla aggiungono alla loro pura evidenza ed essenzialità, non una
tac (
Malevic) e neppure una semplice
radiografia (
Mondrian). Possono essere prese, queste sì, per delle semplici
fotografie, realizzate un po' con l'obiettivo impressionista, sviluppate nella camera oscura del surrealismo ed appese ad asciugare sul filo del realismo.
Si è soliti leggere, sempre a proposito di Hopper, come del caposcuola dei pittori che dipingevano la
scena americana , come se questa scena fosse una rappresentazione di vita tipica di un'
enclave, o di una colonia di nativi, e non una documentazione, la più fedele ed emblematica possibile, di tutta la civiltà occidentale. La quale - guarda caso - continua ancora a chiedersi come superare certe forme di vita annebbiate da crisi esistenziali, certi atteggiamenti dispersi nella solitudine e certi comportamenti
in attesa di interventi salvifici (la
speranza cristiana, l'
ottimismo pragmatico, la
luce oltre la siepe): tutti elementi rinvenibili - qui casca il ragionamento - nelle opere di
Edward Hopper. Il quale, infatti, e da questo versante, può ben dirsi artista
europeo e non solo
americano , avendo fatto tra l'altro, in gioventù, il suo bravo
gran tour nell'Europa artistica di
Parigi (ben tre volte),
Londra, Berlino, Bruxelles e
Spagna, con le
scoperte illuminanti degli impressionisti, dei loro precursori e, soprattutto, di
Goya.
Come accade quasi sempre con tutti i grandi artisti, anche per Hopper, si staglia l'ombra di un assistente-filosofo, con le cui opere Hopper spesso si accompagnava nella lettura:
Ralph Waldo Emerson. Era stato costui un pensatore e un protagonista della scena culturale americana di spicco (fino al 1882); e le sue riflessioni avrebbero influenzato anche il pensiero europeo, filosofico e non, fino a
Nietzsche, fino a
Proust. Grande poeta, Emerson propone, tra l'altro, una
visione della vita e dell'etica che la anima, dove Hopper viene a trovarsi a suo agio e vi si accomoda agevolmente: il concetto del filosofo di
superanima (al quale non seppe sottrarsi neppure Nietzsche) si avvicina allo spirito osservatore-indagatore di Hopper. Questo spirito opera da sentinella sempre allerta e allo scoperto: contrariamente ai dettami del nichilismo, la sua etica lo porta a vedere la realtà attraverso il filtro dell'autostima, sensibile ai valori della tradizione della comunità di appartenenza e rispettoso della vita. La
superanima agevola il dialogo tra gli uomini: la
necessità, il
dilemma, l
'enigma della vita non possono divenire gli spauracchi in cui essi debbano annichilirsi come anime perse. La vera libertà non si annida nella
fuga o nella
ribellione alle sfide del mondo, quanto, piuttosto, nella capacità di accettarle, comprenderle e, se del caso, affrontarle. L'ottimismo pragmatico tipico della mentalità americana non poteva esprimersi altrimenti in miglior modo.
Ed è quanto traspare nei dipinti di Hopper: egli accetta la realtà, non ne prende le distanze in una visione romantica di lontananza, la sorprende piuttosto negli attimi minuti della vita del singolo e della coppia; ma non ne accetta supinamente la condizione di acre solitudine in cui sono immersi i suoi personaggi e i suoi paesaggi urbani. In tutti i suoi quadri (ma è quanto avviene per ogni pittura escatologica) entra in scena l'osservatore, che avverte la
denuncia del pittore. Davanti allo sguardo dell'osservatore si appalesano, allora, i fantasmi invisibili che fluttuano nelle tele: la solitudine, anzi, l'isolamento il più delle volte, l'incomunicabilità, la sospensione del momento, l'enigma dell'
uomo in frak, che solo se ne va nella notte, tempo di soliloqui e di dialoghi smozzicati.
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A seguire, e ad esemplificazione e compendio di quanto detto sul conto di Hopper, alcune descrizioni di sue opere significative:
Automat (1927)
In questo dipinto sono presenti tutti gli elementi che sono stati più volte menzionati; ma, questa volta, lo
spazio del locale pubblico si riduce a raffigurarne un solo angolo, ove una "miss", più presente altrove che in sé stessa, volge lo sguardo straniato sulla tazzina di caffè. Il suo atteggiamento, tanto compreso in un isolamento che è possibile avvertire patetico, non lascia presagire l'arrivo di nessuno. Fuori è freddo, lo dicono il suo cappotto e il suo copricapo ben calato sulla fronte. La sedia, la sedia che l'è davanti, pare l'unico testimone del suo silenzioso tormento.
Non ci si può allontanare dalla visione di questa meraviglia senza non prima aver gustato la qualità notturna dei suoi colori: pastosi sì, di sapore quasi impressionistico, ma calati nell'atmosfera elettrica di un interno.
Una domanda: di fronte a quest'opera, si può immaginare un dipinto più antitetico?
Ebbene sì: non può che essere "
Un bar alle Follies-Bergère" (1881) di
Manet. Non è opportuno rilevarne le mirabolanti differenze: ognuno, messe le due opere a confronto, le può rilevare da sè. Forse è utile solo ricordare un dato: i due dipinti sono separati da quasi cinquanta anni: il
can- can copre con il suo frastuono di spasso e allegria la miseranda inquietudine della poverella di
"Automat".
Ma vi sono, pure, almeno altre due opere che possono accostarsi ad "
Automat", questa volta non per opposizione ma per similitudine e che devono aver impressionato non poco l'immaginazione di Hopper nei suoi viaggi parigini:
"La prugna" (1877) dello stesso
Manet e l'
"Assenzio" (1875) di
Degas: cambiano le situazioni, ma l'atmosfera è la medesima.
Early Sunday Morning (1930),
Domenica mattina
In
"Early Sunday Morning" (1930), gli sparuti personaggi delle altre tele qui scompaiono del tutto. Resta la città, anzi un quartiere, anzi un palazzo, con la sua strada. A dare un senso a questo paesaggio urbano può sovvenire solo una piazza dechirichiana: la luce della metafisica, con le sue ombre lunghe, dilaga fin dentro gli appartamenti che appaiono su una facciata tagliata longitudinalmente in mezzo, con le serrande dei negozi abbassate al piano terra (è domenica) e le finestre chiuse a metà o con le tendine tirate. Un rettangolo di cielo sovrasta a mala pena il tutto ma ti lesina persino uno straccetto di nuvola. Gli abitanti del palazzo li puoi solo immaginare in quest'ora di sospensione universale: si realizza in quest'attimo una pressoché tragica
divisio magna tra mondo umano e mondo fisico e il secondo pare che abbia fagocitato il primo. Puoi sentire, allora, il grido metallico di un allarme definitivo: quello di una catastrofe imminente, di un bombardamento atomico o di uno tsunami senza precedenti.
Ma resta a consolarci lo spirito di
Hopper, che non è mai così apocalittico. Egli arriva a fare capolino da una delle sue strade per dirci, e rassicurarci, che è solo un gioco. L'uomo, e perciò l'umanità, grazie al suo proprio pragmatismo, non arriverà mai più a tanto. E anche se alcune strade dello spirito restano deserte, la
superanima che aleggia nel mondo, in barba ai favoleggiatori di nefandezze, favorirà le migliori soluzioni a tutti i conflitti.
Nighthawks (1942)
, Nottambuli
In "
Nottambuli" (1942) la sua arte raggiunge il
climax che non l'ha più abbandonato
. Personaggi, in ordine di apparizione: tre avventori, un barman, pareti di vetro, negozi, la strada, la notte. Sono tutti "personaggi" che riempiono la scena di significati allusivi: quelli in carne e ossa non paiono proprio logorroici. Anche le macchine del caffè accusano la sindrome dell'isolamento. I seggiolini vuoti reclamano sedute inesistenti. Bar e negozi hanno pareti di vetro che smentiscono clamorosamente sé stessi: non lasciano intravvedere; anzi, barricandosi dietro la loro trasparenza, fanno apparire il nulla di uno spazio pubblico. Sulla strada parla solo la strada: non è asfaltata ma sinistramente ricoperta di lastre che paiono di marmo. La notte, poi, si esibisce in una luce che solo sa rendere la maestria di
Hopper e che tende un gioco (un tentativo di dialogo?) tra l'interno e l'esterno del bar. Ma è, pure esso, un dialogo muto, impossibile.
Office in a small city, 1953
In questa tela si riguadagna la situazione più emblematica dell'uomo hopperiano: la solitudine si fa proterva a prefigurare una condizione di isolamento dell'uomo contemporaneo e un isolamento che appare ancor più marcato in un
office man, destinato, per mandato, a colloquiare con il pubblico. Appare subito in evidenza una contraddizione sintomatica: a fronte degli spazi aperti (un ufficio senza finestre, e, comunque, con larghe aperture verso l'esterno) il pensiero corre a tutte le potenzialità della comunicazione, che, in questa situazione, sembra comunque mutila mancando il secondo interlocutore. Del resto l'
office man, benché a mezze maniche, non tradisce l'impegno in un lavoro da stakanovista: il suo tavolo di lavoro è praticamente sgombro e non vi si vede neppure l'ombra di un telefono, indizio innegabile d'un potenziale collegamento con il mondo.
C'è, forse, solo da osservare che, dai primi manifesti della
pittura del silenzio fino a
questo "Office in a small city" è praticamente trascorso quasi mezzo secolo; ma l'ennesima
lezione di
Hopper è la stessa: occorre - filosofia di Emerson
docet - munirsi di uno
sguardo di trascendenza, di una
superanima, capace di vedere, tra i vetri trasparenti che
non traspaiono e tra i varchi aperti delle pareti che
non aprono a vedute lontane, e di fare propri i sintomi di una
rigenerazione a dispetto della claustrale condizione in cui vorrebbe condurre ogni proposito di pessimismo.
7 / 7 / 2016
Luigi Musacchio