A Roma, la Maison FENDI (Matrice, 22 gennaio – 16 lugio 2017, Palazzo della Civiltà Italiana) e la galleria di Larry Gagosian (Equivalenze, 27 gennaio – 15 aprile 2017) celebrano contemporaneamente Giuseppe Penone con due mostre dal carattere assai sofisticato.
Sofisticato – e l'accezione del termine vuole essere tutta positiva – è il lavoro di Penone, sofisticati sono gli spazi espositivi che ospitano entrambe le mostre, sofisticato è l'approccio curatoriale, deciso ma impalpabile.
 
Mi piacerebbe scrivere di entrambe le mostre trattandole insieme. Questa volontà nasce dal fatto che il lavoro di Giuseppe Penone è dotato, dai lontani esordi tra le braccia dell'Arte Povera fino a oggi, di una stringente coerenza. Mi piacerebbe quindi partire, per stabilire un filo in grado di accomunare senza assimilare le due esposizioni romane, dall'opera più vecchia in mostra da Fendi, Rovesciare i propri occhi, del 1970. Si tratta di un'opera che è sia performance sia autoritratto, in cui l'artista indossa un paio di lenti a contatto specchianti con le quali riflette nel suo sguardo il paesaggio. È una fotografia in bianco e nero, qui replicata per sedici volte, inquietante perché l'artista ha un aspetto quasi alieno eppure tanto umano. Ne deriva una figura enigmatica che evoca memorie antiche e un poco tragiche: Penone, in comunione con una natura di cui il suo sguardo si fa specchio, diventa un oracolo cieco e, per definizione, misterioso, che non vede nulla o forse vede tutto, una figura totalmente sospesa.
 
Dalla seconda metà degli anni sessanta, il lavoro di Penone stabilisce un rapporto complesso e duraturo tra l'uomo e la natura e tra il tempo, l'uomo e la natura. L'artista usa il proprio corpo e altri materiali, anche artificiali e prettamente scultorei, per intervenire sulla natura, in particolare sugli alberi e sui corsi d'acqua. E qui, forse, può iniziare a biforcarsi, salvo poi saldarsi ancora da qualche parte, il percorso delle due esposizioni.
 
Matrice, allestita nell'headquarter della Maison FENDI, al pianterreno del Palazzo della Civiltà Italiana e curata da Massimiliano Gioni, presenta diciassette opere dagli anni settanta a oggi. L’esposizione dialoga volutamente con gli spazi del Colosseo quadrato: nelle architetture monumentali e metafisiche dell'edificio sono installate una serie di opere che contrappongono alla geometria degli ambienti e al rigore dei materiali un senso della materia e della forma intese come entità vive e organiche.

"Archeologia e rovine, storia e cultura sono presentate in queste opere come una sorta di seconda natura. È una sintesi profonda tra il passare del tempo naturale e quello umano, nel quale – per la prima volta nell’opera di Penone – si scorgono anche memorie romantiche e nostalgie di antiche civiltà perdute".
Queste parole di Gioni fanno venire in mente opere quali Ripetere il bosco (1969-2016), ma soprattutto Foglie di pietra (2013), una serie che combina elementi naturali, blocchi di marmo scolpiti come capitelli e colonne antiche, quasi a suggerire paesaggi di rovine e frammenti di storia riconquistati dalle forze della natura. Ma questa natura che riconquista è contenuta in uno spazio tutto umano e assolutamente inglobante.
La stessa spettacolare opera che suggerisce il titolo della mostra, Matrice (2015), mette in scena il rapporto – inevitabile ma, anche in questo caso, comunque un po’ tragico, tra la natura, il tempo e l'uomo. Si tratta di una scultura lunga trenta metri in cui un tronco d'abete è stato scavato seguendo un anello di crescita, portando così in superficie il passato dell'albero, la sua storia e le sue trasformazioni attraverso il tempo. Nel tronco è incastonata una forma di bronzo, forma tutta artificiale che può ricordare la sezione di un qualche organo umano sostituito da funzionalità meccaniche e che pare raggelare il flusso di vita della natura.

‘Gli alberi ci appaiono solidi, ma se li osserviamo attraverso il tempo, nella loro crescita, diventano una materia fluida e plasmabile. Un albero è un essere che memorizza la sua forma e la sua forma è necessaria alla sua vita, quindi è una struttura scultorea perfetta, perché ha la necessità dell'esistenza’. Quest’affermazione di Penone sembra fatta apposta per Abete (2013), una grande scultura alta più di venti metri e installata di fronte al Palazzo della Civiltà Italiana che, seppure esile al confronto con la solida monumentalità del palazzo, conferisce una dimensione più naturale e viva alle geometrie astratte dell'architettura dell'Eur.

Una serie di opere in mostra, Spine d'acacia – Contatto (2006), Essere fiume (2010) e Soffio di Foglie (1979), fanno da ponte con la serie delle Equivelenze esposte da Gagosian. In Soffio di foglie, ad esempio, il corpo dell'artista è presente come un calco – effimero – impresso su una pila di foglie di mirto. Nella ricerca artistica di Penone, infatti, il corpo è descritto solo ed esclusivamente attraverso tracce, impronte digitali, orme e impressioni. Il corpo è presenza di un’assenza manifesta, è impalpabile.
 
Nella serie delle Equivalenze, l’artista impiega la scultura per rivelare le corrispondenze tra il corpo umano e la natura. Secondo Penone la scultura origina da impulsi primari – al limite tra il gioco infantile e la ricerca filosofica – come riempirsi la bocca con dell’acqua o imprimere un segno sull'argilla con le mani impastate di colore. Forme di terracotta modellate nel pugno dell'artista contengono l'impronta della sua energica presa. Penone le ha fissate su piastre di metallo dove l'ossidazione riproduce il contatto della pelle con la superficie dando vita a una vivace astrazione dai toni vegetali.
 
Ma il supporto metallico non arriva a emergere e finisce per arretrare – anche se lo splendido video Ephemeris c’illustra che esso non è da considerarsi alla stregua di una trina, ma di una lastra d’impressione. Sono le impronte, il loro esser parti di un tutto non dato ma solo immaginato a emergere alla percezione, non solo visiva ma anche potenzialmente tattile. L’impronta nell’arte contemporanea, al limite tra la tautologia e la ricerca filosofica, veicola un’ambiguità irrisolvibile. Da Duchamp (Whit my tongue in my cheek, 1959), passando per Jasper Johns (Painting bitten by a man, 1961) e Bruce Nauman (Wax Impressions of the Knees of Five Famous Artists, 1966), l’impronta materializzata del corpo umano o di una sua parte rimane una presenza misteriosa, ambigua.

E ciò vale anche per Penone, che si parli di Rovesciare i propri occhi (1970) o delle Equivalenze. Al centro della sala ovale della galleria ci sono due sculture per le quali l’artista ha realizzato dei calchi in gesso di alcune parti di un albero, facendone poi una fusione in bronzo. Esse sembrano, in qualche modo, risolvere – forse solo apparentemente – l’essenza ambigua dell’impronta. Dalle radici emerge una spirale antropomorfa di corteccia che si trasforma in figura di fronte alla sua controparte vegetale, in un'equivalenza di forme tra il negativo dell'albero e il negativo della persona. Nelle sue mani la forma umana viene liberata dall'albero e l'albero, a sua volta, rivela i tratti viscerali del corpo. Trattando sia la forma umana sia l’albero come una corteccia sfogliata, Penone salda un legame – esile e precario, ma pur sempre un legame – tra l'essenza della natura e la percezione del gesto umano.

di

Giorgia TERRINONI                            Roma 29 / 1 / 2017