Giovanni Cardone Marzo 2023
Fino al 18 Giugno 2023 si potrà ammirare al MART- Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto la mostra dedicata a Fausto Pirandello Il Dramma della Pittura da un’idea di Vittorio Sgarbi a cura di Manuel Carrera e Daniela Ferrari. Il Mart dedica un focus a Fausto Pirandello, grande pittore del novecento di cui conserva due importanti opere, “Composizione”e “Nudo in prospettiva”, entrambe realizzate nel 1923. Attraverso cinquanta lavori e un allestimento tematico la mostra traccia il profilo dell’artista e ne sottolinea il carattere introspettivo della ricerca. Nelle sale del Mart trovano collocazione opere iconiche come le “Bagnanti”, “Donne e salamandra” e il celebre ritratto al padre Luigi, premio Nobel per la letteratura. Nell’arco della sua carriera, Pirandello passa dal linguaggio analitico di ascendenza nordica alla scomposizione cubista e astratta del dopoguerra; dall’espressionismo degli anni della “Scuola romana”, fino al ritorno, nel periodo maturo, di una rappresentazione esasperata dell’umanità. Considerato dai critici un precursore, Pirandello anticipa alcuni aspetti della pittura della seconda metà del XX secolo, da Lucian Freud ai figurativi contemporanei. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Fausto Pirandello apro il mio saggio dicendo : In un itinerario iconografico sentito come modello di una classicità perenne da una parte mentre dall’altra era sentito come una matrice immaginativa. L’influenza di maestri come Casorati e Carrà è evidente anche nel gioco dialettico delle contrapposizioni. Altri luoghi iconografici di incontro sono l’universo umanizzato del mondo del lavoro, ora esaltato come realizzazione individuale ora visto come legame con la terra e il paesaggio; la vita metropolitana e il sereno ambito domestico delle relazioni familiari; la festa e i suoi apparati colorati. Comune è anche l’inclinazione a legare bellezza femminile e ambiente, naturale o domestico. Infine, un senso estatico della natura, come Eden ormai remoto se non perduto, è riconoscibile in diverse opere figurative di questi anni. Se la chiave iconografica dà la possibilità di superare rigide schematizzazioni e contrapposizioni a vantaggio di un itinerario di lettura che consente di scoprire non solo le concordanze poetiche ma anche le dissonanze rivelatrici e significative, un secondo parametro "topografico" può rivelarsi non meno fruttuoso per l’identificazione di singoli profili e complessità di situazioni. Si consideri, in questa direzione, il ruolo propositivo, di influenza e di attrazione che negli anni trenta hanno avuto rispettivamente Torino, Roma e il bipolo Milano-Bergamo per il periodo che vede congiunte l’affermazione degli artisti di Corrente e quella del Premio Bergamodi cui gli stessi giovani pittori sono protagonisti. A Torino, nella svolta del decennio, l’accorta lungimiranza di Casorati e l’ardore insieme cristiano e europeo di Persico25 critico non conformista , non disposto ad autarchici arroccamenti né a consegnarsi a una separata "torre d’avorio" del mondo dell’arte - possono dimostrare l’inevitabilità di una scelta insieme modernista e legata a una solo, produttiva, cultura continentale. "I sei di Torino" Boswell, Chessa, Galante, Levi, Menzio, Paulucci esprimono chiaramente la necessità di collocare la ricerca pittorica, al di là di ogni magniloquente esercitazione retorica, in stretta vicinanza con il "gusto" europeo, particolarmente francese, derivato dalla esperienza, ma anche dalla iconografia "moderna" impressionista e postimpressionista. Quella che si è potuta definire "Scuola romana" o "École de Rome" si ricordi che la fortunata designazione si deve a Waldmar George che così definisce nel 1933 il lavoro di Cagli, Capogrossi e Cavalli esposto a Parigi e che Longhi, a proposito dell’opera di Mafai, Raphael e Scipione, aveva già parlato nel 1929 di "Scuola di via Cavour" e come ai nomi sopracitati debbano essere aggiunti Afro, Scialoja, Stradone, Pirandello, gli scultori Leoncillo, Mazzacurati, Fazzini è un clima artistico che accomuna una nuova generazione pervasa da istanze etiche di rinnovamento e dal desiderio di dare una forte rappresentazione fantastica alla vita emozionata e quotidiana di tutti. È su questo terreno, ideale e formale, che si sviluppano le profonde concordanze con gli artisti giovani operanti a Milano radunati alla fine del decennio in "Corrente", movimento che utilmente accomuna in uno stesso spazio operativo e riflessivo pittori e scultori con poeti, critici e filosofi. I modi di un rinnovato linguaggio espressionistico, adombrati nelle opere di molti artisti romani, sono qui più marcati ed espliciti così come le opzioni verso una rappresentazione figurativa che esprima la necessità di non separare libertà dell’arte e libertà delle manifestazioni di vita, individuale e sociale, secondo quanto andava sostenendo in quegli anni il filosofo Antonio Banfi. Il nuovo profilo dell’arte italiana alla fine degli anni trenta risulta ben rappresentato nelle quattro edizioni del Premio Bergamo dal 1939 al1942, autentico proscenio per una giovane generazione di pittori che sapranno dare un volto originale e riconoscibile nell’aperto contesto internazionale all’arte italiana del secondo dopoguerra. Continuano le esposizioni sull’arte durante il ventennio fascista e si continua a restituire il giusto merito ai fermenti artistici di quel periodo fortemente incoraggiati dal regime per mano di uomini illuminati come il ministro dell’educazione Giuseppe Bottai che promossero quello che è stato probabilmente l’ultimo movimento artistico italiano di portata internazionale.Dopo le due fondamentali esposizioni di Forlì, “Novecento”, e della fondazione Prada di Milano, “Post Zang Zang Tumb Tuuum”, è appena stata inaugurata a Cremona la mostra dal titolo “Il Regime dell’Arte. Premio Cremona dal 1939 al 1941” in riferimento a quel concorso pittorico d’arte fortemente voluto dal gerarca fascista Roberto Farinacci nella sua città natale a cui si contrappose volutamente negli stessi anni il “Premio Bergamo” patrocinato dallo stesso Bottai. Sebbene sia Farinacci che Bottai abbiano avuto come comune denominatore il fatto di essere fascisti della prima ora, entrambi uomini d’azione fondatori dello squadrismo delle proprie città, il primo a Cremona e il secondo a Roma, i caratteri dei due non poterono essere più distanti. Mentre Farinacci incarnò il movimentismo fascista permanente anche durante gli anni del potere del regime, Bottai, una volta dismessi i panni del rivoluzionario, rappresentò in pieno l’uomo politico borghese con una visione amplissima sulle materie che gli furono affidate, in questo caso specifico l’educazione del popolo italiano e l’arte, diventandone sia un abile manipolatore ma anche, da intellettuale coltissimo quale fu, un uomo rispettoso della qualità creativa in se stessa a prescindere dall’allineamento ideologico dell’artista. Mentre Bottai diventò un uomo politico di apparato dedicandosi a costruire la burocrazia del regime di stato, Farinacci continuò ad essere l’uomo della rivoluzione. Bottai trascorse il primo decennio in adorazione indiscussa del duce per poi, nel secondo decennio, venire a una posizione critica sempre più forte ma sempre nell’ambito di una elaborazione più interiore ed intellettuale che di azione, invece Farinacci tenne sempre una posizione di brutale indipendenza dal capo. Egli fu per Mussolini quello che Ernst Rohm, il fondatore delle truppe d’assalto naziste, le SA, fu per Hitler: un uomo d’azione affidabile per i momenti più incerti ma sempre pericoloso tanto che mentre il capo nazista riuscì a sbarazzarsi del suo amico di vecchia data in seguito a un sanguinoso regolamento di conti avvenuto nel corso di una notte, il Duce non riuscì mai ad eliminare il suo uomo forte un po’ perché ne ebbe sempre bisogno un po’ perché la spinta politica e militare di Farinacci fu sempre tale da mantenergli un’autonomia di azione, anche quando cadde per lunghi periodi in disgrazia. Ad esempio si è sempre pensato che dietro l’attentato a Mussolini di Bologna del 1926, di cui fu addossata repentinamente la responsabilità a quell’adolescente disgraziato di nome Anteo Zamboni che fu linciato sul posto, ci fosse lo stesso gerarca cremonese ma nonostante ciò nessuno gliene chiese conto, nemmeno in fase di indagine formale. Fu un uomo indomabile, violento, estremamente corrotto e, sebbene ricoprì pochissime cariche formali importanti, ebbe sempre un seguito politico non indifferente, soprattutto nella sua città, da cui pubblicava un giornale molto temuto, Il Regime fascista, da cui periodicamente partivano bordate sia verso oppositori politici ma anche verso gerarchi fascisti nemici causandone quasi sempre la caduta in disgrazia. È chiaro sin dai titoli del concorso dove volesse andare a parare Farinacci, come l’arte fosse solo strumento di propaganda sulla scorta dell’esempio tedesco e poco importa che aderirono artisti di livello o che in giuria ci fossero dei critici d’arte di primo piano come Giulio Argan o che le esecuzioni degli artisti in gara, alla fine, fossero state di buon livello: lo schiacciamento dell’arte alla volontà propagandistica ad imitazione del metodo hitleriano, con la sua visione pedante e piccolo borghese, la rese un’arte “minore” e l’intento di snaturare l’impianto artistico impostato da Bottai in un decennio fu vano. I risultati sono evidenti e non lasciano dubbi sulla mediocrità delle tele esposte e non è un caso che siano cadute in un totale oblio per sette decenni e che delle 360 opere solo una sessantina siano sopravvissute. Le poche foto allegate sono sufficienti per rendere chiaro il concetto. Termino ricordando che mentre Farinacci metteva in campo il suo concorso proprio nell’ultimo tenuto dal Premio Bergamo di Bottai, in piena guerra ormai perduta, il 1942, fu premiato vincitore il Cristo crocefisso di Guttuso, un’opera monumentale e rivoluzionaria che influenzerà l’arte nei decennio a venire bel oltre la fine del regime, totalmente fuori dai canoni della propaganda fascista e clericale. Come dice Rosario Pinto: “Non caso, ed in limine, sarà proposta nel 1942 la Crocifissione di Renato Guttuso, un’opera che, però, viene fatta oggetto di dileggio e di rifiuto da parte cattolica, fino al punto di veder comminata, da parte del vescovo di Bergamo Adriano Bernareggi, ai preti che dovessero recarsi ad ammirarla nel cotesto della seconda edizione del ‘Premio Bergamo’, la “sospensione a divinis”. Bottai non solo la premiò ma la difese strenuamente contro la censura fascista che puntualmente arrivò e dal boicottaggio perpetuato dalla chiesa perché ritenuto blasfemo. Da lì a poco tutto precipitò, L’Italia cadde nel caos del 25 Luglio del 1943, Bottai per primo perse tutte le cariche e si diede alla macchia seguito da Farinacci due anni dopo. Si ricordi che mentre Bottai durante la riunione del Gran Consiglio del fascismo si rivoltò contro Mussolini votando la mozione Grandi che portò alla fine del suo governo, Farinacci, nonostante le sue insubordinazioni plateali, si oppose strenuamente a Grandi fu fedele al Duce fino alla fine. Mentre Bottai, come Ciano, fu sempre aspramente antitedesco, Farinacci, tra i gerarchi fascisti, fu il più entusiasticamente filo nazista soprattutto dopo che furono approvate le leggi razziali a cui, peraltro, aderì anche Bottai. Mentre quest’ultimo con senso di disciplina e di responsabilità dava l’esempio ai propri camerati e alle truppe affrontando in prima linea tutte le guerre del fascismo rischiando per davvero la vita, per Farinacci, come per Starace, le guerre furono soprattutto un’occasione per compiere stragi di innocenti tanto da disgustare anche molti gerarchici di altissimo rango come Ciano, per commettere ruberie e passare il tempo in distrazioni lontano dalla prima linea. Perse una mano durante la guerra d’Etiopia mentre pescava con le bombe in un laghetto e tentò di far passare la ferita come causata da un’azione di guerra per averne i meriti militari e per poter usufruire della pensione di invalidità provocando la riprovazione irata del Duce, quando venne a saperlo, obbligandolo a versarla al fondo dei familiari delle vittime di guerra. Non poteva esserci così tanta distanza tra le personalità dei due uomini, in aperto contrasto per tutti i venti anni del regime. E se l’opposizione di Farinacci non costò la vita a Bottai fu perché quest’ultimo aveva un tal controllo della macchina statale, e per lungo tempo la stima sincera di Mussolini, da renderlo intoccabile per tutti. Ed è a questo punto che Farinacci, con l’approssimarsi della guerra nel 1939, decise di sfidare apertamente Bottai nel suo campo, quello della cultura, organizzando il Premio Cremona a cui Bottai rispose con il Premio Bergamo. Ma il confronto non poteva essere più impietosamente impari. Mentre Bottai era già stato promotore per almeno dieci anni di esposizioni, concorsi, triennali, quadriennali, confronti culturali e pubblicazioni di altissimo livello qualitativo, un immane lavoro teso a dare la massima visibilità alla produzione artistica del paese sia per permettere al regime di servirsene ma anche per il gusto di elevare lo spirito culturale del paese arrivando ad assicurare agli artisti e agli uomini di cultura una impensabile seppur relativa autonomia di pensiero e quindi creativa, invece l’intento di Farinacci era di seguire ideologicamente la linea culturale tracciata da Hitler in Germania ovvero di negare la dignità di arte a quella che quest’ultimo in persona denominò “arte degenerata”, da Picasso in giù. L’arte ammessa era solo quella asservita all’idea di stato, un’arte retorica, stereotipata, priva di fantasia, apertamente funzionale alla propaganda del regime nazista. Questo fu lo spirito del concorso di Cremona e i titoli che diedero il nome alle gare nei tre anni in cui si tennero sono esplicativi della minima dimensione intellettuale: 1939, “Ascoltando alla radio un discorso del Duce”; 1940, “La battaglia del grano”; 1941, “La Gioventù del Littorio”.Non si discute l’indubbio merito della mostra di far riemergere dall’oblio della storia anche questa coda terminale dell’espressione artistica italiana di quel periodo ma piuttosto l’intento dei curatori di porlo alla stesso livello di qualità creativa del concorso di Bottai se non, addirittura, dell’intero movimento artistico italiano del periodo fascista. Cosa che a mio avviso non fu importante per capire meglio la cultura del tempo questo lo esprime attraverso le sue opere anche Mario Sironi con ‘I teleri’ per il Palazzo delle Poste di Bergamo il 19 gennaio 1934 venivano fissati sulle pareti della Sala accettazione dei telegrammi del nuovo Palazzo delle Poste, progettato da Angelo Mazzoni e già inaugurato nell’autunno 1932, i due grandi dipinti a olio di Mario Sironi dedicati uno all’Architettura ovvero, Il Lavoro in città e l’altro all’Agricoltura poi la famosa rappresentazione Il Lavoro nei campi che nel contempo divennero trasparenti e riconoscibili allegorie delle due più tipiche immagini della cultura e dell’habitat bergamasco. Commissionati all’artista nel 1932, i bozzetti preparatori avevano ricevuto il benestare del Ministero delle Comunicazioni ai primi di giugno, venendone prevista la realizzazione per l’autunno dello stesso anno in occasione della inaugurazione del Palazzo delle Poste. Le opere sironiane non trovarono posto se non due anni dopo, nel gennaio 1934, portati da Milano in ferrovia, sotto le cure di Vittorio Barbaroux, direttore di una delle gallerie milanesi maggiormente impegnate nel sostenere gli artisti contemporanei. Aveva probabilmente tardato Sironi nella consegna dei teleri a causa dei fitti incarichi professionali che lo chiamavano in questo stretto giro d’anni a grandi impegni, dalla mostra romana per il Decennale della Rivoluzione Fascista del1932 alla direzione degli interventi di pittura e scultura alla Triennale di Milano del 1933, accompagnati da fondamentali elaborazioni di ordine teorico, delle quali il Manifesto della pittura murale  del 1933 è certamente il più significativo. I due dipinti per le Poste di Bergamo, dal punto di vista storico artistico, hanno dunque speciale rilevanza per la collocazione cronologica nell’itinerario creativo di Sironi, per le modalità rappresentative e le procedure tecniche adottate: la nuova scala monumentale delle rappresentazioni figurali, il particolare trattamento dei soggetti iconografici espresso in una cifra in cui si bilanciano modernità di temi e trasposta visione classica, la semplificazione radicale dell’apparenza pittorica, orientata a una chiara definizione dei rapporti tra temi rappresentati e ordinata complementarietà rispetto alla scansione dell’ambiente architettonico complessivo. I teleri sironiani per Bergamo segnano una svolta decisiva nella ricerca dell’artista prefigurando gli sviluppi dei successivi cicli monumentali e decorativi degli anni Trenta, e lasciano della città una metafora eroica e un’appassionante apologia. Il profondo rapporto tra Sironi e Bergamo si collega d’altra parte anche all’esperienza umana dell’artista che dispose alla sua scomparsa di riposare a Bergamo, accanto alla madre Giulia Villa ed alla figlia Rossana. Per quasi quarant’anni i due dipinti per il Palazzo delle Poste sono stati le opere d’arte contemporanea più vicini alla consuetudine quotidiana della vita della città. La Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, debitamente autorizzata, è stata ora attrezzata in modo da consentire la piena fruizione delle due importanti opere di Sironi dando così una concreta risposta al desiderio, molte volte ribadito negli ultimi anni, della città di Bergamo. Prendo la statua dal particolare meno interessante, cioè il meno importante, quello che può suggestionarmi meno, quello che può dare a me più confidenza e meno soggezione; e quindi non parlo mai nel fare una statua, che essendo un’immagine già mi turba. E vado avanti, avanti, immaginandomi l’aldilà, che non voglio mai vedere. Quando capisco che, adagio, questa operazione sta riuscendomi, e che è in pieno mio dominio, allora mi volto, e guardo la statua per la prima volta. Con un colpo, le apro gli occhi, ed è viva. . In questo modo incominciando dal particolare, che non era nella visione, che non apparteneva all’immagine avuta inizialmente, cominciò da ciò che non avevo pensato. Il famoso verso, che vien da Dio, me lo riservo per ultimo e le do il soffio finale. Il soffio è un tradimento inaspettato per la statua, e bisogna sempre aspettare un suo momento di distrazione. Mutevole come un barometro, l'artista vive continuamente in alternative di speranze illusorie e di esagerate disperazioni. Le disuguaglianze dei suoi sentimenti producono le più curiose dissonanze spirituali. Dei suoi mutamenti formali non si possono dare che spiegazioni molto approssimative. Chi può infatti incasellare le sue inquietudini, le sue emozioni, se egli vive continuamente con qualche demone?  Il corpo non ha espressione, ha carattere; e la testa è soltanto un'appendice indifferente, il più delle volte un'intrusa. Gli apparati sensori non sono in vista come nel viso e per questo le superfici diventano larghe e raccolte, e la costruzione pura. Ogni volta che noi vediamo un nudo, ci sembra sia stato creato allora, se ne riceve un senso di meraviglia, e infatti una strana animalità lo avvicina e lo lega come parte di una vitalità misteriosa alle altre cose della natura. In questi ultimi tempi si parla molto di derivazione dell'Ottocento, di atteggiamenti neoromantici; in fondo credo che è meglio partire dalla radice vicina che risalire ai tempi delle corazze e delle toghe. Noi assistiamo continuamente alla demolizione di tutto ciò che è appartenuto all'Ottocento e io ne sono stato testimone, quando ho visto la mia vecchia casa cadere, i muri crollare ad uno ad uno, le camere aprirsi un attimo alla luce e poi diventare calcinaccio e polvere. La pittura, per esempio, ci libera da molta accademia, l'individuo comincia a essere rappresentato un po' come è, nella sua luce naturale, nei suoi gesti particolari: e non si dipingono più tante storie di santi, cupidi alati, uomini dignitosi e presuntuosi: e di questo, sinceramente, dobbiamo essergliene riconoscenti. La sostanza delle cose conta più dei colori, è la sostanza che determina la forma, mentre la plasticità è intensificata dallo strato d’aria che avviluppa le cose. E’ l’aria che ci fa indovinare e vedere col nostro cervello il lato per noi invisibile degli oggetti. Contro e pro il paesaggio La pittura di paesaggio è femmina e le sue conseguenze sono il rammollimento del gusto,l’esigenza e la smania delle soluzioni ambigue che solleticano il senso, il piacere, il capriccio, la fantasia, e in ultimo lo spirito, la malinconia e la baldoria e in genere tutti i romanticismi,la lontananza dalle soluzioni rigidamente logiche e necessarie. In conclusione l’amore di tutte le inutilità che trasportano la mente senza sorreggerla né guidarla nelle aspre avventure dello spirito. Mario Sironi, 1930 Il sole tramontante proietta sul paesaggio lunghi fasci di luce. I campi sono illuminati da questa rivelazione di luce, che qua e là si spegne, conferendo al paesaggio una sensazione del divino. Sotto questa sensazione del divino prendo i pennelli e dipingo il paesaggio che mi sta solenne davanti. Al di là della pittura da cavalletto, al di là del frammento pittorico La pittura, perduti i rapporti con l’architettura, cioè con la vita, si decompose, si frantumò, annunziando fatalmente il trionfo del frammento, l’avvento del quadro da cavalletto, dell’espressione individualista. I bifolchi del sentimento - i romantici - continuarono a lungo a speculare sopra questa misera superficie di pochi centimetri quadrati illudendosi di riassumere in un rettangolo di modeste proporzioni evaso dall’ambiente funzionale, la potenza suggestiva del linguaggio plastico dei primitivi o dei classici, di coloro cioè che a contatto con Dio o con la terra, con l’immagine plastica e con l’architettura avevano compreso il compito umano dell’arte. La generazione dei bifolchi del sentimento - cioè dei pittori e scultori romantici che attribuiscono al quadro da cavalletto e al frammento pittorico o plastico poteri universali o valori plastici è in agonia. L’agonia è lenta, ma la certezza di questa fine è in noi. Noi futuristi italiani, precursori d’ogni felice indirizzo artistico e plastico, sentiamo imperiosamente la necessità di arginare l’attuale disorientamento della pittura e della scultura per la sopravvalutazione e sovrapproduzione del quadro e del frammento plastico, che ha esaurito totalmente lo sviluppo storico delle arti plastiche e la loro funzione in rapporto alla vita di un popoloin completa rinascita. Enrico Prampolini, 1934.I Sei di Torino La prima mostra dei "Sei pittori" fu il risultato di una lenta elaborazione di idee, e di un lavoro sotterraneo da cui erano esclusi ogni facile estro ed ogni speranza di successo. Per quindici giorni, Torino assistette a un carnevale non meno rumoroso e divertente di quello che nella capitale subalpina ha tante tradizioni di spensieratezza goliardica: la critica e il pubblico si accanirono contro i "Sei" con l’intuizione di un pericolo irreparabile; i giornali pubblicavano colonne e colonne di luoghi comuni, mentre i visitatori si accampavano nella saletta della mostra a spacciare le spiritosaggini più inaudite. Alla collera degli avversari, e alla impreparazione del pubblico, i sei pittori, fiancheggiati da un gruppetto di amici, opponevano quotidianamente il tranquillo decoro della ragione, e trasformavano la bottega di piazza Castello nella sede di un bizzarro comitato di salute pubblica. Edoardo Persico, 1931Era un ragazzo atletico e rosso di faccia, un’andatura da semidio e un ridere improvviso e pieno. A guardarlo, a sentire il calore della sua voce e l’impeto dei suoi discorsi, nessuno avrebbe pensato al male che lo rodeva, alla febbre che non lo lasciava più ormai da un pezzo. Tutti conoscevano il suo male, ma nessuno pensava alla sua morte. Ma Scipione aveva nel cuore la pena terribile di saper che non aveva tempo per esprimere tutto quel che dentro gli urgeva. Era di quei temperamenti dai quali ci si può attendere all’improvviso l’impossibile. Della sua generazione, era l’artista più completo e giovane, quello in cui erano più possibilità di imprevisto ed irruenza di genialità. Fu disegnatore grandissimo. Tra i moderni fu il primo a piegare ogni precedente esperienza disegnativa per raggiungere un particolare segno a tocchi improvvisi e sinuose sensualissime linee penetranti. In lui nessuna sciccheria, nessun modernismo d’accatto, nessun partito preso. Fra due pitture corrono cento, duecento disegni, espressi con mano nervosa, con ampiezza di scrittura rapidissimi, liricissimi. Era giovanissimo quando insieme a Mafai creò a Roma uno dei fenomeni più importanti nella storia della pittura dell’ultimo decennio. Chi erano questi due artisti  che tra 1930 e 1931, Mario Mafai e Scipione al secolo Gino Bonichi uno dei maggiori protagonisti della Scuola di via Cavour ovvero la ‘Scuola romana’, il cui sviluppo fu seguito da vicino da Roberto Longhi, cominciano a collaborare continuativamente, l’uno come corrispondente da Parigi e l’altro come illustratore, con ‘L’Italia letteraria’. Mafai firma importanti articoli dove è chiara l’adesione ad alcuni principi critici maturati all’interno del dibattito sull’arte e il Fascismo a partire dagli anni Venti. Parallelamente Scipione esegue e pubblica numerose illustrazioni satiriche, influenzate nello stile da precise personalità artistiche europee e dedicate a fatti e scenari nazionali e internazionali Biennale, Quadriennale, Surrealismo, Galleria d’Arte Moderna di Roma, Reale Accademia d’Italia dove la sua capacità critica trova un’inaspettata e originale sintesi grafico-narrativa. Entrambi i contributi dei pittori romani meritano un più vasto approfondimento, ancora tralasciato dagli studi specialistici, e vanno inquadrati nell’ampio contesto culturale del Ventennio. Le sortite critiche di Mafai e Scipione infatti, posseggono un alto valore esemplificativo all’interno del complesso sistema culturale dell’Italia entre-deux-guerres. Il saggio è volto a dimostrare come la politica culturale fascista, col sostegno di molti intellettuali e artisti, fosse stata in grado, già nel 1930, di favorire l’elaborazione e l’applicazione di particolari strategie culturali e critiche finalizzate all’affermazione di un “primato” italiano anche in campo artistico-contemporaneo, per nulla disinteressato al contesto europeo. Il sodalizio artistico che legava Mario Mafai e Scipione- Gino Bonichi cristallizza oggi una stagione feconda dell’arte italiana che, secondo la vulgata, sbocciò inaspettata come un fiore nel deserto di un supposto immobilismo, proprio nel cuore dell’epoca fascista. Meriti di consapevole resistenza interna e di malcelata opposizione sono stati distrattamente attribuiti a posteriori all’operato di questi due artisti, i quali con il loro espressionismo avrebbero ingaggiato una lirica contropropaganda, cosmopolita e politicizzata, al regime. Ricalibrare tali semplificazioni, giustificate da necessarie, quanto fuorvianti ragioni ideologiche, può condurre ad ampliare la portata di un percorso che invece non ignora il complesso contesto culturale in cui si sviluppa e anzi aiuta a chiarirlo . Ed è un fatto che l’attività dei due sulle colonne de ‘L’Italia Letteraria’, cominciata nell’estate del 1930 e grosso modo coincidente con il loro debutto sulla scena artistica nazionale, possa essere un importante viatico per comprendere e valutare certe posizioni estetiche e politiche, destinate, nel caso di Mafai, ad evolvere fino alla sostanziale inversione, ma non completa trasformazione, e, in quello di Scipione, a fruttificare nella manciata d’anni che di lì in poi gli fu concesso dalla sorte di vivere. Il famoso sodalizio, peraltro non esclusivo non durò più di dieci anni, se si considera che Scipione  morì nel 1933 come Mafai aveva iniziato ad affermarsi nel mondo delle esposizioni solo nel 1929. Il loro incontro data al 1924 mentre l’esperienza dello studio di via Cavour risale al 1926, ma già nel 1930 Mafai si trasferisce a Parigi, alternando soggiorni italiani e francesi fino al 1932. Tuttavia, esistono innegabili tangenze nel loro percorso, che emergono anche nell’attività per ‘L’Italia Letteraria’, dove i due sostanziano una ben definita proposta artistica e culturale veicolata dalle opere e dagli scritti. Tale proposta non va però confusa con un fiero scisma dal sapore bohémien, tutto giocato in buie conventicole fumose e in cenacoli ristretti. Assecondando le intenzioni che loro stessi apertamente manifestano, nel caso di Mafai principalmente con le corrispondenze da Parigi e nel caso di Scipione con i disegni satirici  , va bensì rilevata una reale, e questa sì consapevole, volontà di incidere all’interno delle coeve politiche e dinamiche culturali organiche al regime, con eloquenti prese di posizione che preludono alla fondazione, insieme a Marino Mazzacurati nel 1931, di una vera e propria rivista: ‘Fronte’.L’ambito in cui si sviluppa la collaborazione di Mafai e Scipione con «L’Italia Letteraria» è da individuarsi nelle frequentazioni e nelle personalità che animavano il Caffè Aragno, luogo di ritrovo di parte dell’intellighenzia culturale dell’epoca, tra rondisti e solariani , in una Roma che, al debutto degli anni Trenta, si preparava all’ambizioso progetto di diventare la capitale culturale del cosiddetto “impero spirituale” fascista. In quegli anni infatti si erano trasferite in città le redazioni di importanti testate che, alla metà degli anni Venti, avevano intrapreso e sostenuto campagne ideologiche e culturali in seno al fascismo, creando vaste correnti. Così, ad esempio, ‘Il Selvaggio’ di Mino Maccari, stabilitosi definitivamente a Roma nel 1932, seguito nel 1933 da ‘L’Italiano’ di Leo Longanesi mentre, già nel 1927, era arrivata «La Fiera Letteraria» che, con l’abbandono della direzione di Umberto Fracchia a favore di Curzio Malaparte, affiancato l’anno successivo da Giovan Battista Angioletti, nel 1929 diventava ‘L’Italia Letteraria’. Inoltre, nel 1931, con l’inaugurazione della Prima Quadriennale nazionale d’arte di Roma, sotto l’egida di Cipriano Efisio Oppo, confluisce a Roma tutta l’ ‘Italia artistica’, chiamata a mostrare i frutti della nuova politica sindacale delle arti , orchestrata a partire dal 1927 e con l’adesione anche ideologica di molti artisti compresi Mafai e Scipione  di fare di Roma un polo alternativo a Parigi che, in ottica di primato sancisse l’avvento di un nuovo corso culturale europeo e fascista. L’esperienza di Mafai e Scipione su ‘L’Italia Letteraria’ è anche una pubblica manifestazione di adesione a certe declinazioni dell’ideologia fascista così come si era andata articolando all’interno del dibattito sulle arti in relazione al nuovo ordinamento politico. Un confronto in prima istanza coagulato attorno alla nota inchiesta di ‘Critica Fascista’ del 1926 e poi sviluppato negli anni successivi all’interno dei circoli culturali e politici nazionali. Nei loro interventi infatti, è chiaro l’intento di prendere parte attiva nel processo di sistematizzazione e declinazione di un nuovo scenario artistico nazionale nelle vesti di membri di quell’ideale “partito degli artisti”, inquadrato all’interno delle politiche corporative di regime, che anelava di svolgere un ruolo rilevante, anche in termini educativi e morali, attraverso l’esercizio delle arti . Se nel 1926 e negli anni precedenti l’attenzione era rivolta principalmente, seppur non esclusivamente, al fronte interno, nel 1927 il confronto aveva preso sfumature internazionali, con una serrata inchiesta sullo scenario culturale e artistico italiano svoltasi sulle colonne della rivista francese “Comœdia”. Non è superfluo accennare a questa serie di interviste a diversi artisti e intellettuali residenti o di passaggio nella capitale francese , poiché alcune di esse accesero in Italia violente reazioni, che resero il rapporto culturale con Parigi e in generale l’opposizione tra italianismo e cosmopolitismo, un nodo importante del dibattito sulle arti, sviluppato negli anni successivi e ripreso con forza anche da Mafai e Scipione. È nota infatti la polemica suscitata dalle interviste di Alberto Savinio e di Giorgio De Chirico, che sminuirono i risultati delle politiche culturali del regime, non esprimendosi apertamente sul suo operato in altri ambiti.  Quelle dichiarazioni costarono ai fratelli l’esclusione da diverse mostre, fra cui dalla Biennale del 1928 e nel 1931 dalla Quadriennale, per la forte e pubblica opposizione di Oppo che, sulla ‘Tribuna’, in relazione alla vicenda nel 1927, parlava di Parigi nei termini spregiativi di “grande Babele” e di “Internazionale artistica”. Meno note sono le interviste di Flippo De Pisis, Umberto Fracchia, Curzio Malaparte, Guido Da Verona, Antonio Maraini, Nino Frank, Pier Maria Rosso di San Secondo e Giuseppe Prezzolini, che pongono l’accento su temi quali la possibilità di un rinnovamento italiano nel fascismo, la creazione di una coscienza nuova, la sostanziale coincidenza di intenti di strapaesani e stracittadini nell’ottica di un rinnovamento nella tradizione e della ricerca di un carattere etnico nell’arte, la quale deve essere moderna ma non modernista, e la libertà della critica di cui discutono in particolare Prezzolini e Malaparte. Tutti questi interventi non sono estranei a Mafai e Scipione che con la loro attività giornalistica si affiancano e arricchiscono questo dibattito, avvicinandosi alle posizioni di Fracchia, Malaparte e soprattutto di Oppo, la cui famigliarità con i due è testimoniata anche da diverse lettere.Esulando da un tradizionale operato artistico dunque, anche Mafai e Scipione, come molti altri artisti italiani tra le due guerre, affidarono al mezzo giornalistico un’eloquente presa di posizione che li proiettò direttamente all’interno delle più vive tematiche legate al coevo andamento politico nazionale. Non dunque degli appartati “artisti di fronda” ma, come visto, consapevoli interpreti di un largo movimento di pensiero e azione direttamente influenzato dai presupposti del fascismo “rivoluzionario” che si esplica con una precisa volontà di partecipare e incidere. Una volta manifestata l’adesione alle politiche artistiche incarnate da Oppo infatti, Mafai e Scipione tentarono di mettersi alla testa di una nuova generazione artistica estranea ai precedenti primo novecenteschi e capace, da Roma, di armonizzare le tendenze nazionali riconducendole nell’alveo di valori politici e morali, rigenerati e normalizzati nel fascismo ed esportabili come un modello: una risposta italiana alla “deriva” culturale europea post-bellica. Il tentativo, tenace quanto concentrato in poco più di un solo anno, sfuma e si perde nella molteplicità di voci che negli anni Trenta si avvicendarono per imprimere una svolta o per affermarsi all’interno del dibattito sull’arte fascista, tuttavia resta essenziale per comprendere gli orientamenti di due artisti destinati a contare nella storia dell’arte italiana del Novecento. Se le condizioni di salute di Scipione ne rallentarono le attività fino alla morte nel novembre del 1933, lasciando appesa la sua eredità ad una celebrazione dai toni a volte idealizzanti, l’attività di Mafai proseguì all’interno del contesto dell’Italia fascista fino almeno al 1938. Un'altra figura fondamentale fu Renato Guttuso che nel 1933 attraverso Le ragioni implicite disse : “Il momento artistico attuale ha una storia così complessa che sarebbe assai saggio partito non arrischiarsi a parlarne. Forse questo momento dell’arte apparirà, novello Sisifo, come un portento di buona volontà, intesi come si è alla sudata fatica di portarci dietro, costi che costi, tutta una congerie d’indirizzi aprioristici, di schemi, di analisi, di sintesi, di presupposti, di ricognizioni su un passato prossimo,remoto e remotissimo. Pare che sia colpa di un’eccessiva critica: e forse non dipende che dalla personalità degli artisti: ma è anche vero che non siano pure e semplici ragioni politiche ad aver influito così stranamente a sovvertire le naturali funzioni dell’arte. Infatti, un’arte che per il momento almeno, ha perso ogni vitale destinazione deve per forza trovare ragioni sue proprie ed esplicite per vivere e sono forse proprio queste ragioni che a loro volta, la allontanano da una comprensione generale. E in particolare, se, come in questo caso, mi occorresse illustrare o scusare il mio lavoro pubblicamente, dirò che quelle ragioni ho cercato di rendere implicite che non vuol dire negarle etanto meno non essersene avveduto non per programma -che sarebbe assai vecchio - ma pernecessità di esprimere.” Mentre Fausto Pirandello nel 1935 Il pittore moderno solo i giovani hanno ammesso l’utilità di tutte le esperienze, creatrici di fermenti vitali, e le hanno superate, perché le hanno accettate, semplicemente come si accetta un pane quando si ha fame. Nella posizione pacifica di questo stato e nella sua congenita naturalezza sta la reale libertà d’azione morale del giovane d’oggi e la sua posizione di moderno. Renato Birolli, 1934 Tempi pericolosi ma straordinari oppure come disse ancora Renato Guttuso nel 1939 : “Eravamo appena ragazzi e ci misero in testa il problema della coerenza o almeno tentarono. Gli amici indicavano, tra i nostri, questo o quel quadro, questo o quel particolare e dicevano: ecco queste sono le qualità tue, questo è il tuo senso, cerca di tenerti su questa strada. Gli amici non capiscono mai i nostri amori e sempre vorrebbero che avessimo i loro. Allora le due "grandi correnti", erano, a Milano il "Novecento", e a Roma il cosiddetto"Neoclassicismo", per cui, a un certo punto, venne la auspicata Pasqua e si parlò di "Novecentismo neoclassico". Queste delizie pretendevano di tenere a battesimo la nostra generazione. Poi vennero ad insegnarci il "tono" e la "materia pittorica" e ci fornirono la solita polemica dei calligrafi e dei contenutisti con l’obbligo di scegliere o di qua o di là. Ora tutte queste avventure ci sembrano vergognose e remote, tuttavia l’aria che c’è in giro non va bene. Sembra che nessuno si accorga che questi sono tempi pericolosi ma straordinari. Se io potessi, per un’attenzione del Padreterno, scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere del pittore. Le condizioni oggi sono storicamente privilegiate, sempre che si abbia la forza e la libertà interna necessaria in tempi così pericolosi”.  Dirò di Fausto Pirandello che con queste parole ci presenta un nutrito gruppo di opere su carta, da lui realizzate tra il 1928 e i primi anni Cinquanta, nel catalogo della mostra che si tenne alla Saletta degli Amici dell’Arte di Modena nel dicembre del 1952. “Per studio e per soggetto” sono concepite queste opere, scrive l’artista, congiungendo il destino dei suoi piccoli fogli a quello dei dipinti, spazio dove le idee e le figure, prima succintamente fissate dalla mano sulla carta, trovano la loro ultima e definitiva formulazione.  Quest’indicazione dell’artista ci aiuta nel compito non semplice di ordinare il nucleo di carte presentato oggi in mostra e giunto a noi, come gran parte degli altri suoi disegni, senza date certe. Sono parole che svelano inoltre come nel dialogo stretto tra le carte e i dipinti si dipani l’invenzione delle immagini e dei temi più cari all’artista. Come aveva osservato, già nel 1934, Roberto Melli, è nella “turbinosa grafia” dei disegni che “il mondo e le preferenze di Pirandello si scoprono eloquentemente e dove risaltano le radici, le possibilità, l’animo, la temperatura della sua arte, vero intimo vademecum del suo moto espressivo”. Le due sanguigne di più antica data esposte oggi raffigurano entrambe un gruppo di tre uomini appoggiati a ridosso di un muro, intenti a vestirsi (o a spogliarsi) nella prima, in semplice attesa nella seconda . Queste due carte possono essere datate al 1935. I tre uomini richiamano alla memoria gli atleti raffigurati nel quadro della Palestra (1934) , colti qui forse un attimo prima o un attimo dopo il loro allenamento. Figure molto simili si possono anche riconoscere in un’altra carta realizzata dall’artista proprio nel 1935, volti di spalle e appoggiati a una staccionata . Tutte immagini che esibiscono ancora quel senso di “straniata quiete”, di silenzio e di sospensione che caratterizza l’opera di Pirandello fino almeno al 1936, anno in cui comincia a farsi manifesto nei suoi lavori “un senso più dichiarato di dolore e di corruzione, che si traduce in una formulazione d’immagine di tipo espressionista”. Il muro, inoltre, pur tracciato in maniera succinta alle loro spalle, situa questi corpi nudi in un ambiente, entro uno spazio in qualche modo ancora definibile, com’era ad esempio la stanza con l’alto muro colorato cui si appoggiavano il Padre e figlio (1934). Uno spazio che negli anni successivi si dissolverà lentamente, lasciando gli stessi corpi distesi nel vuoto della superficie della carta, in uno spazio privo di orizzonte, sprovvisto di qualsiasi punto utile di orientamento, senza più nessun elemento di appiglio da cui prendere le mosse per un qualunque tipo di racconto. Intorno al 1935 è databile anche la matita raffigurante Due donne   che potrebbe considerarsi,  forse solo di poco, precedente alle sanguigne citate sopra.   Nei profili dei volti, nelle rotondità definite delle braccia, delle gambe e dei piedi, in qualche durezza  geometrica ancora presente nell’andamento dei panni che ricoprono i due corpi sembra riecheggiare ancora una lontana memoria delle solide forme delle donne picassiane della metà degli anni Venti, che Pirandello conobbe e ammirò durante il suo soggiorno a Parigi tra il 1927 e il 1930. Molto separa invece queste due figure femminili da quelle di un’altra sanguigna di soggetto simile databile al 1937 . “Tra la metà e la fine del decennio tanto muta, in Pirandello, e altrettanto permane”, ha scritto Guido Giuffrè. “Mutano i modi d’espressione di codesta verità, nel senso dell’abbandono progressivo della monumentalità statica, divenendo le campiture e gli impasti sempre più mossi”. L’“aspetto teatrale”, l’“impianto scenico”, proprio di larga parte delle opere dei primi anni Trenta, quella rappresentazione del destino umano “chiuso in un perimetro precostituito e invalicabile, privo di passione come dell’illusione, ridotto alla recita inutile di un rituale cabalistico”, si smorza e progressivamente viene meno. Fino a condurre Pirandello figlio, rimasto solo dopo la morte del padre Luigi, verso quella “più fremente drammaticità che lo avrebbe portato all’immersione panica delle spiagge”. Nelle Due donne del 1937  le vesti hanno perso l’andamento spigoloso delle precedenti, appaiono in alcuni punti graffiate, in altri sfumate, tanto da far perdere definizione al contorno dei corpi che ricoprono. Cieco e muto sembra il volto di una delle due figure, proteso verso l’orecchio dell’amica. Lì dove i due corpi cercano un punto di contatto s’accumula la materia bruna della sanguigna. Le forme, scriverà Renato Guttuso a proposito dei disegni di Pirandello, sono “imperniate, le une alle altre, attraverso macchie, sfilature, graffiature, in un aggregarsi di frammenti plastici, in segni calcati che poi allentano, sfrangiano e si sfanno, o si infoltiscono e aggrumano quasi a simulare una materia che non fosse quella del disegno o della pittura”. La datazione di questa carta al 1937 è suggerita, inoltre, dal confronto con un altro disegno di Pirandello, tra i pochi datati dall’artista che si conoscano, intitolato La madre . Quest’opera venne esposta nel 1938 alla prima mostra che Pirandello dedicò interamente ai suoi disegni, presso la Galleria della Cometa di Roma. Anche qui il segno si anima, si fa vibrante, trasferendo il suo afflato all’abbraccio tra la madre e i quattro figli, a quei gesti tanto semplici che mettono in amorosa relazione tra loro le cinque figure. “Con la coscienza sotterranea e sicura dell’artista, – scrive Corrado Alvaro nel catalogo della mostra alla Cometa del 1938 – quello che egli aveva dapprima intuito come un punto d’appoggio di volumi e di colori, è divenuto gesto, è divenuto dramma, racconto; l’inanimato si è fatto creatura, gli elementi che nel linguaggio pittorico si ripetono fino alla sazietà (architetturali, spaziali, volumetrici, coloristici, eccetera, eccetera), si sono incarnati; un vento di creazione soffia nelle loro vesti, e attraverso i piani della pittura l’artista ha immesso il suo senso della vita, la solitudine, l’attesa, l’angoscia, la speranza, lo slancio in avanti”. Sul finire del decennio gruppi di figure iniziano ad affollare i disegni e ancor più i dipinti. In alcuni casi si tratta di persone, soprattutto uomini, in pose e atteggiamenti tali di prostrazione che sembrano prefigurare e contenere tutta l’angoscia che porterà con sé la guerra ormai imminente. Uomini disperati,  con le mani giunte sulla testa, compaiono nel disegno databile al 1939 : cinque figure simili a quelle che si agitano e accalcano nel Bozzetto inviato da Pirandello al Secondo Premio Bergamo nel 1940. Dialogano tra loro anche il Gruppo di figure con la Composizione oggi in mostra, dipinta intorno al 1939 . Gli Uomini distesi  e la grande carta con Uomini distesi a terra , dove i corpi sono disposti a formare una croce realmente inquietante, sono tutte opere riferibili allo stesso periodo, quando “la sanguigna insegue vortici di luce, incrudelisce zone d’ombra, indaga con meticolosa, ossessiva acribia le più allucinate distorsioni delle membra”. Questo insieme di fogli di carta, di piccole dimensioni, scorrono allora davanti agli occhi come in una sistematica e ossessiva raccolta di gesti, di posizioni, di possibili incastri e composizioni, una sorta di lessico personale fatto di corpi e di figure che Pirandello accumula e colleziona, foglio dopo foglio, e da cui attinge per poi comporre le più complesse e affollate combinazioni dei quadri con Bagnanti Spiagge. Un sentimento più disperante sembra tuttavia scaturire dalle carte, dovuto da un lato alla più succinta concezione di queste opere, dove il numero minore di figure non lascia spazio al pur minimo conforto di un destino largamente condiviso, che spinge gli individui, come gli animali, a stringersi tra loro; dall’altro lato, desolante appare, come abbiamo già detto, la totale mancanza in questi fogli di un qualche orizzonte, se pur lontano, di quella porzione di cielo e di mare anche minima che si intravede quasi sempre sul fondo dei quadri . Elementi che, come il leggero muro su cui si poggiavano le figure delle due prime sanguigne, ancorano questi corpi a un brandello di realtà, meno annichilente del vuoto assoluto. “Mistero dei personaggi del ventoa far visita nel silenzio.  Sono da chi sa quanto nei paraggi  aggregati chi sa a qual cosa; rischiano di diventare stolidi, di cresparsi nella calura.  Sulla soglia dubitano: per non ardire, calpicciano  mormorano, si rammemorano, mi si riscontrano: vorrebbero accoglienza”. Figure di Uomini con le braccia alzate ,   imploranti o veneranti, si alternano sui fogli allo scadere del decennio, gli stessi che si ritrovano nei gruppi di figure assiepate sulla destra e sulla sinistra della grande tavola de L’impero (Trionfo di Augusto) del 1940, uno dei quattro bozzetti che Pirandello presenta al concorso per i mosaici per il  Palazzo dei ricevimenti e congressi dell’E42. Figure tutte che finiscono col farsi specchio di una drammatica condizione collettiva. “Dov’è la ‘tematica, poetica, eroica, civile’?”, ci si chiede guardando queste opere che vennero allora commissionate per esaltare i fasti del regime fascista attraverso la memoria delle glorie dell’antico impero romano, “nella materia pittorica sfatta, nei corpi allungati e deformi, pasciniani e pre-giacomettiani? Nelle tematiche concepite come delirio allucinatorio, nel quale gli eventi e le cose, anziché come cumulo di rovine si presentano come incalzare di terribili eventi, che sappiamo separati dalle centinaia di anni e di millenni, che si congrumano in quei quattro metri quadrati di pittura?”. Negli stessi anni, questa desolante consapevolezza d’una amara sorte, comune a tutti, sembra travalicare i confini della storia collettiva e insinuarsi in ogni aspetto della vita privata, finendo col riflettersi nei timidi e inermi sguardi del figlio Antonio, che Pirandello fissa a più riprese sulla carta tra il 1941 e il 1943 . Come i corpi nudi che si agitano nel vuoto, anche Antonio appare solo, incapace di sottrarsi allo sguardo del padre, di nascondersi, anche solo di indietreggiare timidamente di un passo per sentirsi un po’ più protetto dalla forte figura materna, come avveniva ne La famiglia : “la forma brancola come nel vuoto, nel vuoto gestisce, si ferma, si stende”. Enorme appare allora il divario tra questi ritratti dei primi anni Quaranta, fino all’Autoritratto all’acquarello del 1944 qui in mostra , e i primi ritratti e autoritratti noti dell’artista, databili intorno al 1921. Lì i volti incombevano minacciosi verso lo spettatore grazie a una costruzione dell’immagine attentamente studiata: ripresi da un punto di vista molto ravvicinato, quasi sempre di sbieco rispetto all’asse centrale del foglio, quei visi era illuminati da un chiaro scuro “da ribalta di teatro” che ne accentuava la drammaticità. Sull’onda delle suggestioni simboliste, allora pienamente accolte dal giovane Pirandello, queste immagini esprimevano una forza e una determinazione legata alla piena fiducia e adesione a un linguaggio “altro” che si sta imparando a conoscere. Quando nei primi anni Quaranta, raggiunta la piena maturità, anche l’ultima suggestione esterna è superata, Pirandello riesce a “incarnare”, come ha scritto Alvaro, quella stessa sensazione allarmante e di straniata inquietudine dalla più fredda e controllata costruzione dell’immagine, dentro al corpo vivo delle sue figure: nel loro sguardo, che ci osserva ora fisso, terrorizzato o rassegnato, interrogante o sfuggente, e nell’imperfetto, baluginante, prostrato mostrarsi delle loro membra, come nei corpi della Donna distesa e dell’ultimo Nudo . Tra 1937 e i primi anni del decennio successivo, lo stesso radicale cambiamento che investe la rappresentazione della figura umana è percepibile anche nelle carte dove si presentano, sempre “appoggiati in ordine sparso su una precaria ribalta” gli oggetti delle nature morte. Il segno ancora ordinato e nitido che evoca i pochi strumenti del mestiere nella Natura morta datata 1937 , si fa concitato e frenetico nella Natura morta con volpe e coltello, dei primi anni Quaranta .È proprio in quel volger d’anni che Pirandello abbandona quindi ogni debito, tratto proficuamente negli anni della giovinezza prima dal simbolismo, poi da de Chirico e dal surrealismo, infine dal cubismo e da Cézanne, per giungere, al termine di una lunga rielaborazione degli elementi più significativi di queste ricerche, alla piena definizione del suo stile, che si rivela assolutamente unico nel panorama italiano di allora.
Un traguardo che lo allontana definitivamente da molti dei suoi primi compagni di strada, come Giuseppe Capogrossi, Corrado Cagli, Renato Paresce, Mario Tozzi, Mario Mafai e molti altri. Qualcosa fatalmente cambia, scrive lucidamente l’artista sempre nel catalogo del 1952, “quando t’avvedi a un punto di aver preso coscienza d’artista nel naufragare delle verità date. È uno sgomento che qualche volta porta ad atti disperati: porta, voglio dire, a quella specie di nichilismo intellettuale che ci fa ripudiare in blocco ogni ordine mentale scopo vero dell’arte e ci conduce all’euforia; a sospettare, cioè, di noi qualità divine e non propriamente indotte e patite dalla dura necessità di un’espressione che tenga strettissimo conto del risultato di questa nostra indagine; non più verso l’oggetto oramai indeterminabile, ma verso il nostro medesimo soggetto operante e determinato. Luogo dove poi, infine, una forma può restare invariabile e differenziarsi; un colore prestarsi alla reminiscenza come all’invenzione, indifferentemente; un rosso equivalere a un turchino, il bianco al nero; una curva ad un piano, un punto a una linea. Luogo di perfetta indifferenza per ciò che sia forma o contenuto, di dove si muove l’interesse vero dell’arte”. Infine la mostra ripercorre la parabola artistica di Fausto Pirandello  attraverso una cinquantina di opere dalla forte carica espressiva. Dal linguaggio analitico di ascendenza nordica all’espressionismo della Scuola romana, dalla scomposizione cubista e astratta al ritorno, negli anni della maturità, a una rappresentazione esasperata della figura umana, quella di Pirandello è una pittura drammatica e tormentata. Il carattere introspettivo della sua ricerca è sottolineato dagli autoritratti che ritmano il percorso espositivo, articolato intorno ai principali temi della sua pittura. Quello del corpo è protagonista dei numerosi nudi che l’artista romano dipinge con un crudo realismo fin dagli anni degli esordi, distinguendosi dal linguaggio più armonico e classico dei suoi contemporanei. Il tema delle bagnanti è declinato in modi diversi nel corso del tempo: dai forti scorci prospettici degli anni Venti ai toni terrosi degli anni Trenta, fino alle forme spigolose e sintetiche del dopoguerra. Lo sguardo che Pirandello rivolge a sé stesso incontra i ritratti di amici e parenti, tra cui spicca quello del padre Luigi, Nobel per la letteratura, e quelli, più rari, eseguiti su commissione, ad esempio per la diva Isa Miranda. La mostra vuole indagare il rapporto tra forma e astrazione, confrontando soggetti simili nature morte, paesaggi, ritratti e autoritratti interpretati dall’artista con un linguaggio figurativo o tendente all’astrazione. Il tema del doppio del mito e del mistero si può riconoscere nelle atmosfere di magica sospensione di questo grande artista, in una certa tensione metafisica e nella presenza di simboli che rimandano a discipline esoteriche.
 
MART- Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
Fausto Pirandello. Il Dramma della Pittura
dal 16 Marzo 2023 al 18 Giugno 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 21.00
 
Lunedì Chiuso