Giovanni Cardone Settembre 2023
Fino al 20 Ottobre 2023 si potrà ammirare al Castello Ursino di Catania ospita la grande mostra Ferdinando Scianna. Ti ricordo Sicilia a cura di Paola Bergna e Alberto Bianda promossa e prodotta dal Comune di Catania e Civita Sicilia. Saranno esposta una selezione di
oltre ottanta fotografie stampate in
diversi formati che ripercorre
l’intera carriera del
grande fotografo siciliano. La mostra si sviluppa lungo un
articolato percorso narrativo, costruito su diversi capitoli e varie modalità di
allestimento in bianco e nero al fine di evidenziare lo stretto legame che lo unisce alla sua
terra d’origine. Il visitatore, attraverso soggetti, immagini, luoghi, riti, festività e usanze, potrà conoscere ed esplorare la terra tanto cara al fotografo.

In una ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Ferdinando Scianna apro il mio saggio dicendo : Posso dire che Ferdinando Scianna è uno dei maestri della fotografia non solo italiana. Ha iniziato ad appassionarsi a questo linguaggio negli anni Sessanta, raccontando per immagini la cultura e le tradizioni della sua regione d’origine, la Sicilia. Il suo lungo percorso artistico si snoda attraverso varie tematiche l’attualità, la guerra, il viaggio, la religiosità popolare - tutte legate da un unico filo conduttore: la costante ricerca di una forma nel caos della vita. In oltre 50 anni di racconti non mancano di certo le suggestioni: da Bagheria alle Ande boliviane, dalle feste religiose all’esordio della sua carriera all’esperienza nel mondo della moda, iniziata con Dolce & Gabbana e Marpessa. Poi i reportage è il primo italiano a far parte dal 1982 della famosa agenzia foto giornalistica Magnum, i paesaggi, le sue ossessioni tematiche come gli specchi, gli animali, le cose. Infine i ritratti dei suoi grandi amici, maestri del mondo dell’arte e della cultura come Henri Cartier-Bresson, Jorge Louis Borges e in particolare Leonardo Sciascia, a cui è appunto riservata una intera e inedita sezione della mostra. L’amicizia tra Ferdinando Scianna e Leonardo Sciascia è durata per oltre vent'anni. Per Scianna, Sciascia è stato un "padre", un mentore, un maestro. Si conobbero per caso dopo che Sciascia, accompagnato da un amico comune, visitò la prima mostra fotografica di Scianna, allestita al circolo della cultura di Bagheria, quando Ferdinando aveva 20 anni.

Lo scrittore “affermato e famoso“ rimase colpito dagli scatti in bianco e nero del giovane fotografo. Ferdinando non c’era ma Sciascia lasciò per lui un generoso messaggio di stima. Per questo Scianna decise di andarlo a trovare nella sua casa a Racalmuto: fu un colpo di fulmine, "a vent’anni avevo trovato la persona chiave nella mia vita". Da questo incontro nacque la loro prima collaborazione: "Feste religiose in Sicilia" (1965) con foto di Scianna e testi dello scrittore. Con questo volume, che fu un caso politico e letterario in Italia, Ferdinando vinse il Premio Nadar nel 1966. Sciascia e Scianna lavorarono insieme a diverse altre pubblicazioni come “Les Siciliens” (1977), “La villa dei mostri” (1977), “Ore di Spagna” (1988). I due furono amici per tutta la vita come testimoniano più di un migliaio di fotografie, per lo più inedite, scattate nelle estati a Racalmuto e nei numerosi viaggi insieme. Un album di famiglia che ritrae Sciascia in una dimensione privata perché "finché non mi ha fatto l’offesa terribile di morire, è rimasto il mio angelo paterno". Fu un rapporto fondamentale nella vita di Ferdinando Scianna che scrive: "l'amicizia è come uno scambio delle chiavi delle rispettive cittadelle individuali, è l'acquisizione del reciproco diritto di utilizzare ciascuno dell'altro, gli occhi, la mente, il cuore". Una piccola parte di queste foto sono diventate un libro: "Scianna fotografa Sciascia" nel 1989 poco prima che lo scrittore morisse. Ha affermato l’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi: “La fotografia di Ferdinando Scianna attraversa gli istanti di qualunque aspetto della vita umana: guerre e matrimoni, moda e sentimenti, persone e comunità.
Il suo occhio fissa per sempre immagini che diventano, nel momento stesso in cui sono scattate, patrimonio della nostra memoria. Un archivio fatto di luci e ombre, che segue tutte le strade del mondo. Palazzo Reale omaggia la sua storia di artista con una mostra lunga cinquant’anni, nella quale ciascuno di noi riconoscerà un pezzo della sua vita, oppure scoprirà universi sconosciuti. In ogni caso, un viaggio-antologia nella bellezza.” Mentre Ferdinando Scianna ha dichiarato : “Una grande mostra antologica come questa di Milano è per un fotografo come me un complesso, affascinante e forse anche arbitrario viaggio nei sessant’anni del proprio lavoro e nella memoria. Ecco già due parole chiave di questa mostra e del libro che l’accompagna: Memoria e Viaggio. La terza, fondamentale, è Racconto. Oltre 200 fotografie divise in tre grandi corpi, articolati a loro volta in ventuno sezioni tematiche. Questo tenta di essere questa mostra, un Racconto e un Viaggio nella Memoria.

La storia di un fotografo in oltre mezzo secolo di fotografia.” In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Ferdinando Scianna apro il mio saggio : Senza memoria non vi è passato e senza passato non vi è identità. Ogni uomo ha bisogno di conoscere le proprie radici, la propria provenienza, per comprendere fino in fondo se stesso e la società in cui vive, così come ogni popolo per sopravvivere alla modernità, dovrebbe conoscere e valorizzare le proprie tradizioni gli usi e costumi di generazioni antiche che, seppur lontane, continuano a mantenere un’eco di vitale importanza per la sopravvivenza della propria cultura. Spesso ignoriamo che, proprio nel sapere collettivo dei nostri progenitori, si nascondevano verità incontrovertibili acquisite più che dallo studio, dall’esperienza, e che in alcune di queste possono essere rintracciate oggi basi e fondamenti scientifici allora sconosciuti che ci hanno permesso di sopravvivere e di arrivare fin qui. L’immagine è un percetto preculturale e prelinguistico. L’immagine può essere la rappresentazione di qualcosa o di qualcuno, anche raffigurazione realistica o astratta oppure visione rassomigliante alla realtà; non è mai fisica, poiché è sempre una percezione visiva e, potendo essere anche mentale, non necessita di un supporto materiale. Ineliminabile affinché si possa cogliere un’immagine è invece la necessità di una mente che la pensi, prima ancora che due occhi che la vedano. Essa è dunque sempre naturale, in quanto dipendente dalla facoltà percettiva dell’individuo: tutte le immagini infatti, comprese quelle artificiali, devono essere tradotte in immagini naturali mentali per poter essere visibili. Eppure il più delle volte e a maggior ragione nella nostra epoca le immagini sono il prodotto di un procedimento artificiale. Quello che viviamo è infatti il tempo della visual culture in cui è preminente l’immagine tecnica, la cui potenza consiste nel calamitare l’attenzione dell’osservatore, dirigendone o condizionandone la decodifica. Se questo era già riscontrabile nell’Ottocento, a maggior ragione lo è oggi. Peraltro, quanto ravvisato da Feuerbach nel suo secolo, acquista, nell’epoca del digitale nella quale noi ci troviamo, il sapore della profezia. E profetico fu Guy Debord che non a caso utilizzò la citazione suddetta come epigrafe a La società dello spettacolo. La notizia di un accadimento non basta a far acquisire realtà all’evento o anche soltanto forza informativa se di esso manca l’immagine, anche scattata con l’immancabile telefonino cellulare. Insomma ogni evento deve essere raccontato attraverso l’immagine per acquisire veridicità.
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Un caso storico eclatante è il crollo del campanile di San Marco, avvenuto a Venezia il 14 luglio del 1902. All’evento è da sempre associata un’immagine che è in realtà un fotomontaggio di Rino Zago che sembra cogliere il crollo nell’attimo in cui accadeva: non riusciamo ad accettare che il fatto avesse colto tutti di sorpresa e che nessuno fosse riuscito a “immortalare” l’evento. E che oggi più che mai si anteponga l’immagine alla cosa è riscontrabile dal fatto che persino la realtà di una persona passa attraverso la pubblicazione e condivisione della sua vita documentata per immagini sui social network o su Internet. Ma sono soprattutto le immagini in movimento a esercitare la più forte malia, ancor più quelle della televisione che del cinema, per due ordini di motivi, il primo dei quali riguarda l’illusione maggiore di adesione alla realtà che essa genera. Gli eventi che accadono in televisione, infatti, risultano più familiari, rispecchiano il nostro modo di apparire o di muoverci nella quotidianità, frequentano il nostro tempo, entrano nella nostra casa divenendo parte del nostro gruppo sociale più intimo non sono pochi coloro che accendono la televisione anche mentre sono a tavola. Il secondo motivo - in cui può rientrare anche l’attrazione provocata dal cinema - riguarda l’alternarsi imperioso delle immagini che invade il fluire dei nostri pensieri, impedendone l’andamento estemporaneo che viene condizionato sia nel contenuto sia nella direzionalità. Questa “invasione” è dunque di per sé manipolatoria, poiché non possiede soltanto un lato denotativo – per l’appunto quello indiziale dell’immagine - ma anche e soprattutto connotativo che riguarda sia il significato veicolato dal codice linguistico sia quello latente che la tipologia di immagini e di soggetti ritratti trasmettono in modo subliminale. È ovvio allora che “programmando” una decodifica ad hoc delle immagini e non è soltanto una modalità dei canali pubblicitari- è possibile sostituire la libera interpretazione dell’osservatore con un messaggio persuasivo. In tal modo l’immagine diviene strumento per trasmettere un significato predefinito che rientra nell’orizzonte dell’utile o dell’interesse di chi la produce. Ad amplificare questo effetto per-verso va infatti in una direzione verso differente da quella che noi gli attribuiamo è la democraticità dell’immagine, superiore alla scrittura testuale sia per l’accesso alla decodifica l’immagine rimane un fenomeno pre-culturale nella sua essenza sia anche per la tipologia della fruizione: «Guardare immagini è molto spesso, al contrario, un’esperienza collettiva, come al cinema». Ma non solo. Come sostiene Mirzoeff l’evento visivo permette di ridurre – se non annullare - il divario tra locale e globale. È questa l’epoca della riproducibilità tecnica in cui la fruizione dell’immagine, slegata dai canoni auratici derivanti dall’unicità dell’opera, si fa globale aumentando esponenzialmente il numero di consumatori-osservatori-spettatori: «Quindi non soltanto una democraticità orizzontale insieme svolgiamo un’attività che ci accomuna ma anche verticale tutti possiamo fruire della stessa visione . Un’altra caratteristica dell’immagine è il suo effetto persuasivo: vedere è credere. Quello che “vediamo con i nostri occhi” lo riteniamo vero. Pur sapendo che la tecnologia è a un tale livello di potenzialità da costruire alla lettera nuove realtà, il principio enunciato non cambia. Ciò in cui si crede non è tanto l’immagine che appare, ma la decodifica del messaggio di cui qualsiasi immagine è portatrice». Il mare di parvenze da cui siamo quotidianamente bombardati ha determinato la radicale trasformazione del mondo in immagine e dunque l’inversione del vettore che punta l’essenza di un ente: nella direzione della rappresentazione dell’ente e non dell’ente stesso. In tal modo si opera una vera e propria riduzione ontologica di notevole portata visivo, prodotto delle tecniche di diffusione massiva di immagini. Esso è invece una Weltanschauung divenuta effettiva, tradotta materialmente. È una visione del mondo che si è oggettivata». Il risultato di questa nuova condizione ontologicamente depauperata, l’effetto di questo inabissamento nell’oceano di immagini tecniche, la caduta nello «spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente». “Autonomo” perché il consumatore-spettatore non agisce più nel processo di significazione delle immagini, sono piuttosto esse stesse che – in questo mondo realmente rovesciato - producono effetti di realtà mediando i rapporti sociali tra individui, grazie al loro potere di fascinazione e di persuasione. Il controllo del messaggio impedisce l’esercizio critico di interpretazione attraverso il quale dovremmo rapportarci al mondo. L’apparente demonizzazione dell’immagine vuole qui fungere da pars destruens che apra alla possibilità di una pars costruens individuabile nella promozione di una visual culture che alla manipolazione della decodifica delle immagini opponga una promozione dell’esercizio critico del singolo. Da qui il convincimento che sostenere una cultura fotografica possa innescare il processo inverso: dalla favola al mondo vero. Roland Barthes suppone che, sebbene nella fotografia il messaggio sia all’apparenza senza codice, in realtà anche in essa esista un livello connotativo che non esaurisce l’informazione analogica mostrata dal suo lato denotativo in modo evidente.

La connotazione nella fotografia è dunque un’ulteriore scrittura, una retorica della fotografia, un codice che limita le possibili interpretazioni dell’osservatore, che la imprigiona entro dei confini di senso, che controlla il processo di significazione. A maggior ragione questo vale, come abbiamo visto, per l’immagine in generale – si pensi a un cartellone pubblicitario - e per quella in movimento, come nel caso della televisione. E mentre dunque sembra ovvio che il soggetto ritratto esaurisca il suo significato nella sua analogia con la realtà, nel frattempo agisce in noi latentemente il livello connotativo di cui l’immagine è carica e che trasforma la nostra percezione inducendo una reazione inconsapevole. I procedimenti di connotazione della fotografia sono tecnici e riguardano la prospettiva, l’eventuale costruzione della scena, l’aggiunta di una didascalia, l’imbellimento, la postproduzione. Barthes ritiene che la lettura della fotografia sia sempre “storica” ovvero condizionata dalla situazione culturale, sociale e politica dell’interpretante. Sono dunque due le direzioni della decifrazione: quella “imposta” dal cifrante attraverso le tecniche e quella seguita dal decifrante a partire dalle sue categorizzazioni. Il filosofo francese inoltre individua tre possibili livelli di connotazione: percettiva, cognitiva e ideologica o etica. La prima è determinata dal modo naturale dell’individuo di leggere un’immagine: «Non vi è percezione senza categorizzazione immediata, la fotografia viene verbalizzata nel momento stesso in cui è percepita; o meglio: non viene percepita se non verbalizzata». La seconda dipende dalla cultura e dalla conoscenza dell’interpretante che coglie nei dettagli dell’immagine un significato aggiuntivo che altrimenti non coglierebbe. La terza, quella ideologica, è la più infida poiché «introduce ragioni o valori nella lettura dell’immagine»30. È chiaro che si suppone un effetto depotenziato di qualsiasi connotazione se si dà per scontata la capacità critica del soggetto interpretante. Il punto che qui però si vuole sottolineare è che, allo stato attuale, non è più possibile un’affermazione siffatta. L’ingombro dell’immagine tecnica è tale che ha vinto il suo apparente lato denotativo che la fa apparire valorialmente indifferente e indifferenziata. L’osservatore è oggi uno spettatore e un consumatore prima ancora che un interpretante e per prima cosa “consuma” -o se si vuole, “divora” senza più riconoscerne il sapore che è rientrato nell’ovvio- messaggi ideologici ed eticamente svuotati con cui vengono cifrate le immagini mediate dallo spettacolo e potenziate dall’aspetto ludico. E quello che da anni fa Ferdinando Scianna con la sua fotografia ecco perché mi sono preso la libertà di non procedere con ordine e di iniziare una breve riflessione sulla fotografia di Scianna proprio a partire da quella che al momento si può intendere come l’ultima tappa di un percorso, cioè dall’oggi, da Visti&Scritti, un libro indubbiamente interessante, ma soprattutto illuminante rispetto alla concezione che dell’immagine ha il nostro autore. Questo libro è significativo a partire dal titolo, che evoca con immediatezza la natura del lavoro ad esso sotteso, pur non senza una certa ambiguità: esso, infatti, restituisce intuitivamente il binomio immagine/ scrittura, sulla cui dialettica è impostato questo lavoro e al contempo ci suggerisce più sottilmente la natura del procedimento fotografico stesso, del rapporto di Scianna con il mondo, con i personaggi che egli ha ritratto, che sono stati visti e poi scritti, sia con le immagini sia, contestualmente, con le parole. Documento visivo e testo letterario si pongono come il frutto di due registri linguistici, parallelamente praticati, che, entrambi, vanno a comporre la ‘scrittura’ del testo, in un rimando continuo, che non mortifica affatto la valenza di ciascuno dei due linguaggi, bensì ne esalta i caratteri. In primo luogo, va sottolineato che l’operazione messa in atto in questo libro, come in altri soprattutto tra quelli più recenti, presuppone una specifica concezione della natura dell’immagine fotografica, uno statuto ontologico, come si usa oggi dire, che le consente di essere usata, o meglio riutilizzata, in un contesto totalmente alieno, differente per la sua stessa natura da quello che ne ha visto la nascita. Si tratta di un passaggio piuttosto interessante, mi sembra. Se la fotografia fosse intesa nei termini di una fedele registrazione del dato di realtà, il suo legame con esso renderebbe vincolante e indissolubile anche quello dell’immagine con il contesto da cui è presa: senza questi riferimenti, astratta dalla contingenza dello spazio e del tempo, essa risulterebbe pressoché incomprensibile. Se, invece, la fotografia è concepita come un segno, che trova il suo senso nelle stratificazioni della memoria, nel racconto che intorno ad esso, con esso, si costruisce, allora essa acquisisce una sua esistenza autonoma, una sua ragion d’essere, che va anche al di là del bressoniano attimo pregnante. Una volta che la fotografia è presa, racchiude una potenzialità di significato che può essere nuovamente agita, messa in campo. Essa, memoria di realtà, può farsi protagonista di un’altra storia e, coerentemente col suo significato, intrinseco e profondo, va ben oltre il dato iconografico, diventa verbo nelle mani del fotografo che la inserisce in una nuova sintassi, attribuendole una rinnovata vitalità. Scianna, infatti, non raccoglie nei suoi libri una hit di immagini significative, o peggio belle, per mostrarle tutte assieme ma costruisce una storia che, grazie allo spessore del ricordo che ogni fotografia porta con sé, assume un senso più articolato, che le trascende tutte come episodi singoli. Il fatto che il fotografo utilizzi i propri scatti con un atteggiamento scevro da istanze filologiche in qualche misura sottolinea proprio il valore, l’autonomia lessicale delle immagini e, al contempo, costituisce una operazione che ha delle evidenti ricadute sulla stessa concezione dell’immagine fotografica, le quali si pongono in linea con alcune attuali tendenze che si fondano proprio sull’idea della fotografia non come trascrizione del proprio referente, bensì come elemento linguistico ’riutilizzabile‘, si fondano. Credo poi opportuno fare un’osservazione sull’impostazione del libro, nel quale le immagini sono proposte in ordine apparentemente, forse sostanzialmente, però non realmente, cronologico. La narrazione si snoda di fronte ai nostri occhi dandoci l’illusione della piana linearità, conducendoci per mano attraverso quasi cinquant’anni di vita, vissuta: abbiamo la sensazione di attraversare la storia, per lo meno quella che si è svolta intorno a Scianna, facendo la conoscenza di alcuni suoi protagonisti, dalla metà degli anni Sessanta all’oggi. Se, invece, ci obblighiamo a fare attenzione e assumiamo un certo distacco, allora subito notiamo che in realtà questa storia non procede cronologicamente, se non sostanzialmente: il percorso è costellato da alcuni salti temporali, allunghi e ritorni, che non infastidiscono, essendo il racconto impostato su accostamenti suggestivi, di senso, di rispondenza, che si oppongono al ritmo piano del mero passare del tempo. Si tratta di un aspetto fondamentale perché la libertà con cui Scianna narra di queste persone, amici e conoscenti, noti e sconosciuti, rifugge dalla tentazione di ogni atteggiamento sistematico, di ogni vis catalogatoria, ci allontana totalmente dal registro dell’indagine, portandoci invece in una dimensione letteraria, di visione personale, dettata da una intenzionalità poetica, nel senso etimologico del termine, e certamente non di matrice conoscitivo-documentaristica. Lo stesso carattere che possiamo cogliere in ogni singola immagine, in ogni lettura dei soggetti che Scianna si è trovato di fronte: è la medesima matrice che caratterizza molti suoi lavori, a partire dal celeberrimo Feste religiose in Sicilia nel quale il giovanissimo fotografo, insieme a Leonardo Sciascia, racconta per episodi, potremmo dire l’intensa natura del sentimento religioso che si scatena in occasione delle feste in Sicilia, e lo fa senza cedere a tentazioni di ordinamento, catalogazione, tipologizzazione, con la capacità di cogliere quello che, anche per caso, la realtà offre. Per Scianna è stato, quindi, naturale avvicinarsi, con successo, al reportage, che in qualche misura è la forma comunicativa per definizione. Sul finire degli anni Sessanta, quando si trasferisce a Milano, egli inizia la sua collaborazione con una testata importante, l’Europeo, una rivista che vanta alcune tra le migliori firme del giornalismo italiano e per la quale egli svolge, peraltro, anche attività di giornalista. Può stupire, forse, ma non c’è alcuna contraddizione in fondo: Scianna è sempre stato attratto dalla scrittura e, come proprio in quegli anni i fotoreporter cercavano di dimostrare, o meglio di far comprendere, il fotoreportage è a tutti gli effetti una forma di giornalismo, benché per immagini. Nella veste di corrispondente da Parigi, Scianna ha occasione di conoscere meglio la cultura francese e ne frequenta i protagonisti: tra i tanti intellettuali con cui può confrontarsi, fondamentale è chiaramente la conoscenza diretta di Henri Cartier-Bresson, il cui lavoro egli già conosceva e apprezzava e con il quale si sentiva in sintonia, in un rapporto di stima reciproca, per altro, visto che nel 1982 il maestro ha introdotto Scianna, primo italiano, nell’agenzia Magnum. Credo che la pratica del reportage, nella quale Scianna si è distinto realizzando servizi di grande valore, abbia costituito per lui certamente uno sbocco naturale, e al contempo un’ulteriore spinta verso una idea di fotografia che era già chiara nella sua mente, fondata su un confronto serrato, diretto, vicendevole e dialettico con il reale, in una dimensione che non lascia margini di divagazione. Scianna si pone di fronte al fatto pronto a restituirlo in immagini che non vanno certamente lette in termini estetici, simbolici o evocativi, bensì sono la traccia visiva di eventi che erano da raccontare, o sarebbe meglio dire, da mostrare. Ci aiutano a comprendere meglio come Scianna interpreti un ruolo tanto delicato, ancora una volta, le riflessioni che l’autore ha pubblicato sul reportage, in un testo più specificatamente dedicato ad una questione pregnante, soprattutto oggi: l’etica nel reportage. È certa, d’altro canto, «l’irriducibile ambiguità della fotografia quando essa viene utilizzata non per documentare una cosa, un fatto, ma per dimostrare una tesi», magari, facendo riferimento a modelli, a immagini già note. Per comprenderne bene la natura e gli usi, per saperla leggere, bisogna fondamentalmente riportare la fotografia «alla sua natura di linguaggio che, in quanto tale, può mentire come dire la verità». È, infatti, innegabile che fare, o sarebbe meglio dire, come si fa nel mondo anglosassone, “prendere”, fotografie è una pratica che si fonda necessariamente su una totale immersione nella realtà e che comporta una partecipazione fisica, quindi non solo effettiva e concreta ma anche coinvolgente in modo totalizzante, a quanto accade. «So che la mia fotografia è legata non solo alla curiosità intellettuale, ma anche alla passione di vivere, alla curiosità fisica dei luoghi, al desiderio di raggiungere l’ipotetico istante in cui una fotografia è possibile». Allora diventa chiaro perché Scianna ritiene che la fotografia sia un linguaggio di natura differente radicalmente e sostanzialmente differente rispetto alla pittura, cui invece è stata spesso accostata, pur essendo entrambe immagini in cui la tridimensionalità della realtà viene tradotta sulla bidimensionalità del supporto. Se il pittore crea una realtà illusionistica dà vita a qualche cosa che prima non esisteva, il fotografo, invece, non prescinde dal reale, lo percepisce, lo legge e poi lo racconta: con il reale il fotografo, non solo il fotoreporter, deve sempre e necessariamente fare i conti, a partire dal momento stesso in cui, con un click, ne cattura una immagine. Questo rapporto, come ogni rapporto, è dialettico, e quindi ogni volta in fieri, non si può fondare su alcuna pregiudiziale intenzione e il risultato, l’immagine, nasce proprio dalla contingenza di questa relazione. La fotografia è un’ interpretazione, sempre personale, mai univoca, perché l’autore è in qualche misura a sua volta un protagonista degli accadimenti, degli incontri, fa delle scelte, ma in tempo reale, dettate da scarti improvvisi e mette in questa dinamica tutto se stesso in gioco. Se tale atteggiamento è evidente nell’agire del fotoreporter, questo complesso nesso che si stabilisce tra il fotografo e la realtà non riguarda esclusivamente la fotografia giornalistica: nel caso di Scianna pensiamo subito ai ritratti - dialoghi per immagini , e alla fotografia di moda, nella quale, sin dai tempi della celebre collaborazione con Dolce & Gabbana, il fare di Scianna mi pare si possa definire, in qualche misura, ‘eccentrico’, nel senso di personale e originale, seppur coerente con i suoi modi e con il suo vivere la pratica fotografica. Lascio volentieri la parola a Claude Ambroise, che fu appassionato esegeta dell’opera di Leonardo Sciascia e che ci ha regalato un’intelligente lettura del lavoro del nostro autore. Testimonianza di come Scianna abbia inteso il suo rapporto con la moda in senso ampio, andando certamente oltre l’esaltazione dell’abito, e la fotografia di moda dove Scianna attraverso i suoi intensi ritratti, racconta la bellezza e la femminilità. Nella sua fotografia infatti, Scianna ha sempre messo in scena una narrazione più complessa di quanto ci saremmo aspettati, costruendo ogni volta un nuovo racconto del mondo, della vita. Perché questo è quanto a lui interessa, sempre, nella sua veste di fotografo: i suoi modi e il suo linguaggio, nella loro sostanza più profonda, non cambiano certo in base al soggetto o alla destinazione dell’immagine, ma coerentemente restano uguali a se stessi in tutte i differenti ambiti in cui l’autore li ha declinati. Il percorso espositivo inizia con un omaggio alla sua città natia,
Bagheria, pronta a festeggiare il suo celebre concittadino in occasione dei suoi primi ottant’anni che cadranno il 4 luglio, poi gli scatti dedicati a Marpessa.
Quando, verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso, Ferdinando Scianna decise di fare il suo ingresso nel mondo della
moda furono in molti a stupirsi. Chiamato dagli allora emergenti Dolce & Gabbana a rappresentarne lo stile, il fotografo siciliano iniziò con la giovanissima modella olandese
Marpessa Hennink uno straordinario sodalizio, riprendendola in
atmosfere mediterranee cariche di un fascino misterioso e sensuale in continuo equilibrio tra realtà e finzione, arcaismo e modernità diventando una delle muse dell’artista.
Biografia di Ferdinando Scianna
Nato a Bagheria, in Sicilia, nel 1943. Proprio nella sua città inizia a dedicarsi alla fotografia ancora giovanissimo, agli inizi degli anni Sessanta, raccontando per immagini la cultura e le tradizioni della sua terra d’origine. Decide molto presto di diventare fotografo, sconvolgendo i progetti dei propri genitori che lo volevano avvocato o medico. Già i primi ritratti delle persone di Bagheria, che Scianna ritrae con tono curioso e partecipe, risultano carichi d’intensità. Nel 1961 si iscrive a Lettere e Filosofia all’Università di Palermo, mentre la sua passione per la fotografia inizia a strutturarsi. Diventa allievo del grande critico Cesare Brandi e mostra le proprie foto a Enzo Sellerio che gli farà scoprire l’universo culturale bressoniano. Sono anche gli anni in cui si forma una coscienza politica determinante per l’evoluzione della sua fotografia, così come il vincolo con la propria terra d’origine e le tradizioni siciliane. Circa due anni dopo, un incontro fondamentale per la sua vita professionale e personale: entra in contatto con Leonardo Sciascia, lo scrittore con il quale a soli 21 anni pubblica il saggio Feste Religiose in Sicilia, libro che ottiene il prestigioso Premio Nadar. Il volume crea molte polemiche, soprattutto a causa dei testi di Sciascia, che mostra l’essenza materialistica delle feste religiose. Ma anche le foto del giovane Scianna hanno il loro impatto. “La fotografia era la possibilità del racconto di una vicenda umana. Questo il mio maestro mi fece capire, e mi introdusse ad una certa maniera di vedere le cose, di leggere, di pensare, di situarsi nei confronti del mondo” Sull’onda del successo del libro, Scianna si trasferisce a Milano dove lavora per l’Europeo come fotoreporter, poi inviato speciale e corrispondente da Parigi, dove vive per 10 anni. A Parigi inizia anche a dedicarsi con successo alla scrittura. Collabora con varie testate giornalistiche, fra cui Le Monde Diplomatique e la Quinzaine Littéraire. “Mi ritrovavo più a scrivere che a fotografare, ma sapevo di essere un fotografo che scrive”, racconta Scianna. Proprio nella capitale francese, il suo lavoro viene particolarmente apprezzato, da Henri Cartier-Bresson, che nel 1982 lo inviterà a presentare la sua candidatura all’agenzia Magnum Photos, da lui fondata nel 1947. Torna a Milano e lascia l’Europeo per dedicarsi alla fotografia: “L’agenzia è lo strumento di un gruppo di fotografi indipendenti, una struttura in grado di valorizzare il tuo lavoro tanto meglio quanto più sai utilizzare questo strumento. Magnum continua a sopravvivere secondo l’utopia egualitaria dei suoi fondatori, in modo misterioso riesce a far convivere le più violente contraddizioni”. A Milano lavora per vari giornali. Inizia anche a fotografare per due giovani designer emergenti, Dolce e Gabbana. Un incontro casuale, che darà vita ad una delle collaborazioni meglio riuscite nella fotografia di moda. A Scianna viene richiesto di realizzare un catalogo inserendo la splendida modella Marpessa nel contesto della sua Sicilia. Scianna riesce a mescolare magistralmente i registri visivi del mondo della moda con l’esperienza del fotoreporter, creando un risultato originale che spezza la monotonia patinata della fotografia di moda. É un successo che lo porterà a collaborare con prestigiose riviste internazionali e a realizzare altri servizi di moda in cui affianca con maestria artificio ed autenticità. Questa improvvisa ed inaspettata svolta, apre il mondo fotografico di Scianna a nuove esperienze, parallele a quelle piú tradizionali del fotogiornalismo: pubblicità e fotografie commerciali, senza mai però abbandonare il reportage sociale, i ritratti ed il giornalismo: “Adesso, con immutata passione, divertimento ed ironia, opero nei campi più diversi.
Faccio un po’ di moda, un po’ di pubblicità, il reportage e cerco piú che mai di fare ritratti. Inoltre recupero materiale dal mio archivio fotografico per numerosi progetti. Nelle mostre non faccio distinzioni tra le immagini nate dal lavoro di fotoreporter a quelle di moda, per esempio. Le inserisco tutte, in una continuità che é poi quella della mia pratica professionale”.
Castello Ursino di Catania
Ferdinando Scianna. Ti ricordo Sicilia
dal 23 Giugno al 20 Ottobre 2023
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 17.50