Giovanni Cardone Gennaio 2023
Fino al 19 Marzo 2023 si potrà ammirare al MART - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto la mostra Giotto e il Novecento da un’idea di Vittorio Sgarbi a cura di Alessandra Tiddia. Con il contributo di numerosi studiosi e in collaborazione con i Musei Civici di Padova. In mostra oltre 200 opere di cui una cinquantina proveniente dal patrimonio del Mart, tra cui
Le figlie di Loth, di Carlo Carrà. Scelto come immagine guida della mostra, il celebre capolavoro è anche l’opera-simbolo delle collezioni museali. Il rapporto tra antico e contemporaneo è da sempre al centro dell’indagine del Mart di Rovereto. La struttura stessa del museo celebra le forme classiche del Panteon, rievocato nelle forme e nelle proporzioni della cupola, e dell’
impluvium romano che caratterizza la fontana posta sotto la cupolastessa. La proposta espositiva basata su confronti e parallelismi è una delle cifre stilistiche riconosciute al museo di Rovereto che già nel 2013 proponeva una straordinaria mostra su Antonello da Messina,a cura degli studiosi Ferdinando Bologna e Federico De Melis. Per l’occasione, le opere del maestro quattrocentesco venivano messe a confronto con la ritrattistica contemporanea, raccolta in un progetto curato dal filosofo francese Jean-Luc Nancy.
Alla ricerca delle connessioni tra la storia, i grandi classici e i linguaggi del XX secolo, il Mart pone a confronto epoche distanti, offrendo nuove stratificate letture. È un’esposizione solenne e necessaria quella che il Mart dedica all’insegnamento di Giotto, il maestro che rivoluzionò la pittura medievale e che, secondo gli storici dell’arte,inaugurò l’era moderna. Se la strada per
Giotto e il Novecento è stata aperta in anni recenti da diversi significativi studi - comeil catalogo della mostra curata nel 2009 da Stefan Weppelmanne Gerhard Wolf dedicata al confronto fra Rothko e Giotto, alKunsthistorischesInstitut Max Planck di Firenze e il saggio pubblicato nel 2012 da Alessandro Del Puppo su Giotto, Rimbaud, Paolo Uccello in relazione a Carrà-; la mostra non poteva non realizzarsi al Mart di Rovereto la cui Collezione annovera decine di capolavori inequivocabilmente influenzati dall’attività di Giotto e la cui attività ruota intorno al confronto tra antico e moderno. La mostra si apre con una grande installazione immersiva che riproduce la Cappella degli Scrovegni di Padova,il capolavoro assoluto di Giotto.Una sofisticata videoproiezione, costruita partendo dalle immagini ad altissima risoluzione realizzate dall’Università di Padova e messe a disposizione dai Musei Civici di Padova, “trasporta” virtualmente i visitatori e le visitatrici del Mart all’interno del famosissimo ciclo di affreschi del XIV secolo, Patrimonio Mondiale UNESCO. Fondamentale, a questo proposito, la preziosa collaborazione con l’Assessorato alla cultura del Comune di Padova. Nelle intenzioni della curatrice Alessandra Tiddia: “La mostra prende avvio da un portale immersivo che attraverso le proiezioni delle immagini degli affreschi della Cappella degli Scrovegni intende restituire al visitatore la suggestione di un’esperienza fondamentale per molti artisti, ovvero la visione del ciclo di affreschi. […] Varcata questa soglia si dischiude al visitatore un percorso che da Carrà giunge, attraverso il Novecento italiano, alle esperienze di Matisse, Rothko, Albers, Klein, per avviarsi verso la fine della mostra con l’installazione di James Turrell,
Thyco Blue, un altro portale esperienziale, che conclude il viaggio, durato più di un secolo, attraverso le suggestioni giottesche”. Seguendo un ordine cronologico e tematicol’esposizione prosegue tra opere di grandi autori e autrici del XX e XXI secolo accomunati dalla passione per la figura di Giotto, studiato, imitato, o preso a modello di perfezione e spiritualità. In una mia ricerca storiografica e scientifica tra antico e moderno tra Giotto e il Novecento apro il mio saggio dicendo : Giotto come tutti sappiamo è nato nel Mugello con ogni probabilità nel 1267 e morto nel 1337, acquisisce già durante la vita una notorietà e una considerazione assolute; diviene l’emblema della pittura “moderna”, tanto che è ricordato da Dante nel celebre passo sulla transitorietà della fama come colui che ha superato il mito precedente: “Credette Cimabue nella pittura / tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui oscura” (Purgatorio, Canto XI, vv. 94-96)”. Il suo ruolo è quello di attuare il passaggio già iniziato dall’altro pittore toscano. Dirà Cennino Cennini, autore di quel Libro dell’arte che costituisce il più importante ricettario tecnico della pittura italiana e dipende quasi del tutto proprio da Giotto: “Rimutò l’arte di greco in latino e ridusse al moderno”, si stacca cioè dalla “maniera greca” bizantineggiante e vuole restituire uno sguardo diretto sul vero.
In questo senso, il nesso con Dante non è solo di citazione: entrambi propongono una chiave di lettura in cui il dato visivo si concretizza in forme più naturali. Non è “realismo”, ma avvicinamento alla realtà, dove il moto psicologico, la percezione dello spazio, la concretezza dei volumi acquisiscono una valenza nuova. Sono questi i tre valori principali su cui si gioca la novità giottesca. In forma non sempre progressiva, nel corso della sua carriera la pittura passa da esercizio bidimensionale a “scatola spaziale”; la scena acquisisce profondità, le figure si collocano stabilmente su piani concreti, e ciò che noi vediamo si dispone secondo una gradualità determinata dalla distanza. Non è la prospettiva del Rinascimento, matematica, ma un tentativo più empirico di restituzione della visione naturale, che in certi casi si abbandona addirittura ante litteram a veri e propri
trompe l’oeil, come nei celebri “coretti”, finte architetture prive di figure, della cappella degli Scrovegni, spazi non abitati che assecondano l’occhio nella sua ricerca di una terza dimensione. I corpi sono modellati, già dai primi dipinti: costruiti cioè come masse, o col raffinato chiaroscuro dei modellati anatomici o con le linee dei panneggi, che non si svolgono lineari e piatti, ma contribuiscono a definire una massività talvolta quasi tattile; l’uomo cammina, mangia, respira. Ma pure piange, ride, canta a gola spiegata, si tappa il naso per la puzza, dorme, quasi in un tentativo di catalogazione dei diversi moti dell’animo:“Trasse atti al naturale”, scrive il cronista Giovanni Villani. Il mondo della realtà religiosa che vediamo nei suoi dipinti non è più intangibile e astratto, ma compartecipe e vicino, secondo quella linea di immedesimazione e coinvolgimento di cui san Francesco era stato prototipo; non a caso il pittore sarà spesso attivo proprio per i Francescani, certo in funzione di questa nuova tendenza dell’arte sacra. Posso dire che per la visione figurativa del Novecento Giotto ha influenzato tantissimi artisti e in particolar modo le avanguardie. I primi cinquant’anni del XX secolo si potrebbe prendere spunto da una frase lapidaria ma pregna di significato di Robert Hughes a proposito del Futurismo, il primo grande movimento italiano d’avanguardia, che nel nostro Paese inaugurò l’avvento del Ventesimo secolo. Scrive Hughes, con la sua acuta penna: “Probabilmente i futuristi non avrebbero amato tanto il futuro se non fossero venuti da un paese tecnologicamente arretrato come l’Italia”, e, si potrebbe completare la frase, da un paese che da soli trent’anni aveva raggiunto una stabilità nazionale e indipendente (1870), dunque da un Paese che aveva intrapreso la propria gara con la modernità quasi a ridosso del secolo XX. Con una parte del proprio territorio, quella situata a sud di Roma, in uno stato d’endemica arretratezza, governato dalle più inique leggi del latifondo, e una parte invece, quella a Nord, più vitale e intraprendente, pronta alla riconversione della propria economia rurale in un sistema produttivo industriale, l’Italia post-unitaria manifesta anche attraverso l’arte e l’impegno degli artisti, la sua forte volontà di cambiamento. Ma se ciò avverrà primariamente con il Futurismo, a partire dunque dal 1909, segnali largamente positivi si avvertirono già sul finire del secolo precedente. Per comprendere il significato della poetica futurista, degli strumenti e delle azioni che i suoi protagonisti misero in campo nel loro riuscitissimo tentativo di svecchiamento dell’arte italiana, è necessario dunque fare qualche passo all’indietro nel tempo per spiegare i forti legami che unirono i futuristi alla tradizione artistica italiana della fine Ottocento e, in senso più ampio, alle novità che anche nel nostro Paese arrivarono dalle imprese più significative della pittura europea francese, impressionismo, pointillisme, simbolismo e tedesca Jugendstil e Sezession in particolare.
Infatti, fu proprio nel corso del secolo diciannovesimo, oggi ricordato dalla critica come il secolo della luce degli impressionisti, ma si dovrebbe aggiungere, cosa assai più importante per l’evoluzione dell’arte italiana, anche secolo del romanticismo e del simbolismo che in Italia si crearono le condizioni per l’avvento della rivoluzione futurista. Il futurismo nacque in continuità e non in rottura con l’arte del passato, del movimento divisionista in particolare, un movimento pittorico che cronologicamente di poco lo precedette e che, a sua volta, fu pacifica continuazione delle esperienze della Scapigliatura lombarda, di autori come Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni e delle forse più note ricerche dei pittori Macchiaioli toscani, capeggiati da Giovanni Fattori e dalle idee di Diego Martelli, che faceva la spola tra Francia e Italia, assolvendo al grato compito di mettere in contatto gli artisti italiani con le più avanzate ricerche sulla percezione luministica francese. Due esperienze, quella della scapigliatura e dei macchiaioli, che videro la luce nel pieno del XIX secolo, maturate indicativamente nell’arco cronologico compreso tra il 1855 e il 1870, entrambe fuoriuscite dal grembo del romanticismo e che per prime avviarono nel campo della pittura italiana la ricerca ‘del vero’, aprendo lo spazio del quadro alla rappresentazione di una nuova concezione del paesaggio, inteso nella sua ‘naturalezza’ luministica ed atmosferica, ma anche sensibili a soggetti più impegnativi dal punto di vista del loro contenuto di reportage sociale.
E sarà proprio l’attitudine all’indagine socio-umanitaria, in linea con le teorie anarchico-socialiste diffuse in Italia da molta letteratura politica alla fine del XIX secolo, frammiste alla rilettura delle idee di Ruskin, proposte dal mentore del Divisionismo, il pittore Vittore Grubicy de Dragon, mercante e teorico del movimento, a diventare uno degli aspetti più fortemente distintivi del divisionismo italiano, in questo assai diverso rispetto al neoimpressionismo francese, che per sua stessa natura sembra essere stato un movimento più predisposto all’indagine analitica, ‘scientifica’ della visione che a questioni di natura interpretativa in chiave esistenziale della realtà. Ed anche quando l’uso della tecnica ‘divisa’, per filamenti sottili e ravvicinati di colore puro, di primari e complementari, tecnica ampiamente sperimentata dai pittori italiani, da Pellizza a Morbelli, da Previati a Segantini, farà sembrare più vicina l’Italia alla Francia, sarà solo un fraintendimento o un vizio di lettura critica di due fenomeni radicalmente differenti. Infatti, la ricerca del pointillisme francese fu espressione di quella natura meditativa e razionale di concepire l’arte come esercizio continuo sulle potenzialità stesse del fare pittura, dunque di riflessione per così dire ‘interna’ alla pittura stessa, sugli strumenti che le erano propri come colore, spazio, luce, materia, atmosfera, percezione. Per il divisionismo italiano, diversamente, si deve parlare di una ricerca artistica intesa anche e soprattutto come mezzo d’indagine sulla natura stessa delle cose, aperta alla rappresentazione sociale della realtà, capace di raccontare la storia del disagio quotidiano delle classi meno abbienti, dalla giovane classe operaia a quella dei lavoratori della terra, che divennero soggetti tra i più rappresentati nella pittura italiana di fine Ottocento. Una pittura in grado anche di partecipare al sentimento cosmico della Natura, che, soprattutto nell’opera di Giovanni Segantini, si materializza nelle sembianze più umili della vita quotidiana, affermando così il potere evocativo e simbolico delle ‘cose semplici’, fonte di verità e di bellezza. Lo spirito nuovo del futurismo italiano nascerà direttamente dalle ceneri ancora accese dell’esperienza divisionista. È dato innegabile, infatti, che le figure di maggior spicco del gruppo storico del Futurismo, da Boccioni a Carrà, da Balla a Severini, da Russolo a Sironi, proprio nei fondamenti scientifici della sperimentazione divisionista, nel suo linguaggio aperto alla più completa rivoluzione della tecnica, nella nuova sensibilità per la storia, trovassero la base teorica di quello spirito di modernità, che fu la fonte viva della prima avanguardia italiana del ’900. Il passaggio di testimone tra divisionismo e futurismo avvenne in una data, il 1909, in cui la parabola del divisionismo italiano era entrata già da tempo in fase calante, ma i nomi di pittori come Pellizza, Morbelli, e Segantini, con alcuni dei loro capolavori, Fiumana, Il Natale dei rimasti, La raccolta del fieno, non possono essere tralasciati quando si parli della forza rinnovatrice della pittura futurista. Il forte legame con il passato si avverte con evidenza nelle opere dipinte dai giovani Boccioni, Carrà e Severini all’esordio della loro carriera artistica, all’incirca tra il 1903 e il 1908. È, su tutti, buon esempio di questo legame il bellissimo quadro dipinto in Russia da Boccioni nel 1906, intitolato Ritratto di Sophie Popoff. Un quadro che rappresenta il passaggio tra la tradizione e il nuovo, nuovo che prende avvio dagli strumenti propri dei pittori divisionisti, in particolare l’uso della pittura “divisa” e, più in generale, dalla comune propensione per la ricerca luministica, vista come possibile fonte dinamica della rappresentazione. Se per la maggior parte degli artisti europei il ritorno alla figurazione coincise con un atto di rinuncia dei postulati teorici e formali delle dottrine dell’avanguardia, ci fu anche chi, come il grande pittore italiano di origine greca Giorgio de Chirico, sulla strada del classico aveva da sempre indirizzato la propria ricerca. Il pittore greco dal volto d’Apollo, padre della Metafisica, aveva fatto la sua scelta fin dai tempi della giovinezza, quando, negli anni di Monaco, aveva adottato come suoi maestri ideali Bòcklin e Klinger, e aveva trovato conferma alla sua idea di moderno nella scultura antica e nelle regole dell’arte italiana del Rinascimento. Fedele ai propri convincimenti, che gli fecero abbracciare da subito la strada di una figurazione classica, de Chirico, fin dall’inizio attese alla vita segreta delle cose e tentò di rappresentarla nelle sue prime composizioni metafisiche, all’incirca a partire dal 1910, sebbene l’anno ufficiale di nascita della Metafisica va ricondotto dal 1917, quando nella città di Ferrara, lì giunti per diverse ragioni, si incontrarono e ne condivisero le formulazioni di poetica Carlo Carrà, il più giovane Filippo de Pisis, Alberto Savinio, fratello di de Chirico e lo stesso de Chirico, che alla metafisica aveva da tempo dedicato il suo cuore e la mente. Come dice lo stesso De Chirico dalle pagine di “Valori Plastici”: “Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile, ci vorrà tempo e fatica”, tuonava Giorgio de Chirico alla fine del 1919 sulle pagine di “Valori Plastici”, ad un anno dalla prima uscita della rivista diretta da Mario Broglio. Quel processo di “restaurazione” dei valori formali che si era avviato nelle arti figurative in tutta Europa nell’immediato primo dopoguerra trovò espressione in Italia in questa rivista, luogo di convergenza e di confronto delle forze più vive dell’arte e della critica di quegli anni. Sin dal primo numero ospitò sulle sue pagine i nomi più diversi di critici e artisti, provenienti da situazioni culturali talvolta contrastanti. Comune era però l’asserzione della crisi della modernità, così come era stata espressa nell’esperienza dell’avanguardia e la ricerca di uno stile e di un linguaggio che si esprimessero nell’ambito di regole formali eterne. Ciò si traduceva nella volontà di riaffermare la concezione dell’arte come esperienza della tradizione, specificamente quella italiana, e di propugnare come alternativa un rinnovato classicismo, talvolta invocato come “italianismo artistico”. Questo clima intellettuale tipicamente italiano e l’intento di definire “il carattere dell’arte” distinguono il “clima di Valori Plastici” dalla generale tendenza del ritorno all’ordine che è diffusa negli stessi anni in tutta Europa. È datato aprile 1918 il frammento poetico Zeusi l’esploratore che Giorgio de Chirico invia a Broglio da Ferrara perché appaia sul primo fascicolo di “Valori Plastici”, la cui uscita verrà invece posticipata, per vari motivi, al mese di novembre. Il primo numero di “Valori Plastici” apre all’insegna della Metafisica, recando sul frontespizio l’Ovale delle apparizioni di Carrà del 1918. Si accrediterà così l’immagine di rivista ufficiale della Metafisica, presentandosi principalmente come tribuna di espressione di de Chirico e Savinio, anche se nella mente di Broglio non c’era un preciso programma, né l’intenzione di lanciare manifesti, quanto piuttosto quella di provocare un confronto all’interno di una situazione comune. Nello stesso periodo si pubblicava il volume Pittura metafisica di Carlo Carrà. Tra il 1918 e il 1919 si parlava perciò ancora di Metafisica, finalmente chiarificata dai primi scritti teorici pubblicati dagli artisti stessi, proprio mentre evolvevano verso nuovi approdi. Et quid amabo nisi quod aenigma est? era stato infatti il titolo da lui dato molti anni prima ad un famosissimo autoritratto, opera nella quale il suo volto appare segnato da una profonda inquietudine, quasi che la capacità di vedere oltre le apparenze, gli rivelasse tutte le pene della solitudine e della malinconia, proprie dell’uomo contemporaneo. Ogni Piazza d’Italia del resto sarà, nello stesso tempo, luce accecante e ombre inquietanti, visibile e invisibile che si rincorrono, presente e passato che si congiungono. Se per i futuristi la relazione tra lo spazio e gli oggetti fu azione allo stato puro, per i pittori metafisici divenne luogo della rivelazione magica della vita nascosta delle cose: gli oggetti, pur rimanendo riconoscibili, persero ogni legame di contiguità e di logica concatenazione con lo spazio che li circondava o con gli altri oggetti disposti nello stesso spazio. Ne furono prove superbe le rarissime nature morte metafisiche di Giorgio Morandi che alla metafisica giunse più tardi, accompagnato oltre che dalla lezione di Carrà, da un ripensamento in guisa di una assoluta rarefazione delle cose nello spazio della lezione di Cézanne e la serie più nota delle Piazze d’Italia di de Chirico appunto, come la celebre Matinée angoissante, dipinta nel 1912, che ci rivela lo spettro dell’enigma in una Torino assolata, con il lungo porticato in ombra che corre a perdita d’occhio sulla sinistra e che incrocia in primo piano la sagoma cupa di un treno che passa, ricordo improvviso del padre e della terra natale. “La pittura di de Chirico scrisse Soffici sulla rivista “Lacerba” nel 1914 non è pittura nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni. Per mezzo di fughe quasi infinite d’archi e di facciate, di grandi linee dirette, di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei, egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, d’immobilità di stasi, che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo della nostra anima quasi addormentata. Giorgio de Chirico esprime come nessuno l’ha mai fatto “la melanconia patetica di una fine di bella giornata in qualche antica città italiana, dove in fondo a una piazza solitaria, oltre lo scenario delle logge, dei porticati e dei monumenti del passato, si muove sbuffando un treno, staziona il camion di un grande magazzino, o fuma una ciminiera altissima nel cielo senza nuvole”. Alla Metafisica successe il tempo del mito e dell’allegoria: negli anni Venti, la pittura di de Chirico, con la quale ebbe interessanti assonanze quella dell’amatissimo fratello Alberto Savinio, più interessato però alla rappresentazione onirica e surreale della realtà che all’indecifrabilità dell’enigma, si volgerà alla rilettura dei grandi Maestri del passato. La perfezione tecnica e la misura di Raffello, Tiziano, Dosso Dossi, Poussin e negli anni Trenta soprattutto Rubens, Fragonard, Delacroix gli fecero comprendere come raggiungere il folle sogno dell’immortalità, senza per questo rinunciare alla seduzione dell’enigma, cui si confacevano le sembianze dei manichini gladiatori, copia dei dioscuri omerici che compaiono nei suoi quadri verso il 1926, o gli archeologi ermafroditi, con il torace e il ventre ingombro di colonne, templi, alberi e quanto d’altro la sua fervida fantasia e lo stato di sogno gli suggerivano. Gino Severini anticipa tutti. Già nel 1916 aveva affermato la propria indipendenza dal futurismo, approdando alle sue prime composizioni classiche, una scelta che troverà fondamento teorico nel testo pubblicato a Parigi del 1921. È in anticipo anche sulle scelte d’altri grandi pittori del tempo, come per esempio Pablo Picasso, che solo nel 1917 porterà a conclusione, grazie anche al viaggio in Italia, quel processo pur iniziato nel ’15 di trasformazione della sua pittura in direzione neoclassica. Con Severini è forse Carlo Carrà l’artista italiano che meglio rappresenta il passaggio del guado tra avanguardia, Realismo magico, Novecento e per certi aspetti antinovecento. La sua pittura attraversò e fu protagonista di tutte le principali tappe dell’arte italiana del primo ’900, dal futurismo al primitivismo, all’avventura metafisica, all’approdo alle poetiche della nuova figurazione di Novecento, alla sublimazione dell’opposizione al regime nelle sequenze dei paesaggi dipinti negli anni estremi della dittatura. “Mutare una direzione in arte – ebbe a scrivere a questo proposito in La mia vita – non significa rinnegare tutto il passato, bensì allargarlo fino a compenetrarlo con un altro concetto estetico. Scoprire nuovi rapporti ignoti, aprire meglio gli occhi per comprendere una somma maggiore di realtà”. Passata brillantemente la prova metafisica, in cui realizzò quadri dominati dall’inquietudine ma anche opere di più complessa fattezza nate dall’ambiguità come la natura morta metafisica superò la fase critica del passaggio tra il sogno visionario metafisico e la concretezza del realismo di Novecento, tra il ’19 e il ’21, dipingendo alcune delle più radiose rappresentazioni della storia dell’arte europea del ’900.
I dipinti Le figlie di Loth, L’attesa, Il Pino sul mare, esercizi di umiltà e grandezza insieme, mostrarono nella restaurazione del candore arcaico ispirato dalla pittura dei grandi Primitivi italiani, la continuità della tradizione, che allo spirito del tempo presente portava dal passato i doni della Meraviglia, della Scoperta e dello Stupore, di una pittura, insomma, che era nello stesso tempo etica ed estetica. Negli anni successivi Carrà riportò la sua pittura dentro un alveo di più forte naturalismo, dando vita ad una serie di mirabili paesaggi con figure o semplici marine raffiguranti il litorale toscano, che rappresentarono anche in età tarda, tra la fine degli anni Venti e i Trenta, il permanere nella sua ricerca di caratteri di magico realismo, coniugati non più alla rarefazione narrativa del suo antico primitivismo o della parentesi metafisica, ma piuttosto alla riscoperta di una nuova mitologia del quotidiano, ancora ricca d’incanto e di sorpresa, nella quale azioni e cose, nel permanere nell’atmosfera di un misterioso incanto, assurgevano al ruolo di nuovi riti. La ricomparsa in epoca tarda di una riflessione sulla pittura di paesaggio, impegnò Carrà nell’esecuzione quasi ossessiva di opere in cui luce e atmosfera davano spazio a quella voce antinovecentista, che fu di molti artisti contrari al regime, che proprio nella rinascita di temi molto ortodossi della pittura, come il paesaggio, seppero attendere negli anni più bui del fascismo all’esercizio etico del mestiere. La Metafisica rappresentò un episodio straordinario dell’arte italiana, ma limitato nel tempo. I suoi protagonisti, in primo luogo de Chirico, ma è il caso anche di Carrà, de Pisis, Morandi, Savinio, alle soglie degli anni Venti erano già consapevoli che questo capitolo intenso ma breve della loro ricerca stava volgendo alla fine e la loro pittura era già in ascolto di nuove suggestioni, attratta più fortemente e più compiutamente da un esercizio formale e di composizione che superava, in direzione di una ritrovata classicità, la separazione dell’enigma metafisico. Peraltro la pittura metafisica contribuì con la sua poetica di rarefazione formale, di visionaria percezione della realtà, di straniante relazione tra i luoghi e le cose, a preparare un fertile terreno per quegli artisti che alla pittura dell’avanguardia avevano dato poca retta, o per brevissimo tempo ne avevano condiviso la poetica come Mario Sironi, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Felice Casorati, Virgilio Guidi, Antonio Donghi, Piero Marussig, Arturo Martini, artisti tutti già attivi sulla scena dell’arte nazionale nei secondi anni Dieci. Costoro, ignorando il clamore futurista in quel torno di tempo ancora acceso nei toni, e certo più interessati al richiamo della storia, erano pronti a scrivere il nuovo capitolo della pittura italiana postbellica, che dalla storia e dalla riflessione sul passato voleva trarre originale energia creativa. Il loro intento fu quello di far rivivere la tradizione antica nell’attualità del tempo presente, di ridare fiato alla ricerca dell’origine e dell’identità, di promuovere in un clima culturale dove la tendenza neopurista vinceva le ultime resistenze dell’avanguardia, una ricognizione sui repertori antichi per farne nuova fonte d’ispirazione. Tra gli interpreti più originali della traduzione metafisica in testi di puro arcaismo magico fu senza dubbio il piemontese Felice Casorati, autore di alcune tra le più toccanti e misteriose composizioni di quegli anni “di mezzo”, tra il ’20 e il ’23, anni sospesi tra la vocazione all’incanto del realismo magico e la più solida partita di Novecento. Casorati non visse il travaglio dei molti cambiamenti di stile, che aveva accompagnato la maturazione per esempio dell’opera di Carrà: il suo abbandono alla figurazione composta e tradizionale fu una scelta di antica data e risaliva ancora ai primi anni Dieci, quando nel 1907 fu accettato tra gli espositori della Biennale di Venezia e poi, tra il 1913 e il 1920, fatta salva la parentesi della guerra, partecipò sempre a Venezia alle rassegne di Ca’ Pesaro. Dunque non di ritorno ma piuttosto di continuità nella cifra classica si deve parlare per questo grande autore, che nella casa-studio di via Mazzini a Torino, accoglieva come discepoli giovani artisti come Gigi Chessa, Francesco Menzio, Carlo Levi, tutti protagonisti di quel momento d’oro della vita torinese, all’incirca verso il 1923, in cui le aspettative di un’arte nuova vennero a coincidere con la poetica del realismo magico. Ma quale antico, quale classico fu invocato da questi artisti sopravissuti alla tragica, lunga parentesi della prima guerra mondiale, che cambiò le sorti e il volto del vecchio continente, aprendo la strada a nuovi nefasti destini, nei primi anni Venti, anni ancora innocenti, celati sotto le spoglie dell’utopia socialista? Non bastò all’inizio richiamare a nuova vita la gloriosa storia che aveva fatto grande l’Italia artistica del Rinascimento: i più, Carlo Carrà in testa, vollero spingersi ancora oltre, fino alle nude pendici rocciose del Monte sacro dipinto da Giotto, per recuperare all’arte contemporanea l’essenzialità narrativa della lezione esemplare di verità ed etica dei Primitivi italiani, da Giotto a Masaccio a Paolo Uccello. Modelli che divennero esempi di riflessione per la nuova poetica del realismo magico, dove proprio il silenzio magico di Giotto fu la parola d’ordine che non fece perdere la rotta nella notte buia dell’ideologia, il silenzio delle parole mute, dei luoghi senza tempo, di vite immobili e sospese, l’unica vita possibile per chi non volle misurarsi o confondersi con la retorica di Stato. La magica e immota segretezza che pervase di sé gli oggetti della pittura italiana ed europea degli anni Venti, fu espressione di valori contrari a quelli delle avanguardie, sia nell’ambito pittorico che in quello afferente il significato dell’opera d’arte, che rispose a una nuova visione dell’oggetto acquistava il valore assoluto di “simbolo profondo per contrastare l’eterno flusso mediante qualche cosa che persiste”. È questa una definizione di poetica che attribuiva alle cose animate e inanimate della pittura una funzione escatologica, vicina al pensiero di Nietzsche e Schopenhauer e in evidente contrapposizione con la filosofia bergsoniana dello slancio vitale. Lo spirito del realismo magico, cresciuto e nutrito tra il 1918 e il 1922 grazie al dibattito teorico aperto dalle pagine della rivista “Valori Plastici” diretta da Mario Broglio rivista cui contribuirono le intelligenze più vive dell’arte del tempo, da de Chirico, a Carrà, a Savinio all’incirca verso il 1923 confluì e per certi aspetti si saldò con i caratteri più austeri e composti di Novecento, che non fu un vero e proprio movimento, come del resto non lo era stato il realismo magico, ma più semplicemente una tendenza di stile. L’eterogeneità del lavoro dei pittori, che oggi si indicano come novecentisti, non consentì infatti di elaborare una poetica comune, anche se furono condivisi alcuni caratteri distintivi di uno stile che fece ricorso alla figurazione, alla fedeltà ai canoni di un naturalismo idealizzante, ad una composizione sommaria, non descrittiva, ma vigorosa nella ritrovata plastica dei volumi, ad atmosfere sospese che accoglievano forti suggestioni del realismo magico. Iconografia e caratteri stilistici di questa nuova figurazione traevano esempio da modelli del mondo classico per eccellenza, ma anche da quello già ricordato dei Primitivi italiani e soprattutto dalla lunga stagione rinascimentale e dalla sua rinascita in età neoclassica, da artisti della tempra di Ingres, ma anche dalla pittura dei fiamminghi e degli etruschi, un soggetto quest’ultimo che trovò compiuta celebrazione nell’opera di Massimo Campigli. I temi più diffusi furono il ritratto, la natura morta e l’allegoria, porta aperta tra la realtà apparente e la verità profonda delle cose. L’allegoria apparve nelle sue molteplici sembianze, da quella mitica a quella biblica, da quella implicita, celata dietro l’apparente realismo delle cose rappresentate, a quella esplicita rivolta alla poesia sommessa e raccolta del quotidiano, a quella, infine, allusiva legata ad un repertorio iconografico di simboli che riflettevano le grandi problematiche della vita e della morte, del tempo, del sacro. Novecento nacque nel 1922 da un raggruppamento di sette artisti, Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi, che si presentarono riuniti sotto quest’etichetta nel 1923 alla mostra tenutasi nella Galleria Pesaro di Milano, con gli auspici di Mussolini e la presentazione della giornalista, critica d’arte Margherita Sarfatti. Nel 1924 il gruppo “Sei pittori del Novecento” (Oppi si era isolato) si presenta alla Biennale di Venezia con un testo della Sarfatti in catalogo: scopo della mostra, così come delle esposizioni che seguiranno, alcune di grande rilievo come quelle del 1926 e del 1929, fu quello di ridare alla pittura italiana, un primato nell’ambito della ricerca artistica europea. Margherita Sarfatti, teorica del gruppo, lavorò con fede e passione per ricondurre ad unità di stile e d’intenti il lavoro dei migliori artisti italiani dell’epoca, anche allo scopo di rifondare una tradizione pittorica italiana moderna. Tenace e volitiva Margherita Sarfatti difese i caratteri di “italianità” dell’arte contemporanea, cui però non pose mai veti né vincoli, accogliendo nel suo gruppo le più disparate inclinazioni, purché rivolte all’identico progetto di sostegno e valorizzazione dell’arte nazionale. E proprio in quella direzione, di un’arte profondamente italiana, capace di rappresentare il nuovo sentimento degli artisti, attenti ad un’interpretazione in chiave contemporanea della tradizione passata, ma anche di un’arte coincidente con i nuovi valori dettati dal regime si pose la delicatissima questione del rapporto arte e politica. È delicatissimo il compito di valutare criticamente, alla luce della storia tragica del Ventennio fascista, il significato di quella affinità tra l’interesse degli artisti per i Maestri Antichi e quell’identica passione espressa dalla dittatura, che in Italia proprio sulla pittura degli Antichi costruì gran parte del proprio repertorio di simboli e vaneggiamenti, di glorie e d’eroi, mostrando nella retorica della citazione il limite della propria politica conservatrice. I rapporti tra la poetica di Novecento e il regime di Mussolini, che a Novecento diede il proprio appoggio ufficiale nel 1923 in occasione della prima mostra del movimento alla Galleria Pesaro di Milano e nel 1926 alla mostra Il Novecento Italiano sempre a Milano, è un capitolo complesso della storia artistica dell’Italia fascista tra gli anni Venti e i Trenta. E la complessità derivò proprio dall’ambiguità della relazione tra l’immaginario dell’ideologia fascista, che nella sua febbrile attività di propaganda rispolverò molti dei vecchi miti dell’Italia antica, attualizzandoli in una veste retorica e conservatrice, e la poetica autenticamente originale di quel ritorno all’ordine, che dopo l’euforia dell’avanguardia, aveva ristabilito il valore dello stile come idea, della regola come metodo di conoscenza, del classico come origine e attualità. Negli anni Trenta il disperdersi all’interno della poetica di Novecento del silenzio e dell’aura incantata del realismo magico, che lasciò il posto ad un realismo sempre più concreto e assertore di valori ideologici funzionali al fascismo, fu manifesta espressione della fine dell’autonomia dell’arte. La perdita del sogno e del principio di verità favorirono l’avvento di un nuovo corso della pittura italiana, forzatamente epico e monumentale, per molti aspetti anche glorioso nei risultati, soprattutto là dove si misurò con le grandi dimensioni degli affreschi murali di propaganda. Mario Sironi fu tra i molti che si ritrovarono a dover fare i conti con le grandi committenze pubbliche, destinate a celebrare i sogni di gloria del regime, i suoi luoghi comuni, le sue virtù.
Avvezzo ad una straordinaria e colta frequentazione dei repertori classici, frammista ad una pressoché unica capacità di governare con il suo gesto creativo la tettonica degli spazi delle grandi composizioni, il suo contributo emerse per qualità e altezza dei risultati pittorici, certo non secondi a quell’autentica vocazione magico realista, che nel corso degli anni Venti, nelle sue misteriose composizioni, come per esempio nel superbo dipinto del 1924 L’allieva, aveva offerto uno dei più significativi contributi del XX secolo alla rappresentazione della tragica melanconia dell’uomo contemporaneo. Per molti altri, invece, la concessione ad una pericolosa adulazione, trasformò il gesto creativo in una pedissequa propaganda, di segno dunque contrario ai principi di un’arte realmente libera. Non fu sempre facile nel turbinio degli eventi dell’arte del Ventennio riconoscere e distinguere la moralità dell’esercizio autentico dell’arte dall’acquiescenza al potere. Ciò avvenne principalmente per due motivi: da un lato per il fatto che in Italia la questione culturale non diventò mai una bandiera in prima linea della propaganda politica, a tutto vantaggio della circolazione delle idee dell’arte, anche di quelle non propriamente in linea con il gusto del regime, dall’altro lato perché anche là dove, come in Novecento, i temi della pittura coincisero con i nuovi miti del potere politico, questo fatto, come sopra si è ampiamente scritto, non fu se non in casi eccezionali tacciabile di consapevole connivenza ideologica. Va peraltro rilevato che l’organizzazione delle attività culturali sul territorio nazionale aveva creato nel settore artistico uno strumento molto avanzato di controllo, costituito da una rete capillare di premi e di mostre “sindacali” provinciali e regionali, i cui migliori esponenti confluivano nelle grandi manifestazioni nazionali. A queste mostre, è inutile dire, posizioni contrarie al regime non furono naturalmente ammesse, mentre furono ammesse, forse perché non riconosciute come antitetiche alla politica culturale del fascismo, molte opere che oggi si possono definire “di resistenza”, opere nelle quali gli artisti, contrari al gusto dominante di Novecento, e contrari soprattutto all’idea di un’arte di regime, manifestarono il loro disagio con una fuga nelle più svariate direzioni, dal facile ripristino della poetica del paesaggio postimpressionista, all’espressionismo di toni accesi della Scuola romana, all’astrazione geometrica dei pittori milanesi attivi attorno alla galleria del Milione di Milano, al chiarismo promosso dal critico Edoardo Persico, al Gruppo dei Sei di Torino sostenuto dal critico Lionello Venturi. In questo modo si assicurò alla vita culturale del Paese un passaggio sufficientemente ampio attraverso le more del fascismo, che solo alla fine degli anni Trenta, poco prima dello scoppio della guerra, rafforzò le proprie difese contro l’opposizione culturale, che inconsapevolmente era stata nutrita e cresciuta al suo stesso interno nel corso degli anni precedenti. Negli anni Trenta, nel clima di generale dispersione delle regole e degli indirizzi di stile, che avevano governato il fronte dell’arte novecentista, emerse dunque alla superficie, pur celata da un’apparente, innocua diversità, la fronda di chi non era stato solidale all’idea del ritorno all’ordine e aveva battuto altre strade. Molti di questi artisti trovarono ragioni comuni in una pittura calata in una sorta d’esistenzialismo capace di slanci lirici della materia e del colore, inimmaginabili per la sobria plastica di Novecento, o, ancora, sospinti verso il racconto di una visione tragica e angosciosa della realtà, cosa anche questa severamente bandita dalle serene, placide composizioni del vigoroso classicismo di Novecento. Tra i molti artisti impegnati nella battaglia per la sopravvivenza di quella voce antiformalista e anticlassica, Mario Mafai e Renato Guttuso rappresentano gli estremi di una ricerca, che per vie diverse coltivò l’identica tensione di ansia e di verità. Da un lato ci fu l’avventura della scuola di via Cavour a Roma, culla della cosiddetta Scuola romana, che ebbe come principali protagonisti tra il 1927 e il 1930 Mario Mafai, la moglie Antonietta Raphäel, e l’amico intimo Scipione. La loro storia, che iniziò con il comune apprendistato presso la Scuola libera di nudo a Roma nel 1925, si intrecciò naturalmente con quella “ufficiale”, scandagliò le possibilità dell’arcaismo, della metafisica, del classicismo, per approdare infine, in dialettica con Novecento e non come radicale opposizione, ad una pittura del tutto originale, intrisa di emozionalità dove il colore riconquistò una forte carica espressiva, aiutato dal ricorso ad un tonalismo romantico che soprattutto in Scipione e Mafai corroborava la forma di una nuova capacità evocativa, non più descrittiva e analitica ma sommaria ed enunciativa. La fine precoce di Scipione, morto nel 1933, e l’allontanamento dall’Italia di Mafai e della moglie Antonietta Raphäel, chiuse un capitolo brevissimo ma intenso dell’arte italiana, la cui eredità fu accolta e interpretata da altri artisti romani impegnati in percorsi alternativi alle strettoie del classicismo, come Cagli, Capogrossi, Melli, Ziveri. Protagonista del gruppo milanese ‘Corrente’, costituito da oltre una decina di artisti riunitisi nel 1938 attorno alla rivista “Vita giovanile”, fondata dal pittore Ernesto Treccani, fu invece il giovane Renato Guttuso, un’artista che salirà agli onori delle cronache internazionali dell’arte nell’immediato dopoguerra, per il suo rigoroso impegno culturale nella vita politica dell’Italia postfascista. Già sul finire degli anni Trenta Guttuso aveva fatto la sua scelta, proprio nella direzione anticlassica battuta da ‘Corrente’, che alla tradizione mediterranea e rinascimentale oppose una visione tutta europea, sorretta da una riflessione critica su quanto la pittura d’oltralpe aveva prodotto nella scia dell’anticlassicismo, dunque basata sul riesame dell’opera di Van Gogh, Ensor, Munch, gli espressionisti tedeschi e soprattutto di Picasso, sulla cui lezione si imposterà il lavoro di gran parte della pittura italiana alla fine della seconda guerra mondiale. Nel gruppo di ‘Corrente’ Guttuso rappresentò l’anima anti-lirica per eccellenza, che si opponeva a quel filone più incline all’espressività del colore che della forma, bene interpretato da Renato Birolli. La pittura di Guttuso fu inizialmente orientata in senso fortemente espressionista, sfuggendo ad ogni sospetto di classicità: il suo tragitto partiva da rappresentazioni nelle quali forma e colore, nell’esasperazione delle linee e dei toni, si mescolavano sulla tela come parti indistinguibili di una realtà nella quale, forse solo in misura pari alle visionarie tele di Scipione, si coagulava la ribellione alle regole e alla misura di Novecento. Agli inizi degli anni Quaranta – già dal 1937 Guttuso risiede stabilmente a Roma dove è vicino anche all’ambiente della cosiddetta Scuola romana – il suo espressionismo cede gli accenti più forti ad una più sobria figurazione, come nel caso di Figura, tavolo e balcone (1942) e Donna alla finestra (1942), opere nelle quali già si misura la sua vocazione per un realismo capace di accendere “una nuova sensibilità estetica, che andava di pari passo con una nuova coscienza sociale, che da un generico ribellismo antiborghese arrivava alla progressiva consapevolezza antifascista”. Negli stessi anni, nel silenzio di un’impresa quasi impossibile, giorno dopo giorno, ci fu chi giocò una partita assolutamente solitaria. È il caso del pittore bolognese Giorgio Morandi che rinunciò a partecipare a qualunque manifestazione pubblica e collettiva, dove l’arte fosse stata protagonista. Fu il suo un distacco dalla vita attiva, un prendere le distanze dalla politica, la dichiarazione di una propria diversità, così come diversa da ciò che si andava ricercando in Italia in quel torno di tempo, fu la sua opera, quotidianamente e quasi ossessivamente attesa allo studio e alla catalogazione delle poche, piccole cose del suo ristretto mondo domestico. Bottiglie, tazze, brocche e qualche barattolo vuoto, rimasto a decantare sul tavolo di casa divennero la ragione stessa della sua poetica, forma e contenuto della sua ricerca, tutta risolta nell’amore di un unico genere, la natura morta appunto, con qualche rara eccezione per il paesaggio. “Nel ’31 – scrive il critico Arcangeli nella monografia dedicata al grande bolognese – Morandi, torna a colare a picco, in silenzio. Modestamente, senza importunare nessuno, senza che nessuno intenda davvero, dipinge i quadri e lavora all’incisione ch’io ritengo le opere più ardite e nuove dell’Europa di quel momento. Sono i suoi soliti oggetti, ma adesso egli riprende l’indagine, tentata in profondità verso la fine del ’29 e proseguita saltuariamente nel ’30, con anche più dura, triste, accanita sapienza. Ogni opera, testimonia di un’ossessione allucinata, potente, quasi folle. Davvero, come testimonia Brandi, si potrebbe ora parlare d’attacco dissolvente all’oggetto... ma l’oggetto non cede mai... Sono i suoi ostaggi, questi oggetti di cui egli è, tuttavia, prigioniero; sono ostaggi e, sicuramente, houtes pates”. Solo un cenno ma ne vale la pena: la fine della seconda guerra mondiale azzera in Italia, come nel resto d’Europa, ogni certezza e riapre conflitti radicali tra gli artisti, tra chi è chiamato traditore e chi invece sa di non aver tradito. Ogni guerra vuole le sue vittime anche dopo la fine reale dei conflitti. In questo la cultura con le sue abiure e le sue licitazioni, con i suoi compromessi e le sue sconfessioni, sembra essere un terreno molto fertile dove si accalcano i morti, chi non ha reagito, chi non ha capito, chi non ha voluto capire, chi infine ha fortemente creduto. I vivi riannodano i fili della storia e per lo più ripercorrono il passato per ritrovare la strada. In particolare, e per la lungimiranza di un grande gallerista e critico d’arte, Emilio Bertonati , al quale la mostra in oggetto intende rendere omaggio e adeguato riconoscimento, per la sua intuizione e intelligenza critica che e stata creata a una collezione privata emblematica di capolavori del Realismo Magico, che questa mostra valorizza in maniera particolare, presentandola integralmente per la prima volta al pubblico milanese insieme ad altre opere provenienti da importanti collezioni e da Musei. Il percorso cronologico-filologico ruota intorno a capolavori italiani di questa specifica temperie, a loro volta messi in relazione con alcune opere della Neue Sachlickheit, la cosiddetta “Nuova oggettività” tedesca, che per primo Emilio Bertonati promosse e fece conoscere alla cultura italiana agli inizi degli anni Sessanta attraverso la Galleria del Levante, nelle sedi di Milano e di Monaco di Baviera. I confronti saranno anche con i caratteri del Novecento Italiano di Margherita Sarfatti, dai quali il Realismo Magico si distingue, ma con il quale condivide alcune personalità artistiche come Achille Funi, Mario Sironi, Ubaldo Oppi. In mostra vengono esposte le opere originalissime di Felice Casorati, come il Ritratto di Silvana Cenni del 1922, così come le prime invenzioni metafisiche di Giorgio de Chirico come L’autoritratto e L’ottobrata del 1924, ma anche le proposte di Carlo Carrà, con Le figlie di Loth del 1919, e Gino Severini con i suoi Giocatori di carte; tutti propongono un originale e tutto italiano “ritorno all'ordine”. Alla struttura cronologico-filologica blocco portante del percorso si innesta in alcuni punti una lettura tematica: dal ritratto alla maternità ai bambini, dai nudi femminili e l’eros al paesaggio, alla natura morta, all’allegoria.
Il Percorso della Mostra
La ricostruzione digitale della Cappella degli Scrovegni, basata su immagini in altissima risoluzione realizzate dall’Università di Padova e messe a disposizione dai Musei Civici, costituisce l’incipit della mostra
Giotto e il Novecento, un percorso che indaga la grande fortuna critica del Maestro toscano nell’arte moderna e contemporanea. Nei primi anni del Trecento, Giotto di Bondone (Colle di Vespignano, 1267 circa – Firenze, 1337) è chiamato a Padova ad affrescare la cappella privata della famiglia Scrovegni, dove realizza uno dei suoi maggiori capolavori: un ciclo di pitture sacre dedicate alle storie di Maria, di Cristo e dei santi Gioacchino e Anna che si snodano su tre livelli lungo le pareti, mentre la controfacciata rappresenta il Giudizio Universale e la volta è decorata con stelle e pianeti del firmamento. Un’opera straordinariamente innovativa per realismo, espressività e senso dello spazio, che anticipa un linguaggio figurativo che fiorirà più di un secolo dopo. La sua notorietà aumenta nel corso dell’Ottocento, grazie alla diffusione delle stampe e delle fotografie che riproducono gli affreschi giotteschi e alla sua apertura al pubblico, nel 1882, dopo che la cappella era stata acquistata dal Comune. Da allora, moltissimi artisti hanno potuto visitarla, rimanendo affascinati dal blu oltremare della volta stellata, dalle architetture e dalle figure che Giotto dipinge con un nuovo senso plastico, dall’umanità espressa dai gesti e dai volti. Nel Novecento il mito romantico di Giotto, fanciullo prodigio scoperto da Cimabue, lascia il posto a un’attenzione che si concentra sui valori formali e cromatici della sua pittura, senza dimenticare la sua intensa valenza spirituale. Attraverso sette sezioni tematiche, la mostra ripercorre la storia di un intenso dialogo con l’arte del Maestro toscano, dalla
Parlata su Giotto (1916) di Carlo Carrà alle soluzioni plastiche di Arturo Martini; dai saldi volumi delle figure dipinte da Mario Sironi e altri protagonisti della pittura murale agli spazi metafisici di Giorgio de Chirico; dalle atmosfere rurali, strettamente legate ai valori tradizionali promossi da movimenti artistici come Novecento italiano e Valori Plastici all’astrazione internazionale del secondo dopoguerra, particolarmente interessata al ruolo del colore. Più di duecento opere nelle quali possiamo rintracciare la grande lezione giottesca: la rivelazione del trascendente, la capacità di dare forma all’invisibile.
Parlare di Giotto, dipingere come Giotto
Nel 1916, in un clima ancora futurista e avanguardista, Carlo Carrà pubblica sulle pagine della rivista “La Voce” un testo intitolato
Parlata su Giotto, con cui inaugura il suo dialogo con l’arte degli antichi Maestri. Lo studio dell’arte del Tre e Quattrocento rappresenta, non solo per lui, una tappa fondamentale nella ricerca di un linguaggio moderno e, allo stesso tempo, ricco di rimandi al passato. Tra “ritorno all’ordine”, moderna classicità e primitivismo, nell’arte italiana del primo dopoguerra affiora l’eco della pittura giottesca. È ancora Carrà, nella sua monografia del 1924 edita da Valori Plastici, a sottolineare l’attualità dell’opera del Maestro toscano. I dipinti di questo periodo, come
Le figlie di Loth (1919) e
Pino sul mare (1921), sembrano aver assorbito le qualità costruttive e sintetiche dell’arte di Giotto. Anche Mario Sironi e Arturo Martini elaborano, a livello rispettivamente pittorico e plastico, un linguaggio espressivo che rimedita le atmosfere giottesche. Le monumentali figure dipinte da Sironi (
Il pastore, 1932) sono eredi del senso del volume che contraddistingue gli affreschi di Giotto a Padova e a Firenze; mentre le sue opere policentriche, come
Composizione murale (1934), dove figure e oggetti sono inquadrati da diversi punti di vista accostati o sovrapposti, ricordano anch’esse la pittura medioevale. La semplificazione di sapore arcaico delle sculture di Martini si rifà alla grande tradizione italica che dagli etruschi arriva fino all’età di Giotto. In alcune delle sue ceramiche si impone il tema dello spazio architettonico: le piccole figure sono ambientate all’interno di in una stanza, con frammenti di architettura che ricordano quinte teatrali.
Queste nuove sensibilità preparano il campo alle grandi celebrazioni del sesto centenario della morte di Giotto, culminate nella mostra del 1937 a Firenze, dove la sua arte viene assunta come modello e testimone della grandezza italiana nel passato e nel presente.
La rinascita della pittura murale
Nel 1933 Sironi redige il
Manifesto della pittura murale, sottoscritto da Carrà, Campigli e Funi, dove si afferma che “la pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull'immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura, e più direttamente ispira le arti minori.” La pittura murale dell’Italia fascista si rifà alle qualità narrative dei grandi cicli decorativi giotteschi e risponde all’intento di veicolare un messaggio ed esprimere chiaramente i valori della nuova società. Lo si può vedere negli affreschi realizzati da Sironi a Roma, nell’Aula magna dell’Università La Sapienza, alla quale si riferiscono i cartoni preparatori qui esposti, e nei bozzetti di Ubaldo Oppi, che nel 1938 partecipa al concorso per la decorazione dell’atrio del Liviano, la nuova sede della Facoltà di Lettere a Padova, intitolata allo storico romano Tito Livio. Il soggetto dell’opera è la continuità tra cultura romana e cultura moderna, un tema caro alla retorica fascista. La riqualificazione della sede dell’università, fortemente voluta all’inizio del decennio dal rettore Carlo Anti, coinvolge alcuni dei protagonisti della rinascita della decorazione murale, come Massimo Campigli, che realizza gli affreschi del grande atrio disegnato dall’architetto Gio Ponti, e Achille Funi e Ferruccio Ferrazzi che decorano, rispettivamente, la Sala di Medicina e quella di Scienze a Palazzo del Bo. Oltre all’affresco, il muralismo del ventennio riscopre l’uso del mosaico, una tecnica che si presta a decorare con forme sintetiche e colori brillanti ampie superfici e che ha nell’arte romana e bizantina i suoi esempi più fulgidi.
Tra Metafisica e Valori plastici
Se nelle opere di Carrà, Sironi e Martini si possono osservare evidenti affinità formali con la pittura giottesca, il rapporto di Giorgio de Chirico con il Maestro toscano riguarda, invece, le atmosfere metafisiche delle sue costruzioni architettoniche. Gli affreschi di Giotto nelle cappelle Bardi e Peruzzi della Chiesa di Santa Croce a Firenze sono strettamente collegati alla nascita della Metafisica. Come ricorda de Chirico, egli si trovava in quella piazza quando ebbe la visione che gli ispirò
L’enigma di un pomeriggio d’autunno (1910), un’opera che presenta elementi riconducibili alle
Storie di San Francesco della Cappella Bardi e che è la prima delle sue celebri Piazze d’Italia. In questi ambienti silenziosi e senza tempo, scanditi da portici e finestre che evidenziano le linee prospettiche, riecheggiano le “scatole spaziali” degli affreschi giotteschi. Nel saggio del 1920
Il senso architettonico nella pittura antica, scrivendo di Giotto,de Chirico sottolinea che “Tutte le aperture (porte, arcate, finestre) che accompagnano le sue figure lasciano presentire il mistero cosmico”.Questo mistero metafisico pervade anche le architetture rappresentate nei dipinti di Arturo Nathan, Renato Paresce, GianfilippoUsellini e Gigiotti Zanini, mentre i paesaggi e le figure di Carlo Bonacina, Pompeo Borra, Edita Broglio, Ubaldo Oppi, Severo Pozzati e Alberto Salietti sono accomunati da una semplificazione formale di gusto primitivista. Questi e altri artisti presenti in questa sezione della mostra fanno parte di Novecento Italiano o partecipano all’ambiente culturale di Valori Plastici, rivista fondata da Mario Broglio che anima il dibattito artistico italiano tra il 1918 e il 1922.
Atmosfere rurali
I soggetti bucolici sono assai diffusi nella pittura italiana tra le due guerre e riflettono un’idealizzazione della vita contadina e di un ambiente semplice, genuino, rassicurante, espressione di una tradizione millenaria. In questo contesto è ambientato anche il mito di Giotto, la narrazione romantica del pastorello che ritrae le pecore mostrando un innato talento al suo futuro maestro Cimabue. Secondo tale concezione, la creatività artistica sboccia naturalmente in un ambiente agreste e lo stile pittorico di Giotto viene ingenuamente interpretato come un linguaggio istintivo e popolare, adatto quindi a rappresentare soggetti di vita rurale come quelli che vediamo nelle opere di Gisberto Ceracchini, Giuseppe Gorni, Carlo Minelli, Pietro Morando. Alla sintesi e alla volumetria della pittura giottesca si ispirano, in particolare, le grandi e massicce figure dipinte da Giuseppe Capogrossi, Albin Egger-Lienz, Italo Mus e Pietro Gaudenzi, quest’ultimo vincitore del Premio Cremona, nel 1940, con il trittico intitolato
Il grano. L’artista interpreta il tema di quell’edizione del concorso artistico,
La battaglia del grano, alludendo all’autarchia agraria promossa dal regime fascista e rappresentando i contadini che zappano la terra su cui viene coltivato il cereale e le donne che portano il pane cotto nel forno del paese, frutto di un lungo e faticoso lavoro.
Sacre maternità
Nelle atmosfere rurali predilette da questi artisti sono ambientate anche scene di vita che hanno come protagoniste figure femminili portatrici di valori tradizionali, primo fra tutti quello della maternità. Sono madri contadine e popolane, come la giovane donna dipinta da Ardengo Soffici con cromie accese, che sembra venirci incontro al ritorno dai campi con il suo bambino in braccio. O come la donna vicino al pozzo, nel quadro di Pompeo Borra, dove una composizione rigorosa ed essenziale ordina le architetture, i mobili e gli oggetti come nella pittura giottesca. In queste ambientazioni spira già un’aria di sacralità che esalta il valore dell’amore materno, la dignità e la dolcezza di queste madri esemplari, tanto che esse non ci appaiono molto diverse dalle Madonne raffigurate da Egger-Lienz e Sironi. Troviamo riferimenti più espliciti all’iconografia tradizionale della sacra maternità nella
Madonna della Pace (1927) di Tullio Garbari che, con il suo tipico stile primitivista e naïf, rappresenta la Vergine seduta su un albero di mele dal tronco contorto, simile all’albero su cui Giovanni Segantini aveva collocato il suo
Angelo della vita. Intorno a lei, gli emblemi dell’Eucarestia e quelli tipicamente mariani come il giglio e la rosa nel vaso trasparente, che rimanda all’idea di purezza virginale. Anche qui l’ambientazione è agreste: all’orizzonte si riconoscono le montagne della Valsugana, terra d’origine di Garbari, una mucca che allatta e un uomo che miete il grano, rispettivamente simboli di maternità e prosperità.
Echi giotteschi tra figurazione e astrazione
La suggestione della pittura di Giotto si riconosce anche nelle opere della seconda metà del Novecento, caratterizzate da un linguaggio figurativo oppure astratto. I dipinti di Gastone Celada e Lorenzo Bonechi spiccano per il loro carattere neo-giottesco, su cui si innestano variazioni ironiche (si veda
I contrasti, 1951, di Celada) o cromatiche. Echi giotteschi si possono rintracciare anche nella purezza e nella sintesi delle forme plastiche di Fausto Melotti, con la sua interpretazione moderna ed essenziale dell’arte sacra (
Cena in Emmaus, 1933) e i suoi “teatrini” di terracotta abitati da piccole figure appena abbozzate, nonchè nelle geometrie che scandiscono i paesaggi e le nature morte di Giorgio Morandi. Infine, le opere di Giorgio Griffa e di SergePoliakoff ci introducono a una pittura che ha definitivamente abbandonato le forme della realtà ma che, non per questo, ha smesso di trarre ispirazione dall’arte antica. I colori diluiti che impregnano le tele del primo sono il frutto di una riflessione sulla tradizione dell’affresco, mentre il pittore di origini russe ha dichiarato apertamente il suo amore per la pittura medioevale, dalla quale ha tratto molti insegnamenti di carattere compositivo.
Un colore trascendente: il blu di Giotto nella contemporaneità
Parole di ammirazione nei confronti della pittura giottesca sono state spese anche da altri protagonisti dell’arte internazionale del Novecento come Josef Albers, Yves Klein, Henri Matisse, Mark Rothko. Matisse visita gli affreschi padovani in più di un’occasione nei primi decenni del secolo, riconoscendovi un’imprescindibile lezione formale. Il ritmo, il senso del colore, la composizione basata su linee e forme semplici sono caratteri fondanti di una pittura che per l’artista francese deve rappresentare soprattutto un piacere dei sensi. Tale piacevolezza contraddistingue i collage di carte colorate con cui Matisse realizza
Jazz, un libro d’artista edito da Tériade nel 1947 che ricorda il gusto per l’improvvisazione di quel genere musicale. Lo sfondo blu trapunto di stelle di una delle sue più celebri illustrazioni,
Icaro, discende direttamente dalla volta degli Scrovegni.
Il blu su cui si concentra la ricerca di Klein, invece, nasce dalla rivelazione avvenuta al cospetto di alcuni pannelli monocromi nella Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Un blu che rappresenta l’infinito: quello spazio ultraterreno sul quale si affacciano anche le tele bucate da Lucio Fontana. Un colore capace di rendere visibile l’invisibile, proprio come riesce a fare l’intera tavolozza della pittura di Rothko, con le sue campiture che sfumano l’una nell’altra dando origine a una spazialità indefinita e fluttuante. Una dimensione trascendente espressa anche dall’installazione luminosa di Turrell e dalle opere di altri artisti contemporanei che, ancora oggi, rinnovano il dialogo con l’arte di Giotto.
Museo MART di Rovereto
Giotto e il Novecento
dal 6 Dicembre 2022 al 19 Marzo 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 21.00
Lunedì Chiuso