Giovanni Cardone Ottobre 2022
Fino al 26 Febbraio 2023 si potrà ammirare a Palazzo Zabarella Padova la mostra Futurismo 1910-1915. La nascita dell’avanguardia a cura di Fabio Benzi, Francesco Leone, Fernando Mazzocca. L’ esposizione vuole raccontare una visione nuova ed originale, infatti si impone come “sguardo altro”, invitando il fruitore alla scoperta di una realtà artistica fino a ora poco, o per niente, svelata. Sebbene negli ultimi quarant’anni si siano succedute molteplici rassegne dedicate al Futurismo, nessuna si è mai focalizzata in termini critici ed esaustivi sui presupposti culturali e figurativi, sulle radici, sulle diverse anime e sui molti temi che hanno concorso prima alla nascita e poi alla deflagrazione e alla piena configurazione di questo movimento che ha caratterizzato in modo così dirompente le ricerche dell’arte occidentale della prima metà del Novecento. Si vuole raccontare tutto questo e molto altro ancora, snodandosi in un percorso in crescendo, le oltre 100 opere che animano le sale di Palazzo Zabarella, tutte appartenenti a un arco cronologico piuttosto ristretto, dal 1910, anno di fondazione del movimento in ambito pittorico, al 1915, quando la pubblicazione del Manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo e l’ingresso in guerra dell’Italia tracciarono un netto spartiacque nelle ricerche artistiche del movimento. Opere d’eccezione, alcune delle quali inedite o esposte raramente, provenienti da gallerie, musei e collezioni internazionali, per un totale di oltre 45 prestatori differenti, un corpus davvero unico che già definisce il prestigio della mostra. “Futurismo”, innanzitutto, significa “arte del futuro”, e infatti, tra le avanguardie del ‘900 è quella maggiormente animata da un sentimento rivoluzionario di rinnovamento, di ribellione nei confronti della tradizione e di fiducia nelle possibilità offerte dal futuro e dalle sue innovazioni tecniche. Gli artisti della prima generazione di futuristi - Umberto Boccioni, in primis, e poi Carlo Carrà, Luigi Russolo, Antonio Sant’Elia, Giacomo Balla e Gino Severini - si pongono come obiettivo di risvegliare l’arte figurativa poiché non è più immaginabile che continui a dar voce a tematiche lontane dalla realtà, spesso vincolate a soggetti religiosi e mitologici.

E per farlo, guardano al Divisionismo, tanto che nel “Manifesto” della fondazione artistica del Futurismo (1910) si dichiara l’ammirazione per i pittori di questa corrente che hanno messo a punto una elaborata tecnica mutuata dal Post-Impressionismo e dal Puntinismo. I futuristi si approprieranno quindi della loro pennellata, pur non nascondendo la loro attrazione per le forme sintetiche, la scomposizione dei piani e la distruzione della prospettiva del Cubismo (di cui però rinnegano la staticità), e senza dimenticare che dal Neoimpressionismo prendono in prestito la luminosità cromatica e dai Nabis il simbolismo dei temi. È partendo da questi presupposti tecnici che il Futurismo, si pone come chiave di rottura verso gli schemi del passato, assurgendo anche a precursore di idee ed esperienze del Dadaismo, delle avanguardie russe e delle neo avanguardie del secondo Novecento. Diventa così l’interprete di una vera “rivoluzione” artistica che vede quale ideale un’opera d’arte “totale” che supera i confini troppo angusti del quadro e della scultura per coinvolgere tutti i sensi, facendo di massimo contrasto cromatico, simultaneità (per determinare l’effetto dinamico) e compenetrazione (per liberare l’oggetto dai suoi confini), i suoi tratti salienti. Essendo uno studioso del Futurismo ho scritto con Rosario Pinto il saggio Astrattismo e Futurismo Idee per un rinnovamento della ricerca artistica all’esordio del ‘900 edito da Printart Edizioni – Salerno. In questo mio scritto ho cercato di tratteggiare il Futurismo per me c’è una differenza tra ‘Avanguardia’ e ‘Movimento’ per me il Futurismo è un movimento che ha messo insieme tante anime artistiche diverse.
Posso dire che la fine dell'Ottocento è un periodo di grande prosperità e generale soddisfazione, come ricorda la stessa definizione di “Belle époche”. In realtà, vuoto e senso di ambiguità pervadono gli anni di transizione dalla vecchia borghesia ottocentesca all'affermazione, sulla scena politica e sociale, delle masse popolari. Quest'epoca si caratterizza per una crisi di valori che coinvolge tutti gli ambiti del sapere: dalle scienze esatte a quelle umane, dall'arte alla filosofia, emergono nuove teorie che superano la visione ingenua dello scientismo positivista. Viene criticata la nozione dogmatica di scienza, propria appunto del positivismo, posta al centro del dibattito scientifico; la definizione del concetto di materia viene messa in discussione, diventando meno assoluta, meno dogmatica e meno statica. Edmund Husserl, nella seconda fase del suo pensiero, parla di una crisi d'identità delle scienze, che non riguarda le scienze in quanto tali, i loro fondamenti epistemologici e le scoperte scientifiche, ma il significato che esse hanno per l'esistenza umana: è una crisi di valori etici e morali, una crisi di senso, il sapere non porta più alcuna ispirazione etica . La cultura europea, all'inizio del Novecento, è quindi pervasa da un profondo senso di crisi, in cui cadono tutte le certezze circa la possibilità di cogliere la realtà attraverso una conoscenza piena e immediata dei suoi molteplici aspetti. Lo sviluppo industriale, legato al progresso tecnologico e alle invenzioni delle macchine, già dalla fine del Settecento comporta un cambiamento radicale del modo di vivere, che tuttavia si traduce in un senso di alienazione e distacco dell'uomo dalla propria natura. Il tema dell'alienazione, già al centro del pensiero di Marx, esprime bene l'unità culturale e spirituale dell'Ottocento, caratterizzata da una tendenza rivoluzionaria di fondo. Come ricorda De Micheli, non bisogna mai dimenticare lo spirito rivoluzionario che pervade tutto l'Ottocento, perché la frattura che avviene nell'arte con le avanguardie artistiche europee non si spiega solo sul piano estetico, facendo riferimento semplicemente ai mutamenti del gusto, ma va invece analizzata prendendo in considerazione le ragioni storiche che hanno portato verso la crisi dell'unità di fondo della cultura borghese. Secondo De Micheli essa non è altro che la vocazione rivoluzionaria della borghesia intellettuale, fondata sugli ideali di libertà, uguaglianza e progresso, che viene messa in crisi dalle forze reazionarie. Il rapporto tra arte e società, arte e politica rimane sempre alla base delle nuove poetiche; attraverso l'arte si possono cogliere aspetti e sfumature della realtà che le sole conoscenze intellettuali e razionali non riuscirebbero a mettere in luce. Il periodo che va dalla fine del XX secolo alla prima guerra mondiale è caratterizzato da una rapida evoluzione del sistema industriale. Il rilancio della produzione, favorito anche da una politica di protezionismo doganale e da una progressiva indipendenza tra Stato ed economia finanziaria, fu reso possibile dalla trasformazione radicale del modello economico, che vedeva sempre più pressante l'esigenza di allargamento dei mercati. In questi anni avvengono le grandi rivoluzioni epistemologiche della contemporaneità quali la relatività, la psicanalisi, la teoria dell'atomo. Tra i tratti distintivi del pensiero filosofico dell'epoca vi furono il vitalismo, inteso come attenzione ai valori istintivi, lo spiritualismo, contrapposizione di una dimensione mentale a una materiale e accentuazione del ruolo della coscienza nella percezione del mondo esterno, e il relativismo, in cui si afferma il carattere prospettico della nostra esperienza del mondo. Le ricerche delle avanguardie storiche rappresentarono l'espressione del clima politico, culturale e sociale del tempo. La nascita delle avanguardie scaturì dalla crisi che investì tutti i valori della società civile europea agli inizi del XXI secolo: fu la sensibilità degli artisti a permettere di percepire i primi crolli nelle certezze che per anni avevano rappresentato dei capisaldi nella vita dei singoli individui. Ora grazie all'arte questa stessa crisi si trasforma in una ribellione, in un rifiuto sempre più fermo di ogni tradizione culturale antichi dogmi e antiche credenze vengono posti in discussione. Tutto il secolo fu caratterizzato da una continua sperimentazione artistica movimenti e stili si succedettero nel tempo con differenti modalità e forme espressive, rimanendo però accomunati da una forte volontà di rottura con il passato, sorta di fil rouge per l'evoluzione culturale dell'epoca. Nel Novecento l'arte scompone, decostruisce, altera la realtà, ricercandone allo stesso tempo una raffigurazione fedele, che rappresenti la premessa per quella che dovrebbe essere l'azione politica.
I prodotti culturali devono essere interpretati: nelle opere ottocentesche è ancora presente un soggetto riconoscibile, le forme sono armoniose, i soggetti gradevoli alla vista. Nel corso del Novecento invece le regole del gusto e i canoni estetici convenzionali mutano radicalmente, i linguaggi delle opere si fanno sconcertanti. Guerre, rivoluzioni, scoperte scientifiche e tecnologiche divennero fattori in grado di sovvertire tradizioni che a lungo avevano provveduto a fornire un'identità stabile all'umanità. I vari cambiamenti si rifletterono nell'arte, nell'ambito della quale iniziò l'esplorazione della realtà attraverso la dissoluzione della figura, la creazione di forme e segni che non avevano più alcun rapporto con il mondo che le circondava. L'arte divenne un fenomeno di massa iniziò a essere considerata come un valore prezioso da tutelare, si aprirono musei e raccolte, le opere uscirono dalle collezioni private e dalle chiese, per essere mostrate a un pubblico sempre più ricettivo, coinvolto e interessato. Dal punto di vista storico, il fenomeno dell'avanguardia ha attraversato tre fasi principali in ambito artistico prime avanguardie o avanguardie storiche, sviluppatesi nella prima metà del Novecento e caratterizzate da movimenti culturali e manifesti artistici, con ampi riferimenti anche all'attivismo politico; seconde avanguardie o neoavanguardie, sviluppatesi negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, caratterizzate dal dibattito critico e dal confronto con la crescente società di massa; le terze avanguardie, sorte alla fine del XXI secolo e tuttora non completamente definite, caratterizzate dallo scontro con il postmoderno e dalla ripresa dei linguaggi del passato. La differenza sostanziale tra i diversi stadi di sviluppo è legata ai differenti scopi che si prefiggevano gli artisti e i letterati: nella prima fase l'accento è da porre soprattutto sulla rivolta contro la tradizione, mentre nella seconda fase si mira piuttosto a effettuare una sintesi delle esperienze precedenti, ampliandone le caratteristiche con nuove idee, sviluppando tecniche più avanzate e adottando tecnologie innovative.

Si punta più a rivoluzionare il presente che a distruggere il passato, cercando di avviare una fase costruttiva; vi è una spinta al continuo rinnovamento, alla ricerca della novità come superamento delle tendenze precedenti, ora però anche in funzione delle dinamiche sempre più accelerate del mercato artistico e del sistema della moda. Spesso quando si parla di avanguardia si tende automaticamente ad associare il termine al solo periodo delle avanguardie storiche di inizio Novecento: su di esse ci si soffermerà poi in particolare, descrivendone brevemente i caratteri principali che le hanno caratterizzate. Come si vedrà, i movimenti e le correnti che seguiranno le avanguardie storiche si riallacceranno ad esse per molti aspetti, poiché queste rappresentarono il primo vero momento in cui il fenomeno assunse una dimensione e una portata internazionale. Per alcuni studiosi l'inizio dell'arte d'avanguardia si fa risalire addirittura agli impressionisti, che con le novità tematiche della pittura segnarono un punto di svolta rispetto alle pratiche artistiche dell'epoca. Dall'esperienza degli impressionisti nacque un nuovo modo di dipingere, un gusto estetico che si fondava sulle divisioni tonali, sulle giustapposizioni di macchie di colori complementari, sull'analisi della luce e sugli effetti che essa aveva sulla visione e sulla retina; con essi nacque però anche un nuovo modo di considerare l'artista moderno, che dipingeva scene di vita borghese en plein air, cogliendo la realtà come appariva nell'attimo. Egli non voleva fissare sulla tela l'oggetto, ma la sensazione immediata che si aveva di esso, così come accadeva nella percezione visiva del quotidiano. La poetica degli impressionisti non provocò una vera e propria frattura delle esperienze precedenti, ma portò alle estreme conseguenze il naturalismo e il realismo dei pittori della generazione precedente. La cesura che condurrà alle avanguardie vere e proprie sarà attuata prima da Van Gogh, per quanto riguarda il versante espressionista, e poi da Cézanne, la cui opera sarà paragonata a un'analisi fenomenologica del mondo esteriore, così come esso si rende percepibile e visibile nella natura stessa delle cose. Altri studiosi come Brandi considerano invece già il Romanticismo la prima avanguardia, perché di questa ne riprende tre caratteri essenziali: la volontà di segnare una frattura con l'arte precedente, la necessità da parte dell'artista di sentirsi parte di un gruppo costituito e il bisogno di orientare la propria azione verso un programma teorico preciso. Il Romanticismo effettivamente determinò una rottura con il passato e fissò indelebilmente nel tempo tutto quanto lo precedette; con esso si elaborò un concetto di avanguardia come progresso e processo dialettico della realtà umana. Dal punto di vista storico le avanguardie sono maggiormente legate all'arte e alle espressioni artistiche tipiche dell'Ottocento, rappresentandone contemporaneamente una continuità ideale e un'aperta contrapposizione all'eredità simbolista. Esse hanno come fattore comune una volontà di rifiuto e aperto contrasto verso le concezioni artistiche, scientifiche, filosofiche e socio-economiche vigenti. Il loro spazio temporale di sviluppo coincide con gli anni a cavallo della prima guerra mondiale, ovvero indicativamente tra il 1905, anno in cui nasce l'Espressionismo, e il 1924, anno in cui si afferma il Surrealismo. In un cinquantennio che viene sconvolto da due conflitti mondiali e che vede la modifica sostanziale del proprio tessuto produttivo e sociale, passando dalla rivoluzione industriale al post-fordismo e dalla società di classi a quella dei consumi e mediatica, le avanguardie rappresentano inevitabilmente un punto di rottura. Si differenziarono dai movimenti tardo ottocenteschi che si limitavano a essere delle aggregazioni di artisti con intenti e gusti complementari; elaborarono poetiche e manifesti, ponendosi in posizione di rottura e anticipando tendenze in ambiti differenti. Si estesero in diversi settori e si servirono di tecniche figurative non più tradizionali, affiancando alla pittura nuovi linguaggi e mezzi innovativi (fotografia, cinema, ecc.) e sperimentando in territori fin ad allora poco battuti dagli artisti propaganda e impegno politico, teatro come forma di espressione, stampa come mezzo di comunicazione e divulgazione di massa. Consapevole del cambiamento, l'artista si sente spinto verso l'innovazione continua; rifiuta le leggi della prospettiva tradizionale, abolisce la pittura narrativa e descrittiva, preferisce il brutto e l'incompiuto, fa uso di materiali e strumenti estranei alla tradizione estetica. L'arte nuova cerca la propria ispirazione nel presente immediato o nel passato remoto vissuto dai popoli arcaici: così facendo possono dirsi definitivamente conclusi quattro secoli di tradizione pittorica occidentale e di abitudini visive di carattere referenziale e realista. Posso dire che i primi cinquant’anni del XX secolo si potrebbe prendere spunto da una frase lapidaria ma pregna di significato di Robert Hughes a proposito del Futurismo, il primo grande movimento italiano d’avanguardia, che nel nostro Paese inaugurò l’avvento del Ventesimo secolo. Scrive Hughes, con la sua acuta penna: “Probabilmente i futuristi non avrebbero amato tanto il futuro se non fossero venuti da un paese tecnologicamente arretrato come l’Italia”, e, si potrebbe completare la frase, da un paese che da soli trent’anni aveva raggiunto una stabilità nazionale e indipendente (1870), dunque da un Paese che aveva intrapreso la propria gara con la modernità quasi a ridosso del secolo XX. Con una parte del proprio territorio, quella situata a sud di Roma, in uno stato d’endemica arretratezza, governato dalle più inique leggi del latifondo, e una parte invece, quella a Nord, più vitale e intraprendente, pronta alla riconversione della propria economia rurale in un sistema produttivo industriale, l’Italia post-unitaria manifesta anche attraverso l’arte e l’impegno degli artisti, la sua forte volontà di cambiamento. Ma se ciò avverrà primariamente con il Futurismo, a partire dunque dal 1909, segnali largamente positivi si avvertirono già sul finire del secolo precedente. Per comprendere il significato della poetica futurista, degli strumenti e delle azioni che i suoi protagonisti misero in campo nel loro riuscitissimo tentativo di svecchiamento dell’arte italiana, è necessario dunque fare qualche passo all’indietro nel tempo per spiegare i forti legami che unirono i futuristi alla tradizione artistica italiana della fine Ottocento e, in senso più ampio, alle novità che anche nel nostro Paese arrivarono dalle imprese più significative della pittura europea francese impressionismo, pointillisme, simbolismo e tedesca Jugendtil e Sezession in particolare. Infatti, fu proprio nel corso del secolo diciannovesimo, oggi ricordato dalla critica come il secolo della luce degli impressionisti, ma si dovrebbe aggiungere, cosa assai più importante per l’evoluzione dell’arte italiana, anche secolo del romanticismo e del simbolismo che in Italia si crearono le condizioni per l’avvento della rivoluzione futurista. Il futurismo nacque in continuità e non in rottura con l’arte del passato, del movimento divisionista in particolare, un movimento pittorico che cronologicamente di poco lo precedette e che, a sua volta, fu pacifica continuazione delle esperienze della Scapigliatura lombarda, di autori come Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni e delle forse più note ricerche dei pittori Macchiaioli toscani, capeggiati da Giovanni Fattori e dalle idee di Diego Martelli, che faceva la spola tra Francia e Italia, assolvendo al grato compito di mettere in contatto gli artisti italiani con le più avanzate ricerche sulla percezione luministica francese. Due esperienze, quella della scapigliatura e dei macchiaioli, che videro la luce nel pieno del XIX secolo, maturate indicativamente nell’arco cronologico compreso tra il 1855 e il 1870, entrambe fuoriuscite dal grembo del romanticismo e che per prime avviarono nel campo della pittura italiana la ricerca “del vero”, aprendo lo spazio del quadro alla rappresentazione di una nuova concezione del paesaggio, inteso nella sua “naturalezza” luministica ed atmosferica, ma anche sensibili a soggetti più impegnativi dal punto di vista del loro contenuto di reportage sociale. E sarà proprio l’attitudine all’indagine socio-umanitaria, in linea con le teorie anarchico-socialiste diffuse in Italia da molta letteratura politica alla fine del XIX secolo, frammiste alla rilettura delle idee di Ruskin, proposte dal mentore del Divisionismo, il pittore Vittore Grubicy de Dragon, mercante e teorico del movimento, a diventare uno degli aspetti più fortemente distintivi del divisionismo italiano, in questo assai diverso rispetto al neoimpressionismo francese, che per sua stessa natura sembra essere stato un movimento più predisposto all’indagine analitica, “scientifica“ della visione che a questioni di natura interpretativa in chiave esistenziale della realtà. Ed anche quando l’uso della tecnica “divisa”, per filamenti sottili e ravvicinati di colore puro, di primari e complementari, tecnica ampiamente sperimentata dai pittori italiani, da Pellizza a Morbelli, da Previati a Segantini, farà sembrare più vicina l’Italia alla Francia, sarà solo un fraintendimento o un vizio di lettura critica di due fenomeni radicalmente differenti. Infatti, la ricerca del pointillisme francese fu espressione di quella natura meditativa e razionale di concepire l’arte come esercizio continuo sulle potenzialità stesse del fare pittura, dunque di riflessione per così dire “interna” alla pittura stessa, sugli strumenti che le erano propri come colore, spazio, luce, materia, atmosfera, percezione. Per il divisionismo italiano, diversamente, si deve parlare di una ricerca artistica intesa anche e soprattutto come mezzo d’indagine sulla natura stessa delle cose, aperta alla rappresentazione sociale della realtà, capace di raccontare la storia del disagio quotidiano delle classi meno abbienti, dalla giovane classe operaia a quella dei lavoratori della terra, che divennero soggetti tra i più rappresentati nella pittura italiana di fine Ottocento. Una pittura in grado anche di partecipare al sentimento cosmico della Natura, che, soprattutto nell’opera di Giovanni Segantini, si materializza nelle sembianze più umili della vita quotidiana, affermando così il potere evocativo e simbolico delle “cose semplici”, fonte di verità e di bellezza. Lo spirito nuovo del futurismo italiano nascerà direttamente dalle ceneri ancora accese dell’esperienza divisionista. È dato innegabile, infatti, che le figure di maggior spicco del gruppo storico del Futurismo, da Boccioni a Carrà, da Balla a Severini, da Russolo a Sironi, proprio nei fondamenti scientifici della sperimentazione divisionista, nel suo linguaggio aperto alla più completa rivoluzione della tecnica, nella nuova sensibilità per la storia, trovassero la base teorica di quello spirito di modernità, che fu la fonte viva della prima avanguardia italiana del ’900. Il passaggio di testimone tra divisionismo e futurismo avvenne in una data, il 1909, in cui la parabola del divisionismo italiano era entrata già da tempo in fase calante, ma i nomi di pittori come Pellizza, Morbelli, e Segantini, con alcuni dei loro capolavori, fiumana, il natale dei rimasti, la raccolta del fieno, non possono essere tralasciati quando si parli della forza rinnovatrice della pittura futurista.

Il forte legame con il passato si avverte con evidenza nelle opere dipinte dai giovani Boccioni, Carrà e Severini all’esordio della loro carriera artistica, all’incirca tra il 1903 e il 1908. È, su tutti, buon esempio di questo legame il bellissimo quadro dipinto in Russia da Boccioni nel 1906, intitolato ritratto di Sophie Popoff. Un quadro che rappresenta il passaggio tra la tradizione e il nuovo, nuovo che prende avvio dagli strumenti propri dei pittori divisionisti, in particolare l’uso della pittura “divisa” e, più in generale, dalla comune propensione per la ricerca luministica, vista come possibile fonte dinamica della rappresentazione. Un quadro assai significativo anche perché racconta dell’anima cosmopolita dei giovani artisti italiani dell’epoca, che maturarono i propri convincimenti teorici attraverso i lunghi e continui viaggi all’estero e i preziosi contatti internazionali. La storia del ritratto di Sophie Popoff inizia nel 1906, quando Boccioni si reca a Parigi. Il 17 aprile scrive alla madre: “Sono in una città addirittura straordinaria. Qualche cosa di mostruoso, di strano, di meraviglioso”. Ricorda le migliaia di carrozze e le centinaia di omnibus, tramvai a cavalli, elettrici a vapore, i grandi sotterranei illuminati a luce elettrica della metropolitana, i caffè brulicanti, le insegne e la gente che corre che ride, donne tutte dipinte con colori vivissimi. “Vorrei portar via un quadro di tale spettacolo” è la conclusione della sua lettera, nella quale già si avverte l’ansia di modernità del Boccioni futurista. Ma la sua pittura non è ancora al passo con le sue idee e le sue sensazioni. Più propenso ad una ricerca di solide volumetrie, rese secondo la tecnica divisionista, ma con nella memoria ancora viva l’influenza dell’opera di Gaetano Previati, tra tutti i pittori divisionisti italiani quello decisamente più simbolista, Boccioni a Parigi è fortemente attratto dalle poetiche impressioniste e post-impressioniste, con i cui principi teorici si confronterà apertamente per lungo tempo, almeno fino alla redazione del manifesto tecnico della pittura futurista del 1910. Ed è in questo clima di grande fermento e di grande curiosità che a Parigi conosce e frequenta Augusta Petrovna Popoff, una colta signora russa, sposata Berdnicoff. Invitato dai Berdnicoff, Boccioni intraprende un lungo viaggio in Russia. Lascia Parigi alla fine dell’estate del 1906 e visita le città di Mosca e San Pietroburgo. Al suo rientro passerà anche da Varsavia. Soggiorna a Tzaritzin (poi Stalingrado?) in casa Popoff, come si apprende da una fotografia che lo ritrae insieme ai suoi ospiti sulla veranda della casa. Sulla fotografia si legge la scritta “Russia-Tzaritzin Casa Popoff 1906”. Proprio a Tzaritzin dunque egli dipinge la grande tela con il ritratto della signora Popoff, raffigurata intenta a cucire, seduta davanti ad una finestra. La luce filtra attraverso i vetri e si riverbera sulle mani della donna, illuminando il suo operoso lavoro. L’uso della tecnica divisa, congiunto alla ricerca luministica, fanno di questo quadro un dipinto “di passaggio”, di grande interesse per la storia personale di Boccioni, nel quale si può cogliere la complessità straordinaria della sua formazione che si misura con quanto di meglio è in Europa, nell’ambito della pittura. La sua preparazione artistica è uno straordinario miscuglio di simbolismo, espressionismo e divisionismo, e gli accenti più forti anche in quest’opera sembrano ancora derivargli da un lato dalle cupe atmosfere delle composizioni di Munch, conosciute attraverso Previati, e dall’altro dalle teorie sulle forze dinamiche dell’azione e della visione, che aveva visto praticare a Parigi da Seurat, ma di cui sicuramente Carrà per primo gli aveva parlato. Il primo contatto tra artisti italiani e ambiente russo dell’epoca contemporanea avviene dunque, quasi silenziosamente, attraverso il pennello del più geniale pittore italiano del Futurismo, con alcuni anni d’anticipo rispetto al viaggio di Filippo Tommaso Marinetti. Se è vero che il tratto distintivo del divisionismo rispetto alle coeve poetiche europee, francesi in particolare, va ricercato in una concezione della pittura marcatamente socio umanitaria e spiritualistica, fu altrettanto vero il fatto che il futurismo, erede naturale delle “nuove idee” di questo movimento, seppe portare a legittima conclusione il processo di cambiamento avviato in seno al divisionismo, con un intervento radicale e definitivo per quanto riguarda sia la questione fondamentale della rappresentazione del mondo attraverso il medium della pittura “divisa”, sia quella altrettanto importante che atteneva al ruolo dell’artista nella società italiana del primo ’900, sia, infine, a quella relativa al senso e alla funzione stessa dell’arte in una società passatista e conservatrice come quella in cui maturò ed esplose, come uno dei primi fenomeni di massa, l’avanguardia futurista. Il futurismo fu l’invenzione di Filippo Tommaso Marinetti , che raccolse e valorizzò istanze di rinnovamento già in atto nel gruppo dei giovani artisti italiani, milanesi, romani e fiorentini in particolare. Poeta e letterato geniale nato ad Alessandria d’Egitto nel 1876, vissuto a lungo tra Parigi e Milano, città dove non a caso erano sorte le prime industrie e dove il progresso era apparso come un risultato facile e raggiungibile, Marinetti visse e disseminò il “credo” futurista in tutta Europa, condividendo con moltissimi artisti, assetati di novità e di voglia di cambiamento, le idee rivoluzionarie contenute nei vari manifesti teorici, sottoscritti a partire dal 1910 dai protagonisti principali del movimento, del gruppo così detto storico, quello della “prima ora”, Boccioni, Russolo, Carrà, Severini, Balla e, successivamente, anche da Antonio Sant’Elia, Fortunato Depero, Enrico Prampolini, Ardengo Soffici e molti altri ancora come i giovanissimi Tullio Crali, Renato Bertelli e Ernesto Thayath, che al futurismo aderiranno nella stagione estrema degli anni Trenta. Dotato di rara intelligenza, sposata ad una spericolata e indomita voglia di vivere e ad un egocentrismo difficile da imitare, Marinetti fu senz’ombra di dubbio l’artefice di uno dei più interessanti casi di partecipazione di massa ad un progetto culturale, il futurismo appunto, generato dalla sua mente febbricitante in una serata parigina, il 20 febbraio del 1909, e promulgato come un editto dalle pagine del quotidiano francese “Le Figaro”. A lui accorsero da subito tutti i pittori italiani della più giovane generazione, se si esclude il caso di Balla, che all’epoca della sua adesione al futurismo aveva quasi quarant’anni ed era già stato maestro di Boccioni e Severini quella che aveva pur genericamente imboccato la strada della sperimentazione divisionista e che proprio nella poetica sovversiva del futurismo trovò libero campo d’azione per la propria voglia, anche utopistica, di cambiamento dell’arte e della società tutta. A lui accorse anche gran parte dell’opinione pubblica italiana, che lui stesso seppe coinvolgere grazie ad un’attività indefessa di “marketing culturale”, che trovò risposta alternativamente nel disprezzo dei passatisti e nell’orgoglio di chi nel futurismo vide il riscatto dell’arte italiana sulla egemonia francese del secolo appena passato. Marinetti, per sua stessa affermazione l’uomo più moderno d’Italia, era nato da una cultura che faceva nello stesso tempo capo al dandismo decadente del poeta Gabriele D’Annunzio e all’amore adorante per la tecnologia, vera medicina del mondo. Marinetti, soprannominatosi “caffeina d’Europa”, intraprese un’attività di pubbliche relazioni con i gruppi dell’avanguardia internazionale interessati alle teorie del futurismo. Oltre a Parigi, dove partecipò a confronti incandescenti con letterati e poeti, Marinetti, si recò in Russia, dove soggiornò dal 26 gennaio al 15 febbraio del 1914, invitato da Genrich Tasteven, delegato russo della Società delle grandi conferenze di Parigi, per stringere rapporti amichevoli e fare del proselitismo a favore delle teorie futuriste italiane. In Russia, cosa ben nota, il futurismo aveva avuto già da alcuni anni una buona e del tutto autonoma affermazione grazie all’opera di alcuni gruppi attivi nelle grandi città, capeggiati da artisti come Sersevenic Mosca, Severjanin, Ignat’ev Pietroburgo. L’arrivo di Marinetti, fu per alcuni entusiasmante, per altri, come per il giovane Larionov, fu degno di un “tiro di uova marce”. I cubo-futuristi Majakovskij, Burljuk e Kamenskij molto diplomaticamente scelsero di rimanere lontani da Mosca, impegnati in una tournée già intrapresa. A Pietroburgo, pur in serate conviviali, non mancarono, e furono anzi molto vivaci, gli scontri sul valore della poesia futurista italiana declamata da Marinetti, considerata dai russi assai poco convincente rispetto alla loro più avanzata sperimentazione in campo poetico e letterario. Questo viaggio favorì ciò nonostante la nascita di nuove relazioni internazionali e di nuovi rapporti tra gli artisti. Primo importante risultato del viaggio in Russia di Marinetti, fu infatti la partecipazione di Archipenko, Kulbin, Exter e Rozanova all’Esposizione Libera Futurista Internazionale organizzata nell’aprile maggio del 1914 a Roma, nella Galleria futurista di Giuseppe Sprovieri. Con i russi esponevano, tra gli altri, Fortunato Depero, lo stesso Marinetti, Giorgio Morandi pittore che partecipò per un tempo brevissimo al futurismo, Enrico Prampolini, Mario Sironi. Questo primo incontro aprì la strada a nuovi importanti rapporti e scambi tra i futuristi italiani e l’avanguardia russa ed in particolare tra Alexandra Exter ed Ardengo Soffici, la cui opera rappresenterà l’esempio più interessante di contiguità culturale tra i due futurismi. Altrettanto importanti per l’affermazione delle idee futuriste furono i contatti avuti da Marinetti con la più vicina Svizzera, forieri d’importanti novità per le teorie del costituendo gruppo Dada, che nel 1916 accolse e rielaborò molti spunti della poetica futurista italiana, dalla poesia sintetica al verso libero, dalla sintassi all’uso “politico” della polemica. Il grande nemico di Marinetti, come di tutti i pittori aderenti al futurismo, fu il passato, la storia, la memoria. Sotto la scure dei molti manifesti teorici caddero via via veri e propri oggetti “di culto” della tradizione passata. Condannò l’arte del Rinascimento tanto quanto il tango, la musica di Wagner e gli spaghetti così come la Venezia romantica e nostalgica e l’amore per il chiaro di luna. Il nome dato al movimento fu anch’esso una sua invenzione: un nome che felicemente si adattava ad indicare, pur genericamente ma per questo ancora più efficacemente, quella fede assoluta per le nuove tecnologie, per la macchina in particolare, che in tutta la concezione estetica futurista risulterà come il vero motore del cambiamento, la leva per l’avvento della rivoluzione sociale e culturale nell’intera Europa cosa che di fatto avvenne, ma non nel senso sperato dai futuristi. I pittori futuristi della prima ora, quelli firmatari del Manifesto del 1910 e del successivo manifesto tecnico, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Balla furono animati, in violenta polemica con il passatismo culturale borghese, da una concezione vitalistica, che faceva capo alla filosofia di Bergson ma anche a quella di Nietzsche, in un’alternanza di slanci vitali verso il futuro e di frenate nell’eroismo ancora romantico del superuomo, che alla fine decretò la morte (solo apparente) dell’ideale classico, delle accademie, delle scuole di nudo e di quant’altro aveva prodotto la misura di Apollo nel corso dei secoli precedenti. Si rinnovarono i temi e i soggetti dei quadri, che diventarono il teatro ideale per la rappresentazione dei nuovi miti contemporanei: la città industriale innanzitutto, con la sua folla brulicante, i cantieri rumoreggianti e i tram in continuo movimento, con i suoni, le luci, i rumori e la velocità, che bene rappresentava il ritmo frenetico della vita moderna, della città che sale, dello sferragliare dei tram lungo i binari incandescenti, delle luci di strada e del movimento del chiaro di luna, del ticchettio dei ballerini e persino il profumo degli stati d’animo, che tanto audacemente essi vollero raffigurare. Per dipingere questi nuovi temi, i futuristi presero in prestito dal divisionismo la tecnica della scomposizione del colore, tecnica che aveva il vantaggio di cogliere, grazie alla velocità dei tocchi, il senso dinamico della vita in movimento, la frenesia e il sovrapporsi delle forme e delle luci nella nuova percezione e visione del mondo moderno. L’uso della tecnica divisionista, definita “complementarismo congenito” per la presenza appunto dei colori complementari, fu per tutti i pittori futuristi un valore espressivo irrinunciabile, che permetteva di innalzare “alle più radiose visioni di luce”, anche le più cupe ombre del quadro. E il pubblico? Secondo quanto scrivono gli stessi futuristi nei cataloghi delle prime esposizioni (1912) “il pubblico deve convincersi che per comprendere delle sensazioni estetiche alle quali non è abituato, deve dimenticare completamente la propria cultura intellettuale, non per impadronirsi dell’opera d’arte, ma per abbandonarsi ad essa”: una dichiarazione d’intenti davvero all’avanguardia, che quel tempo produsse un radicale cambiamento nel concetto apparentemente immutabile del “vedere l’arte”. Agli spettatori si presenta infatti la possibilità di fare grazie all’arte un’esperienza del tutto nuova, che li pone, come scrisse Boccioni, al centro del quadro, ovvero al centro di una rappresentazione nella quale, grazie alla simultaneità spazio-temporale, è possibile cogliere la sintesi di ciò che si ricorda e di ciò che si vede, vivere lo stato d’animo psicologico, che si coglie nel continuo di scene esterne ed emozioni interne, ed infine percepire la nuova realtà del tempo moderno, che si mostra non più come un insieme ordinato e sequenziale di oggetti, ma piuttosto come un assemblaggio frammentario di forme, di luci e di colori, governato dal dinamismo delle linee-forza, moltiplicatrici straordinarie delle ombre e delle luci, dei pieni e dei vuoti, delle pause e dei rumori, che caratterizzano appunto la visione futurista del mondo. Boccioni, il più grande interprete del futurismo, arruolatosi nel 1915, morì tragicamente cadendo da cavallo il 16 agosto del 1916. Con la sua morte sembrò che il futurismo fosse giunto alla stazione finale. Diversamente, oggi sappiamo che già nel corso della prima stagione futurista, quella che va dal 1909 alla metà del 1916, si preparò un’agguerrita successione, a conferma del grido di Marinetti “I vivi, i vivi soltanto sono sacri. Il Futurismo malgrado l’immensa spaventosa scomparsa del povero Boccioni e di tanti altri è più vivo che mai!” Poco più di sei anni separavano il tragico 16 agosto del 1916, segnato dal lutto della morte accidentale di Boccioni, dalla redazione del Manifesto dei pittori futuristi (11 febbraio 1910) e dal più corposo la pittura futurista, manifesto tecnico 11 aprile 1910, scritti che contribuirono a dare una organica definizione a quel getto continuo di pensieri idee proponimenti, abbozzi di teoria che era stato felicemente cantato da Marinetti nella notte dell’11 febbraio 1909 e poi surriscaldato fino ad alte temperature nelle discussioni degli attori principali di questo primo atto della storia del futurismo, di Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini in particolare. In quei sei anni molti però erano stati i cambiamenti, le virate e perfino le abiure di artisti, che associati al movimento avevano poi intrapreso strade diverse. Pensiamo per esempio a Romolo Romani e Aroldo Bonzagni, futuristi della prima ora, tra i firmatari del manifesto dell’11 febbraio del ’10, subito scomparsi dalla vita attiva del movimento, o alla brevissima parentesi futurista dell’allora poco più che ventenne Giorgio Morandi, del cui sperimentare conosciamo oggi solo pochissime e rare testimonianze, o, pensiamo ancora alle “parole in libertà” pubblicate nel 1914 su Lacerba con lo pseudonimo Massimo Campigli dal berlinese Max Hielenfeld, che nel 1915 veniva incluso da Papini e Soffici tra i seguaci del futurismo, ma che, dopo il lungo periodo di guerra e la prigionia, nel 1919, alla ripresa del suo lavoro di pittore già rivolge altrove la sua ricerca. Ricordiamo anche il caso di Carrà, Sironi, Soffici, tutti e tre già sul finire del secondo decennio impegnati in ricerche di segno opposto, nell’ambito del ritorno all’ordine che condizionerà la vita artistica italiana ed europea degli anni Venti e Trenta. Ma il futurismo faticherà a morire e molte stagioni ancora ricche d’invenzioni seguirono la morte di Boccioni. Diversamente da altre avanguardie europee, esso aveva infatti prodotto degli antidoti potenti per contrastare la propria fine e questi antidoti innanzi tutto furono il vitalismo febbrile e incessante di Marinetti e poi, ma non in secondo ordine, l’impegno teorico contenuto nelle dichiarazioni di poetica dei vari manifesti e in particolare in quello della ricostruzione futurista dell’universo, scritto nel 1915 da Giacomo Balla e Fortunato Depero con la supervisione di Marinetti. Il manifesto della ricostruzione conteneva la prima teorizzazione in epoca contemporanea del binomio arte-vita, un binomio che se aveva avuto illustri precedenti soprattutto nella cultura mitteleuropea dell’opera d’arte totale che appariva del tutto nuovo nella cultura italiana d’avanguardia del tempo. “Noi futuristi Balla e Depero” – si legge nel manifesto – “vogliamo realizzare questa fusione totale (di arte e vita) per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente”. Il manifesto fu in sostanza espressione di un’utopistica volontà di far agire massicciamente la nuova estetica futurista dentro la vita quotidiana, traducendo gli ideali dell’avanguardia in tutte le discipline. Noi futuristi Balla e Depero vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo poi li combineremo insieme secondo i capricci della nostra ispirazione”. Il parolibero Marinetti disse con entusiasmo: “L’arte, prima di noi, fu ricordo, rievocazione angosciosa di un Oggetto perduto (felicità, amore, paesaggio) perciò nostalgia, statica, dolore, lontananza.

Col Futurismo invece, l’arte diventa arte – azione, cioè volontà, ottimismo, aggressione, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale nell’arte, splendore geometrico delle forze, proiezione in avanti. Dunque l’arte diventa presenza, nuovo oggetto, nuova realtà creata cogli elementi astratti dell’universo. Le mani dell’artista passatista soffrivano per l’Oggetto perduto; le nostre mani spasimavano per un nuovo Oggetto da creare”... “Le invenzioni contenute in questo manifesto sono creazioni assolute, integralmente generate dal Futurismo italiano. Nessun artista di Francia, di Russia, d’Inghilterra o di Germania intuì prima di noi qualche cosa di simile o di analogo. Soltanto il genio italiano, cioè il genio più costruttore e più architetto, poteva intuire il complesso plastico astratto. Con questo, il Futurismo ha determinato il suo stile, che dominerà inevitabilmente su molti secoli di sensibilità”. Nel 1917 Balla sperimenta una serie di scomposizioni della natura in chiave puramente teosofica ‘Trasformazioni Forme e Spirito’. Furono fondamentali le parole del generale Carlo Ballatore, presidente del Gruppo Teosofico “Roma”, illustrano bene in che termini il pensiero teosofico abbia offerto agli artisti la possibilità di esplorare nuovi territori. Oggi, del resto, l’influenza delle correnti esoteriche sulle avanguardie storiche è una realtà ampiamente riconosciuta e si sa che alla Teosofia hanno attinto, in vario modo, tutti i principali esponenti europei dell’astrattismo da Kupka a Kandinsky, da Mondrian a Malevi?. Lo stesso è avvenuto in Italia dove, com’è noto, i manifesti dei futuristi contengono numerosi riferimenti a fenomeni occulti e medianici. Riguardo in particolare alla Teosofia basterà ricordare qui due artisti, Giacomo Balla e Arnaldo Ginna, non a caso considerati dalla critica i principali pionieri dell’arte astratta in Italia. I legami dei due artisti con i circoli teosofici sono certi. Nel caso di Giacomo Balla infatti è la figlia del pittore, Elica, a ricordare nel suo libro di memorie intitolato Con Balla che il padre a Roma: “frequenta le riunioni di una società di teosofici presieduta dal Generale Ballatore”. Per quanto riguarda invece il conte Arnaldo Ginanni Corradini in arte Ginna – è l’artista stesso a dichiarare le proprie letture: “Ci rifornivamo di libri spiritualisti e occultisti, mio fratello ed io, presso gli editori Durville e Chacornac. Leggevamo l’occultista Élifas Lévi, Papus, teosofi come la Blavatsky e Steiner, la Besant, segretaria della Società Teosofica, Leadbeater, Edouard Schuré. Seguivamo le conferenze della Società Teosofica, a Bologna e Firenze. Quando Steiner fondò la Società Antroposofica restrinsi la mia attenzione a Steiner. C’erano anche le discussioni con Evola” . E come nota Mario Verdone, i primi saggi che affrontano il problema dell’astratto in pittura, riservando grande attenzione anche alla musica, sono il volumetto Arte dell’avvenire, scritto da Ginna col fratello Bruno Corra (prima edizione del 1910 e seconda del 1911) e Lo spirituale nell’arte di Kandinsky (completato nel 1910, stampato alla fine del 1911 e pubblicato nel 1912).

Due testi concepiti e usciti contemporaneamente, le cui analogie dipendono solo dal fatto che gli autori si sono nutriti degli stessi libri di impronta teosofica. Presso gli Eredi Ginanni si conserva ancora una copia del libro di J. Krishnamurti, dal titolo ‘Ai piedi del Maestro’ (Genova 1911), con dedica all’artista del prof. Ottone Penzig, allora segretario generale della Società Teosofica Italiana. Come si è visto, infatti, Ginna ricorda di aver seguito le conferenze della Società Teosofica a Bologna e a Firenze, tuttavia è molto probabile che anche a Roma l’artista sia entrato presto in contatto con i locali circoli teosofici e anzi non è da escludere che sia stato proprio il pittore ravennate, la cui presenza nella capitale è documentata fin dal 1911, a indirizzare Balla verso la Teosofia. Comunque sia Ginna e per un certo periodo anche Balla è interessato a rendere visivamente la realtà psichica. A questo scopo elabora un metodo che definisce “subcoscienza cosciente”, ossia uno stato di coscienza superiore nel quale l’artista entra volontariamente. Le opere di Ginna nascono quindi dall’esperienza cosciente dell’extra sensibile, un modo di cogliere, oltre l’esteriorità, le forme interiori, proprio come insegnavano le correnti dell’occultismo. E’ per questo che Ginna non esiterà ad affermare: “L’astrattismo è espressione di forze occulte”. Nel 1912 e il mondo intero, seppur scioccato dalla tragedia del Titanic, puntava gli occhi, i sogni e i desideri sulle nuove gigantesche macchine che permettevano di raggiungere l’altro capo del Pianeta in tempi ragionevoli. I continenti diversi dal “Vecchio” non erano più materia per esploratori, i fratelli Wright avevano sfidato e vinto le leggi della gravità e il ‘VOLO’ non era più legato al mito di un Icaro troppo audace, ma era finalmente realtà attuale e tangibile. Il Futurismo, corrente d’avanguardia dell’inizio del secolo XX, celebrava il volo come espressione massima di libertà di movimento e dinamismo, inneggiando alla velocità e all’innovazione in ogni campo, dalla letteratura alla poesia, alla pittura, alla scultura, alla musica fino alle arti più “giovani”, come la fotografia il cinema. Prese il nome di Aeropittura la declinazione pittorica di cui si fecero portavoce Giacomo Balla, Tullio Crali, Sante Monachesi, Fortunato Depero, Gerardo Dottori e Fedele Azari, creatore dell’opera Prospettiva di Volo, presentata alla Biennale di Venezia del 1926. Tanta modernità non poteva che coinvolgere anche le donne, grandi artiste testimoni di cambiamento, come Benedetta Cappa, Marisa Mori e Olga Biglieri. Quest’ultima fu tra le prime aviatrici italiane ad aver conseguito un brevetto da pilota a soli sedici anni. Da un punto di vista estetico, l’Aeropittura futurista portava in scena velocità e dinamismo, superando la scomposizione cubista con l’uso della prospettiva e della molteplicità dei piani. Mentre nel 1918, alla galleria di Anton Giulio Bragaglia, espone, tra le altre opere dedicate all’intervento in guerra, il Complesso plastico pubblicato nel manifesto del 1915 accanto a sedici dipinti dedicati alle ‘forze di paesaggio’ unite a diverse sensazioni. Accanto a queste ricerche, lo studio della natura trionfa nei motivi delle Stagioni: dalla fluidità, morbidezza o espansione della primavera, alle punte d’estate al drammatico dissolvimento autunnale; sono lavori sperimentali volti a quella particolare ricerca astratta del tutto europea ma al tempo stesso lontana e nuova rispetto alle contemporanee ricerche astratte dei pittori in voga in questi anni sicuramente conosciuti da Balla come Kandinskij e Arp, Léger e Larionov, Mondrian e Gon?arova. Periodo, dunque, questo di Balla del tutto internazionale che viene a chiudersi col viaggio a Parigi nel 1925 per la “Exposition des Arts Decoratifs et Industriels Modernes”, particolarmente importante perché segna l’inizio dello stile Art Déco. Il Manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo, l’11 marzo del 1915. Insieme a Fortunato Depero, Balla firma il manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo che rappresenta una delle tappe più significative nell’evoluzione dell’estetica futurista. Con questo manifesto trova una completa maturazione la volontà del Futurismo di ridefinire ogni campo artistico secondo le sue teorie e di rifondare le forme stesse del mondo esterno fino a coinvolgere anche gli oggetti e gli ambienti della vita quotidiana. Questo principio artistico non costituisce una novità storica, infatti è già principio fondamentale della poetica dello Jugendstil, ma mentre in quel caso si fa riferimento a un’idea d’arte come valore assoluto, ora le finalità sono del tutto diverse: per il Futurismo l’arte non è più fine a se stessa e non ha come obiettivo la pura esperienza estetica ma diviene uno strumento per affermare una diversa concezione della vita e un suo rinnovamento, nel quale predomina un intento di trasformazione culturale verso l’idea che il Futurismo ha della modernità. La più importante innovazione proclamata dal manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo è la proposta di estendere l’estetica futurista a tutti gli aspetti della vita quotidiana. I campi della ricerca sembrano illimitati: arredo, oggettistica, scenografia, moda, editoria, grafica pubblicitaria: nulla sembra essere estraneo alla sensibilità dei due artisti. I futuristi imposero il loro segno distintivo fin dalle prime celebri ‘serate’, durante le quali gli artisti-autori-declamatori indossavano abiti da loro stessi disegnati e maschere che suggerivano la robotizzazione e meccanizzazione dell’uomo. Una delle strade maestre percorse dall’avanguardia è stata il perseguimento di una sintesi delle arti che, conducendo a un progressivo assottigliamento dei confini di competenza fra pittura, scultura, architettura, musica, teatro, danza, letteratura, almeno nel senso della ricerca di un principio compositivo e strutturale (anzi costruttivo) comune, ha anche tentato di ricucire lo strappo ottocentesco fra arte e vita, infrangendo le tradizionali barriere tra spazio virtuale dell’opera d’arte e spazio reale dell’uomo, tra sfera estetica e sfera fenomenologica. La ricerca di questa sintesi, in pittura, si è così frequentemente espressa attraverso l’uso di una figura retorica quale la sinestesia, come restituzione di una globalità di percezioni sensoriali diverse e simultanee, percezioni tuttavia sempre coordinate dalla facoltà superiore della visione, intesa come facoltà conoscitiva in grado di compiere un’operazione di sintesi e di ricognizione appercettiva. Viene così ribadito il primato dell’occhio, della vista e della visione, che può anche giungere a ribaltarsi da frastuono percettivo in silenzio meditativo, in visione interiore e ciò sembra costituirsi come tendenza estrema e radicale dell’astrazione in manifestazione del sublime. Tale primato del resto pervade la teoria dell’arte e l’estetica tra la scorcio del secolo XIX e l’inizio del XX, con l’affermazione del pensiero purovisibilista di Konrad Fiedler e della contrapposizione tra valori tattili e valori ottici da parte di Alois Riegl. Proprio secondo Fiedler la visione “è una facoltà conoscitiva e creatrice di forme (visive), operante nell’attività artistica in modo assolutamente indipendente sia dall’intelletto, creatore di forme concettuali, sia dal sentimento e dalla sensazione; indipendente quindi anche dalle concezioni filosofiche, scientifiche, religiose”. L’astrazione, come processo mentale caratterizzante il XX secolo in tutte le sue manifestazioni, dall’arte e dalla filosofia alle scienze, incarna questa possibilità di ricondurre il reale a una visione sintetica e globale, a una struttura combinatoria di elementi costanti che danno luogo a un modello rappresentativo di tutti gli accidenti possibili, espressione di un neoplatonico mondo delle idee e paradigma ordinatore delle apparenze: è la ricerca dell’assoluto nell’epoca della relatività. Il concetto di astrazione (da abstrahere, cioè staccare, separare, rimuovere) implica l’operazione di individuare ed estrarre alcuni elementi, ma anche il necessario “distacco” del soggetto nei confronti dell’oggetto (natura). Solo tale distacco può dar luogo a una sintesi della visione dopo l’analisi della percezione, coincidendo in parte questo processo con il polo cui Wilhelm Worringer, nella sua teoria estetica, ha opposto quello dell’empatia. Proprio per Worringer (che ha in mente l’arte ornamentale) l’astrazione si costituisce come tendenza sovrastorica riscontrabile in diverse epoche; e nell’arte moderna tale processo, in misura maggiore o minore, è frequentemente verificabile in nuce anche nelle poetiche naturalistiche, almeno a partire dall’impressionismo, mentre è alla base di quelle tendenze che, scomponendo le strutture narrative e le catene sintagmatiche, isolano o decontestualizzano singoli oggetti, figure e immagini, quali la pittura metafisica o il surrealismo, oltre che, naturalmente, dell’astrattismo vero e proprio. L’impulso all’astrazione sembra scaturire dalla necessità di approdare a una struttura assoluta e regolatrice del reale, a un modello rappresentativo e non imitativo, dove “l’elemento primario non è il modello naturale, bensì la legge che da esso si astrae”. “Se una cosa è invisibile significa, comunemente parlando, che non la si può vedere; non così in occultismo dove una cosa è invisibile non in modo assoluto, ma soltanto relativo alle capacità ordinarie dei nostri sensi. Potremo quindi avere, e si hanno, i pittori dell’invisibile che ci forniscono preziosi modelli del mondo astrale, come abbiamo opere d’arte create per intuito coll’ausilio dell’invisibile”. Le parole del generale Carlo Ballatore , presidente del Gruppo Teosofico “Roma”, illustrano bene in che termini il pensiero teosofico abbia offerto agli artisti la possibilità di esplorare nuovi territori. Oggi, del resto, l’influenza delle correnti esoteriche sulle avanguardie storiche è una realtà ampiamente riconosciuta e si sa che alla Teosofia hanno attinto, in vario modo, tutti i principali esponenti europei dell’astrattismo da Kupka a Kandinsky, da Mondrian a Malevi?. Lo stesso è avvenuto in Italia dove, com’è noto, i manifesti dei futuristi contengono numerosi riferimenti a fenomeni occulti e medianici. Riguardo in particolare alla Teosofia basterà ricordare qui due artisti, Giacomo Balla e Arnaldo Ginna, non a caso considerati dalla critica i principali pionieri dell’arte astratta in Italia. I legami dei due artisti con i circoli teosofici sono certi. Nel caso di Giacomo Balla infatti è la figlia del pittore, Elica, a ricordare nel suo libro di memorie intitolato Con Balla che il padre a Roma: “frequenta le riunioni di una società di teosofici presieduta dal Generale Ballatore”. Per quanto riguarda invece il conte Arnaldo Ginanni Corradini – in arte Ginna è l’artista stesso a dichiarare le proprie letture: “Ci rifornivamo di libri spiritualisti e occultisti, mio fratello ed io, presso gli editori Durville e Chacornac. Leggevamo l’occultista Élifas Lévi, Papus, teosofi come la Blavatsky e Steiner, la Besant, segretaria della Società Teosofica, Leadbeater, Edouard Schuré. Seguivamo le conferenze della Società Teosofica, a Bologna e Firenze. Quando Steiner fondò la Società Antroposofica restrinsi la mia attenzione a Steiner. C’erano anche le discussioni con Evola” . E come nota Mario Verdone, i primi saggi che affrontano il problema dell’astratto in pittura, riservando grande attenzione anche alla musica, sono il volumetto Arte dell’avvenire, scritto da Ginna col fratello Bruno Corra la prima edizione del 1910 e seconda del 1911 e Lo spirituale nell’arte di Kandinsky completato nel 1910, stampato alla fine del 1911 e pubblicato nel 1912. Due testi concepiti e usciti contemporaneamente, le cui analogie dipendono solo dal fatto che gli autori si sono nutriti degli stessi libri di impronta teosofica. Presso gli Eredi Ginanni si conserva ancora una copia del libro di J. Krishnamurti, dal titolo Ai piedi del Maestro (Genova 1911), con dedica all’artista del prof. Ottone Penzig, allora segretario generale della Società Teosofica Italiana. Come si è visto, infatti, Ginna ricorda di aver seguito le conferenze della Società Teosofica a Bologna e a Firenze, tuttavia è molto probabile che anche a Roma l’artista sia entrato presto in contatto con i locali circoli teosofici e anzi non è da escludere che sia stato proprio il pittore ravennate, la cui presenza nella capitale è documentata fin dal 1911, a indirizzare Balla verso la Teosofia. Comunque sia Ginna e per un certo periodo anche Balla è interessato a rendere visivamente la realtà psichica. A questo scopo elabora un metodo che definisce “subcoscienza cosciente”, ossia uno stato di coscienza superiore nel quale l’artista entra volontariamente.
Le opere di Ginna nascono quindi dall’esperienza cosciente dell’extra sensibile, un modo di cogliere, oltre l’esteriorità, le forme interiori, proprio come insegnavano le correnti dell’occultismo. E’ per questo che Ginna non esiterà ad affermare: “L’astrattismo è espressione di forze occulte”. Le ricerche sulle interferenze sensoriali raccordate dalla facoltà della visione ed espresse attraverso la pittura astratta raccolgono sicuramente l’eredità della cultura tardoromantica e simbolista, che proprio nel progetto di una ‘sintesi delle arti’ (di pittura, musica, letteratura, poesia, teatro, danza) inseguono una visione globale del mondo: così il dramma wagneriano si pone come opera d’arte totale (ma già la nascita del poema sinfonico si incammina lungo il percorso esplorativo del potere della musica di evocare immagini, giungendo fino a Debussy) e la poesia di Mallarmé si fa ricerca del valore musicale, e in generale sonoro, della parola. Frequente proprio nella poesia diviene l’uso di sinestesie e onomatopee, ma è soprattutto il binomio pittura/musica a costituire un nodo importante della cultura simbolista, inteso non solo come esplorazione di analogie tra effetti psicologici di colore e suono, ma anche come ricerca da parte dei pittori di un linguaggio, come quello musicale, scevro da implicazioni referenziali e sostenuto da una grammatica e da una sintassi cui la pittura aspira: in breve linee, colori, forme come melodia, armonia, contrappunto. Tutte queste suggestioni sono emblematicamente riassunte all’inizio di questo secolo dalle opere ormai quasi interamente astratte del pittore lituano Mikalojus Konstantinas Ciurlonis, ma sono le stesse che filtrano, in clima di piena avanguardia, in artisti quali Kandinsky, Klee, Frantisek Kupka o Francis Picabia. Proprio per Kandinsky, “Quando non si vede l’oggetto bensì se ne ode solo il nome nella mente dell’ascoltatore si forma la rappresentazione astratta, l’oggetto smaterializzato, il quale produce immediatamente una vibrazione nel cuore”, e ancora si legge: “L’oggetto può formare soltanto un suono casuale; perciò può essere sostituito da un altro senza che si abbia una modificazione ‘essenziale’ del suono fondamentale”. L’interferenza fra le arti dà luogo a interessanti sperimentazioni quali il teatro astratto senza attori, la pittura diviene pittura di suoni e la musica diviene musica di colori, attraverso l’ausilio di speciali macchine che a determinati suoni reagiscono proiettando determinati colori. La volontà di rappresentare una simultaneità di percezioni sensoriali conduce ben presto nelle arti visive all’interferenza di valori tattili, attraverso l’utilizzazione di materiali extrapittorici che segnano la nascita del collage cubista e futurista, dell’assemblage e l’avvio di ricerche polimateriche (da Prampolini ai costruttivisti russi quali Tatlin) e, in seguito, di valori acustici, come le più tarde sculture sonore di Jean Tinguely; e anche in campo musicale si cercano stimoli al di là del codice tradizionale con l’introduzione del rumore (da Luigi Russolo, a Erik Satie o Edgar Varèse) o, in anni successivi, del silenzio e di elementi o eventi casuali forniti anche dagli spettatori come nelle ricerche di John Cage, in cui l’atto musicale si fa azione teatrale, gesto, performance. Proprio nell’ambito della poetica futurista del rumore, dalle onomatopee e dalle ‘parole in libertà’ di Marinetti agli ‘intonarumori’ di Russolo e al suo manifesto del 1913, L’Arte dei rumori, tema sviluppato nelle tavole parolibere di Francesco Cangiullo e di Carlo Carrà, in cui la valenza sonora della parola è anche sottolineata sul piano visivo mediante la particolare veste tipografica, si riscontrano interessanti ricerche in direzione sinestetica. In un manifesto del 1913 significativamente intitolato. La pittura dei suoni, rumori e odori, Carrà afferma: “Il silenzio è statico, qualsiasi succedersi di suoni, rumori, odori stampa nella mente un arabesco di forme e di colori”; e l’autore prosegue auspicando la realizzazione di “insiemi plastici astratti, cioè rispondenti non alle visioni ma alle sensazioni nate dai suoni, dai rumori, dagli odori, e da tutte le forze sconosciute che ci avvolgono”, sostenendo che “vi sono suoni, rumori e odori concavi e convessi, triangolari, ellissoidali, oblunghi, conici, sferici, spiralici ecc.” e ancora “gialli, rossi, verdi, turchini, azzurri e violetti”. Tali suggestioni penetrano successivamente e in maniera più compiuta nel manifesto del 1915 firmato da Balla e Fortunato Depero, Ricostruzione futurista dell’universo: “La valutazione lirica dell’universo, mediante le Parole in libertà di Marinetti, e l’Arte dei Rumori di Russolo, si fondono con dinamismo plastico per dare l’espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della vibrazione universale. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto”, combinando il “rumorismo plastico simultaneo coll’espressione plastica”. Se questo manifesto sancisce la ricerca già avviata da Balla in direzione astratta, va rilevato che l’artista aveva precedentemente introdotto il tema del rumore in alcune opere del 1913-14, dove compaiono due linee spezzate (a zig-zag) combinate insieme a formare in genere successioni di rombi e a volte svastiche e sovrapposte a una ‘linea di velocità’ (come la definisce lo stesso Balla) curva. Infine possiamo dire che il Futurismo, in fondo, al di là di molti atteggiamenti muscolari e talvolta spocchiosi, fu un movimento profondamente tributario della temperie ‘simbolistica’ e proteso, quindi verso una esaltazione della velocità e del superomismo per nascondere una fragilità di fondo e quel sentimento di débacle e di sconfitta che le atmosfere postsecessionistiche e decadenti variamente impersonavano e che si specchiavano nelle voci di autori come Oscar Wilde, Adgar Allan Poe, Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, mentre ad altre figure toccava il compito di mettere in rilievo l’ansia critica della coscienza, ancora una volta individuale, sperduta in un colpevole isolamento sociale, ma tutt’altro che adagiata sul soffio delle sue mestizie. E tali figure sono quelle di Joyce, di Kafka, di Musil, di Pirandello, tutte personalità tutt’altro che suscettibili di essere intruppate nell’universo futurista. Si ripropone la domanda: fu avanguardia il Futurismo? Ci sentiremmo autorizzati a dire di no, riconsiderando non certo negativamente la generosità che ispirò l’azione delle singole personalità che animarono il movimento, ma tendendo a distinguere tra l’azione del Futurismo, appunto, come ‘movimento’ e l’azione individuale dei suoi singoli componenti, azione che, soprattutto quando seppe intelligentemente ibridarsi con il portato di altri orientamenti produttivi sul piano degli intendimenti, non meno che su quello dei linguaggi espressivi produsse interventi creativi decisamente convincenti. Immaginare, infine, di poter andare alla ricerca di episodi apparentemente ‘minori’ e certamente ancora dispersi nella pulviscolarità di testimonianze parcellizzate e malintesamente ‘marginali’ tutto ciò può costituire occasione ed opportunità di imbattersi in testimonianze non incongrue di sensibilità futuriste che furono espressione non soltanto di un programma di ‘movimento’, ma effetto, piuttosto, di una pervasività culturale e sociale che il Futurismo stesso seppe ispirare, anche indipendentemente e ‘contro’ l’azione che veniva dispiegando la temperie sarfattiana di ‘Novecento’. Ecco, allora, che, forse, proprio artisti dell’ultima ‘nidiata’ futurista, artisti nati più o meno negli anni in cui Marinetti dettava il suo ‘Manifesto’ del 1909, sono quelli che più decisamente e suggeriamo più convincentemente, interpretano l’istanza della ‘velocità’, ad esempio, come una opportunità proiettiva e non come una ‘condizione’, dichiarandosi disponibili ad una sfida esistenziale e non ad una parata di trionfo, andando ad introdurre, in tal modo, una istanza di vibratilità morale all’interno di un disegno culturale, che, quando fu concepito dalla mente di Marinetti, si proponeva come un additamento di trionfo e non come un’indicazione di un percorso. I veri futuristi furono sconfitti, giacché il crollo del regime fascista alla fine del secondo conflitto mondiale non rese giustizia dei loro sforzi di ricerca e determinò per molti di loro (al di là del fatto che non tutti avessero aderito al Fascismo) una sorta di epurazione culturale che ha pesato a lungo sulle storie individuali e sul profilo di giudizio di una generazione intera, indipendentemente dal fatto che una buona parte della sperimentazione sviluppata da quei giovani che negli anni Trenta avevano poco più di vent’anni meritasse d’essere considerata per lo spessore di contributi contenutistici marcatamente alieni dalle logiche di regime e, spesso, addirittura critici. Ma certamente questa Avanguardia ha dato un suo contributo notevole alla storia dell’arte italiana del Novecento.
Palazzo Zabarella – Padova
Futurismo 1910-1915. La nascita dell’avanguardia
dal 1 Ottobre 2022 al 26 Febbraio 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso