Giovanni Cardone Dicembre 2022
Fino al 16 Aprile 2023 si potrà ammirare al Museo del Novecento Milano la mostra Fluxus, arte per tutti. Edizioni italiane dalla collezione Luigi Bonotto a cura di Patrizio Peterlini e Martina Corgnati. Per la prima volta tramite pubblicazioni, opere e documenti il ruolo chiave dell’Italia nell’ambito di Fluxus, a sessant’anni dal Festival “FLuXuS Internationale FesTsPiELe NEUEsTER MUSiK” di Wiesbaden del settembre 1962. Nato tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta grazie all’artista, architetto e organizzatore culturale George Maciunas, Fluxus si sviluppa soprattutto negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, ed è al centro di una rivoluzione estetica e sociale che mira a intrecciare arti visive e performative, musica sperimentale e teatro dando anche vita a festival, happening e concerti con la volontà di eliminare la divisione nelle arti e, in generale, quella tra esistenza e creazione artistica. Anche l’Italia partecipa in misura importante alla diffusione di Fluxus, in particolare con significative esperienze nella produzione di “edizioni”: oggetti, cartelle di grafica, libri d’artista in diversi esemplari. Queste opere sono realizzate da mecenati e operatori culturali insieme ai protagonisti del movimento, come Eric Andersen, Joseph Beuys, George Brecht, Giuseppe Chiari, Philip Corner, Geoffrey Hendricks, Allan Kaprow, George Maciunas, Nam June Paik, Ben Patterson, Dieter Roth, Wolf Vostell, Bob Watts e molti altri. La realizzazione di edizioni gioca un ruolo essenziale nella diffusione sistematica del movimento, una scelta strategica che identifica come punti di forza i bassi costi di produzione, la facilità di distribuzione (anche per posta) e l’accessibilità al grande pubblico grazie ai prezzi economici. Caratteristiche che rispondono in pieno all’idea di democratizzazione dell’arte perseguita da Fluxus. È infatti nel secondo manifesto del 1963 che Maciunas parla di una Revolutionary Flood che renda l’arte accessibile e comprensibile a tutti, con un attacco diretto e senza mediazioni al sistema del mercato. In una mia ricerca storiografica e scientifica sul Movimento Fluxus apro il mio saggio dicendo: Io penso che è possibile inserire Fluxus a pieno titolo nell’alveo dei movimenti che danno vita alla Neoavanguardia all’alba della seconda metà del Novecento? Quali sono le ragioni che inducono a sostenere questa tesi? E ancora, cosa rende Fluxus un degno prosecutore delle teorie e delle pratiche introdotte dalle Avanguardie Storiche? Quelle che potrebbero apparire come domande retoriche o addirittura come una provocazioni in stile fluxista, in realtà sono gli stimoli per indagare il movimento senza declinarlo immediatamente e in modo del tutto parziale come una corrente neo dadaista degli anni Sessanta. Fluxus è nato come un’incognita critica e tale è rimasto per molto tempo, sia per l’oggettiva difficoltà nell’analisi di un fenomeno dai contorni indefiniti sia per essersi autoproclamato come privo di identità certa. Chi sceglie di sporgersi dal baratro e provare a fissare ciò che accaduto negli anni della genesi di Fluxus e in tutte le manifestazioni che sono seguite, affronta il grande rischio di perdere le coordinate, immergendosi fino ad essere travolto nel flusso inarrestabile dell’indeterminatezza. La domanda a cui è necessario dare risposta prima di tutto è “Che cos’è Fluxus?”. Fluxùs ovvero fluido, liquido, pendente, fluente, ondeggiante, cadente, malsicuro, fragile, instabile, debole, fiacco, indebolito, incostante, volubile, dissoluto, effeminato, passeggero, effimero, di breve durata. Il significato letterale, o meglio la schiera di significati, della parola latina è stato decretato nel tempo come la migliore definizione del più radicale e sperimentale movimento artistico degli anni Sessanta. In sostanza ciò che rende possibile lasciare aperte tutte le eventualità semantiche è proprio la costante terminologica: Fluxus è flusso.
Spesso per questo è stato affiancato ad altri flussi, più o meno nobili , il cui grande impatto è indubbio. Flussi che, attraverso l’energia acquisita dalla forza di gravità, proprio come Fluxus si abbattono su tutto ciò che impedisce il loro scorrere e lo investono inondandolo. Fluxus è avanguardia? Per comprendere la natura del fenomeno e collocarlo storicamente senza timore di riduzioni concettuali, ripartiamo dall’analisi terminologica. L’abusato lemma ‘avanguardia’ ha una storia ormai nota e sedimentata che prende vita a seguito di uno spostamento di area semantica: dal bellico al politico, fino all’estetico. «L'avanguardia è un reparto di sicurezza che le unità, durante le marce in vicinanza del nemico, distaccano avanti, nella direzione del loro movimento» è una definizione rintracciabile nei testi enciclopedici. L’idea di fondo che si evince dalla descrizione riportata è la posizione avanzata che il reparto avanguardista assume rispetto al resto delle truppe, incarnando il ruolo di ariete, di primo scontro con il nemico. L’avanguardia si colloca fisicamente più avanti, ha una posizione di vantaggio nei confronti delle altre truppe perché può scorgere il nemico prima degli altri e, in alcuni casi ricerca lo scontro frontale per aprire un varco, allo stesso tempo però si trova svantaggiata perché le sue azioni offensive si volgono in un territorio ostile dominato dall’avversario. È avanguardia allora, potremmo dire, ciò che si pone in prima linea contrapponendosi ad una fazione nemica, producendo una breccia. Se l’apparizione del termine avanguardia in riferimento a fatti e movimenti artistici e di critica è databile alla fine del XIX secolo, non si può certo dire che la popolarità del concetto e della sua applicazione diminuisca successivamente, anzi, con l’avanzare degli anni esso assume connotati sempre più precisi tanto da definirsi come mito o come categoria. L’intenzione avanguardista è la rottura di un modulo, uno schema, un sistema, un’abitudine che si è ripetuta nel tempo, irrigidendosi e dando luogo a regole istituzionalizzate come limiti. Maurizio Calvesi fornisce un’interpretazione specifica del carattere avanguardista nell’arte calandola in un contesto ampio di contrapposizione alla società, a qualsiasi genere di logica conservativa, ad ogni forma di inerzia rispetto alle condizioni e ai condizionamenti esistenti. Invece che indugiare sull’imitazione, sulla continuazione di ciò che è dato, o, ancora peggio, rivolgersi al passato, l’arte d’avanguardia deve configurarsi come un faro acceso sul futuro. «Guai a chi si lascia afferrare dal démone dell’ammirazione! Guai a chi ammira ed imita il passato! Guai a chi vende il suo genio!» è il monito futurista che mette in guardia verso la venerazione dell’antico, del vetusto. L’avanguardia si immedesima nel futuro e si batte per esso, subordinando il prodotto estetico al processo di liberazione delle forze nuove. L’arte diventa attività totale, negandosi e autocriticandosi come attività separata: si giunge sino alla dissacrazione dell’arte e alla proposta di distruzione delle categorie usurate e obsolete. Lo scontro con il passato è un leitmotiv dell’avanguardia artistica, tutto ciò che risulta essere antecedente al movimento si riconosce come l’obiettivo dell’attacco, aggressivo, destrutturante o parodistico a secondo dei casi, sferrato senza mezzi termini. Il passato dunque come categoria temporale in quanto rappresentazione di una condizione umana e della società superata o da superare, ma anche il passato come atteggiamento di blocco, di chiusura verso un’idea di progresso che è possibile riscontrare nel concetto di ‘passatismo’. Il rifiuto del passato è consustanziale all’elogio del presente, come celebrazione della vita, del momento, dell’attimo vissuto, dell’hic et nunc. «L'arte è per noi inseparabile dalla vita. Diventa arte-azione e come tale è sola capace di forza profetica e divinatrice» afferma Filippo Tommaso Marinetti nel 1919, portando prepotentemente l’assioma ARTE = VITA nello statuto dell’avanguardia come sviluppo della concezione antipassatista. La vita, o meglio l’energia vitale, è l’arma capace di sconfiggere l’apatia, la passività, l’indolenza dovuta alla ripetizione di schemi stantii. «La vita è per i dadaisti il senso dell’arte» sostiene Hans Arp sviluppando ed estendendo le potenzialità rivoluzionarie del pensiero futurista, annunciando la possibilità di una dissoluzione dell’arte nella vita. Per vita il pensiero avanguardista intende proprio la vita quotidiana, la vita di tutti i giorni, i gesti semplici, le abitudini a cui non si presta molta attenzione e che proprio per questo motivo devo essere “rivitalizzate”, galvanizzate, elevate o “abbassate” ad opera d’arte. Francesca Alinovi a proposito dell’agire dadaista sostiene che «l’arte, dunque, invade la dimensione della vita quotidiana e spettacolarizza il comportamento dell’artista, operando una vera rivoluzione a livello di costume». Essere antipassatisti, moderni, o ultramoderni è caratteristica comune delle avanguardie, quantomeno quelle storiche, anche se in queste formulazioni è però necessario notare la differenza nel trattamento della ‘tradizione’. Mentre il Futurismo si professa assolutamente antitradizionalista, una linea che da Dada arriva fino a Fluxus incorpora la tradizione nella ricerca del nuovo attraverso la costruzione di una propria tradizione che volta per volta viene ricercata in un passato prossimo o remoto e piegata al ritrovamento di una traccia sotterranea, trans-storica. L’opposizione al passato è, infine, anche la volontà di abbattere il dominio del razionale, del logico, del sistematico di cui è portatrice la società capitalistica. Nella dialettica dell’avanguardia si inserisce la categoria del ‘nuovo’, che non si deve confondere con il ‘moderno’, nell’accezione ampia di espressione della radicalità della rottura con l’intera tradizione artistica, non solo con i procedimenti artistici e i principi stilistici del passato. L’introduzione della novità è riferita tanto al cambiamento dei sistemi di rappresentazione quanto alla messa in discussione dell’istituzione arte, dei suoi canoni, dei suoi luoghi, dei suoi protagonisti e del loro ruolo. Il superamento delle convezioni di un’arte classicamente intesa come rappresentazione, pittorica, scultorea o ancora realistica, la volontà degli artisti di porsi in termini antitetici nei confronti delle istituzioni, a volte perfino del pubblico, o la necessità di rompere gli steccati tra le discipline, sono ormai capisaldi del pensiero critico, assunti e condivisi in larga misura. Il Futurismo che può essere considerato il primo movimento d’avanguardia provvisto di un’ideologia globale, artistica ed extrartistica, abbracciante i vari campi dell’esperienza umana, dalla letteratura alle arti figurative e alla musica, dal costume alla morale e alla politica, viene anche definito come prototipo dell’avanguardia. Una caratteristica fondamentale che l’avanguardia desume dalla parabola futurista è l’operare in gruppo. Nello sviluppo dell’avanguardia esistono gruppi più o meno solidi, ciò non toglie che l’aggregazione sia elemento fondamentale per garantire l’interazione tra gli artisti, soprattutto quando essi provengono da diversi campi della cultura. L’avanguardia, infatti, ha un carattere transdisciplinare, non tenta di convogliare il proprio istinto al cambiamento in unica direzione, ma muove contemporaneamente su diversi fronti. L’azione del gruppo è unitaria spesso quando è sottoposta o organizzata da una figura carismatica, come nel caso di Marinetti per il Futurismo o Breton per il Surrealismo, mentre nel caso di Dada, per esempio, che in un certo senso rappresenta l’antitesi dell’avanguardia, si può parlare di un policentrismo. Un numero di elevato di «gruppuscoli» dotati di un forte legame tra loro, ma allo stesso tempo distinti, separati, per non dire lontani, anche dal punto di vista geografico (Zurigo, New York, Berlino, Parigi, Colonia, etc.). L’avanguardia tende storicamente ad un universalismo che supera le mere connotazioni nazionali, sia in termini di poetiche, sia per la dimensione transnazionale degli stessi movimenti. È naturale per l’avanguardia inoltre misurarsi con l’impatto sociale e antropologico delle innovazioni tecnologiche, a volte ponendosi nella prospettiva di assumerne in pieno il carattere migliorista, pensiamo all’elogio della velocità nel Futurismo, altre volte opponendo un rifiuto integrale o dimostrando un’apparente indifferenza. L’avanguardia si è concretizzata come un’utile categoria di analisi sia per i movimenti che hanno partecipato alla costruzione della categoria stessa, sia per tutte le tendenze successive che in un modo o nell’altro si sono dovute confrontare con l’impostazione di un modello. Ciò non toglie che sia esistito, e in parte sia ancora in corso, un abuso del termine avanguardia svincolato da precisi percorsi storici, che ha portato ad uno svuotamento di significato anche attraverso la contrazione temporale dell’alternanza tra novità e ritorno alla tradizione, tra aperto e chiuso, tra “caldo” e “freddo”. Esiste la necessità di analizzare l’arte d’avanguardia come concetto storico, come centro di tendenze e idee, isolandone le caratteristiche primarie e valutando la «prosecuzione come diversità» nelle cosiddette Neoavanguardie. La nozione di avanguardia, così come era stata strutturata in precedenza e incarnata da specifiche entità in un periodo preciso, si confonde e si frammenta al bivio successivo, quello della metà del secolo. Si perdono alcuni connotati, in parte si afferma l’idea che le seconde avanguardie abbiano un rapporto di parentela con le prime, in certi stretto al punto da essere assimilate e giudicate secondo gli stesi criteri come se appartenessero a fronte unico. Le parole di Renato Barilli si riferiscono all’ambito letterario, ma non è difficile traslare la stessa questione sul piano artistico. Se è vero infatti che le Neoavanguardie condividono pensieri e processi delle Avanguardie Storiche e se è lecito affermare che le prime proseguano sentieri e percorsi già ben avviati dalle seconde, ciò non toglie che nelle più recenti si possano trovare elementi di originalità precipui. La Neoavanguardia, proprio in virtù di essere “normalizzazione” ed estensione dell’avanguardia,  punta sugli artisti come struttura sociale in grado di trasformare la realtà. Si ha fede nel fatto che il lavoro artistico possa avere un’incidenza nella vita quotidiana e che possa essere partecipe di un cambiamento dell’arte. È l’agire stesso nel quotidiano che diventa pratica artistica ed estetica, superando in alcuni casi le questioni di carattere formale. Si impone per le Neoavanguardie un processo di comprensione, metabolizzazione e scavalcamento della prassi avanguardista, pena la riduzione ad una semplice copia o duplicato di esperienze già sviluppate ed esaurite. Fluxus, come vedremo, poggia saldamente le sue basi sulle Avanguardie Storiche, ne condivide propositi e progetti, si pone sulle traiettorie segnate dai movimenti che l’hanno preceduto aprendo la strada ad una nuova concezione dell’arte. Fluxus, come gruppo di artisti unito entro una formula riconoscibile, si colloca nel solco di una tradizione novecentesca che più volte è stata richiamata nelle trattazioni critiche. L’analisi delle Avanguardie Storiche ha evidenziato con precisione alcune costanti che ritornano, pur con le dovute differenze, in tutte le esperienze ascrivibili a tale clima e che vengono riproposte, con scarto temporale e semantico, dalla “seconda ondata” degli anni ’60. Un elemento fondamentale che lega l’attività di movimenti quali Futurismo, Dadaismo e Surrealismo è la redazione di uno o più manifesti. Il manifesto si presenta, nella maggior parte dei casi, come un testo poetico in cui vengono raccolte le principali intenzioni del movimento, redatte da un capo carismatico o da colui che si presenta come il portavoce. Nell’evoluzione di questi schieramenti si evidenzia la necessità di autodefinizione, di scrittura autoprodotta della propria storia attraverso l’affermazione di intenti, proposte, visioni sul futuro dell’arte e dell’operare artistico. A partire da una osservazione dell’esistente, nella redazione di un manifesto, vengono spesso stigmatizzate le caratteristiche ritenute negative del presente e soprattutto del passato alle quali si intendono sostituire nuove formule. Se per il Futurismo è possibile parlare di una distruzione totale alla quale sarebbe succeduta una ricostruzione futurista dell’universo, già in molti scritti di ambito dadaista si fa strada la provocazione e la derisione, che in Fluxus diventa rifiuto, negazione. I movimenti d’avanguardia sentono una necessità del manifesto, anche quando questo strumento sembra contraddire la sua funzione primaria. L’affermazione del criterio di ‘differenza’ secondo cui un movimento, un gruppo di artisti propone una cesura rispetto a tutto ciò che l’ha preceduto, dimostra la sua efficacia e trova la sua migliore realizzazione proprio nella redazione di uno scritto che traduce il pensiero collettivo. Siamo in grado di sostenere che spesso, i manifesti, le lettere, i documenti autografi, abbiano un valore intrinseco, diverso rispetto alle opere, a volte perfino superiore. Nel manifesto, nella sua forma novecentesca, è contenuto il tentativo del superamento dell’opera d’arte, esso infatti intende delineare una realtà, una condizione futura, che gli artisti dovrebbero incarnare, ma che ancora non è stata realizzata. Fluxus si pone al bivio tra l’opera e il manifesto: da un lato la pratica di redigere manifesti, quasi sempre senza firmatari, è desunta dalle Avanguardie Storiche e portata alle estreme conseguenze; dall’altro è impossibile non includere nella lunga sequenza di esternazioni anche opere di carattere testuale, prodotti ibridi la cui portata concettuale è innegabile. Il primo elemento che viene alla luce nell’elaborazione del teorema Fluxus è la parola stessa, il cui conio, neanche a dirlo, è coperto da un alone di mistero. La prima volta che viene usata da George Maciunas, “Fluxus” è il titolo di una nascente rivista per cui si chiede la collaborazione economica durante uno degli eventi organizzati alla AG Gallery per la manifestazione Musica Antiqua et Nova tra il 1959 e il 1960. Una rivista, un libro, una pubblicazione e nient’altro. Maciunas racconta (o sceglie di raccontare) la venuta alla luce di una delle sua idee migliori come pura casualità, anzi di decretarne l’effettiva insignificanza ai fini di ciò che sarebbe realmente accaduto. La scelta della parola risale all'ottobre del 1960, quando viene pensata come il titolo di una rivista, organo per un nascente Lituanian Cultural Club a New York. La parola è perfetta, incredibilmente duttile e sufficientemente vaga, quindi una volta persa questa prima occasione, essa rimane in trepidante attesa del nuovo utilizzo. In poco più di un anno, entro la fine del 1961, Maciunas aveva progettato i primi sei numeri della rivista mai pubblicata, attribuendo a se stesso il ruolo di editore e caporedattore, con un fitto programma di uscite che sarebbero dovute apparire nel febbraio del 1962 e, successivamente, continuare su base trimestrale. La rivista avrebbe voluto fornire un’ampia panoramica sui fenomeni culturali di maggiore interesse visti attraverso una lente multidisciplinare. Maciunas prevede di includere articoli sulla musica elettronica, l'anarchismo, il cinema sperimentale, il nichilismo, gli happening, il Lettrismo, la poesia sonora, e anche la pittura, con numeri tematici dedicati agli Stati Uniti, Europa Occidentale, Europa dell'Est e Giappone. Il primo numero della rivista Fluxus avrebbe dovuto ospitare una antologia di opere, a seguire, dopo le pagine dedicate ad articoli, saggi ed interviste. I prodromi della sezione costruita come un’antologia di opere e scritti prodotti dagli artisti sono da ricercare nella pubblicazione che a più voci è stata definita l’anticipazione eccellente alla nascita di Fluxus, come rivista e come gruppo organico, An Anthology. La realizzazione di una grande antologia di artisti e opere come mappa di un contesto artistico multiforme e in evoluzione, si deve al lavoro svolto da La Monte Young per la prima edizione di Beatitude East. Il poeta Chester Anderson, editore di Beatitude, dopo il trasferimento da New York in California nel 1959, contatta Young per contribuire ad un numero della rivista, sapendo che il musicista sperimentale stava già raccogliendo event scores, performance scores e altri documenti tra Berkeley e New York con l’aiuto di Jackson Mac Low. Maciunas entra nel gruppo di lavoro quando è chiaro che la rivista non vedrà mai la luce e, forte dei contatti e del materiale garantito dalle rete di conoscenze e dall’archivio costituiti fino a quel momento, accetta di occuparsi dell’impaginazione grafica e del finanziamento della stampa. Il volume An Anthology viene stampato la prima volta solo nel 1963, pur essendo pronto già dalla fine del 1961, e costituisce per molti versi la rappresentazione in nuce di alcune caratteristiche fondamentali dell’atteggiamento Fluxus, e della ‘macchina operativa’ che Maciunas mette in moto per conservarlo. Non a caso il lavoro che l’artista lituano svolge, insieme a Young e Mac Low, è stato definito come un momento di «educazione e formazione». Come nel caso degli eventi e delle perfomance,  anche la questione del nome del gruppo divide la sua apparizione tra gli Stati Uniti e l’Europa. Nel 1961 infatti Maciunas è costretto a lasciare la Grande Mela in seguito a diversi fallimenti, compreso quello della galleria d’arte, e ha trasferirsi in Germania accettando l’incarico di architetto e designer per l’esercito americano. Non perde di vista l’obiettivo di realizzare la rivista anzi sfrutta il trasloco oltreoceano per aprire nuovi canali di comunicazione e allargare la già ampia schiera di artisti che meritano di essere pubblicati. Il primo celebre festival del 1962 prenderebbe il via proprio come momento di propaganda necessaria alla produzione e alla stampa delle pagine che avrebbero dovuto comporre il primo numero del magazine. In questo contesto pare ancora lontana la redazione di un manifesto, un unico documento capace di coniugare intenzioni, attitudini e visioni di una sempre più folta schiera di artisti visivi, musicisti, poeti e performer. La necessità di un manifesto è al centro di alcune discussioni che accompagnano lo scorrere dei concerti e delle serate del Festspiele, il foglio invece viene distribuito per la prima volta durante il Festum Fluxorum di Düsseldorf nel 1963, terza uscita pubblica per Fluxus che segue gli analoghi a Copenhagen e Parigi, senza contare l’esordio di Wiesbaden. La presentazione è sobria, minimale, un foglio stampato, un collage in cui compaiono alcune frasi riprodotte direttamente a mano.
I contenuti delle parti stampate con testi bianchi su fondo nero sono brani tratti dalla definizione della parola ‘flux’ riportati direttamante dal Webster Collegiate Dictionary, mentre le dichiarazioni manoscritte che si alternano recitano. L’idea di utilizzare la definizione del dizionario era già stata utilizzata da George Maciunas all’inzio del Tentative Plan for Contents of the First 7 Issues, rilasciato nel tardo 1961, in cui aveva riorganizzato cinque dei diciassette significati presenti, spiegando l'uso del termine Fluxus collegandolo all'idea di ‘purgare’ e la sua associazione con le viscere. Nel 1963, queste definizioni potrebbero non interpretare a pieno le intenzioni di sviluppo di Fluxus, e Maciunas decide di promuovere tre particolari sensi della parola: purga (purge), marea (tide) e fusione (fuse), ciascuna evidenziata da maiuscolo o sottolineatura. Estratte come concetti guida, enfatizzate dal commento, queste sono state affinate al punto in cui potevano finalmente essere incorporate in un collage, tripartito, insieme a fotostatiche di otto delle definizioni del dizionario. Gli obiettivi di Fluxus, come indicato nel Manifesto del 1963, sono straordinari, in contatto con le idee radicali in fermentazione nello stesso periodo. Il testo suggerisce affinità con le idee di Henry Flynt, così come collegamenti con gli obiettivi di movimenti d’avanguardia all’inzio del XX secolo. La prima delle tre sezioni del Manifesto rivela che l'intento di Fluxus è quello di purgare il mondo dell'arte morta, astratta, e illusonistica alla quale si sarebbe sostituita un’ ‘arte concreta’, che Maciunas identificherebbe con il reale, o il ready-made. Le origini di quest’ ‘arte concreta’, come l'ha definita, sarebbero da ritrovare negli oggetti ready-made di Marcel Duchamp, nei suoni ready-made di John Cage, e nelle azioni ready-made di George Brecht e Ben Vautier. In questa prima sezione del Manifesto afferma inoltre che Fluxus si propone di eliminare dal mondo i sintomi della ‘malattia borghese’ come la cultura intellettuale, professionale e commercializzata. L'ultima frase di questa sezione del Manifesto si riferisce al purgare il Mondo dal cosiddetto ‘Europanismo’. Maciunas intende qui riferirsi da un lato all'eliminazione di concetti diffusosi in Europa, come l'idea di artista/professionista, l’arte per l’arte come ideologia ed espressione dell'ego dell’artista, e dall'altro alla necessità di apertura alle altre culture e di una visione globale. La seconda sezione del Manifesto, che si lega al concetto di flusso come ‘marea’, è costruita in opposizione alla prima: l’attenzione viene centrata sul ‘promuovere’ una visione di arte diversa, vivente, un’anti-arte che possa essere prodotta e di cui possano beneficiare tutti, indipendentemente dal ruolo o dalla conoscenza. Nella terza sezione, infine, viene ostentato l’accento rivoluzionario, il desiderio di Maciunas di fondere i comparti culturali per un unico scopo sociale. Una delle strategie di base per l’ottenimento dello scopo è stato proprio l'impiego della parola Fluxus come termine che, al di là del titolo della rivista, fungesse da ‘confezionamento verbale’, in cui ogni individualità avrebbe potuto trarre beneficio dalla promozione collettiva. È indubbio percepire un tono imperativo: il testo redatto, durante la lettura, risuona come una declamazione, o meglio come un estratto da un comizio al quale si fatica ad attribuire una posizione chiara. Se da un lato si esplicitano le condizioni contro le quali si lotta, dall’altro non si spiega come si intende farlo e quali strategie verranno impiegate per attuare la “rivoluzione”. In questo senso il Manifesto è la diretta conseguenza del clima di negazione creato intorno alla definizione di Fluxus, durante gli anni dell’elaborazione: il tentativo di delineare una forma, una struttura, uno statuto passa attraverso l’elencazione di ciò che non si è e di ciò che non si vuole essere. L’eco dell’aggettivo ‘borghese’, definito come un male a cui somministrare la cura, porta con sé riferimenti indubbiamente politici in parte ascrivibili alla formazione giovanile di Maciunas, ma fortemente legati a una tradizione avanguardista che vuole l’arte come strumento di cambiamento sociale.  È sempre Maciunas in una lettera a Thomas Schmidt a sostenere: «gli scopi di Fluxus sono sociali, non estetici. Essi possono essere messi in relazione ideologica con quelli del gruppo LEF nell’Unione Sovietica del 1929, e sono questi: graduale eliminazione delle belle arti (musica, teatro, poesia, pittura, scultura, ecc.)».  Allo stesso tempo il riferimento alla volontà di purificare il mondo da quello che viene definito ‘Europanismo’ ha sia un significato di protesta contro la centralità europea nel dibattito artistico, nella pretesa di identificarsi come luogo prediletto dell’Avanguardia, che una sottesa componente politica rinforzata nell’asserzione finale in cui si invoca la fusione con il comparto sociale e culturale in un unico fronte. Di fronte a tali prese di posizione non è difficile riscontrare assonanze con gli impeti distruttivi del primo manifesto futurista. Nel celebre testo che Filippo Tommaso Marinetti promulga, affidando la sua diffusione alla pubblicazione sulle pagine de Le Figarò, è palese l’urgenza di rivolta contro l’esistente e lo scarto richiesto rispetto al passato, anche in modo prepotente. Ma la grande svolta degli anni ’60, ovvero quel momento in cui si produce un profondo rinnovamento nella pratica artistica che avrà conseguenze su tutti gli avvenimenti della seconda metà del XX secolo, è il compimento di un percorso iniziato in seno alle Avanguardie Storiche che ha un’estensione anche nel decennio precedente: gli anni ’50. L’arte visiva in quegli ha una dominante certa dettata dal protrarsi della parabola informale che permea il contesto europeo e mondiale nell’arco di un ventennio, con avvii databili negli anni ’30. Per questo genere di ricerche il quadro, la tela rimangono degli elementi essenziali sia come supporto dell’opera d’arte che come spazio di ricerca prediletto, qualunque sia l’intenzione artistica individuale o collettiva. Gli anni ’50 invece si aprono ad una battaglia che vede impegnati gli artisti contro i limiti fisici e concettuali del quadro e della cornice, condizione necessaria perché l’opera conquisti lo spazio reale, occupandolo, e perché l’artista, il suo gesto, la sua azione divenga essa stessa opera guadagnando lo statuto di comportamento.  Senza voler anticipare frettolosamente gli esiti che sono merito indiscusso delle Neoavanguardie, è molto utile ai fini della nostra trattazione ricostruire un contesto che ha contribuito attivamente al raggiungimento di tali risultati. Dopo le ricerche effettuate dal Futurismo che inseguiva la chimera della rappresentazione del movimento nel suo essere vortice, nella velocità e rapida immediatezza del moto, un gruppo di artisti osa andare oltre, penetrando letteralmente nello spazio. Accade nel 1947 proprio a Milano, città emblema del Futurismo, ad opera di Lucio Fontana, artista argentino di nascita e milanese di adozione. L'idea è una rivoluzione totalizzante che come spesso accade non viene compresa immediatamente nella sua enorme portata. Lo spazio rivede completamente il suo ruolo nel fare artistico: da luogo di sviluppo di una rappresentazione diventa strumento di comunicazione, protagonista sollecitato. Su questo tema nel 1946 a Buenos Aires viene redatto da Fontana il primo manifesto ‘Manifesto Blanco’ che parla di esigenze dell'uomo diverse, non più soddisfatte dalla figura, dal colore e dalla materia, rivolgendosi ad una nuova arte capace di sintetizzare in un solo gesto reso eterno, il tempo e lo spazio. Nel 1947 l'artista si trova a Milano e con un gruppo di intellettuali redige il primo Manifesto dello Spazialismo dove si dichiara di voler svincolare per sempre l'arte dalla materia per renderla veramente eterna. La nuova espressione artistica non è più oggettivante ma si basa solo sulle sensazioni ambientali che si riescono a percepire, sullo spazio nel suo essere arte e possibilità. Con l'Ambiente nero, Fontana intende andare oltre la bidimensionalità della tela o la tridimensionalità della scultura creando un opera dove è possibile entrare: l’arte fa un passo in avanti verso l’abbandono della rappresentazione bidimensionale per entrare nella dimensione ambientale. Già nel 1947 Fontana, nella stesura del primo manifesto del Movimento Spaziale, dichiarava il suo impegno ad invadere la terza dimensione, e, non pago, annuciava la volontà di annettere la quarta dimensione.  Nelle righe del manifesto, infatti, si legge di una passione per l’età barocca, promotrice, secondo gli spazialisti, di tutte le ricerche spaziali, «momento in cui gli artisti "aggiungono alla plastica la nozione di tempo" e "comincia la rappresentazione dello spazio"». L’Ambiente Spaziale realizzato nel 1951 per la IX Triennale di Milano, preceduto da quello esposto alla Galleria del Naviglio nel ’49, è la realizzazione di una tanto invocata irruzione nello spazio reale perpetrata attraverso il mezzo simbolo della nuova era: l’energia elettrica. La pittura fino a quel momento era rimasta pressoché rinchiusa nel telaio che delimita il gesto dell’artista, «mentre con un solo atto radicale e decisivo, ripetuto poi molte altre volte per i due decenni successivi, Fontana annuncia e permette lo sviluppo di tutta la problematica dell’environment».
Fontana, appresa la lezione futurista di porre lo spettatore al centro del quadro, sviluppa gli accenni compressi nei tentativi di inizio secolo in uno spazio effettivo e concreto, animato, rivitalizzato dalle scariche luminose. Il sentiero aperto dagli ambienti spaziali conduce direttamente ai riverberi spaziali delle installazioni al neon di Dan Flavin, come del resto anticipa l’incedere degli oggetti galvanizzati dai tubi di gas luminescente dell’Arte Povera. Parallelamente Fontana inizia ad infliggere piccole torture alla tela pittorica, contestualmente alla serie dei Concetti Spaziali, che in un primo tempo si limitano a dei buchi e progressivamente si concretizzano in veri e propri tagli che permettono allo sguardo di valicare la soglia del quadro. Nel 1952 poi Fontana stende, insieme al gruppo dei firmatari il Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione in si legge Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d'arte, basate sui concetti dello spazio, visto sotto un duplice aspetto: il primo quello degli spazi, una volta considerati misteriosi ed ormai noti e sondati, e quindi da noi usati come materia plastica; il secondo quello degli spazi ancora ignoti del cosmo, che vogliamo affrontare come dati di intuizione e di mistero, dati tipici dell'arte come divinazione. La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti. Siamo lieti che dall'Italia venga trasmessa questa nostra manifestazione spaziale, destinata a rinnovare i campi dell'arte. E' vero che l'arte è eterna, ma fu sempre legata alla materia, mentre noi vogliamo che essa ne sia svincolata, e che attraverso lo spazio, possa durare un millennio, anche nella trasmissione di un minuto. Le nostre espressioni artistiche moltiplicano all'infinito, in infinite dimensioni, le linee d'orizzonte; esse ricercano un estetica per cui il quadro non è più quadro, la scultura non è più scultura, la pagina scritta esce dalla sua forma tipografica. Noi spazialisti ci sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono ormai a servizio dell'arte che noi professiamo. Svincolare l’arte dalla materia, renderla infinita attraverso lo spazio facendo sì che essa acquisti sconfinate dimensioni portandosi al di là della forma pittorica, scultorea o tipografica. Nel 1950 Isidore Isou, padre del Lettrismo, fonda la rivista Ur sul primo numero della quale pubblica il primo manifesto del movimento: Elements de la peinture lettriste. Nel titolo del manifesto si fa riferimento esplicito alla pittura, nelle righe che lo compongono il teorico e artista rumeno ipotizza un metodo progressivo di distruzione dell’oggetto artistico. La chiave per superare la tradizione pittorica e di conseguenza bidimensionale è la lettera, «il solo elemento destinato perfettamente per struttura propria a rimpiazzare un oggetto in rovina». In primo luogo, continua Isou, si proponeva l’uscita dallo schematismo. Il richiamo di un ordine superiore alla “pittura pura” deve condurre al legame con il pubblico.  Raggiungere non soltanto l’occhio, ma anche il cervello dello spettatore; agire sul suo comportamento sociale quotidiano, didattico. Aprire interamente le finestre della Rappresentazione Plastica Nuova verso la conquista dei sensi e delle astrazioni espansive. Il Lettrismo allora, nato come “un’ortodossia che ingloba tutte le eresie”, si candida ad essere il vero movimento nel quale proseguono le idee avanguardiste ancora alla ricerca di un compimento. L’assoluta preveggenza delle parole di Isou però non si accompagna, per lo meno negli stessi anni, ad una produzione che rispecchi quanto ipotizzato per quanto l’introduzione di concetti quali l’Hypergraphie, che unificherebbe le discipline letterarie e visive, o la mécaesthétique, che allarga gli strumenti di produzione a tutte le materie e sostanze esistenti o inedite (il mobile vivente, l’opera in polvere, la pittura su rotaia, etc.) faccia supporre il contrario. Solo nel 1960 partecipando al Salon Comparisons presso il Museo d’Arte Moderna di Parigi, Isou e Maurice Lemaître presentano un ambiente “meca-estetico” in cui compaiono grani di riso, cacao, tessuti, pellicce, lastre di ferro e una gabbia contenente un uccello vivo, nello stesso anno in cui Isou inagura la galleria Atome per la presentazione di opere infinitesimali e pubblica il Manifeste de l’Art supertemporel teorizzando la soppressione dell'autore isolato (e, in quanto tale, soggetto a limitazioni) proponendo i cadres de production, opere in fieri che la sigla da parte dell'autore apre all'eternità attraverso il succedersi degli interventi (od il rifiuto di operarvi) di altri artisti.
Gli anni ’50 rappresentano il termine ad quo da cui far principiare una rivoluzione spaziale che se dapprima è vincolata ai limiti della cornice, nell’arco di un decennio segna il definitivo passaggio alla conquista del reale. Uno dei punti di snodo viene indicato da Harold Rosenberg, il quale, nelle stesse pagine in cui conia la definizione di action painters, non manca di rilevare che «a un certo punto la tela apparve come un’arena dove agire invece di uno spazio in cui riprodurre» e insiste «l’arena era divenuta il termine appropriato per indicare la tela a lungo andare la tela fu lasciata da parte per produrre degli happening». Tra i casi studiati dal giornalista e critico americano che, a fini didattici, possono essere inseriti nella lunga e amorfa galassia dell’Informale, spiccano alcuni degli esiti più interessanti in cui un’occupazione dello spazio è avvenuta, seppur lontano dagli occhi del pubblico, sebbene quest’ultimo si ritrovi a fruirla esclusivamente per via indiretta. «Il caso più emblematico dell’amplesso con lo spazio reale è quello di Jackson Pollock, ritratto in immagini divenute famose e che lo vedono impegnato, nello sgocciolamento sanguinolento del suo dripping, a girare attorno alla tela pittorica».  La gestualità dell’artista è sia provocatrice che generatrice di un’invasione dello spazio, si tratta di una protensione immediata quanto fugace verso l’ambiente esterno al quadro. Ed è questa immediatezza, questa fugacità agita in studio, lontano dagli occhi del pubblico e poi abbandonata, impressa, come il simulacro di una danza sulla tela pittorica che separa queste ricerche dalla venuta della peformance. Pollock stesso afferma: «La mia pittura non viene dal cavalletto» e spiega «sul pavimento mi trovo maggiormente a mio agio. Più vicino alla pittura, parte di essa, perché così posso girarle intorno, lavorare da tutti e quattro i lati, e, letteralmente, essere in essa». Per Jackson Pollock l'orizzontalità è non solo il presupposto che permette il dripping, la colatura del colore sulla tela stesa a terra, ma un medium a tutti gli effetti, che apre una nuova dimensione nell'esperienza del pittore e quindi una diversa intenzionalità. Il medium di cui si parla non è semplicemente la tecnica di esecuzione, il supporto, insomma la condizione materiale delle opere. Medium è un insieme di regole, una "matrice generativa" di convenzioni derivate, uno spazio disciplinato di possibilità che si apre all'artista. Così, ad esempio, abbandonare la pittura “da cavalletto” diventa per l'artista americano l'occasione per ribaltare le secolari convenzioni figurative legate alla verticalità del quadro, alla sua natura puramente ottica. È la storia, quella di Pollock, dell’«avventura di uno spazio considerato non più come conseguenza di un sistema, ma come maggior comune divisore, trama e carne di un mondo in cui le cose mantengono un commercio continuo». Non serve aspettare molto per ritrovare un istinto spaziale di simile intensità, se non maggiormente enfatico. Questa volta è l’arcipelago nipponico, teatro delle esposizioni del gruppo Gutai, eccellente continuatore della “new wave” spazialista e, per certi versi, anticipatore di alcune dinamiche dello Happening. Durante la I Esposizione Gutai alla Ohara Hall di Tokyo, Saburo Murakami espone Lacerazioni della carta. In linea con il pensiero spazialista e più ancora con gli esperimenti di Fontana, l’artista giapponese straccia una serie di fogli di carta intelaiata bucandoli letteralmente con il suo corpo. Nella stessa occasione Kazuo Shiraga si impegna nella Lotta con il fango, azione in cui l’artista immerso in una pozza di fango si dimena inscenando un combattimento di cui la terra, che insieme al corpo dell’artista porterà i segni dello scontro, diviene l’arena a cielo aperto. Lo stesso Shiraga dichiara che le sue creazioni non richiedono nessuna risoluzione permanente, tutta l’impresa consiste nell’azione. La poetica del gruppo si divide tra primigenie e innovative operazioni proto performative e soluzioni ancora irrimediabilmente invischiate in un panorama tardo informale, ma presenta «opere tese al conseguimento di un’intensità formale tale da consentire loro di porsi in competizione con spazi reali, rompendo con la tradizionale struttura del quadro». Indipendentemente dalle singole opere, di fatto è interessante notare la propensione dimostrata nell’occupare uno spazio pubblico, un luogo inconsueto, lungi dall’essere etichettato come museo o galleria, per il quale le opere sono concepite e possono essere fisicamente fruite dallo spettatore. La Mostra sperimentale di arte moderna all’aperto come sfida al sole ardente di mezza estate, che precede di qualche mese la I Esposizione, viene allestita sulle sponde di un fiume, l’Ashiya, e l’anno seguente, 1956, si tiene la II Esposizione all’aperto tra certe rovine sul fiume Hyogo. Le proposte per questa seconda kermesse spaziano da Osservatorio per il cielo di Murakami, un cilindro di tessuto che permette l’isolamento dall’esterno al fine di guardare il cielo attraverso un’apertura conica, a Prego camminate qui sopra di Shozo Shimamoto in cui un rettangolo diviso in sezioni cattura le orme dei passanti nel percorso. Il fulcro della riflessione però si concentra sulla decisione di esporre all’aperto, immersi in uno spazio reale, oggetto di studio preventivo da parte dei protagonisti di Gutai che progettano i loro interventi palesando ante litteram un’attitudine site specific. Nell’articolo The Legacy of Jackson Pollock del 1958 Allan Kaprow lancia la sua profezia sul futuro dell’arte negli anni a venire, individuando nell’opera dell’action painter americano il punto di svolta per comprenderne l’attitudine “concreta”, calata nella vita quotidiana, e decisa a formare una nuova sensibilità. L’evento che segna la stagione che sta per aprirsi a New York è il primo happening organizzato da Kaprow: 18 happening in 6 parts. L’evento segna l’inaugurazione della Reuben Gallery che successivamnte ospita anche gli altri happening ponendosi come uno dei centri di ricerca della città. Nell’autunno 1959, Kaprow inviò ad amici e conoscenti un invito in cui si annunciavano i diciotto happening e, dopo aver elencato data e luogo, si invitava il lettore alla collaborazione con l’artista, il signor Allan Kaprow, per la realizzazione di tali eventi. «Come ognuna delle settantacinque persone presenti, lei sarà simultaneamente spettatore e protagonista» scrive Kaprow, continuando a leggere l’invito spiega che «l’artista crede di poter dare vita a una situazione nuova e avvincente». L’annuncio dello spettacolo riporta anche alcune precisazioni come «lo spazio è stato diviso in tre camere, ognuna differente dalle altre per dimensioni e atmosfera» e continua elencando la tipologia di illuminazione, i collages presenti alle pareti, le diapositive che avrebbero dato vita allo spettacolo. Infine viene annunciato che «con le sue azioni sceniche l’autore non intende significare nulla di chiaramente definibile. L’opera nel suo insieme è essenziale, concisa e di non lunga durata». A tutti gli spettatori viene affidato un programma in cui è descritto che la rappresentazione si divide in sei parti e che ogni parte conterrà tre happening che avranno luogo contemporaneamente, mentre l’inizio e la fine di ogni atto saranno segnalati dal suono di un campanello. Altri leggono ad alta voce delle frasi da alcuni manifesti, col volto inespressivo, intervallando minuti di silenzio a frasi come: «Si dice che il tempo è essenza.. noi conosciamo il tempo… spiritualmente… come attesa, ricordo, rivelazione e proiezione, astraendo il momento della sua realtà più intima…» oppure «Ieri ero sul punto di parlare dell’arte, ma non riuscivo a cominciare». Una donna spreme delle arance, poi due uomini e due donne, ognuno con in mano uno strumento musicale, entrano in fila indiana nella prima camera mettendosi uno a fianco all’altro e iniziano a suonare, emettendo suoni striduli e indipendenti uno dall’altro. Il pubblico intanto è talvolta spiazzato, talvolta divertito, alcuni intervengono a parole, a gesti, altri sono assolutamente silenziosi. Due interpreti svolgono un’azione pittorica sulle pareti di plastica trasparente che dividono due delle tre stanze. Un attore entra nella seconda stanza e porta una mano alla bocca, mentre l’altra la mette sulla testa, rimanendo fermo così per qualche secondo, per poi abbassare entrambe le mani sui fianchi mostrando un grande sorriso. Rumori e suoni accompagnano costantemente questo collage di azioni, gesti e parole, mentre gli spettatori sono invitati, ad ogni suono di campanello, a cambiare stanza, interagendo con altri spettatori e con lo spazio, lasciandosi trasportare dalle sensazioni, dalle atmosfere e da ciò che accade. Infine tutti gli attori iniziano a leggere elenchi di parole ed esclamazioni monosillabiche. Le voci si mescolano e sovrappongono in una confusione, suona il campanello per l’ultima volta e l’happening è terminato. L’abbattimento della barriera tra performers e pubblico è l’elemento che ha colpito più di tutti i primi commentatori degli happening. Non esiste la categoria del palcoscenico come luogo in cui si svolge l’azione, non c’è uno scenario ideale. Susan Sontag paragona lo spiazzamento provocato dagli happening alla condizione onirica in cui non è possibile rintracciare una logica, non è data la percezione temporale e dove non è concepibile un momento iniziale e uno conclusivo, in cui spesso si assiste a eventi ripetitivi. La dissoluzione delle categorie viene imposta anche ai materiali utilizzati tanto da non poter distinguere lo spazio d’azione dalla scenografia. A volte addirittura i performer stessi, avvolti in sacchi di tela o involucri di carta, immobili o coperti da mascheramenti partecipavano alla mescolanza dei ruoli. Si tendeva infatti alla realizzazione di un ambiente globale, un environment disordinato, in cui si poteva assistere anche alla distruzione dei materiali stessi. Kaprow non è il solo ad operare in questa direzione, altri artisti negli stessi anni condividono pratiche ed istanze, Red Grooms per esempio dopo aver messo inscena il proto-happening Walking Man in una galleria di Provincetown in Massachussets, torna a New York e apre il Delancey Street Museum in un loft dove si svolge The Burning Building, sua seconda performance nel dicembre del 1959. Dal gennaio del 1960 la Reuben Gallery ospita invece Evening of Happenings, serie di eventi tra i quali si volge la prima performance di Robert Whitman. Nel mese di febbraio, presso la Judson Church, Jim Dine e Claes Oldenburg organizzano Ray Gun Spex, una serie di sei spettacoli ideati da loro stessi e da altri artisti. Jim Dine presenta The Smiling Workman, performance in cui l’artista stesso vestito come un clown opera con della vernice: la spalma su di una tela, la beve quella che appare come vernice è in realtà succo di pomodoro e se la versa addosso. Claes Oldemburg costruisce il suo primo ambiente proprio in quell’occasione per la presentazione del Ray Gun Show che diventa anche il caotico scenario del suo primo happening Snapshots from the City. La scena è costituita da un’accumulazione di silhouette fatte di rifiuti lacerati o bruciati, raccolti in strada, più altro ciarpame distribuito sul pavimento. Tra queste silhouette ricorreva più volte in primo piano quella di “Ray Gun”, parodia di un robot-giocattolo inventato da Oldenburg come simbolo di tutte le merci. Il progetto più interessante di Oldenburg da questo punto di vista è The Shop. La visione degli oggetti lo porta ad operare una riflessione sulla loro collocazione e sulla loro esposizione che può essere riassunta dalle sue stesse parole: «queste cose le opere d’arte sono esposti nelle gallerie, ma non è il loro posto. Starebbero meglio in un negozio (negozio = luogo pieno di oggetti). Il museo nella concezione borghese è l’equivalente del negozio nella mia». The Shop viene aperto sulla seconda strada in un’area piena di Grandi Magazzini che vendevano prodotti a basso costo o di seconda mano. The Shop è concepito come una copia dei negozi vicini, dove articoli male assortiti si succedevano senza posa sugli scaffali. Gli oggetti di Oldenburg spesso più grandi di quelli reali sono realizzati con stoffe imbevute nel gesso e dipinti in maniera sommaria in linea con le realizzazioni dell’Action Painting. Completando la descrizione con il fatto che i prezzi esposti erano decisamente inferiori a quelli riscontrabili in qualsiasi galleria d’arte si compone effettivamente una critica che effettivamente colpisce sia il sistema massificato delle merci che il sistema artistico con il suo mercato. Un prototipo di ciò che sarebbe divenuto The Shop viene presentato alla mostra Environments, Situations, Spaces (Six Artists) nel 1961 alla Martha Jackson Gallery, occasione in cui vengono esposti anche i lavori di Kaprow e George Brecht. Con l’opera environment Yard Kaprow riempie il cortile della galleria con mucchi di copertoni, impendendone l’accesso ai visitatori che non possono uscire all’esterno se non addentrandosi con fatica, mentre Brecht presenta Three Chair Event.  Nelle istruzioni per l’evento si legge: «sedersi su una sedia nera, su una sedia gialla, e vicino su una sedia bianca. Per la mostra, la sedia bianca è perfettamente illuminata nel bel mezzo della galleria, nelle vicinanze su un davanzale di una finestra è collocata una fila di tre event-score, la sedia nera è posta in bagno, mentre la sedia gialla è fuori sulla strada, e quando Brecht arriva per la visione privata è occupata dalla madre di Claes Oldenburg presa in una conversazione. Dopo il lungo ed estenuante tour europeo durato quasi due anni, Fluxus ritorna ad assumere New York come proprio centro produttivo. Lo spostamento di asse è dovuto in gran parte al ritorno di George Maciunas nella Grande Mela in seguito a continui problemi di salute. La scena newyorkese, come abbiamo avuto modo di notare in precedenza, si denota per un’atmosfera corale, di collaborazione e condivisione che, soprattutto sul versante azionistico e performativo, non permette di percepire con chiarezza i limiti di un singolo gruppo rispetto a quelli coevi.
Questo è valido per la maggior parte degli artisti e dei raggruppamenti, ma è un dato essenziale quando si parla di Fluxus. Da un lato infatti il biennio in cui i lavori si sono concentrati in Europa ha fornito un’indicazione certa dell’elenco dei partecipanti, anche di coloro la cui collaborazione è saltuaria o legata al luogo che ospita il festival, dall’altro è rimasta invariata l’attitudine ad un agire libero in cui l’adesione a Fluxus non prevede vincoli, quantomeno apparenti. Il 1964 è un anno di passaggio e di trasformazione per la compagine Fluxus, un anno nel quale si delineano nuove traiettorie, si concludono o rallentano esperienze maturate fino a quel momento, si precisano alcuni sviluppi finora solo accennati o non ancora portati a termine. Progetti che sono stati lasciati da parte per far posto alla stagione dei festival, in particolare il comparto editoriale, ritornano ad essere obiettivo primario di Maciunas e dello stretto gruppo che lavora con lui. Un anticipo della nuova fase viene ancora una volta dall’attività inesausta di George Maciunas che negli ultimi mesi del 1963 rivolge le sue energie alla realizzazione di un quartier generale, segnando il passaggio dal nomadismo e dalle peregrinazioni dei primi anni all’esigenza di una base. La sede si trova in loft al 359 di Canal Street e viene suddivisa in due spazi con caratteristiche differenti: il Fluxshop, in cui esporre i materiali editoriali prodotti e gestirne la vendita, e la Fluxhall, in cui organizzare e ospitare performance o cicli di eventi. Il centro operativo, come sostengono gli artisti che lo frequentano, non ha una funzione commerciale, il pubblico è composto per lo più da musicisti e appassionati, al contrario la possibilità di operare in un luogo fisso fornisce finalmente le condizioni adatte alla sviluppo del comparto editoriale. In gennaio viene pubblicato il primo numero di quello che diventerà l’organo ufficiale di Fluxus: cc V TRE. In un formato tabloid costituito da un unico foglio ripiegato, vengono raccolte foto d’epoca, giustapposizioni nonsense, dichiarazioni di vario genere, annunci pubblicitari che rimandano ad un festival Fluxus previsto nel mese di maggio a New York e alle prime pubblicazioni edite. L’enigmatico titolo, tratto da un’insegna luminosa con alcune lettere fulminate, forse per riprendere questo suo “intermittente” atto generativo, muterà nelle uscite successive mantenendo invariato il nucleo originario. Nella rivista sia la disposizione che il legame tra i vari articoli, le fotografie e tutto ciò che veniva pubblicato erano basati sulla casualità, su un irrelevant process (processo di non pertinenza). Sulla stessa pagina potevano essere accostati: una vignetta di Bob Morris, una poesia di Diter Rot, una frase di Claes Oldenburg ed un mini-poema di Ruth Krauss senza apparenti richiami logici o tematici, secondo una strict randomness (esatta casualità), efficace mezzo per ottenere chance-images (immagini casuali). Tra l’11 aprile e il 23 maggio si tiene un festival intitolato 12 New York Fluxus Concerts presso la Fluxhall, le modalità di presentazione ricalcano la struttura formalizzata in Europa affiancando ai concerti e alle performance, la presentazione di alcune opere singole come Zen for Film di Nam June Paik. In un ciclo infinito, la pellicola non impressa attraversa il proiettore, l'immagine proiettata risultante mostra una superficie illuminata da una luce intensa, talvolta alterato dalla comparsa di graffi e polvere sulla superficie della celluloide danneggiata. In analogia a John Cage, che comprende il silenzio come un “nonsuono” nella sua idea di musica, Paik utilizza il vuoto delle immagini. Il film rappresenta solo il dato materiale con le sue qualità fisiche, e come un’«anti-film» impone allo spettatore un drastico strappo rispetto alla marea di immagini in cui è immerso tutti i giorni. Inoltre in questa manifestazione collettiva newyorkese, completano il programma azioni concepite per essere svolte in strada all’aperto così come annunciato a Copenhagen e avvenuto a Nizza. In questa serie di eventi viene posto l’accento sulla partecipazione del pubblico, la trasformazione del visitatore dapprima in fruitore, e in secondo luogo in parte attiva e necessaria alla realizzazione della performance. Nel caso di Licking Piece di Ben Patterson, per esempio, in cui il corpo della performer Litty Eisnhauer viene coperto di panna montana che gli astanti vengono invitati a leccare e mangiare, il grado di interazione presuppone ancora una divisione marcata tra artista e spettatore, mentre in alcune opere successive il procedimento si spinge oltre.
Viene meno la componente sonora e sperimentale, lascia spazio ad una azione corporea, fisica, desunta spesso da gesti quotidiani e ordinari, che si propone di rivelare «un’area di sensibilità inedita, incentrata su aspetti triviali, marginali, trascurati, cose sciocche e irrazionali, tics e feticci, idee inutili e invenzioni non necessarie, banalità assolute e varie forme di sacrilegio minore». In Seminar I di Patterson i partecipanti all’atto performativo non solo sono invitati a seguire le istruzioni, ma a proporre alternative a loro discrezione improvvisando. Le persone presenti vengono divise in coppie e ad ogni coppia viene chiesto di seguire l’esempio dei performer, lo stesso Patterson con l’aiuto di Alison Knowles, mettendo in atto una serie di azioni tra le quali fare una domanda e dare una risposta, compiere tra gesti simmetrici tra i due partecipanti muovendo dita, occhi e orecchie. Sulla stessa linea si pone Shoes di Ay-O che prevede di legare i piedi di diverse persone ad un asse per poi comminare nella stanza o nel luogo in cui si svolge l’evento. In questa tipologia di eventi, seppur non del tutto nuova, è chiaro un distaccamento dalla condizione antiaccademica che pervade quasi tutte le performance presentate nei festival europei e si affaccia in maniera sempre più evidente il lato ironico preconizzato dalle esperienze del Cabaret Voltaire dadaista alla cui atmosfera molti degli artisti Fluxus si ispirano o sono vicini. Il 27 giugno ancora si tiene presso la Carnegie Recital Hall il Fluxus Synphony Orchestra in Fluxus Concert. La sede ospitante è una sala da concerto, l’ensamble Fluxus è presentato come un’ “orchestra sinfonica”, apparentemente l’evento sembra proseguire sulla linea tracciata dalla stagione festivaliera maggiormente orientata alla componete sonora. Al momento però è in atto una trasformazione nell’approccio alle azioni Fluxus, dalla dissacrazione dell’accademia musicale, infatti, si passa alla realizzazione di gesti ordinari, sempre più minimali, nei quali la presenza dello strumento musicale è accessoria e passa in secondo piano. Se durante i primi festival l’accanimento distruttivo nei confronti dell’oggetto (in particolare lo strumento musicale) è il dato più evidente e testimonia la lotta con il sistema di riferimento, nei casi più recenti l’oggetto, dove presente, è defunzionalizzato, détournato, e la pesantezza di cui è portatore lascia il posto alla leggerezza dell’ironia. In Solo for Violin, George Brecht concentra la produzione sonora della sua performance nell’atto di pulire la strumento, procedendo ad “abbassare” il significato dell’azione artistica e irridendo il concetto di gesto artistico. Anche in Rainbow for Wind Orchestra i musicisti non utilizzano gli strumenti nel modo convenzionale, essi sono invitati a produrre bolle di sapone. Su questa scia è interessante leggere anche l’event score di Wind Music della giapponese Chieko Shiomi che invita ad aumentare il vento, lasciarsi trasportare dal vento, lasciare che ogni cosa venga trasportata dal vento, sulla spiaggia, in strada con il passaggio delle automobili, fino ai tifoni. Durante la performance viene portato sul palco un grande ventilatore, il performer si pone di fronte ad esso producendo rumore con il suo corpo e con alcuni fogli di carta mossi dall’aria. La fase cosiddetta eroica arriva alla sua conclusione in seguito alla formazione di diverse fazioni del gruppo come risultato del dibattito intorno allo spettacolo Originale di Stockhausen nell'autunno del 1964. Dopo questa data infatti data linee guida le attività degli artisti legati a Fluxus cambiano, e gli artisti stessi che avevano aderito in precedenza o che vi erano stati associati si ritirano o intraprendono percorsi diversi, spesso individuali. L’idea dell’inondazione s’incarna nelle piccole edizioni che caratterizzano la produzione Fluxus: una miriade di piccoli oggetti che, come l’acqua, possono arrivare ovunque portando con sé la nuova visione estetica del mondo. “Fluxus, arte per tutti. Edizioni italiane dalla collezione Luigi Bonotto” è il terzo appuntamento che chiude il ciclo dedicato a Fluxus dalla Fondazione Bonotto nei suoi dieci anni di attività. Ogni mostra ha affrontato un tema specifico fondamentale per l’esperienza del movimento: i libri d’artista, protagonisti di “Fluxbooks” organizzata a Venezia nel 2015 in collaborazione con la Fondazione Bevilacqua La Masa e la musica, con un’ampia raccolta di partiture, dischi e strumenti musicali Fluxus, al centro della seconda esposizione “Sense Sound Sound Sense” all’Auditorium Parco della Musica di Roma nel 2016 e Whitechapel a Londra nel 2019.
La terza e ultima tappa, al Museo del Novecento di Milano, pone per la prima volta l’accento sull’esperienza editoriale italiana e sull’attività dei suoi protagonisti: Rosanna Chiessi, che fonda nel 1971 la “Pari&Dispari” edizioni; Francesco Conz, le cui edizioni iniziano nel 1972; Gino Di Maggio, Beppe Morra e le storiche edizioni ED 912 animate da Gianni Emilio Simonetti e Daniela Palazzoli. I multipli e le numerose edizioni in mostra, provenienti dalla Collezione Luigi Bonotto, esplorano e approfondiscono il radicale cambiamento che la diffusione delle edizioni apporta nella fruizione dell’opera d’arte nel mondo Fluxus e dei suoi estimatori. Da oggetto d’élite, destinato a pochi fruitori di una ristretta cerchia di facoltosi intenditori, l’opera diviene un oggetto cheap, accessibile e acquistabile da chiunque, spesso corredata di un “manuale di istruzioni” per un’azione da compiere a casa propria, come spesso invitano a fare le indicazioni contenute negli “Events” di George Brecht. Questo ulteriore passo verso la de-costruzione del mondo dell’arte ha avuto e continua ad avere delle ripercussioni ancora difficilmente indagabili. Di fatto, non solo qualsiasi oggetto può essere elevato ad arte, ma a operare questo passaggio può essere chiunque, senza necessariamente aver bisogno di un riconoscimento ufficiale. In mostra sono esposte edizioni di: Eric Andersen, Ay-O, Joseph Beuys, George Brecht, John Cage, Giuseppe Chiari, Philip Corner, Willem De Ridder, Jean Dupuy, Robert Filliou, Albert M. Fine, Henry Flynt, Ken Friedman, Al Hansen, Geoffrey Hendricks, Dick Higgins, Joe Jones, Allan Kaprow, Milan Knizak, Alison Knowles, Jackson Mac Low, George Maciunas, Walter Marchetti, Jonas Mekas, Larry Miller, Charlotte Moorman, Claes Oldenburg, Yoko Ono, Nam June Paik, Ben Patterson, Dieter Roth, Takako Saito, Tomas Schmit, Carolee Schneemann, Mieko Shiomi, Gianni-Emilio Simonetti, Daniel Spoerri, Ben Vautier, Wolf Vostell, Robert Watts, Emmett Williams e altri. Dall’inizio degli anni Settanta, la Collezione Bonotto raccoglie numerosissime testimonianze tra opere, documentazioni audio, video, manifesti, libri, riviste ed edizioni degli artisti Fluxus e delle ricerche verbo-visuali internazionali sviluppate dalla fine degli anni Cinquanta: Lettrismo, Poesia Concreta, Poesia Visiva, Poesia Sonora e Poesia Digitale. Tutta la collezione (opere e documenti) è interamente e liberamente consultabile on line sul sito della Fondazione Bonotto che, grazie all’enorme lavoro di connessioni sviluppate tra le varie schede, è divenuto un punto di riferimento importante a livello internazionale per studiosi, curatori, direttori di musei e semplici amatori che desiderano approfondire le loro conoscenze di Fluxus e della Poesia Concreta, Visiva, Sonora e Digitale.
 
Museo del Novecento Milano
Fluxus, arte per tutti. Edizioni italiane dalla collezione Luigi Bonotto
dal 25 Novembre 2022 al 16 Aprile 2023
dal Martedì alla domenica dalle 10.00 alle 19.30
Giovedì dalle 10.00 alle 22.30- Chiuso il Lunedì
 
Foto Allestimento Mostra Fluxus per tutti credit © Margherita Gnaccolini