L’agile pubblicazione di Andrea Donati “Conoscere collezionando. I ritratti della Collezione Gabburri” da qualche settimana nelle librerie per i tipi di etGraphiae (fig. 1), porta alla ribalta la figura di Fancesco Maria Niccolò Gabburri, un erudito vissuto a Firenze tra la fine del XVII e i primi decenni del XVIII secolo, che fu molto di più che un collezionista di opere grafiche.
Gabburri faceva parte di una famiglia assai nota a Firenze che pur arrivando al patriziato molto tardi, nel 1765, ricoprì con molti esponenti nel corso dei secoli, a partire dal Quattrocento, cariche pubbliche di notevole importanza. Lo stesso Francesco Maria fu “membro del Consiglio dei Duecento, cavaliere di santo Stefano, paggio rosso, scudiero del Granduca Cosimo III, luogotenente del Granduca Giangastone, e di Francesco II di Lorena” oltre che “provveditore dell’Accademia del Disegno dal 1730 al 1740".
Una carica, quest’ultima, assai significativa se non probabilmente per lui la più gradita, considerando quelle che furono le occupazioni e le scelte preferenziali che caratterizzarono l’intero corso della sua esistenza. Fu dagli inizi del XVIII secolo, in effetti, vale a dire subito dopo la scomparsa della moglie (1701), che Gabburri riuscì a realizzare “una delle più straordinarie collezioni grafiche di tutti i tempi”, in primo luogo di ritratti (ma anche la scuola romana, “in particolare una certa corrente del barocchetto”, era apprezzata). E non sembri il giudizio di Donati eccessivo; si sa che nel suo prestigioso palazzo di via Ghibellina, egli aveva allestito una stanza appositamente per i ritratti, per non dire delle centinaia di fogli che riuscì a mettere insieme: secondo una fonte settecentesca, solo i ritratti erano “circa duecento”; lo studioso ne pubblica più di sessanta e altrettanti ne riporta nel repertorio in calce al volume, ma considerando quelli finiti sul mercato internazionale dopo la sua scomparsa - ben 117 facevano parte del catalogo di vendita della collezione Rogers del 1799 - è facile dedurne che “il numero dei fogli da ricercare è ancora molto alto”.
In effetti, Gabburri era riuscito ad accorpare nel corso del tempo intere raccolte: quella, ad esempio, di Anton Domenico Gabbiani (Firenze, 1652-1726), uno dei più prestigiosi artisti del Granducato (fig. 2), vissuto a cavallo dei due secoli e dal nostro molto apprezzato, il quale aveva messo insieme ben 406 fogli, “la maggior parte dei quali era stata acquisita da Gabburri tra il 1722 e il 1730”; per non parlare del “più grosso nucleo di disegni di Fra’ Bartolomeo di tutti i tempi”, cioè “due album di 409 disegni” ora a Rotterdam, nonché “un terzo di paesaggi” che l’erudito riteneva essere appartenuto ad Andrea del Sarto.
La raccolta insomma era di primissimo piano sia quantitativamente che sotto il profilo della qualità e del valore scientifico, oltre che commerciale, e di sicuro non sfigurava affatto anche di fronte a quelle di più noti collezionisti, italiani e non (come Padre Sebastiano Resta, ad esempio, o Jonathan Richardson, o altri ancora)
Anche per questi motivi, la sua importanza non è sfuggita all’attenzione di alcuni specialisti del settore che l’hanno studiata attentamente: fra loro, alcuni anni fa, Fabia Borroni Salvadori e, più di recente, Novella Barbolani di Montauto e Nicholas Turner. Ultimo in ordine di tempo, il lavoro di Andrea Donati, in forza di un impegnativo studio su testi e documenti anche inediti, porta ulteriori elementi di valutazione e di analisi, oltre a importanti chiarimenti che consentono di collocare meglio questa sorprendente figura di erudito nel panorama artistico di una città dove l’interesse per la pratica del disegno ha attraversato un po’ tutte le epoche, assumendo un ruolo primario nei dibattiti e nelle realizzazioni in campo artistico.
Da Vasari - che, come tutti sanno, nelle Vite, giudicava il disegno “il padre delle arti nostre”, l’autentica “espressione del concetto che si ha nell’animo” - in poi, ma anche prima, da Cennino Cennini che ne raccomandava la pratica (“Abbi uno stilo d’argento o d’ottone, o di ciò si sia, purchè dalle punte sia d’argento, sottili a ragione, pulite e belle; poi con esempio comincia a ritrarre cose agevoli quanto si può per usare la mano, e collo stile su per la tavoletta leggermente che appena si possi vedere quello che prima cominci a fare …”), da sempre, insomma, l’attrazione verso questa pratica ha avuto eccezionali interpreti, con riscontri che certamente hanno travalicato la Toscana. E basti leggere quanto scriveva Francisco de Hollanda, più o meno negli stessi anni in cui Vasari completava la prima edizione delle Vite: ”… Nel disegno, che con altro nome chiamano schizzo, consiste e sussiste ciò che è la fonte e il corpo della pittura e della scultura e dell’architettura e di tutti gli altri generi di pittura,e la radice di tutte le scienze” (Grazia Modroni, Le fonti letterarie di Francisco de Hollanda, in "Ricerche di Storia dell’Arte", n.64, 1998, p. 34).
E’ chiaro
che da questi presupposti teorici, non poteva non trovare ispirazione un erudito come Gabburri anche in considerazione del fatto che sicuramente li conosceva, vista la consistenza della sua personale biblioteca, “di prim’ordine” come dice Donati, il quale sottolinea come pur non allontanandosi da Firenze, Gabburri ebbe consistenti scambi epistolari con le più importanti personalità artistiche e culturali del suo tempo e conobbe, durante le loro soste in città, collezionisti prestigiosi come Pierre Crozat e come Pierre-Jean Mariette, conosciuto soprattutto come grande incisore, del quale promosse la nomina a socio dell’Accademia del Disegno. Fu proprio Mariette a convincere Gabburri a dedicarsi alla stesura delle Vite dei Pittori, iniziate in effetti a partire dal 1719 ed interrottesi nel 1741 ad un anno dalla sua scomparsa (fig.3).
La precisa ricostruzione di Donati delinea la genesi e la metodologia seguita per realizzare questo lavoro, riproponendo lo scambio epistolare che l’erudito fiorentino ebbe con l’incisore francese, sulla base di un principio che “occupava costantemente la sua mente”, vale a dire “il conoscere collezionando”. Le Vite, dunque, presero forma con l’utilizzo di opere preesistenti e ma soprattutto grazie alle novità che a questo riguardo venivano acquisite attraverso i contatti con collezionisti e studiosi di tutta Europa, tanto che proprio questo “punto di vista internazionale” differenzia l’opera del Gabburri e ne fa “un caso senza precedenti nella cultura artistica italiana della prima metà del Settecento”.
Va detto che egli si valse anche delle informazione che poteva ricevere direttamente da artisti o conoscitori attivi in quegli anni, ai quali si rivolgeva per avere notizie e chiarimenti che gli documentassero un quadro preciso circa quanto andava ad analizzare e a descrivere. Suoi referenti furono ad esempio per l’area veneta il pittore veronese Antonio Balestra e il collezionista Anton Maria Zanetti, e poi gli autori di opere simili e coeve come gli emiliani Padre Pellegrino Antonio Orlandi, che compose nel 1704 l’Abecedario Pittorico, o Girolamo Baruffaldi con le sue Vite dei pittori e scultori ferraresi.
Significativa ci appare in questo senso una lettera, finora sfuggita agli studiosi di Gabburri e che pubblichiamo per stralci qui per la prima volta, a lui indirizzata come risposta alle richieste che fece su Cagnacci, dal titolo “Intorno alla vita, e opere di Guido Cagnacci da Sant’Arcangelo Pittore eccellente Scritta al Sig. Cav. Franc. M. Niccolò Gabburri di Firenze da Gio: Battista Costa d’Arimino, a dì 4 novembre 1741” , dove “Per ubbidire ai riveriti commandamenti (sic !) di V.S. Illustrissima” il pittore Giambattista Costa (definito “celebre pittore in detta città” nell’opuscolo che contiene la missiva) per contraccambiare “le moltissime cortesie che Ella si degnò compatirmi nel passato Giugno in tempo di mia dimora in Firenze” oltre che per “poter in alcuna parte contribuire alle memorie veridiche di questo Eccellente Dipintore” tramanda “le più sincere notizie che ho potuto avere del celebre pittore Guido Cagnacci”.
Del quale chiarisce in effetti il luogo di nascita, correggendo tanto “l’autore della Felsina Pittirce” quanto “quello dell’Abecedario Pittorico”, cioè Malvasia e Padre Orlandi, dai quali “venga detto de Castel Durante (oggi Urbania)”, mentre invece “ebbe per patria la ragguardevole terra di Sant’Arcangelo in Romagna, lontana d’Arimino sette miglia”. Inoltre il Costa faceva chiarezza sul nome del pittore “… come si vede nel libro dei Battezzati di quel tempo … si conviene esser senza fondamento quello che nel detto Abecedario Pittorico si narra, cioè che Guido veramente si chiamasse de’ Canlassi ma che per esser egli homo ‘obeso’, ‘tozzo’ e ‘barbuto’ gli fosse storto il suo vero cognome nell’altro di Cagnacci; cosa senza fondamento, perché non solo in detto libro de Battezzati, ma ancor nei libri pubblici di detta terra si vede registrato il Padre suo col nome di Matteo Cagnacci e non mai Canlassi…” (cfr, Raccolta d’opuscoli scientifici e filosofici. Tomo Quarantesimo settimo. Al Nobile Sig. Conte Francesco Beretta. In Venezia MDCCLII, presso Simone Occhi, pp. 123 e ss.).
Il documento ci appare di rilievo perché consente di capire da una parte che Gabburri non stava interessandosi solo di artisti contemporanei o di secondo piano, e dall’altra quali possano essere stati il livello e la qualità delle fonti cui per amicizia e consuetudini poteva contare, cosa che di conseguenza ci consente di valutare meglio la credibilità delle sue Vite. Fa bene dunque Andrea Donati, pur rilevando i limiti di carattere metodologico dell’opera, peraltro come detto rimasta incompiuta, a rimarcarne i meriti, “che non possono essere sminuiti in alcun modo”, specie per quel che riguarda “alcune parti” da ritenere “fonti primarie per la conoscenza di artisti rari o altrimenti ignoti”.
Secondo lo studioso l’idea delle Vite sarebbe nata perché Gabburri doveva in parte compensare l’impossibile desiderio - frutto di quella sorta di “bulimia collezionistica” che a suo parere caratterizza “tutti i collezionisti di razza” - di “accrescere la collezione all’infinito”.
La collezione in effetti vantava lavori di straordinario livello, come gli autoritratti di Gian Lorenzo Bernini (fig 4), Sebastiano Conca (fig. 5) o Alessio De Marchis (fig. 6). Ma tra tanti artisti effigiati inseriti nella collezione, Donati ben a ragione si sofferma sui ritratti e autoritratti di Tiziano (fig. 7), Michelangelo ( fig. 8) , Annibale Carraci (fig. 9) e Ribera (fig. 10), che presentano le maggiori difficoltà dal punto di vista della riflessione filologica, chiarendone anche se solo in parte le origini considerate le incertezze che presenta “la questione filologica inerente alla diffusione dell’immagine di un artista”. Tuttavia colpisce almeno l’autoritratto di Annibale, del tutto distante da quelli conosciuti.
In effetti l’erudito fiorentino s’impegnò a fondo, da un lato, nel “compito colossale di mettere insieme una collezione sconfinata di disegni e stampe”, dall’altro, “scrivendo un dizionario artistico universale”, che pubblicò già nel 1721 e poi nel 1741, appena un anno prima della sua scomparsa, quando era ancora lontano dalla fine della sua ricerca e dal completamento della raccolta.
Il suo lascito non fu senza conseguenze: “la moda dei ritratti - nota Donati - dilagò a Firenze nella seconda metà del Settecento”, e la sua opera, “non del tutto completa”, dal 2005 è conservata presso una Fondazione a Parigi. L’auspicio è che il libro stimoli nuove ricerche e favorisca l’ulteriore rivalutazione della figura di Francesco Maria Niccolò Gabburri.
Pietro di Loreto, 16 /03 /2015