Giovanni Cardone Aprile 2023
Fino al 21 Maggio 2023 si potrà ammirare presso Arca Polo Espositivo di Vercelli la mostra di Giacomo Manzù . La scultura è un raggio di luna a cura di Marta Concina, Daniele De Luca e Alberto Fiz. La mostra proposta a Vercelli riunisce oltre trenta sculture, alcune monumentali, messe a disposizione dalla Fondazione Manzù, dallo Studio Copernico e da importanti collezionisti privati, oltre a disegni, quadri, e manifesti. Il riferimento è alla serie di opere dedicate alla giovane modella Tebe, ma si può estendere all'intero corpus di Manzù che ha saputo coniugare la dimensione classica con quella naturalistica e fenomenologica trovando sin dagli anni Trenta una propria autonomia forza espressiva. La mostra proposta a Vercelli riunisce oltre trenta sculture, alcune monumentali, messe a disposizione dalla Fondazione Manzù, dallo Studio Copernico e da importanti collezionisti privati, oltre a disegni, quadri, e manifesti. Il percorso spazia dagli anni Quaranta sino al 1990, un anno prima della sua scomparsa dove compare una testimonianza emblematica come la grande scultura di Ulisse, l'eterno simbolo della conoscenza. La rassegna, allestita principalmente nelle due sedi di ARCA - polo espositivo all'interno della ex Chiesa di S. Marco e nella ex Chiesa di S. Vittore, evidenzia l'attualità di un grande Maestro dell'arte plastica seguendo le differenti tematiche che ne caratterizzano la poetica. Così, la scelta delle opere consente di apprezzare i ritratti femminili, le nature morte (basti pensare a Sedia con aragosta del 1966) oltre ai celebri Cardinali, la sua serie più famosa iniziata negli anni Trenta. “La prima volta che vidi i Cardinali”, ha affermato Manzù, “fu in San Pietro nel 1934; mi impressionarono per le loro masse rigide, eppur vibranti di spiritualità complessa. Li vedevo come tante statue, una serie di cubi allineati e l'impulso a creare nelle sculture una mia versione di quella realtà ineffabile fu irresistibile”. In mostra, accanto ad alcuni storici Cardinali in bronzo degli anni Quaranta, compare Grande Cardinale seduto, un'opera monumentale alta oltre due metri modellata nel 1983 da cui emerge la componente ieratica della figura all'interno di forme rigide e sintetiche assimilabili a piramidi. La moglie Inge, conosciuta nel 1954 quando Manzù insegnava all'Accademia di Salisburgo e da allora sua musa, rappresenta una costante della sua ritrattistica e a Vercelli verrà esposto Busto di Inge, rara opera in marmo realizzata nel 1979 da cui emerge uno straordinario vitalismo rispetto a una composizione che assume una forma circolare dove le braccia si dispongono intorno al volto della donna. Dall'unione con Inge nascono i due figli Giulia e Mileto che diventano l'occasione per realizzare una serie di sculture sul tema del gioco e in mostra compare Giulia e Mileto in carrozza con il bozzetto in bronzo del 1967. Sono lavori che rientrano nel ciclo Spielerei dove Manzù propone liberamente una serie d'invenzioni plastiche che in questo caso gli danno modo di realizzare una carrozza arcaica dominata da una grande ruota. La sperimentazione passa anche attraverso Donna che guarda, un'altra opera monumentale datata 1983 di 252 centimetri d'altezza scolpita in ebano un materiale che come afferma Manzù “è bello, durissimo, ha come il sangue nelle sue vene, si lavora come il ghiaccio ma è eterno”. In un viaggio così sfaccettato vanno citati anche Fauno modellato nel 1968 dove l'atteggiamento dell'uomo con le membra ripiegate esprime la potenza e l'energia del corpo, così come Il miracolo di San Biagio, un altorilievo fortemente intimista in cui fa la sua comparsa un Cardinale compassionevole.
“Dalla mostra di Vercelli dunque emergono - chiosa Alberto Fiz - le diverse anime di uno scultore che, senza retorica, si è fatto interprete dell'umanità sapendo cogliere la sacralità profonda anche nel quotidiano: “Manzù”, scrive Brandi, “è nel suo tempo, fuori dal suo tempo, saldamente ancorato a quei valori eterni che non ha mai dimenticato”.
In una mia ricerca storiografica e scientifica su Giacomo Manzù apro il mio saggio dicendo : Nel secondo dopoguerra la scultura italiana doveva ritrovare la propria identità dopo i vent’anni di dittatura. Era necessario, ad esempio, ristabilire le funzioni e i canoni della scultura pubblica e di quella monumentale, finalizzate nei due decenni di regime a celebrare i caduti della grande guerra, i personaggi e i momenti eroici del fascismo. Bisognava ritrovare nuove formule per affrontare soggetti figurativi come il corpo maschile nudo o panneggiato, che negli anni trenta e quaranta aveva ripreso la tradizione classica e rinascimentale per ottenere una figura forte, muscolosa e virile. Questa linea seguiva il ritorno all’ordine e la ravvivata attenzione per l’arte italiana antica , sostenute dal Novecento di Margherita Sarfatti, e trovò un’esemplare realizzazione nelle statue degli atleti dello Stadio dei Marmi del Foro Mussolini. Dall’altro lato, c?erano le produzioni plastiche degli scultori di Corrente, reazione antinovecentista per eccellenza con il suo sostegno ad un?arte antiretorica. E ancora ma in questa sede non si può che presentare in scorcio un quadro ben più complesso il corpo maschile era stato esplorato dalle invenzioni di Arturo Martini, seguito dalle vecchie e nuove generazioni, il quale fece riferimento a un vastissimo bacino di riferimenti, primo fra tutti quello dell’arte etrusca, tanto che già nel 1922 Cipriano Efisio Oppo lo definì «l’uomo più assimilatore che si conosca» . Anche la ritrattistica doveva essere messa in discussione. I ritratti di Mussolini, cresciuti in maniera esponenziale dopo l’esposizione di Il Duce (1923) di Adolfo Wild alla Biennale di Venezia del 1924, avevano portato parte della ritrattistica a riprenderne le caratteristiche i lineamenti duri e autoritari del condottiero, la muscolatura contratta, l?idealizzazione del soggetto ritratto, andando a sconfinare anche in altri generi l’esempio più lampante fu il Pugilatore ferito del 1931 di Romano Romanelli, la cui testa riprendeva il volto del Duce. Restavano validi, nel secondo dopoguerra, i ritratti per tipi di Marino Marini; quelli psicologici ed intimi di Giacomo Manzù; quelli dai toni aristocratici di Pericle Fazzini. Tolti questi casi a parte, agli altri scultori spettava ridefinire le direttrici del proprio lavoro: all’inizio di una nuova epoca storica non si poteva più riparare sul recupero dell’antichità, fosse quella etrusca, romana, del Fayum o dei primitivi. Un'altra questione riguardava il bronzetto, genere che conobbe ampia fortuna negli anni trenta e quaranta, sia per la facile vendibilità di statue di piccole dimensioni sia per il sostegno, in quegli anni, all’avvicinamento tra arti minori e arti maggiori . Il volume di Leo Planiscig sui Piccoli bronzi italiani del Rinascimento, pubblicato nel 1930, con il suo ampio apparato iconografico, costituì per molti scultori la fonte illustrativa a cui rifarsi per temi, soggetti e composizioni. Martini capovolse i canoni del bronzetto in termini antiaccademici, contro gli stilismi ottocenteschi ma soprattutto contro quelli rinascimentali diffusi dal volume di Planiscig  apportando valori inconsueti ad una produzione che poteva presentarsi come valida alternativa alle istanze della retorica monumentale. Nel 1936 Martini espose alla Biennale di Venezia nove bronzetti di vario soggetto (mitologico, biblico e sportivo) e molti scultori italiani, dopo averli visti, virarono la propria produzione del bronzetto seguendone l’esempio . Doveva, inoltre, essere ridefinito il rapporto tra architettura e scultura (rilievo incluso), che negli anni della dittatura si era diviso in due opposte correnti: quella che intendeva la scultura dipendente dallo stile architettonico; e quella che, all’opposto, riconosceva alla scultura, per via delle sue qualità plastiche, un carattere architettonico che la rendeva indipendente dall’architettura stessa. Superare i limiti che erano seguiti alla chiusura della scultura italiana in se stessa, nelle sue problematiche contingenti, e ridarle una nuova identità: queste erano le prime urgenze a cui si doveva porre rimedio. Diversi problemi, tuttavia, complicavano il secondo dopoguerra. In primo luogo l?evidente arretratezza della produzione plastica italiana rispetto ai lessici contemporanei, tema ampiamente discusso dalla critica e di cui erano pienamente consapevoli gli stessi scultori. La causa principale era stata la censura alle correnti artistiche più innovative avvenuta durante i venti anni di dittatura. Gli scultori italiani, sfogliando clandestinamente le riviste straniere come ad esempio i parigini Cahiers d’Art, conobbero i nuovi lessici plastici, ma dovettero metterli in pratica con oculatezza. Si pensi, ad esempio, della testa del San Giovannino (1931) di Giacomo Manzù, che per la forma ovoidale, l’arcata sopraccigliare collegata con la sporgenza filiforme del naso faceva riferimento agli ovoidi di Costantin Brancusi. Tuttavia Manzù non seguì la strada dei volumi puri e delle teste scultoree autonome di Brancusi: assimilò una soluzione formale, continuando a restare all’interno delle ricerche plastiche sulla terracotta a cui si stava dedicando Martini in quegli anni. Per gli scultori italiani aderire apertamente alle forme d’arte censurate dalla dittatura avrebbe significato essere esclusi dalle mostre e non vendere le proprie opere su un mercato italiano già in sé apatico. La chiusura alle correnti internazionali, in special modo quelle francesi, rientrava in un progetto delineato: promuovere una idea forzata di arte “mediterranea” dove l?arte italiana (o per meglio dire “italica”) sarebbe dovuta prevalere su tutte quelle provenienti dalle altre nazioni, che dovevano apparire “livellate”, legate alla propria tradizione e lontane da qualsivoglia lessico aggiornato. In tal senso, furono esemplari le Biennali di Venezia di Antonio Maraini, che bloccarono l’ingresso alle correnti internazionali più sperimentali, prime fra tutte quelle francesi, avvertite come le più pericolose per l’identità dell’arte italiana sostenuta dal regime. Venne così promosso un linguaggio artistico nazionale, omogeneo, che rispecchiasse i valori e le aspirazioni del fascismo. La seconda questione da affrontare nel dopoguerra fu la pubblicazione, nel 1945, di Scultura lingua morta di Arturo Martini, un volumetto stampato per la prima volta in una cinquantina di copie ma che circolò tra critici e artisti. Le sentenze di Martini vennero intese, ad una prima lettura, come una nichilistica affermazione della morte della scultura, quella italiana in particolare. Sembrava che Martini, da quelle pagine, intendesse come statuaria tutto ciò che presentava «fatti illustrativi» andando così a negare la validità del «soggetto costante della scultura: la figurazione d?uomo e d?animale». Martini attaccò il facile ricorso al mito, al tipo, al sentimentale. Ma sarebbe bastato leggere con attenzione quegli aforismi per trovare le indicazioni per giungere ad una nuova scultura: una scultura non più schiava della fedeltà all’anatomia, dai toni più bassi e meno autoreferenziale costruita attraverso la modellazione dei vuoti e attraverso la centralità dell’ombra quest’ultima intesa non come risultante dell’illuminazione, ma come vero e proprio elemento plastico. Pochi scultori intesero immediatamente la portata di Scultura lingua morta. Primo fra tutti, Alberto Viani, che nel 1945, anno della prima pubblicazione di Scultura lingua morta, era l?assistente di Martini all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Viani a partire dal 1942, quando seguiva le rivoluzionarie lezioni di Martini all’Accademia, iniziò a metterne in pratica gli insegnamenti, in special modo quelli che sollecitavano a porre in discussione la grammatica tradizionale del nudo . Anche Mirko, che fu allievo ed assistente di Martini della prima metà degli anni trenta, seguì le riflessioni di Martini per una nuova scultura. Tra il 1946 e il 1950 le sfruttò per capovolgere i canoni del bronzetto, superando la prevalenza dell’immagine in scultura e liberando quest’ultima dai vincoli imposti dalla materia, senza seguire la coerenza anatomica per un soggetto figurativo. Gli furono di aiuto le conoscenze sull’arte statunitense filtrate dalla stretta amicizia con Corrado Cagli dalle pitture di Julio Gonzalez alle sculture di Isamu Noguchi, a quelle di Jackson Pollock possedute da Peggy Guggenheim ed esposte a New York nella galleria Art of this Century, sino alle tele di Cagli stesso. E prima ancora che la “moda” di Henry Moore dilagasse in Italia dopo la personale alla Biennale di Venezia del 1948, Mirko prese spunto dalle sculture in legno e corda realizzate dallo scultore britannico tra il 1937 e il 1940 per aggiungere singolari valori al bronzetto. Quattro piccoli bronzi, Motivo musicale (1947), Concerto (1948), Enea (1948), Senza titolo-Composizione (1948), stabilivano un nuovo rapporto tra spazio esterno e spazio interno dell?opera attraverso delle corde di ferro, tese ed incrociate, che, analogamente alle sculture di Moore, imprigionavano lo spazio e conferivano rigidità ad una costruzione plastica antropomorfa. I fraintendimenti sul testo di Martini riemersero al momento della sua seconda pubblicazione, nel 1948. I recensori dell’attesissima XXIV Biennale di Venezia, riaperta nel 1948 dopo un periodo di inattività espositiva durato sei anni a causa del conflitto bellico, parlarono della scultura italiana come di una “scultura morta”, arretrata e pertanto “in crisi”, sfruttando le parole di Martini senza comprenderle per rendere più drammatico il confronto con la produzione internazionale. Del resto, nelle sale del Padiglione Centrale della Biennale del 1948 spiccarono poche sculture italiane: quelle degli unici ambasciatori all’estero della plastica italiana, Marini con la sua assimilazione di archetipi plastici, l’equilibrio rigoroso della combinazione di forme, masse, linee; e quelle del vincitore del Gran Premio per la Scultura italiana, Manzù, campione dei giochi chiaroscurali, del dialogo tra scultura e pittura, delle atmosfere liriche ed intime. Nella sala del Fronte Nuovo delle Arti si respirarono delle novità nelle sintesi neocubiste di Leoncillo Leonardi, nella rilettura dell’arcaismo di Nino Franchina, nei volumi puri di Alberto Viani. Ma a conti fatti, la scultura italiana si era presentata al più importante evento espositivo del dopoguerra ancorata a repertori tematici (prevalentemente nudi, ritratti, soggetti mitologici) e lessici plastici debitori degli anni passati, per nulla adeguati al contesto contemporaneo. Il problema di come conferire una nuova identità all’arte italiana e soprattutto alla scultura fu di particolare importanza per Giulio Carlo Argan. In Pittura italiana e cultura europea (1946) Argan iniziò a sostenere che «l’incontestabile ritardo della pittura italiana» rispetto al panorama europeo era determinato dal fatto che non si era ancora riusciti a «distruggere criticamente» la tradizione, che sarebbe certo tornata a farsi presente, ma solo dopo aver adottato, non passivamente, una coscienza internazionale ed europea, diventando così «segno di una realtà nuova». Il tema, ovviamente, si prestava ad essere esteso anche alla scultura, della quale Argan discusse nell’articolo dedicato ad Henry Moore e pubblicato su Letteratura nello stesso anno. La riflessione di Argan partiva dalla questione del rapporto dell’arte contemporanea inglese con la tradizione: se nel dopoguerra l?arte inglese, in special modo la scultura, fu protagonista di una imprevista rinascita fu perché in Gran Bretagna mancava una solida tradizione figurativa. Questo, secondo Argan, aveva permesso agli artisti inglesi di aprirsi pienamente all’arte europea e all’arte astratta, passando attraverso «quella fase della concretezza assoluta, della pittura come realtà immediata, causa invece che effetto dell’emozione». La questione della tradizione venne esaminata anche da Cesare Brandi. Ma mentre per Argan la tradizione doveva essere superata, per Brandi doveva costituire il punto di partenza: la conquista di una nuova identità dell’arte italiana doveva essere raggiunta trovando una linea di continuità con la tradizione. Brandi affrontò queste tematiche nel 1947 in Europeismo e autonomia di cultura nella pittura moderna italiana, una disamina della condizione della pittura moderna italiana con cui aprì il primo numero della rivista che aveva appena fondato e di cui era direttore, L?immagine. L?articolato intervento di Brandi nacque come risposta agli interventi europeisti di Argan, in particolare quello sulla pittura italiana del 1946. Brandi, di fronte al pericolo di un avvicinamento alle mode europee, sostenne la necessità di riconquistare un?«autonomia di cultura» che sarebbe stata raggiunta facendo leva sui fondamenti e sulle basi della tradizione pittorica italiana, «l’unico attivo per cui non si deve conto o riparazioni». Il testo considerava la pittura, ma anche in questo caso poteva essere allargato alla scultura. Sempre sul primo numero di L’immagine, l’intervento per gli appena deceduti Maillol, Despiau, De Fiori e Martini costituì per Brandi il giusto pretesto per contestare l’altro aspetto tirato in ballo da Argan, ovvero l?astrazione: la scomparsa di quegli scultori, che avevano contrastato il naturalismo ottocentesco, avrebbe potuto avvantaggiare si interrogò Brandi  «quella tendenza astratta che, nella scultura, aveva vissuto la vita eccentrica d’un’avanguardia ormai canuta, neppur più capace di sollevare polemiche»? Certamente per Brandi, che di lì a poco avrebbe definito l’astrazione come «vacuo tentativo di essere non-figurativo», la domanda era del tutto retorica. Ma diversamente dalle sue aspettative, la scultura italiana a partire dal 1948 trovò la propria salvifica linfa nello scultore “astratto” a cui aveva riservato i commenti più caustici, il “Messia” Henry Moore. Questi scritti precedevano di un biennio l’uscita dell’unico testo teorico sulla scultura nel panorama estetico italiano del secondo dopoguerra: il Periplo della scultura moderna, che rivela in diversi passaggi delle riflessioni di Brandi nate dalla lettura di Scultura lingua morta di Martini.
Come, ad esempio, quando Brandi individuò in Canova il responsabile della frattura tra immagine e formulazione dell’immagine stessa in scultura, una rottura che aveva aperto al neoclassicismo e al suo aver fatto dell’arte antica «una lingua morta» mirando, in un eccesso di formalismo, alla «sagoma senza sondare la forma» contro la prevalenza dell’immagine si era espresso Martini. O quando Brandi rimproverò al neoclassicismo di essersi relegato in una degradazione dello spazio naturale appartandosi «nella sfera della pura figuratività», negando l?autonomia spaziale a favore di una realtà umana affievolita, immobilizzata, generica (è esplicito il riferimento alla condanna martiniana di una scultura che si chiude nelle sue funzioni illustrative). Brandi, inoltre, aveva colto alcune considerazioni di Martini che squalificavano Marini e Manzù, gli unici scultori italiani spendibili in quel giro d’anni in un contesto internazionale. In Scultura lingua morta laforisma che elevava il primato dell’anonimia su quello della personalità andava inesorabilmente a porre in discussione la riconoscibilità stilistica dei “tipi” di Marini. E quando Martini attaccava la sensibilità «ossigeno da moribondi, risorsa estrema» si schierava contro il sentimentalismo di Manzù e delle superfici delle sue opere, appena graffiate: «la scultura antica ha sempre sdegnato la sensibilità. Quello che gli scultori moderni chiamano con questo nome  non è che l?aspetto creato dalle corrosioni patine screpolature o rotture del tempo». Brandi, all’opposto, chiuse il Periplo con i due medaglioni dedicati a Manzù e Marini, capovolgendo gli attacchi di Martini ed insistendo su quanto quest’ultimo aveva declassato: la lavorazione delle superfici plastiche. Esaltò quelle di Manzù perché accoglievano fratture e “scalfiture” e rafforzavano una costruzione per piani e volumi stratificati. Lodò quelle di Marini perché in esse la superficie plastica «appena irritata, sollecitata dalla luce come da uno spillo, ma a quella luce impenetrabile», rendeva un?atmosfera più che segnare il ritmo o le linee strutturali dell’opera, permettendo all’immagine di manifestarsi e di non rimanere né chiusa né congelata nelle forme. Questo significava che Marini non aveva mascherato un modellato inerte ed accademico, ma che aveva fatto «affiorare lo spazio interno all’esterno», conducendo ad una frattura tra lo spazio esistenziale dell’osservatore e la spazialità della scultura. L’operazione di Brandi era chiara: alla constatazione dell’arretratezza della scultura italiana del dopoguerra si poteva uscire attraverso il ricorso alla tradizione e, nel frattempo, sostenendo i più validi scultori la cui produzione si era sviluppata negli anni con coerenza e senza subire incrinature. Manzù e Marini rappresentavano per Brandi l’eccellenza della scultura italiana perché ad entrambi era spettato il merito di aver superato i limiti prodotti dalla scultura dell’Ottocento, sebbene per vie divergenti. Manzù aveva rimediato alla mancanza ottocentesca della «costituzione d’oggetto» ed aveva ripristinato il valore della «formulazione d’immagine», riconquistando lo spazio plastico attraverso la dinamica interna della forma, divenuta «il ritmo segreto della modulazione plastica». Marini, che Brandi definì «il superstite vittorioso della sfortunata spedizione ottocentesca nei campi minati della forma», aveva superato l?ostacolo impressionista della diffusione della scultura nella luceatmosfera, riportato il volume plastico in una spazialità autonoma ed affrontato i problemi della forma senza rinunciare ad una «cultura d?immagine» . Tra il 1948 e il 1950 Argan si impegnò profondamente per restituire un?identità rinnovata alla scultura italiana ponendola a confronto con le tendenze europee, cercando delle risposte concrete a Scultura lingua morta. Il 1948 vide il critico impegnato nella stesura di due scritti di singolare rilevanza: la prima biografia straniera su Henry Moore e la presentazione della collezione di Peggy Guggenheim per il catalogo della XXIV Biennale di Venezia. Durante il suo soggiorno di studi al Warburg Institute di Londra nel 1946, Argan visitò Henry Moore nella sua casa a Perry Green, dando inizio ad un?amicizia duratura che si consolidò negli anni, nutrita da una continuativa corrispondenza durata sino agli anni settanta. Per Argan, l?astrazione di Moore era dotata «di un?esistenza non più simbolica ma reale» in cui la natura, risolta come rappresentazione concettuale, era un passato da conoscersi storicamente e la realtà, data come problema aperto e come uno stato di crisi della coscienza, era l?assoluto presente da cogliersi e vivere nell’atto. Argan, nella monografia del 1948, presentò Moore come un?artista che si era «preservato dalla crisi della cultura figurativa moderna» ma al tempo stesso lo promosse come «scultore di forme astratte». E? stridente e limitativo definire Moore come astrattista alla data del 1948, dal momento che la maggior parte della sua ricerca esplorava soggetti figurativi. Il presupposto teorico, però, da cui partiva Argan era il rinvenimento nell’opera di Moore della concezione dell’astrazione come processo dinamico tra realtà e uomo, che non giungeva mai a risultato e in cui la materia si costituiva nel tempo, senza offrirsi come definitivamente costituita. L?astrazione, così formulata da Argan, era il momento più elevato della vita in quanto immanente alla realtà e pertanto storia. Sotto questo profilo di cornice marxista, Argan vide, non senza forzature, nelle opere di Moore la presenza di una materia che «è innanzitutto storia» , relazionata ad uno spazio inteso come fenomenologia del reale dal momento che non escludeva il sensibile dal processo di astrazione. Diversamente da Mondrian e Kandinsky, che invece avevano negato il reale, Moore aveva mantenuto vivi i contatti con la natura e con la realtà. Nel testo per la collezione di Peggy Guggenheim, ospitata non senza critiche interne alla Commissione per le Arti Figurative della XXIV Biennale nel Padiglione Greco, Argan definì l’astrazione in maniera confusa ed incerta. Presentò genericamente come «astratte o non figurative» le correnti artistiche che «escludendo ogni relazione tra il fatto artistico e la natura, considerano l’opera d?arte non come rappresentazione di oggetti, ma oggetti essa stessa», riducendo l’astrazione ad una pura sperimentazione atta sorprendere la fenomenologia del fatto artistico nel suo prodursi. Due, secondo il critico, erano le correnti dell’astrazione: una partiva dal cubismo e tendeva alla «pura costruttività, alla genesi mentale della forma»; l?altra prendeva le mosse dall’esperienza espressionista e da quella Fauves, aveva come referente Kandinsky e mirava alla «designazione di un puro ritmo attraverso la sintesi della sensazione di spazio e tempo». L’intervento, oltre a non rappresentare la Collezione Guggenheim, mise in luce le difficoltà incontrate da Argan nel rapportarsi ad un argomento che non gestiva ancora con piena maturità . Argan difatti era scivolato in un?impasse teorica. Nel testo per la Collezione Guggenheim aveva escluso dall’astrazione ogni contatto tra arte e natura, facendola così assurgere come momento culminante della manifestazione artistica, ma al tempo stesso chiudendola ad un evento interno all’arte stessa, esclusivo della fenomenologia dell’arte. All’opposto, nella monografia su Moore definì l?astrazione in termini di fenomenologia del reale insistendo proprio su quanto invece aveva bandito nel testo per la Collezione Guggenheim, ossia l?inserimento del sensibile nel processo di astrazione, elemento nodale per la lettura del fatto astratto come immanente alla realtà nel suo essere processuale tra realtà stessa e uomo, pertanto storia. L’assegnazione del Gran Premio per la Scultura alla Biennale di Venezia del 1948 a Manzù, rappresentante di un «„sud? sicuramente cattolico e romano», confermò ad Argan la predisposizione della scultura italiana di conservare quegli elementi «le materie, i processi,  i contenuti ed i tipi»  desunti da una tradizione plastica ancora legata al figurativo. Questo non penalizzava agli occhi di Argan l’opera di Manzù, al quale, assieme a Marini, riservò un posto di privilegio nella plastica italiana. Le logiche di Argan erano tuttavia differenti rispetto a quelle di Brandi: entrambi gli scultori avevano superato il formalismo novecentesco attraverso un?esigenza morale (cattolica in Manzù, laica in Marini); entrambi avevano fatto appello a quella tradizione che Martini aveva sfumato nel mito e nella favola, riabilitando la «possibilità di una storia» . Inoltre, il rifiuto di Marini all’arbitrio dell’invenzione e l?instaurazione di una coscienza storica, non solo secondo Argan istituiva rigorosamente una «pura plastica» e un?intangibilità della forma, ma conseguentemente portava anche alla degradazione dei contenuti («la “lingua morta” della scultura») spingendo la scultura ad acquistare, alla pari del linguaggio storico, «la forza di una sentenza e di una sanzione». Se Marini era per Argan il vessillo dell’uomo del mito moderno per quel suo incalzare la storia ed assumerla come dato di fatto, Manzù aveva superato la fine della statuaria identificando idea e cristianesimo: la storia così era insieme umana e divina e postulava «una verità d?immagine oltre la “finzione” del modellato» .
Durante l’estate del 1944 lo scultore bergamasco Giacomo Manzù si trovava a Laveno, ospite dell’industriale De Angeli-Frua, che lo aveva incaricato di eseguire una maschera funebre e un ritratto della moglie. Durante questo soggiorno Manzù lavorò molto, riprese il tema delle Erbe a cui si era dedicato qualche anno prima, e scrisse diverse lettere agli amici, come quella citata, indirizzata alla signora Anna Musso. Sono poche, semplici parole, ma rivelano alcuni aspetti importanti dell’esperienza dell’artista a quest’epoca. Da un lato il bisogno quasi fisiologico di applicarsi alla materia scultorea, secondo un istinto che si pacifica solo quando tocca «la grazia che gli viene dal lavoro quotidiano», secondo un’attitudine che sarebbe andata accentuandosi sempre più nel carattere di Manzù, che nel dopoguerra, quando avrà raggiunto una celebrità internazionale, farà di questa artigianalità dell’ispirazione una specie di ‘marchio di fabbrica’. Dall’altro, la necessità del lavoro raccolto nella solitudine del proprio studio, dove le opere prendono forma, vengono fatte e disfatte. Uno studio che negli anni della seconda guerra mondiale, dal 1942 al 1945, Manzù installò a Clusone, cittadina della Val Seriana dove decise di sfollare insieme alla moglie Tina Oreni e al figlio Pio, in una sorta di autoesilio. Lo studio di Clusone gli era stato procurato nientemeno che dal Direttore generale delle Arti del Ministero dell’educazione nazionale, Marino Lazzari, che aveva scritto di persona al podestà Silvestro Messa («Poiché egli desidera sistemarsi in codesto Comune per svolgervi il suo lavoro, e poiché si tratta di artista di altissime qualità e di chiarissima fama, Vi sarò grato se vorrete in ogni modo facilitare a lui e alla sua famiglia la migliore sistemazione»). Manzù era arrivato nel capoluogo seriano nell’inverno del 1942 e aveva trovato ospitalità presso la villa del professor Carrara. Aveva scelto Clusone su suggerimento dell’amico Attilio Nani, scultore a sua volta, la cui bottega di via Torretta 10, a Bergamo, il giovane Manzù aveva frequentato a lungo. E come lui l’avevano frequentata anche altri artisti e intellettuali bergamaschi come Achille Funi, Alberto Vitali, Trento Longaretti, Bartolomeo Calzaferri, che adesso si ritrovavano quasi per caso tutti radunati a Clusone in una sorta di piccolo convivio di esiliati (di cui facevano parte anche Umberto Vittorini, Ezio Pastorio, Pietro Fassi e Arturo Tosi). Con loro Manzù ritrovava il senso di una comunità artistica interessata a discutere e confrontarsi, come l’aveva sperimentata a Milano nel corso degli anni Trenta. La scelta di Clusone, d’altra parte, era stata fatta anche per ragioni pratiche: la presenza di una stazione ferroviaria  che rimase in funzione durante tutto il tempo di guerra permetteva allo scultore di raggiungere agevolmente Milano e Bergamo, ma anche Torino e Roma, dove continuò a recarsi lungo quei tre anni per ragioni d’insegnamento e di attività espositiva. Quando arrivò a Clusone nel febbraio del 1942 Giacomo Manzù era un giovane scultore di trentaquattro anni pienamente affermato nella scena artistica nazionale, ed era già considerato a tutti gli effetti un ‘maestro’, perché la sua scultura aveva cominciato a influenzare quella dei suoi contemporanei, ma anche, in senso letterale, perché aveva iniziato a praticare l’attività didattica. Nel giugno del 1941 la nomina per «meriti artistici eccezionali», «senza concorso e con esenzione dal periodo di prova», alla cattedra di scultura dell’Accademia di Brera con immediato trasferimento all’Accademia Albertina di Torino, in uno scambio di cattedre con Marino Marini aveva costituito l’ultimo, significativo episodio di un percorso di ascesa che lo aveva portato a distinguersi quale una della personalità più importanti e stimate nel panorama dell’arte italiana. Milano era stato il suo primo palcoscenico. Vi era arrivato nel 1928 e vi restò per un quindicennio, prima di prendere la strada della valle. Era, quella, la Milano del novecentismo e dell’antinovecentismo, dell’apertura all’arte astratta con la Galleria del Milione di Ghiringhelli, la Milano dello spiritualismo di Edoardo Persico e quella delle raffinate edizioni di Scheiwiller, la Milano dell’architettura razionale del bar Craja con la sua bohème di critici, artisti e letterati e quella dell’impegno politico di «Corrente». Una Milano molto propensa a offrire spunti per un’aneddotica fervida e duratura, che nel caso di Manzù si è spesso sostituita a un’approfondita ricostruzione biografica: il viaggio a Parigi e il rimpatrio forzato per manifesta indigenza, la mansarda condivisa con Aligi Sassu e lo studio in corso XXII Marzo abbandonato di notte per non pagare la pigione, la fede regalata a Tina Oreni fatta con i rimasugli dell’oro usato per la porticina di un tabernacolo per l’Università Cattolica, le gallette che Guttuso gli lanciava dalla finestra della caserma per sfamarlo. In quella Milano, nonostante tutto, Manzù restava ai margini, frequentando tutti e soprattutto Sassu, Birolli, Quasimodo, Vittorini, Guttuso , ma non facendo mai integralmente parte di alcun gruppo; anche a costo di attirare su di sé accuse di ambiguità: come quelle dell’amico Birolli, che sarebbe arrivato a definirlo «umanista delle convenienze». La sua formazione di (quasi) autodidatta, d’altra parte, l’aveva reso insofferente rispetto alle sovrastrutture interpretative e ai posizionamenti ideologici che all’epoca condizionavano inevitabilmente la discussione sui fatti artistici. Ad ogni modo, forte di un «inconsapevole, istintivo primitivismo», arginato da un evidente «bisogno di chiarezza formale» che sovrastava l’impeto del sentimento, l’opera di Manzù s’impose molto rapidamente all’attenzione della critica, tanto che Carlo Ludovico Ragghianti già nel 1940 poteva definire Manzù «uno scultore celebre, accettato senza riserva». E questo nonostante la feroce polemica scoppiata nel gennaio 1941 a seguito dell’esposizione alla Galleria Barbaroux di quattro bassorilievi intitolati Cristo nella nostra umanità, che rappresentavano le scene della crocifissione e della deposizione di Cristo, avesse mobilitato contro lo scultore buona parte della critica ‘ufficiale’. In quella serie Manzù aveva scelto di riunire l’immagine dei carnefici di Cristo nelle fattezze di un «soldato nudo, ventruto, ritto su gracili gambette, di piccolo sesso, munito di sciabola generalizia al fianco e di elmetto tedesco in testa», mentre la Vergine era stata sostituita da una «prostituta, disfatta nel corpo abbondante», rendendo così evidente la natura polemica e soprattutto politica dell’opera. L’esposizione aveva suscitato scandalo, forse anche perché aveva avuto l’appoggio di un critico ‘istituzionale’ come Cesare Brandi, che su «Le Arti», rivista propriamente ministeriale, aveva fatto pubblicare anche la riproduzione di una di quelle opere, accompagnandola con un commento tutto concentrato sugli elementi plastici della scultura, mirato cioè a disinnescare i prevedibili tentativi di esegesi ideologica. La stampa di regime (Telesio Interlandi, Giovanni Preziosi) e quella cattolica (Celso Costantini) si erano lanciate in una campagna denigratoria contro lo scultore, che arrivò addirittura a rischiare la scomunica. Era servita tutta la diplomazia di Monsignor Giuseppe De Luca di cui si dirà per permettere a Manzù di ottenere un colloquio con papa Pio XII e giustificare le proprie scelte artistiche. Proprio Brandi fu uno degli interlocutori privilegiati per Manzù negli anni di Clusone. Il rapporto tra i due era recente, ma caloroso fin da subito. Nelle lettere i reciproci apprezzamenti si alternano agli aggiornamenti sul lavoro creativo e su piccole commissioni che il critico riesce a procurare allo scultore. Poi, a un certo punto, gli scambi si concentreranno su un progetto che avrebbe dovuto accreditare la produzione di Manzù nell’alveo delle istituzioni ecclesiastiche: il progetto della Grande pietà, per il quale la mediazione di Brandi sarebbe stata fondamentale. Prima di arrivare a questo punto, però, è necessario osservare come le lettere di questi anni rappresentino per Manzù vere ‘scritture del dispatrio’, espressioni di un bisogno di mantenere i contatti con il mondo dell’arte  insolito per un personaggio come lui, che per decenni avrebbe costruito la sua fama sull’immagine dell’artista isolato, laconico, burbero. Dell’archivio epistolario di Manzù ancora oggi si sa molto poco, anche a causa della mancanza di un «ordinamento sistematico dell’archivio cartaceo» avviato, in forma embrionale, solo intorno al 2000 e a quanto si sa tutt’ora in corso. Non giustifica una simile situazione il fatto che Manzù non sia mai stato un appassionato scrivente, forse anche per via di una non completa dimestichezza con l’italiano. D’altra parte proprio il periodo di Clusone rappresenta un frangente eccezionale nel suo percorso artistico; l’isolamento in qualche modo autoinflitto scatena nello scultore la necessità di mantenere attiva la sua presenza nella diasporica comunità intellettuale e artistica (milanese e non solo), spingendolo a ricorrere alle lettere più spesso di quanto non fosse abituato. L’epistolario di questi anni è ricco e variegato e, pur ricostruibile attualmente solo a partire dagli archivi dei destinatari, consente di dare corpo a una rete di relazioni eterogenee per origine e appartenenza che dicono molto del profilo umano e culturale dello scultore. Ci sono gli amici, come i coniugi Fubini, Anna Musso, il poeta Libero De Libero o Attilio Nani, i critici come Brandi, Ragghianti e Giulio Carlo Argan, i ‘colleghi’ come Luigi Bartolini, Toti Scialoja o un ancora apprendista Mario Negri, ma anche i poeti come Salvatore Quasimodo e gli editori come Ferdinando Ballo e Giovanni Scheiwiller. L’epistolario di questi anni offre di Manzù un’immagine nuova: quella di un artista che, seppur autodidatta e interessato quasi esclusivamente a portare avanti una ricerca propria e autonoma rispetto alle mode del tempo, si dimostra sensibile alle istanze espressive delle altre arti (come la musica e la letteratura), ma soprattutto coinvolto in un processo collettivo che vede gli intellettuali italiani esprimere, ciascuno secondo i propri mezzi chi facendo libri, chi disegnando o scolpendo, chi componendo verso, il bisogno di fare arte «come motivo di presenza umana»; un’arte che riportasse al centro la dimensione esistenziale dell’uomo per ricostruire da lì il sostrato culturale della civiltà italiana, devastata dal ventennio fascista e dagli anni della guerra. E sono le lettere con gli editori a rivelare meglio questi caratteri. Sono diversi quelli che cercarono di coinvolgere Manzù nella realizzazione di disegni da inserire in pubblicazioni illustrate, secondo una tradizione libraria raffinata che, paradossalmente, negli anni di guerra vide una proliferazione eccezionale di proposte e anche di riuscite. Con Ferdinando Ballo già pianista e direttore d’orchestra, poi cronista musicale all’«Ambrosiano», collaboratore di «Domus» e «Casabella», infine fondatore insieme all’industriale Achille Rosa delle edizioni Rosa e Ballo Manzù intrattiene tra gennaio e luglio del 1943 una breve ma fittissima corrispondenza conservata nel fondo Rosa e Ballo presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori  che ha per oggetto la realizzazione delle illustrazioni di un volume del compositore Goffredo Petrassi, probabilmente gli Inni sacri. Il libro doveva rientrare in «una collana di musica sacra in belle edizioni illustrate» (Ballo a Manzù, 23 gennaio 1943) che avrebbe connotato fortemente l’identità dell’editore che in quei mesi avviava la sua attività. È evidente che l’unione di uno dei compositori più abili e raffinati del panorama italiano e di un artista di fama consolidata doveva sembrare a Ballo la soluzione migliore per garantire alla collezione una riconoscibilità molto forte. E nei piani dell’editore Manzù sarebbe dovuto essere coinvolto anche nella realizzazione di altri volumi. Tuttavia, nonostante l’immediata disponibilità dichiarata da Manzù, la corrispondenza mette in luce fin da subito gli ostacoli che avrebbero portato al naufragio dell’iniziativa. Innanzitutto lo scultore tarda a rispondere alle lettere dell’editore, attende a fissare appuntamenti, non dà aggiornamenti sul lavoro in corso, mentre Ballo, che aveva già in mano gli spartiti di Petrassi, ha urgenza di chiudere il volume per cominciare a mettere un primo mattone nel catalogo della nuova casa editrice che proprio di questa dispersione di energie, tra progettazione e realizzazione dei piani, soffrirà fino alla fine. Anche perché nel frattempo i bombardamenti su Milano si erano fatti più frequenti, e così la distanza che separava i due si rivelava un ostacolo ancora più insormontabile per la preparazione del volume. Neanche il trasferimento di Ballo a Treviglio, nella bassa bergamasca, nell’aprile del 1943, riuscì ad agevolare i loro incontri. Il 3 giugno l’editore rimproverava senza mezzi termini  anche se con una certa bonarietà «Carissimo pasticcione, si può sapere cosa hai combinato?» lo scultore: «Sbrigati a rispondere altrimenti corri il rischio di prenderle tanto da me quanto da Petrassi che scalpita dall’impazienza» (Ballo a Manzù, 3 giugno 1943). In realtà il 10 luglio, a un mese dal precedente contatto, Manzù avvertì che le acqueforti erano pronte e doveva solo trovare il modo di stamparle; solo che la lettera arrivò a Ballo troppo tardi: il tempo a disposizione per realizzare il progetto ormai era scaduto. Il 20 luglio le acqueforti si trovavano ancora a Clusone e Ballo, ormai rassegnato di fronte all’‘autosabotaggio’ di Manzù, si diceva pronto ad attribuirgli tutta la responsabilità del fallimento del progetto; che naufragò, in effetti, insieme all’iniziativa delle edizioni musicali illustrate e insieme alla collaborazione tra Ballo e Manzù. Ebbe invece successo la collaborazione con Giovanni Scheiwiller, che aveva tuttavia radici ben più profonde. Scheiwiller era stato il primo a scrivere una monografia sulla scultura di Manzù, un piccolo volume corredato di dieci fotografie, stampato nel novembre del 1932 in 350 volumi dalla tipografia L’Eclettica di Milano. A spingere l’editore a scrivere era stata una sintonia spontanea di fronte alla scultura dell’artista, segnata da una sorta di ‘inattualità’ immediatamente riconosciuta. Nelle sculture di Manzù, Scheiwiller doveva senz’altro aver colto un riflesso di quell’ideale estetico che poi egli avrebbe sempre perseguito, attraverso un catalogo fatto di «testi inediti o rari, di litografie e incisioni originali, di opere prime, di piccoli libri di grandi autori con edizioni in sedicesimo e in ventiquattresimo, di tirature molto limitate». Quell’episodio aveva segnato l’inizio di una frequentazione tra Scheiwiller e Manzù, cementata da una corrispondenza che si protrasse con discreta continuità fino al 1945 conservata oggi nell’Archivio Scheiwiller presso il Centro APICE di Milano. Manzù, come tanti altri artisti nella Milano degli anni Trenta, aveva trovato in Giovanni Scheiwiller un vero punto di riferimento, al quale mandava (o portava di persona) fotografie delle opere in corso di lavorazione che andavano ad arricchire la ricca e ordinatissima fototeca dell’editore , ricevendone in cambio invii periodici delle nuove pubblicazioni e un’attenzione critica ed editoriale incomparabile. Questa consuetudine era ormai consolidata quando Manzù si trasferì a Clusone negli anni della guerra, che Scheiwiller trascorse invece «in continuo spostamento tra Milano, la sua baita sotto il Grignone e la frazione Garotto di Cernobbio, sul lago di Como» e proseguì a mezzo posta. A partire dal dicembre 1944 lo scambio si concentra sulla preparazione di un volumetto dedicato all’opera di Manzù da inserire nella collezione ‘Arte Moderna Italiana’, pubblicata da Hoepli ma affidata alle cure di Scheiwiller, che poi la rileverà. Si tratta della piccola ma preziosa monografia che sarebbe uscita nel 1946, con un testo di presentazione di Beniamino Joppolo. Il volume avrebbe dovuto raccogliere un ricco numero di riproduzioni (alla fine saranno 32) a testimonianza di un’intera fase della produzione di Manzù, dalla svolta del 1934 fino agli anni della guerra. Si troveranno infatti tra le ultime tavole del libro anche i particolari del complesso della Grande Pietà, al quale Manzù aveva cominciato a lavorare all’inizio del 1943 e che lo stava coinvolgendo a tal punto da impedirgli di spostarsi da Clusone («è un’opera che forse verrà destinata dal Vaticano per una Basilica Romana», scrive a Scheiwiller il 24 gennaio 1945). Si spiega così l’ennesimo invito a Scheiwiller di andare a trovarlo in valle per concordare i dettagli del lavoro così come aveva fatto con Ballo e come avrebbe fatto di lì a poco anche con Marco Valsecchi, che intendeva prendere accordi per un volume da far uscire per le edizioni Uomo. Tra le fotografie che Manzù mandò a Scheiwiller, però, a colpire di più quest’ultimo furono le riproduzioni delle Crocifissioni e Deposizioni, su cui lo scultore continuava a lavorare. E lo colpirono a tal punto che decise di dedicare loro uno specifico volume nella preziosa ‘Serie Illustrata’ sotto le insegne del Pesce d’oro, per la preparazione del quale, naturalmente, coinvolse l’artista. Nacque così il volume pubblicato con il titolo di Passio Christi a nome di Aligi Sassu, autore di un testo critico a commento degli otto bassorilievi di Manzù. Un volume importante per Scheiwiller, perché si presentava al pubblico selezionato dell’editore animato dalla stessa tensione strutturale che governava la collana ‘All’insegna del Pesce d’Oro’: un «libro-sineddoche», come lo ha definito Stefano Ghidinelli, ovvero «un campione o un segmento esemplare dell’ipotetico taccuino dello scultore», che viene invitato dall’editore, e dall’originale formato tipografico, a «operare una prima sintesi esemplare del continuum avantestuale dell’ispirazione». Inizialmente Scheiwiller avrebbe voluto che il testo di accompagnamento fosse di mano di Manzù, il quale aveva declinato l’invito «quanto lei gentilmente mi ha chiesto non è possibile; non concepisco scrivere della propria opera» il 24 marzo 1945, obbligando l’editore a trovare un’alternativa. Tuttavia, nel momento in cui ebbe sotto gli occhi il testo dell’amico Sassu, Manzù si dovette sentire costretto a redigere una paginetta di presentazione, che si trova nel volume finito di stampare nell’agosto del 1945. Quello di Sassu era infatti un testo ‘d’artista’, in cui «prevalgono gli elementi sentimentali su quelli puramente formali» e che quindi non doveva soddisfare molto lo scultore, che voleva invece che il suo ciclo fosse accolto e compreso come parte integrante di un percorso di riflessione artistica personale.
Così, il 7 luglio 1945, Manzù spedì a Scheiwiller un breve scritto in cui restituiva ai bassorilievi lo statuto di ‘studi’ su un tema, corrispondenti a uno stato d’animo contingente ed eseguiti sull’onda di quel sentimento; al tempo stesso, però, legava quel primo ciclo a un progetto scultoreo che ampliava la trasfigurazione in chiave biblica dell’immaginario contemporaneo e che sarebbe proseguita con «altre due serie: La Pietà, e Il Convegno dei Santi e Martiri». Manzù dava così la coerenza di un percorso alle opere alle quali si era dedicato prima e durante gli anni di Clusone e trasformava quell’importante ciclo, che tante discussioni aveva suscitato dopo la mostra alla Galleria Barbaroux, nella prima tappa di un percorso che sarebbe dovuto proseguire proprio sul tema della Pietà, affrontato nell’omonimo bozzetto. A questo proposito, sono altre le lettere che consentono di vedere come Manzù provasse in qualche modo a sfruttare l’autoesilio clusonese per mettere a punto una strategia di riposizionamento nel campo artistico che gli permettesse, dopo la guerra, di dare nuovo slancio alla sua parabola. In primis c’è l’avvocato Fubini, che insieme alla moglie Stefania e alla già citata Anna Musso, è il destinatario di una ventina di lettere che, costellando tutto il periodo di Clusone, permettono di tracciare le oscillazioni dell’umore dell’artista, il quale dopo l’iniziale entusiasmo per il raccoglimento creativo clusonese, con l’inasprirsi del conflitto cominciava a considerare il prolungamento dell’esilio con sempre maggiore insofferenza. Ad aggravare la situazione erano arrivate, il 26 agosto del 1944, la requisizione dello studio, che veniva messo a disposizione del Comando Militare Germanico di Clusone, e il mese successivo la convocazione per la presa di servizio a Brera: lo scarso livello degli allievi e il disagio dei continui spostamenti non lenivano in alcun modo l’insofferenza di Manzù, amplificata se mai dalla fatica con cui riusciva a portare avanti i propri lavori. Di questi, puntualmente, Manzù lasciava traccia nelle lettere attraverso schizzi improvvisati ai margini dei testi. Sono disegni fatti con ironia e senza troppa attenzione, con il solo intento di dare agli amici un’idea del suo modo di lavorare e di quanto aveva in cantiere mentre scriveva; tuttavia, oltre a dimostrare la sua grande abilità nel disegno, forniscono puntuali aggiornamenti sul suo laboratorio creativo. Qui compaiono di volta in volta le Crocifissioni, alcune variazioni sul tema Il pittore e la modella e anche, in una lettera del 22 ottobre 1943 ad Anna Musso, una prova del bozzetto della Grande Pietà, l’opera più significativa tra quelle intraprese a Clusone e soprattutto un «punto d’arrivo e, insieme, di partenza nell’ambito della sua produzione sacra». Contrariamente a quanto sostiene una certa vulgata, il progetto della Grande pietà testimonia la resistente ambizione dello scultore a realizzare un’opera ‘grande’, sia per le dimensioni che per la destinazione, dato che venne pensata per il monumento funebre a papa Pio XI. Questo lavoro, inoltre, certifica il mutamento dell’orizzonte dello scultore, che da qui in poi avrebbe rivolto a Roma le sue attenzioni, come dimostra anche la candidatura, nel luglio 1947, al concorso per la realizzazione della Porta di San Pietro in Vaticano. A prescindere da quanto Manzù fosse consapevole di come questo suo nuovo orientamento avrebbe poi condizionato radicalmente la sua parabola artistica e la sua immagine pubblica, è evidente fin da questo progetto l’intenzione di cercare nel Vaticano una nuova e più sicura committenza. Sono le lettere a Cesare Brandi a certificare come questo progetto acquisti progressivamente centralità nell’interesse di Manzù. Era stato Brandi, d’altra parte, che a Roma aveva presentato l’opera di Manzù a don Giuseppe De Luca, prete romano, erudito bibliofilo, editore in prima persona, ma soprattutto sostenitore di un dialogo tra arte contemporanea e istituzioni ecclesiastiche al di sopra di ogni pregiudizio. Manzù l’aveva conosciuto nel 1941, nei giorni della polemica sui bassorilievi del Cristo nella nostra umanità esposti alla Barbaroux di Milano: alla serie di proteste scandalizzate levatesi negli ambienti ecclesiastici si era inizialmente sommata anche l’indignazione di De Luca, che aveva visto in quelle opere una provocazione senza pregi. La necessità di fare chiarezza sui valori artistici e anche ideologici dell’opera di Manzù spinsero Brandi a fare la conoscenza di De Luca. L’opera di persuasione riuscì tanto che De Luca, convintosi dell’importanza del tema prescelto da Manzù e delle scelte espressive adottate, si sentì a tal punto in torto con lo scultore che volle conoscerlo. Vista quindi la passione con cui De Luca aveva ‘sposato’ la causa artistica di Manzù, lo scultore si era convinto che la sua intermediazione avrebbe potuto favorire significativamente i propri interessi. “Proporre quest’opera al papa era già nella mia mente; l’avrei fatto appena le possibilità me l’avessero permesso. Quindi figurati la mia contentezza nel sentire da parte tua e di Don De Luca l’entusiasmo e l’apprezzamento.” Manzù aveva chiesto a Brandi di mostrare a De Luca il bozzetto della Grande pietà e questi ne aveva apprezzato soprattutto il modo in cui lo scultore era riuscito a esprimere «una intuizione degna di un Padre della Chiesa», con la figura della Madonna sostituita da quella di un pontefice, metafora della Chiesa che «porge all’adorazione del clero e dei fedeli e al conforto degli uomini straziati il corpo sacrosanto di Gesù, più straziato ancora del nostro». Il bozzetto, infatti, si compone di tre elementi: al centro si trova la figura di un cardinale o di un pontefice, distinguibile per i paramenti liturgici, che sorregge il corpo nudo di Cristo; ai lati due prelati che, inginocchiati, pregano rivolti verso il Cristo morto, l’uno alzando lo sguardo in una sorta di devota ispirazione, l’altro volgendo gli occhi verso il basso in segno di commosso raccoglimento. Affinché nulla di quella ‘trovata’ iconografica andasse frainteso, Manzù si era premurato di affidare a un altro ecclesiastico, don Bartolomeo Calzaferri, anche lui rifugiato a Clusone, la stesura di un breve testo di presentazione che accompagnasse alcune fotografie della Grande Pietà in una pubblicazione che avrebbe visto ufficialmente la luce solo nel 1946, ma che già negli anni della guerra dovette avere una certa circolazione. Lo scultore aveva infatti pensato quel piccolo opuscolo come un fascicolo di autopromozione da mandare ai diretti interessati; e non è un caso che la lettura proposta da Calzaferri, che era dotato di una riconosciuta sensibilità letteraria, ma non certo di particolari doti nell’esegesi del fatto artistico, sia tutta sbilanciata sugli aspetti biblici e spirituali della rappresentazione sacra, utile quindi ad accreditare la candidatura dello scultore a farsi interprete di un rinnovato spirito cristiano, moderno e al tempo stesso sensibile ai valori dell’arte religiosa tradizionale. Anche per questo, probabilmente, De Luca aveva accettato con entusiasmo la proposta di collocazione del monumento. E il progetto sembrava andare nella direzione sperata da Manzù, tanto che nell’aprile del 1944 Brandi aveva cominciato a pensare di creare interesse intorno all’opera pubblicandone qualche riproduzione su riviste ecclesiastiche come «L’Osservatore romano» o «Ecclesia». Manzù, inoltre, confermava che i primi riscontri critici sul bozzetto erano stati positivi (pensava forse a Scheiwiller), inattese conferme di come gli esiti della sua ricerca più personale potessero incontrare uno spontaneo favore proprio presso quegli ambienti che in altri momenti non gli avevano risparmiato critiche. L’insistenza affinché Brandi e De Luca si facessero carico della promozione del progetto della Grande Pietà si spiega proprio con il grande investimento simbolico di cui Manzù aveva caricato l’opera. Che pure rimaneva allo stato di bozzetto, poiché la realizzazione finale sarebbe stata necessariamente condizionata dall’architettura all’interno della quale posizionarla. L’attesa, intanto, macerava l’animo dello scultore, che per l’impazienza di vedere il proprio progetto realizzato si diceva pronto a ripensarlo anche «per una chiesa qualunque in Roma» (7 maggio 1944). Da questa prospettiva il grande impegno profuso intorno alla Grande pietà mostra come Manzù fosse interessato da un lato a concludere l’opera indipendentemente dall’effettività della sua destinazione, dall’altro a insistere sull’intervento di De Luca nella sua vicenda, poiché solo il prelato avrebbe potuto sostenere la sua candidatura. Tanto che, da un certo punto in poi, la realizzazione dell’opera verrà messa in secondo piano rispetto alla prosecuzione dei rapporti con il prelato, al quale Manzù si era affidato per una propria sponsorizzazione in Vaticano. Fu De Luca, infatti, ad aiutarlo ad avere l’incarico per la realizzazione della Porta di San Pietro (conclusa solo dopo la sua morte – avvenuta nel 1962 – e a lui dedicata) e anche quello per la realizzazione del busto di papa Giovanni XXIII, figura che ha ricoperto un ruolo fondamentale nel consolidamento dell’immagine di Manzù come ‘scultore dei papi’. Ed è curioso come una diretta corrispondenza epistolare tra i due sia cominciata solo nel 1946, quando la guerra era finita, Manzù era tornato stabilmente a Milano e, soprattutto, il progetto della Grande pietà era definitivamente tramontato. Un fatto, questo, che aiuta a confinare quel progetto nell’alveo dell’autoesilio di Clusone, periodo davvero fecondo per la produzione di Manzù, che aveva maturato una strategia di auto-costruzione artistica negli scambi epistolari, in quelle ‘scritture del dispatrio’ che gli servirono come terreno di riflessione meta-compositiva, ma anche di verifica delle proprie possibilità come scultore in un campo artistico che avrebbe mutato radicalmente i connotati rispetto al periodo del ventennio. Fin dai primi anni del dopoguerra Manzù si distinguerà come uno dei protagonisti dell’arte italiana contemporanea, molto più di quanto non avesse fatto nella prima metà del secolo e non solo per ragioni anagrafiche: a confermarlo si potrebbe citare il primo premio della XXIV Biennale di Venezia nel 1948 (peraltro molto discusso e che resta tuttavia l’ultimo grande riconoscimento artistico). Merito di un’attenta strategia artistica, appunto, perseguita da Manzù con convinzione, anche a costo di veder irrigidirsi la sua immagine pubblica, sempre più vincolata alle etichette affibbiategli dalla stampa generalista e sempre più distante dagli orizzonti della nuova ricerca artistica.
 
Biografia di Giacomo Manzù
Giacomo Manzù, pseudonimo di Giacomo Manzoni, uno dei maggiori scultori del Novecento, nasce a Bergamo il 22 dicembre 1908, dodicesimo di quattordici fratelli. La famiglia non ha possibilità economiche, il padre calzolaio, arrotonda le magre entrate con l'attività di sagrestano ed il piccolo Giacomo può frequentare la scuola fino alla seconda elementare.
Nelle botteghe degli artigiani dove il futuro scultore impara a scolpire e dorare il legno, prende confidenza con altri materiali come la pietra e l'argilla, mentre frequenta i corsi di Plastica Decorativa presso la scuola Fantoni di Bergamo. Durante il servizio militare a Verona, ha l'occasione di ammirare e studiare le porte di San Zeno e si appassiona ai calchi dell'Accademia Cicognini. Dopo un breve soggiorno a Parigi nel 1930 si stabilisce a Milano dove l'architetto Giovanni Muzio gli commissiona la decorazione della Cappella dell'Università Cattolica di Milano, lavoro che lo impegna per due anni. Intanto realizza le sue prime opere in bronzo, si dedica al disegno, all'incisione, all'illustrazione e alla pittura. Manzù comincia a modellare teste in cera e bronzo guardando a Medardo Rosso. Nel 1932 prende parte a una mostra collettiva alla Galleria del Milione e nel 1933 espone una serie di busti alla Triennale. Nel 1934, alla Galleria della Cometa di Roma, tiene la sua prima grande mostra, insieme ad Aligi Sassu, con il quale divide lo studio.
Con l'opera Gesù e le Pie Donne vince il premio Grazioli dell'Accademia di Brera per lo sbalzo e il cesello. Nel 1936 si reca a Parigi, con l'amico Sassu dove visita il Musée Rodin, conosce gli impressionisti e sviluppa i primi germi di ribellione che lo porteranno ad aderire al movimento di Corrente. Considerato fra le personalità più significative della scultura italiana, nel 1939 inizia la serie dei Cardinali, ieratiche immagini in bronzo dalla schematica struttura piramidale avvolte nella massa semplice e potente della stola. Realizza poi il ciclo di bassorilievi in bronzo con le Deposizioni e le Crocifissioni in base a una poetica che si richiama a Donatello.
Negli anni Quaranta, come reazione alla violenza della guerra, Manzù riprende e riunisce sotto il titolo Cristo nella nostra umanità, le opere della Crocifissione e della Deposizione in cui il tema sacro viene utilizzato per simboleggiare prima la brutalità del regime fascista e poi gli orrori della guerra. Nel 1941 Manzù ottiene la cattedra di scultura all'Accademia di Brera, dove insegna fino al 1954, quando si dimette per dissensi sul programma di studio. Tra i molti riconoscimenti il suo nudo Francesca Blanc vince il Gran premio di scultura alla Quadriennale di Roma del 1942, mentre alla Biennale di Venezia del 1948, vince la medaglia d'oro per la serie dei Cardinali.


Nel 1945 si stabilisce a Milano e nel 1946 l'incontro con Alice Lampugnani è all'origine dell'importante opera Grande ritratto di signora e di un centinaio di disegni.
Nel 1947 Manzù illustra le Georgiche di Virgilio, e viene organizzata una grande mostra antologica dei suoi lavori al Palazzo Reale di Milano. Nel 1954 prosegue l'attività d'insegnamento alla Sommerakademie di Salisburgo fino al 1960. A Salisburgo conosce Inge Schabel (1936-2018), che diventerà la sua compagna di vita e con cui avrà due figli, Giulia e Mileto. Lei e la sorella Sonja diventeranno da allora le modelle dei suoi ritratti. In quel periodo inizia a lavorare alla realizzazione della Porta della Morte per la basilica di San Pietro in Vaticano compiuta nel 1964. La porta vaticana, che lo impegna per diciassette anni, diviene l'epicentro di una poetica che, nel dialogare con la tradizione, ne rifiuta gli aspetti più strettamente accademici. Manzù realizza anche la Porta dell'Amore per il Duomo di Salisburgo (1957 -1958), e la Porta della Pace e della Guerra per la chiesa di Saint Laurens a Rotterdam (1965-1968). Ritorna poi alla figura a tutto tondo ed a temi più intimi come Passi di danza, Pattinatori Strip-tease e gli Amanti. Nel 1964 si trasferisce in una villa nei pressi di Ardea, vicino Roma e nel 1969 viene inaugurato il Museo Amici di Manzù di Ardea.
Manzù si è occupato anche di teatro disegnando scenografie e costumi, tra cui quelli per l' Oedipus rex di Igor Stravinskij nel 1965, per Tristano e Isotta di Richard Wagner nel 1971 e per il Macbeth di Giuseppe Verdi nel 1985. Nel 1977 realizza a Bergamo il Monumento al partigiano e nel 1979 dona la sua intera collezione allo stato italiano. Del 1989 è la sua ultima grande opera, una scultura in bronzo alta sei metri posta di fronte alla sede dell'ONU a New York. Giacomo Manzù muore a Roma il 17 gennaio 1991.
 
Arca Polo Espositivo di Vercelli
Giacomo Manzù . La scultura è un raggio di luna
dal 10 Marzo 2023 al 21 Maggio 2023
dal Giovedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Sabato dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Chiuso dal Lunedì al Mercoledì