La prima si è chiusa il 28 febbraio 2016, la seconda il 5 giugno 2016. Dedicare mostre al grande pittore metafisico
Giorgio de Chirico (1888-1978) costituisce sempre un grande richiamo sia per gli addetti ai lavori che per il pubblico che del maestro conosce solo il nome. Ho visitato la prima a
Ferrara un sabato (il 2 febbraio 2016), la seconda a
Spoleto una domenica (il 22 maggio 2016). Due belle giornate festive e ariose, piene di cittadini e turisti. Ebbene alla mostra di
De Chirico a Ferrara. Metafisica e Avanguardie, vi erano code all’ingresso del
Palazzo dei Diamanti (che ho eluso grazie alla cortesia del personale a me noto per precedenti visite di lavoro al tempo in cui ero funzionario della
Galleria Nazionale d’Arte Moderna), mentre a Spoleto,
De Chirico. La Ricostruzione, nessuna attesa all’ingresso, e a visitarla erano in tutto una decina di persone (incluso il sottoscritto con la propria consorte). Mi scuso per questa premessa di carattere personale, ma necessaria per

comprendere che, nonostante la fama internazionale di un pittore come
Giorgio de Chirico, le due iniziative mi sono apparse oltremodo stridenti nella situazione che ho più sopra sinteticamente delineato.
Vediamo perché, innanzitutto per il fatto che a Ferrara sono state allineate circa ottanta opere, di cui 32 strepitosi dipinti di
de Chirico del periodo ferrarese, opere raramente viste in Italia e provenienti

da prestigiosi musei internazionali, quali il
MoMA e il
Metropolitan Museum di New York, la
Tate Gallery di Londra, il
Philadelphia Museum of Art, e da noti musei di arte moderna italiani e collezionisti privati, celebrando in questo modo i cento anni di quel fecondo soggiorno a
Ferrara (1915-1918) di
de Chirico, Savinio, de Pisis, Carrà, che con le loro opere costituiscono la premessa del futuro sviluppo dell’arte dadaista e surrealista, poi diffusasi velocemente su scala internazionale. E difatti la mostra dà conto proprio di questo straordinario influsso, esponendo, con appropriati confronti, opere di
Man Ray, di
Max Ernst, di
René Magritte, di
Dalì, Le Corbusier, di
Ozenfant, e grafiche di
Groz, Hausmann, Schlemmer; insomma un vero spettacolo e una ineccepibile occasione di studio scientifico, a cura di
Paolo Baldacci e
Gerd Roos, di cui ha già dato ampiamente notizia la stampa (si veda ad esempio,
Ada Masoero,
De Chirico e la “Metafisica” tornano a casa, “
Il Sole 24 ore”, 17 gennaio 2016).
* * *
Purtroppo non si può dire altrettanto della mostra spoletina,
De Chirico. La Ricostruzione, nonostante sia stata curata da un valente e rinomato storico dell’arte, quale è
Claudio Strinati. La mostra è formata

da un piccolo numero di quadri (13 in tutto, per la precisione; un numero che, per chi è superstizioso, non promette proprio bene, e infatti, a mio avviso, è stato proprio così).
Codeste 13 opere sono state selezionate dalla vasta collezione di opere di
Giorgio de Chirico (oltre 550), conservate a Roma dalla
Fondazione Giorgio e Isa de Chirico.
Va inoltre detto che la mostra è stata ospitata in piccoli ambienti (due o tre quadri per

ogni singola piccola stanza) di
Palazzo Bufalini, a lato della monumentale
Piazza del Duomo di
Spoleto, dove ha sede la neonata “
Metamorfosi Art Gallery”, “ guidata dall’On.
Pietro Folena […], che non mancherà di attirare l’attenzione deicittadini e dei turisti…”, come scrive in apertura del catalogo
Catiuscia Marini, Presidente della
Regione Umbria (tanti auguri per il futuro).
Ma torniamo alla mostra vera e propria che conta, come dicevo più sopra, 13 opere che datano dal 1948 al 1976, ma illustrate in catalogo senza seguire un ordine cronologico, intese a dimostrare l’idea della
“Ricostruzione” dell’opera del grande maestro , in parallelo con quella dell’Italia e della Roma postbellica, secondo un’argomentata tesi del curatore
Strinati.
Lo studioso parte dalla definitiva sistemazione a Roma di
de Chirico dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale,dal suo antimodernismo, dalle sue sferzanti polemiche nei suoi scritti apparsi in
Considerazioni sulla pittura moderna (1942) e in
Commedia dell’arte moderna (1945), titolo che deriverebbe, secondo Strinati, dalla ripresa da quello dantesco della
Commedia.
Ora se è vero, come è vero, che la pittura metafisica è nata nel 1910 in
piazza Santa Croce a
Firenze (cosa acclarata da tempo), essa deve essere intesa, a mio avviso, in senso unicamente iconografico, stando alle stesse parole di
de Chirico nelle sue
Memorie del 1945, e molto prima ancora nel 1911, allorquando, nel suo scritto
Méditation d’un peintre (nei
Manoscritti Paulhan), il maestro descrive il momento delle sue sensazioni in quel pomeriggio d’autunno nella famosa

piazza fiorentina e si rivolge a
Dante (alla sua statua) con queste parole:
“
Au milieu de la place s’élève une statue représentant le Dante drapé dans un long manteau, serrant son oevre contre son corps, inclinant vers le sol sa tête pensive couronnée de lauries” (cfr.
M. Fagiolo, in
Il Meccanismo del pensiero, 1985, p. 32).
Ipotizzare perciò un
de Chirico-Dante è certamente suggestivo, ma non comprovabile, dato che l’artista non gli ha mai dedicato uno scritto, diversamente da quante volte cita
Nietzsche a partire sempre dal 1911 al 1943, e, a proposito della
“révélation”, ovvero di quello stato d’animo che gli ha fatto scoprire la pittura metafisica, così scrive
:”Dans le premier cas elle (la rèvèlation, ndr
) appartient àun genre de sensations ètranges que moi, je n’ai observè que dans un seul homme: Nietzsche” (ibid, p.13). E ancora, proprio in
Considerazioni sulla pittura moderna, ribadisce: “Questo mondo metafisico, inesistente per noi, in altre parole questo mondo completamente al di fuori della nostra conoscenza e dei concetti umani e del quale noi, col nostro cervello non scorgiamo nulla, è il mondo che
Nietzsche e Hölderlin ci hanno fatto intravedere in alcune poesie ed in alcuni brani” (ibid., p.404).
Quanto alla “ricostruzione” di
de Chirico nel suo vario e fantastico percorso pittorico, mi appare un po’ forzata nella dotta lettura di
Strinati (scusa caro Claudio) dell’opera di de Chirico, il quale ha sempre dichiarato di aver dipinto costantemente ciò che gli garbava e senza interruzioni, (del resto il termine “ricostruzione”, che viene soprattutto usato nel linguaggio della politica economica, non appartiene al suo lessico, né può appartenere a un pittore-filosofo che per di più mostrava idiosincrasia per diversi termini di uso comune come ad esempio “foschia” e “a prescindere”). Il maestro, quindi, ha sempre spaziato in un “eterno ritorno”, sin dall’inizio della sua attività artistica, dai generi classici della pittura (ritratti, nudi, nature morte, paesaggi) e quadri di “invenzione” (appunto gli interni metafisici, i soli accesi e spenti, i bagni misteriosi), ovvero metafisici e neo-metafisici, di cui solo qualche sporadico esemplare figura nella modesta mostra spoletina.
Mario URSINO