“L’ARTE HA ORMAI ESAURITO IL SUO SCOPO DI CREARE IMMAGINI”: Queste parole riferite a Enrico Castellani e riportate in epigrafe al suo bello studio sull’artista veneto dal critico Flaminio Gualdoni, “suonano” un po’ alla stregua di quelle, terribili, scritte sulla porta d’ingresso dell’inferno dantesco. L’immagine della figura umana, croce e delizia della pittura d’ogni tempo, arcaica e stilizzata sulle pareti rupestri d’Altamira, prospetticamente suggestiva e già compresa in un’aura metafisica nelle tombe egizie, quanto mai perfetta e osannante l’avvenenza delle fattezze umane nella scultura greca e quindi, perlopiù, trasposta a Roma per glorificare per l’eterno la grandezza di condottieri e imperatori; quella stessa immagine, sempre tradotta in figura, nelle stilizzazioni della pittura bizantina e successivamente presa a modello, ma già modellata e più armoniosamente composta dall’arte medievale, sembrò attendere i tempi, quanto mai fausti, dell’umanesimo e del rinascimento italiano per assurgere alle declinazioni del sublime “umano” (Leonardo e Raffaello) e del sublime “celeste” (Michelangelo).
Successivamente, la “figura”, proiettata nel cielo ma già soverchiamente contaminata di elementi “umani” (Caravaggio) segue la scaletta delle vicissitudini storiche, nelle variopinte correnti dell’arte pittorica, fino ad assurgere a forme estenuate di rappresentazioni di genere (impressionismo). Già in questo stesso ambito, tuttavia, un artista catalano , Picasso di nome, infrangeva il modello che per secoli aveva dominato nelle botteghe e nelle accademie d’arte. Le sue Demoiselles d’Avignon (1907) spalancano scenari nuovissimi e la pittura non sarà più la stessa. Vi porranno mano e testa i successivi e quanto mai “debordanti” movimenti, in primis, cubismo (Braque) e, di poi, espressionismo (Munch), astrattismo (Mondrian, Malevich) e, ancora, prime avanguardie (1900), action painting (Jackson Pollock), e giù, per tutto il XX secolo e ad oggi, rutilanti correnti della più varia ispirazione e, tra queste, il “minimalismo” in cui si è soliti comprendere Enrico Castellani.
La “figura umana”, dunque, che ha sempre emblematicamente racchiuso quanto di più “elevato” l’immagine in pittura poteva rappresentare, si annichilisce sotto i colpi del modernismo; che, non pago di decostruire la ”figura umana”, attacca e demolisce dalla base l’immagine in tutte le sue forme, ovvero in tutte le sue potenzialità rappresentative (es.: paesaggio, natura morta). I primi sintomi si scorgono con l’astrattismo, ove però motivi d’ordine geometrico o cromatico alludono tuttavia a parvenze ultime e residuali di “forme” prima di cedere all’attacco d’ariete di Kazimir Malevich, che, in Quadrato nero (1915), avvolge nel suo funebre manto qualsiasi superstite scampolo figurativo.
Gli artisti della prima metà del Novecento non s’erano ancora misurati (non potendolo ancora fare) con la tecnologia, che, di lì a poco, avrebbe fatto la sua sensazionale “comparsa”, con i suoi apporti nel mondo della produzione (automazione, robotica) e della comunicazione (TV, internet, realtà irtuale e, da ultimo, Intelligenza Artificiale). A restarne influenzata, in forme e aspetti a volte sorprendenti e accattivanti, sarebbe stata – e lo è – tutta l’arte contemporanea: basterebbe citare i soli “casi” di Christo, Koons, Viola, e Pomodoro per averne compiuta contezza.
Enrico Castellani, dalla sua, ha una cifra personalissima, uno stigma inconfondibile, perché, pur partecipe della compagine dei “guastatori d’immagini”, la sua arte vanta una vena di “classicismo” in quanto a stile espressivo, qualità esecutiva, purezza di forma e armonia rappresentativa. Non vi è nulla in questo artista della furia creativa di Manzoni, non la ricerca ossessiva di costui della “trovata” (perlopiù geniale) in tema di soggetti rappresentabili; quanto piuttosto la calma riflessiva e la pacata, ripetuta, eppur sempre “nuova”, esecuzione dell’opera. E non vi è parimenti nulla delle ormai tediose ripetizioni dell’informale e del neo-figurativo, a cui la provvida rivista Azimuth aveva dispensato una definitiva finis vitae.
Eccolo allora, l’artista veneto alle prese con la sua “nuova” idea: la tela, la tela di tutte le stagioni artistiche, classico oggetto 2D tradotto in manufatto 3D. Quasi in omaggio alle “intemperanze” (si fa per dire) tecnologiche, la superficie piatta della tela viene “introflessa” ed “estroflessa” mediante un rigoroso sistema di chiodi e puntelli sottostanti, impressi su centine fissate al telaio. Al termine del lavoro, le protuberanze e gli avvallamenti, disposti a intervalli regolari, imprimono al supporto telato gradevoli e sempre cangianti effetti-luce, in simbiosi con l’ambiente circostante.
Così, la serie delle sue Superfici, iniziata nel 1959, lo terrà occupato praticamente per tutta la sua esistenza, condotta con un vivere da monaco certosino, appartata e laboriosamente dominata da un instancabile fare di natura pressoché artigianale.
La superficie castellaniana introduce in arte – neanche a dirlo e come è stato ben osservato da Gillo Dorfless (1993) – una “nuova dimensione” riscontrabile nei seguenti punti basilari: tridimensionalità dell’opera, perfetta monocromia (così cara a Manzoni), mutante effetto chiaroscurale in combine con la luminosità ambientale, trama geometrica di volta in volta cangiante in forma e dimensione, azzeramento di qualsiasi intento narrativo. L’opera così concepita pare avulsa da qualsiasi proposito d’ordine estetico e gioca tutte le sue carte non nella caratura della personalità dell’artista, passata in secondo piano se non completamente elusa, ma nella sua disarmata e “spoglia” oggettività, per quello che è e non per ciò che vuole rappresentare.
Nel suo primo significativo lavoro, Superficie nera (acrilico su tela, 40x50 cm, 1959), Castellani pone la base, mai ritrattata, di tutta la sua arte. In questo lavoro le “estroflessioni”, disposte a caso sulla superficie della tela, creano un illusorio sistema luminoso, quasi una costellazione stellare nell’infinità plumbea d’un cielo notturno. L’ordine casuale pare reclamare e giustificare l’assenza voluta dell’autore, mentre chiama in causa la “reazione” dell’osservatore in chiave di perfetta consonanza con il principale carattere dell’arte “relazionale”.
Già, tuttavia, nel medesimo anno, con Superficie bianca (tela a rilievo, 114 x 146 cm), ci si ritrova davanti ad un primo e sostanziale passo verso un’evoluzione concettuale che non troverà più pausa: la prima caotica, casuale “estroflessione” si ricompone in un ordinato contesto geometrico a rilievo, dove i punti luce-scuro si alternano in linee orizzontali e in verticali, creando una tabula 3D. A fare la sua parte, al solito, è chiamata la luce ambiente, punto focale ineliminabile nel quadrangolo dell’espressione estetica “autore-opera-luce-osservatore”.
Successivamente, le Superfici, oltre a farsi rosse, rigate, a doppio angolo, blu, alluminio e ad accentuare la propria tridimensionalità nella “espansione” fisica del supporto nell’ambiente in cui sono collocate, come in Ambiente bianco (1967-1970), Obelisco (1970), Asse di equilibrio (1973), Serie bianca (1990), Superficie biangolare cromata (2011), sono altresì realizzate (senza mai abbandonare le predilette intro-estroflessioni) in ottone, bronzo, zinco e altri materiali.
Il valore artistico di queste opere, come avverte Gillo Dorfless, e come non può non trovare d’accordo l’osservatore più attento, non risiede, ancora una volta, nella trovata ”tout-court” delle escrescenze e dei loro opposti, ma, semmai, nella capacità di creare dei centri di gravità come in “zone di attrazione” dove più si mobilita, si concentra e si fissa l’attenzione dell’osservatore. Queste opere, come avrebbe riconosciuto lo stesso Castellani, effettivamente non fanno più parte né della pittura, né della scultura, né dell’architettura. Sono allora – si può forse dire così – opere di un’arte novella, capaci anch’esse, alla maniera delle opere “classiche”, di interrogarci e sorprenderci.