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È un parallelo un po’ audace tra due capolavori di medesimo soggetto,
Il Compianto sul Cristo morto, su un binomio suggestivo
Giotto e
Mantegna, concepito per il mero piacere iconografico, quel piacere che sotto traccia alimenta l’interesse per la pittura rendendolo fonte, appunto, di godimento interiore e di sublimazione dello sguardo nel momento in cui si posa, privilegiato e appagato, su capolavori senza tempo.
Il soggetto del
Compianto sul Cristo morto, chiude momentaneamente il sipario sul teatro del mondo e ne apre un altro sul teatro del trascendente. L’episodio, che nella
Passione di Cristo si pone tra la
Deposizione dalla Croce e la
Deposizione nel Sepolcro, è all’apice della storia dolorosa narrata nei
Vangeli e al culmine dell’espressione drammatica rappresentata nell’arte sacra cristiana. Tra i primi artisti, a sconvolgere i canoni della pittura tradizionale di ispirazione bizantina e a tracciare icone nuove nella pittura moderna europea, è impossibile non comprendere Giotto.
Nel suo
Compianto sul Cristo morto (fig. 1) egli inaugura, sempre nel filone del soggetto sacro in esame, e non solo, un esempio che farà scuola per secoli, anche quando, col Rinascimento, il medesimo soggetto conquisterà i fasti e la gloria dei capolavori del
Beato Angelico, Botticelli, Perugino e
Raffaello, oltre che d
el Mantegna.
Restando in argomento, l’opera di
Giotto, pur continuando e amplificando a maggior gloria la tendenza pedagogica della “
Bibbia per immagini”, già presente – per esempio – nella cripta della cattedrale di
Anagni, segna nella storia della pittura – come è noto – un momento di autentica rivoluzione:
a) la sapiente, armoniosa composizione,
b) il suggestivo gioco degli incroci tra gli sguardi dei personaggi,
c) la perfetta caratterizzazione di questi,
d) la partecipazione al dolore cosmico reso con gli struggenti scorci degli angeli svolazzanti e piangenti,
e) la medesima natura, spoglia e attonita, colta nell’alberello scheletrito in cima allo scosceso pendio,
f) la resa cromatica ottenuta con tinte pastellate armonicamente comprese in

un’atmosfera tirata e sospesa,
g) la plastica maestria di panneggi sfolgoranti nella luce che si fa via via più intensa fino a raggiungere il suo
climax nel livore del corpo senza vita del Cristo,
h) 
l’espressione drammatica degli sguardi, che fa tutt’uno con
i) l’espressione gestuale del discepolo più amato
(fig. 2) e, soprattutto, degli angeli in cielo (
fig. 3), fanno di questo affresco l’icona più ammirata e in qualche modo “familiare” tra i dipinti della
Cappella degli Scrovegni.
Centro, fulcro e motore dell’intera composizione, incorniciata e come sostenuta dalle due figure rappresentate di spalle – e lì, in basso, studiatamente inserite per bilanciare i volumi di tutta la composizione – è il commovente abbraccio della Madonna colta nell’atto di avvicinare il suo viso a quello del Figlio, quasi a mo’ di affettuoso,

estremo, straziante saluto (
fig.4).
Il tutto concorre a fare di questa rappresentazione di “compianto” un’alta espressione – se così si può dire – di poesia illustrata, cioè, di poesia pittorica. Nessun’altro dipinto eguaglierà questa conquista che fa la gloria dell’arte pittorica universale, al pari del divino poema dantesco. Qualcuno vi ha pure scorto un elemento non trascurabile di fine, sensibile sentimento di “italianità” (sintomo e indice di stile universalmente riconosciuto) che pervade tutta l’opera. E ciò colma di grazia completa la coppa del piacere estetico di cui si diceva all’inizio.
Nella fitta serie di raffigurazioni di “compianti”, spicca altresì, per drammatica suggestione, il
Compianto di
Andrea Mantegna (fig. 5), che, solo per opposizione formale, si osa qui mettere a confronto con l’affresco di Giotto.
La rappresentazione corale di quest’ultimo, “popolata” da una quindicina di personaggi (volendo ingenerosamente escludere gli angeli), da Mantegna viene “costretta”, con una repentina e riduttiva zoomata, alla presenza di sole quattro figure e, con ciò, è fatta comunque salva la peculiarità del “compianto”, che tradizionalmente prevedeva la presenza di “dolenti” disposti attorno al corpo di Cristo preparato per la sepoltura.
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La trovata del Mantegna, frutto prevedibile di una volontà sperimentale nella resa di un corpo inquadrato in una tela di appena 68 per 81 centimetri, rivela una maestria prospettica impressionante: il disegno fa a rimpiattino tra quella che si designa come prospettiva centrale, con il punto di fuga al di sopra del capo del Cristo, e la proiezione assonometrica per linee parallele. Il risultato è sconvolgente: l’osservatore che si soffermi davanti al dipinto subisce l’impressione di
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trovarsi fisicamente presente davanti al Cristo morto.
Le figure a lato, anch’esse per necessità magistralmente scorciate (un’anziana Madonna, un dolente Giovanni ed una molto probabile Maria Maddalena), testimoniano lo strazio di un’umanità (per tre giorni) resa orfana del suo Salvatore: lo dicono la disperazione dipinta sul volto rigato da lacrime della Madre e lo sguardo sgomento di Giovanni
(fig. 6). La scena, più che all’interno del sepolcro o all’esterno di esso, pare collocata dentro la stanza di un obitorio: il che, all’occhio dell’osservatore moderno, rende ancora più verosimile e impressionante il quadro del dolore assoluto. Un dolore reso monocromaticamente pietroso. Dove – infatti – sono finiti i colori giotteschi? La tirannia del tempo e forse le non lodevoli imprese umane hanno reso il sentimento religioso più cupo, maggiormente rapito dalla schiavitù della morte che non dalla speranza della resurrezione: il Cristo morto diventa così, in Mantegna, emblema di ineluttabile “
finis vitae”. Nulla fa presagire la possibile conquista della beatitudine celeste, non certamente la presenza di angioletti seppur disperati, non il colorito del cielo seppur tempestoso: il vibrante sentore di Giotto appare ormai paludato da uno scettico presentimento di incommensurabile crisi.