E’ fresca di stampa l’attesa monografia, comprensiva di ampio catalogo ragionato, che Francesco Petrucci ha dedicato a uno dei massimi protagonisti della pittura romana e italiana nei decenni centrali del Seicento: Pier Francesco Mola.
Si tratta di un lavoro per il quale, per una volta, non risulta abusivo l’uso dell’aggettivo “necessario”, giacché non erano davvero più molti gli artisti italiani del Seicento di alto livello che negli ultimi tre decenni non erano stati gratificati da un esauriente lavoro monografico. Fino a oggi, infatti, i due più recenti volumi dedicati a Mola restavano quelli, di mole e ambizioni fra loro assai diverse, pubblicati rispettivamente al principio e alla fine degli anni Settanta del secolo scorso da Richard Cocke (Pier Francesco Mola, Oxford 1972) e da Jean Genty (Pier Francesco Mola pittore, Lugano 1979).
Dopo di allora non sono mancati, ovviamente, articoli, saggi e studi, anche importanti, sull’artista, fra i quali si segnalano soprattutto quelli di alcuni illustri specialisti del Seicento romano, come Ann Sutherland-Harris, Stella Rudolph, Eric Schleier, Nicholas Turner. Si deve aggiungere che Mola, tra il 1989 e il 1990, è stato al centro di un’importante mostra monografica, con duplice tappa a Lugano e Roma (Pier Francesco Mola 1612-1666, Milano 1989), che ha costituito un’occasione fondamentale di rilancio degli studi ma anche di una più diffusa conoscenza intorno alla produzione di un pittore che, sin lì, era stato soprattutto un oggetto di culto per gli appassionati di pittura seicentesca; e ancora che, più di recente, un’altra esposizione volta a indagare soprattutto i “dintorni” della pittura di Mola è stata curata proprio da Petrucci presso il museo di Palazzo Chigi ad Ariccia (Mola e il suo tempo, Milano 2005).

Sta di fatto, però, che dopo il volumetto di Genty del 1979 nessuno s’era più assunto l’onere (oltreché, va da sé, l’onore) di cimentarsi con una sintesi di ampio respiro sull’artista che includesse anche i rischi (con Mola invero notevoli) del
catalogue raisonné. Notevoli, dicevamo, per varie ragioni. Mola, infatti, non è un pittore la cui produzione presenti un chiara linea di sviluppo, tale da configurare un nitido processo evolutivo. Dunque, nonostante le preziose indicazioni di Giovan Battista Passeri (ca. 1673) e Lione Pascoli (1730) e un certo numero di opere pubbliche documentate (che però in generale non rientrano nella sua produzione più eletta, soprattutto gli affreschi), scalarne l’opera in modo logico (almeno secondo gli
standards consueti della filologia storico-artistica), cimentandosi in una puntuale ricostruzione cronologica del suo
corpus, rappresenta pur sempre un esercizio arduo e disseminato di insidie. A maggior ragione poiché la produzione di Mola si presenta abbastanza discontinua sotto il profilo qualitativo, anche a causa di un sistematico, per quanto tutt’altro che anomalo rispetto alle consuetudini dell’epoca, ricorso all’intervento di aiuti. Inoltre, sebbene per un artista della sua levatura e della sua energia l’etichetta di eclettico suoni decisamente riduttiva, non c’è dubbio che il linguaggio del Mola, così colto e prensile nei confronti degli infiniti stimoli provenienti dalla scena artistica contemporanea, esibisca così tanti e diversi punti di riferimento da rendere la sua produzione una sorta di catalizzatore, per non dire di media stilistica, delle tendenze maggiori presenti nella pittura romana a cavallo dei decenni centrali del Seicento, variamente combinate fra loro: vi si ritrova, così, una chiara memoria di scuri ingagliarditi di ascendenza naturalistica, se non proprio caravaggesca, un colorismo di marca neo-veneta combinato con un libero e fantasioso gusto paesaggistico, non disgiunti da inequivocabili, per quanto originali, accenti classicisti e da un’impostazione energicamente monumentale nella definizione delle figure; e ben lo sa chiunque rivolga un occhio attento al mercato dell’arte antica, in cui frequentemente il nome di Mola risulta speso, con riferimenti attributivi variamente puntuali (diretti, generici o “di area”) e credibili, per un gran numero di prodotti di buon livello, che presentino una consimile equilibrata miscela, marcatamente plurale, di suggestioni pittoriche.

Il volume di Petrucci è canonicamente diviso in un lungo saggio introduttivo (“La formazione, la cultura figurativa, le fasi evolutive”, corredato di 164 illustrazioni, quasi tutte a colori ed eccellentemente stampate) dedicato all’inquadramento complessivo della vita e della produzione del pittore nel contesto della storia e dell’arte italiana del XVII secolo, e nel catalogo ragionato, suddiviso per generi, che consiste, oltre agli affreschi, di 254 dipinti fra i quali svariati inediti e alcune rilevanti proposte di cambiamento d’attribuzione. Fra queste ultime ci limitiamo qui a segnalare due casi di particolare interesse: l’
Autoritratto con vanitas, del Dallas Museum of Art (cat. A2), in precedenza variamente riferito a Salvator Rosa, Tanzio da Varallo e Pietro Paolini, e l’
Allegoria del pontificato di Alessandro VII (cat. B79), conservata alla Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, sin qui stabilmente attribuita a Francesco Albani. L’approccio prudentemente espansionista di Petrucci ha evitato dilatazioni incongrue del
corpus molesco attraverso proposte ragionevoli e ben ponderate, per quanto non necessariamente da accogliere
in toto. Il catalogo, inoltre, presenta opportunamente due sezioni dedicate a un ampio censimento di “Opere dubbie e respinte” (ben 136 pezzi) e a un’esaustiva ricognizione di “Opere documentate o perdute”.
Nel saggio introduttivo Petrucci s’impegna a illuminare tutte le fasi della biografia di Mola, con la ricostruzione dei suoi viaggi e soggiorni fuori da Roma (Venezia, Lucca, Bologna, la natia Coldrerio, nel Canton Ticino, e fors’anche Napoli, secondo la ragionevole proposta dell’autore), della sua controversa e problematica personalità e della sua articolata parabola artistica, che lo vide dapprima a bottega dal Cavalier d’Arpino, ma pressoché senza conseguenze (ca. 1625-1626), poi assistente di Francesco Albani a Bologna per circa due anni sul finire del quarto decennio (tappa invece essenziale nel suo processo di crescita artistica) e qualche tempo dopo (giusta Pascoli) presso Guercino, sempre a Bologna, probabilmente alla metà degli anni ’40. Oggetto di specifica messa a fuoco è anche la fitta trama dei rapporti che, nel corso della sua carriera, il pittore seppe istituire con committenti del rango di papa Innocenzo X e Camillo Pamphilj, di Alessandro VII e del nipote Flavio Chigi, del principe Lorenzo Onofrio Colonna, di Cristina di Svezia, ma anche con artisti, mercanti e intellettuali.

In successione vengono presi in considerazione capillarmente da Petrucci tutti i settori della produzione di Mola (affreschi e pale d’altare, pittura da cavalletto, paesaggi, ritratti e teste di carattere, sino al piccolo nucleo delle incisioni realizzate da lui o tratte da suoi disegni) e tutte le problematiche connesse alla sua attività: il denso ordito delle influenze e degli scambi con altri artisti (in cui, oltre ai grandi veneti Tiziano, Veronese, Bassano, appaiono coinvolte pressoché tutte le maggiori personalità attive fra il terzo e il settimo decennio del Seicento, da Serodine a Borgianni, da Albani a Guercino, da Pietro da Cortona a Camassei, da Sacchi a Lanfranco, da Poussin a Pietro Testa, da Ribera a Mattia Preti, dal Grechetto a Dughet, ma l’elenco potrebbe allungarsi pericolosamente e in fondo poco utilmente), la prolifica bottega, l’attività di disegnatore e caricaturista, il non trascurabile nodo critico costituito dai suoi allievi e seguaci (fra i quali spiccano Francesco Giovane, Giovan Battista Boncori, Giovanni Bonati, Antonio Gherardi e Giovan Battista Pace), la fortuna critica.

Eccoci, dunque, nuovamente a Palazzo Chigi ad Ariccia, a qualche mese di distanza dalla chiacchierata dedicata alla monografia su Ludovico Stern, per parlare con Francesco Petrucci di questa sua ultima fatica editoriale. Un lavoro lungamente preparato, come un basso continuo che lo ha accompagnato anche nei periodi dedicati agli studi portati a termine nell’ultimo decennio.
D. Per cominciare introduci questa tua impresa: la genesi, le difficoltà specifiche, gli obiettivi critici.
R. Il mio studio su Mola partiva da due contributi fondamentali: la monografia di Richard Cocke del 1972 e il catalogo della mostra del 1989 di Lugano e Roma; poi c’erano vari ottimi studi sulla produzione grafica (Anne Sutherland Harris, Nicholas Turner e Sonja Brink) e su opere o aspetti specifici (in particolare Eric Schleier). Mancava però un catalogo sistematico che aggiornasse il testo quarantennale di Cocke alla luce dei tanti studi che hanno riguardato in questo periodo tanto la produzione quanto la biografia di Mola, a cominciare dai suoi viaggi, che lo hanno messo in contatto con varie scuole e molteplici artisti, rendendo il suo linguaggio pittorico così aggiornato, carico di riferimenti e versatile: ciò che peraltro rappresenta un elemento di difficoltà nell’attribuzione e nella collocazione cronologica delle opere, al pari di altri artisti che hanno molto visto e molto viaggiato (penso a Luca Giordano o Sebastiano Ricci).
Per quanto mi riguarda, ritengo di avere oggi una sufficiente maturità per affrontare adeguatamente un argomento così complesso. Senza i molti lavori svolti in questi anni, da Baciccio sino a Beinaschi, non penso che sarei stato in grado di cimentarmi con successo con i problemi posti da Mola.
A differenza della monografia su Baciccio, infatti, che aveva principalmente un carattere compendiario potendosi giovare di una bibliografia ricca e di un certo livello, lo stato degli studi su Mola si presentava ben più lacunoso. Si trattava, dunque, di ricostruirne la personalità, delineando un adeguato quadro d’insieme intorno al suo profilo artistico e in particolare alla sua formazione ed evoluzione iniziale. Sfuggiva ancora largamente, infatti, l'attività giovanile, precedente ai suoi spostamenti nel nord dell’Italia, e credo che nel mio volume questa prima, problematica fase di attività del Mola si cominci a cogliere con sufficiente chiarezza.
D. Vuoi dirci brevemente com’è costruito il volume?
R. Il corposo saggio introduttivo è imperniato principalmente su quattro aspetti: la fortuna critica, la vicenda biografica, la cultura figurativa e la committenza. Il catalogo vero e proprio supera ampiamente i duecento numeri, suddivisi fra i vari generi che hanno visto impegnato Mola, dagli affreschi alle pale d’altare, dai ritratti ai dipinti da quadreria, sacri, mitologici, storici, allegorici. Ampio spazio ho voluto riservare alla produzione grafica del pittore, di altissima qualità, sia nel saggio sia all’interno delle schede del catalogo, dove ho cercato di fornire tutti i riferimenti ai materiali propedeutici all’esecuzione delle opere pittoriche. Non mi è stato possibile in questa circostanza procedere anche con un catalogo dei numerosi disegni del Mola, impresa pure necessaria che però avrebbe richiesto uno studio monografico parallelo a questo, in grado di rendere conto di una produzione, oltreché corposa, assai articolata, dalla grafica preparatoria ai disegni automi alle caricature. Due ulteriori sezioni del catalogo sono riservate alle opere perdute e ai numerosi dipinti il cui riferimento a Mola è da considerare a mio avviso dubbio o da respingere del tutto.
D. Qual è il profilo artistico e biografico di Mola che ci viene restituito dalle principali fonti sei e settecentesche?
R. Le maggiori fonti antiche su Mola (il padre Gian Battista, Passeri, Pascoli, Titi), oltre a fornirci preziosi riferimenti storici, molti dei quali attinti di prima mano o ricavati da testimonianze dirette di personaggi vicini al pittore, ci danno la precisa immagine complessiva di un artista di primissimo piano, tanto apprezzato quanto operoso presso gli ambienti più importanti e influenti, e inoltre ci restituiscono un carattere complesso, un uomo dai tratti psicologici controversi e dal temperamento instabile: cosa che in una certa porzione, più intima, della sua produzione - in particolare le caricature e la grafica - si traduce in una marcata vena autobiografica, che ci permette di cogliere alcuni aspetti problematici della sua personalità. Sappiamo che Mola tendeva all’autocommiserazione, pur avendo un’alta considerazione di se stesso, che l’ha portato ad avere dei rapporti molto conflittuali con taluni suoi committenti di altissimo rango: celebre, in questo senso, e paradigmatica dei rapporti a volte sofferti fra artisti e committenti, la causa che Mola intentò contro il principe Camillo Pamphilj in riferimento al pagamento degli affreschi per la dimora di Valmontone. Mola pretendeva un contratto scritto di contro al principe che esigeva di visionare preventivamente il lavoro: l’iniziativa giudiziaria intrapresa dal pittore aveva ben pochi precedenti e, inevitabilmente, non fu coronata da successo, producendo, anzi, la quasi totale distruzione del lavoro che egli aveva già svolto e in particolare la decorazione pittorica della cosiddetta Stanza dell’Aria, che fu demolita e sostituita per decisione del principe con l’opera di Mattia Preti. Certo Mola fu in questa circostanza malconsigliato, fors’anche dal padre architetto (il quale rappresentò a lungo una sorta di
tutor per Pier Francesco), che a sua volta in precedenza aveva avviato una causa con lo stesso Camillo, alla quale, però, aveva arriso il successo finale.

Sta di fatto che questa azione legale dall’esito infausto dovette produrre non lievi ripercussioni psicologiche sul Mola, gettandolo in una situazione di sconforto anche in ragione delle notevoli cifre che era stato costretto a investirvi. In generale Mola conduceva uno stile di vita generoso e dispendioso che lo portò a disperdere quasi completamente il suo patrimonio e a non lasciare quasi nulla ai suoi eredi. Luigi Salerno a suo tempo lo incluse fra quelli che ebbe a definire “pittori del dissenso”, accanto a Salvator Rosa, Pietro Testa e altri: artisti che avrebbero avuto un atteggiamento polemico nei confronti della società e accomunati da un’analoga visione neo-stoica della vita. Al di là di episodi sporadici, Mola fu peraltro un’artista pienamente incardinato al più alto livello nella vita sociale e culturale della Roma di metà Seicento, talché probabilmente quella di Salerno va considerata più una suggestione letteraria che un dato storicamente verificabile. Anche l’insistenza di Mola su alcune tematiche, come la rappresentazione di Filosofi, poco praticate nella scena artistica capitolina, va ricondotta a mio avviso principalmente all’influenza di Ribera, più volte rilevata dalla critica: il che, tra l’altro, supporta la mia ipotesi di un soggiorno napoletano dell’artista, secondo un itinerario tutt’altro che desueto per i pittori dell’epoca.
D. Come sintetizzeresti il posto di Mola nell’arte romana del XVII secolo?
R. Certamente Mola è stata una figure cardine, perché ha avuto molti allievi e molti seguaci, influenzando tanti illustri pittori suoi contemporanei. Ma la sua produzione ha un significato che travalica il XVII secolo, giacché il suo approccio diretto con la realtà e il suo modo di dipingere così sciolto e pittorico fu molto apprezzato nei due secoli successivi in Francia e in Inghilterra da artisti come Turner e Gainsborough. Non a caso Mola fu un artista storicamente molto presente e ammirato in tutte le principali collezioni di quelle due nazioni, a fronte del relativo disinteresse con cui venivano guardati i più tipici prodotti della stagione barocca italiana. A Mola in effetti la categoria di Barocco non calza granché, e penso che piuttosto la sua opera abbia rappresentato una fondamentale ispirazione per quei pittori tenebristi di matrice naturalistica (fra i quali Brandi, Beinaschi e Antonio Gherardi) disallineati rispetto alle correnti principali del barocco, quella berninana-cortonesca e quella sacchiana-marattesca.
D. Quali sono le influenze artistiche che hanno avuto maggiore peso nella pittura così colta e prensile del Mola?
R. Nella prima fase della sua attività, fino al 1636-37, la pittura del Mola può essere senz’altro ricondotta alla temperie neo-veneziana, di primaria importanza sulla scena romana, sia dal punto di vista iconografico sia da quello tecnico-stilistico. In quegli anni è importante per lui anche l’opera del quasi coetaneo Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto, dal quale desume l’interesse per i temi turcheschi. Poi, dal 1638 al 1640, Mola lavora presso l’atelier dell’Albani a Bologna e quest’ultimo diviene un punto di riferimento essenziale nella sua pittura, evidente soprattutto nei paesaggi con figure. Negli anni successivi i soggiorni in Serenissima segnano il contatto diretto con l’arte dei grandi veneziani, in particolare Tiziano, di cui copia uno dei capolavori, il perduto Martirio di San Pietro da Verona nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. E poi indiscutibilmente Guercino e aggiungerei anche Ribera, che a mio avviso ha avuto un peso particolarmente rilevante nella sua evoluzione.
D. Mola non solo è stato un eccellente disegnatore, dalla mano felicissima, ma un artista che nei suoi fogli esibisce una stretta confidenza con la pratica e con le peculiarità del disegno. Al contempo però è stato uno dei più meravigliosi coloristi del Seicento e, come recita opportunamente il titolo del tuo volume, un superbo pittore "di materia". Dal punto di vista tecnico qual’era il modus operandi di Mola? Faceva ampio ricorso a materiali preparatori? Che funzione riservava all’aspetto grafico nell’elaborazione della sua pittura? Predisponeva riferimenti disegnativi nelle sue tele?

R. Mola, per quanto sia stato indubbiamente un grande disegnatore, ha sempre privilegiato nella sua pittura l’immediatezza e la spontaneità. Dunque, pur essendoci, in effetti, una grande quantità di disegni che sono chiaramente riferibili a opere del Mola, si tratta di materiali così distanti dalle redazioni definitive che molti studiosi hanno ritenuto che non fossero effettivamente pertinenti a quelle opere. In realtà, io penso che Mola procedesse in modo estremamente libero e che dunque questi disegni costituissero delle progressive approssimazioni la cui funzione fosse però essenzialmente di studio compositivo, che veniva poi risolto ed ulteriormente elaborato nel prodotto finale, al quale egli voleva comunque garantire un margine rilevante di freschezza e immediatezza. All’opposto, per intenderci, di quello che accade con Baciccio, del quale spesso è possibile seguire il processo creativo in tutto il suo sviluppo, sino a giungere a disegni che talora sono perfettamente corrispondenti al dipinto, con tanto di quadrettatura. Per Mola questo è inimmaginabile. Anche i pochi bozzetti di sua mano che ci sono pervenuti mantengono delle significative differenze col dipinto finito e non rappresentano mai l’ultimo stadio che chiude il processo di elaborazione formale.
D. Per chiudere vorrei chiederti qual è l’opera di Mola che ami maggiormente e che ti sembra particolarmente emblematica della sua arte.
R. Sicuramente la Visione di San Bruno del Getty Museum che ho scelto per la copertina del volume, alla quale sono affezionato in modo speciale, perché ha una provenienza Chigi, perché sintetizza al livello più alto le qualità di Mola pittore di paesaggio e pittore di figura, e anche perché mi sembra che restituisca un tratto profondo della personalità di Mola, meditativo, alla ricerca del distacco dai clamori della mondanità, in sintonia con la spiritualità dei santi eremiti.
Luca Bortolotti, 24/02/2013
Francesco Petrucci,
Pier Francesco Mola (1612.1666). Materia e colore nella pittura del Seicento
Ugo Bozzi, Roma 2012
350 ill. b/n, 150 ill. e tavv. col.
€ 240