Giovanni Cardone agosto 2024
Fino al 2 Febbraio 2025 si potrà ammirare alla Galleria d’Arte Moderna Roma la mostra L’estetica della deformazione. Protagonisti dell’espressionismo italiano a cura di Arianna Angelelli, Daniele Fenaroli e Daniela Vasta. L’esposizione è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con la Collezione Giuseppe Iannaccone di Milano. A cura di Arianna Angelelli, Daniele Fenaroli e Daniela Vasta. Organizzazione Zètema Progetto Cultura. Con il contributo tecnico di Open Care – Servizi per l’Arte. Una delle stagioni più originali della cultura artistica italiana della prima metà del XX secolo è rappresentata dall’espressionismo degli anni Venti-Quaranta che, pur sviluppato in gruppi più o meno definiti e longevi, ha apportato alla ricerca artistica un contributo di fondamentale rilievo. Gli artisti in mostra sono : Afro, Arnaldo Badodi, Mirko Basaldella, Renato Birolli, Domenico Cantatore, Bruno Cassinari, Gigi Chessa, Filippo De Pisis, Lucio Fontana, Nino Franchina, Nicola Galante, Renato Guttuso, Carlo Levi, Mario Mafai, Giacomo Manzù, Marino Mazzacurati, Roberto Melli, Francesco Menzio, Ennio Morlotti, Fausto Pirandello, Antonietta Raphaël, Aldo Salvadori, Aligi Sassu, Scipione (Gino Bonichi), Emilio Sobrero, Luigi Spazzapan, Filippo Tallone, Fiorenzo Tomea, Arturo Tosi, Ernesto Treccani, Italo Valenti, Emilio Vedova, Alberto Ziveri. Questi artisti sono stati i protagonisti dell’espressionismo italiano alla Galleria d’Arte Moderna riflette su alcune delle più importanti personalità che, in percorsi individuali o in seno a gruppi codificati, hanno declinato nell’Italia degli anni Venti-Quaranta la proposta di un linguaggio spiccatamente antiaccademico, incentrato sulla trascrizione del dato soggettivo interiore, un colore antinaturalistico e ribelle, un’idea di forma deviante rispetto al canone “classico” di bellezza. Per questi artisti non è importante la rappresentazione asettica delle cose, la mera “trascrizione” del dato percepito dai sensi, ma piuttosto l’esternazione delle proprie visioni interiori, la “interpretazione” di quel dato. Espressionismo deriva dal latino exprim?re, composto da ex e prem?re, cioè, premere fuori, spremere, esternare attraverso il filtro soggettivo. Su questa base ecco che i ritratti non tendono più verso l’esattezza fotografica, che sul paesaggio si deposita uno sguardo inquieto e la città diventa scenario di visioni allucinate e oniriche, mentre gli oggetti delle nature morte sembrano metafore enigmatiche. Forme deformanti e colori ribelli, aggressivi e spregiudicati, offrono alle idee un adeguato strumento linguistico. Grazie al dialogo fra la collezione della Galleria d’Arte Moderna, le opere provenienti da altre collezioni capitoline (Musei di Villa Torlonia, Casa Museo Alberto Moravia) e le opere provenienti dalla prestigiosa Collezione Giuseppe Iannaccone di Milano, mai esposta nella Capitale, sarà possibile ripercorrere la variegata realtà dell’espressionismo italiano, con particolare riferimento alle personalità e ai gruppi che hanno avuto come centro d’azione le città di Roma, Milano e Torino. Saranno presenti anche le due più recenti acquisizioni della Collezione Giuseppe Iannaccone e cioè gli oli su tela, entrambi del 1929, Nudo sdraiato di Gigi Chessa e Figura in blu (e vaso verde) di Francesco Menzio. La Collezione Giuseppe Iannaccone, specializzata non solo nell’arte contemporanea ma anche nell’arte italiana fra le due guerre, è unica nel panorama italiano e internazionale: nata dalla passione collezionistica di Giuseppe Iannaccone, la raccolta illustra la stagione dell’espressionismo italiano degli anni Venti-Quaranta, con una predilezione, cioè, per quei gruppi che hanno costruito una proposta artistica “neoromantica” alternativa e successiva alla stagione neo-classica del Novecento sarfattiano e di Valori Plastici. In una mia ricerca storiografica e scientifica sull’espressionismo italiano che poi diviene stagione neo-classica apro il mio saggio dicendo : Alla metà del secondo decennio del XX secolo in tutta Europa, quasi in coincidenza cronologica con alcuni dei più trasgressivi movimenti dell’avanguardia, e per mano di artisti che di questi movimenti erano stati parte attiva, dal cubismo al dadaismo, dall’espressionismo al futurismo, soffiò il vento di un nuovo classicismo, annunciato da opere diventate simbolo di quell’inversione di linguaggio, o, meglio sarebbe dire, di quella conversione “al concreto, al semplice, al definitivo” di cui parlerà alcuni anni più tardi Margherita Sarfatti, la teorica del Novecento italiano. Partendo proprio dalla figura ella era una grande letterata è fu la prima donna in Europa ad occuparsi di critica d’arte, dimostrando versatilità e competenza. Tuttavia oggi viene comunemente ricordata soprattutto perché, pur provenendo da una famiglia ebrea, ella 1910 divenne l’amante di Benito Mussolini pianificandone la politica culturale fino alla svolta delle leggi razziali, quando per lei divenne opportuno espatriare. In realtà, per quanto contraddittoria, la vicenda umana e professionale della Sarfatti non merita le facili riduzioni. Come altri personaggi del suo tempo, la Margherita Grassini sembra attratta in modo ricorrente dai percorsi contrastati e fiammeggianti di passioni, sotto alcuni aspetti dimostra il suo impegno contro la discriminazione sessista, scrivendo e finanziando dei periodici femministi, sotto altri aspetti evidenzia una tendenza a misurarsi soprattutto con il modello di successo maschile, rappresentato prima dal padre, poi dal marito, da Mussolini e persino da alcuni artisti con cui in tempi diversi instaura una relazione sentimentale. Margherita si muove spesso su un crinale di improbabili equilibri che nel periodo di impegno socialista scrive sull’Avanti, e si batte per l’uguaglianza, tuttavia non riesce a rinunciare al lusso e ai privilegi di casta, tanto che di frequente viene criticata dalla sua stessa cerchia. Scrive sul periodico ‘Unione femminile’ e collabora fino al 1915 alla pubblicazione ‘La difesa delle donne lavoratrici’, frequenta la Kuliscioff, ma il suo emancipazionismo naufraga di fronte al mito dell’uomo-guida, dell’amour fou a cui immolarsi. Margherita si forma sugli scritti di John Ruskin, legge Marx, Turati e Anna Kuliscioff. Nel 1898 sposa giovanissima, a dispetto della famiglia, un avvocato socialista da cui avrà tre figli, lui che aveva tredici anni più di lei, imposta il matrimonio in modo libertario. Si impantana per quasi vent’anni nella relazione con Mussolini, anche lui sposato ma geloso al pari di lei. Animata da uno spiritualismo tormentato e segnato tra l’altro dal suicidio di una sorella Margherita esita tra la fede ebraica e il cattolicesimo, a cui si converte nel 1928. La Margherita Grassini Sarfatti  trasforma anche la propria visione politica, inizialmente affine al socialismo, in un convinto nazionalismo e progressivamente si coinvolge nell’avventura fascista. Appoggia il regime, ma discute con Mussolini a proposito dei gerarchi in ascesa, che lei considera volgari e pericolosi. Il rapporto con lui attraversa alti e bassi, finché si deteriora ed entra in piena crisi la Sarfatti fugge quando vengono approvate le leggi razziali e ritorna solo alla fine del conflitto mondiale, per trascorrere gli ultimi anni lontana dalla ribalta a cui era abituata. Gli scritti e le testimonianze concordano sulla poliedrica intelligenza di Margherita e sulla vastità della sua cultura, la Grassini cresce in una famiglia veneziana assai agiata e dispone di maestri eminenti, sensibile intenditrice d’arte, condivide con il marito Cesare il desiderio di una vita sociale più vivace perciò nel 1902 si trasferisce con lui a Milano, dove dà vita ad un salotto frequentato dai più promettenti artisti del momento e guida iniziative culturali importanti. Conosce quattro lingue e incontra personalità di fama dal futuro pontefice Pio X, alla regina Elena di Savoia, a Guglielmo Marconi, a Joséphine Baker e si circonda di numerosi artisti e letterati  tra cui Ada Negri, Fogazzaro, Marinetti, Shaw, Cocteau, D’Annunzio, Prezzolini, Palazzeschi, Panzini, scultori e pittori del calibro di : Adolfo Wildt, Arturo Martini,Sironi, Marussig, Carrà, Russolo, Boccioni e degli architetti Sant'Elia e Terragni. L’incontro anche sentimentale con il giovane Mussolini avviene nel 1912 su posizioni socialiste, da cui entrambi si allontanano in quanto interventisti per fondare Il Popolo d'Italia, ma la realtà della Prima Guerra Mondiale è durissima, nel 1918 muoiono al fronte anche ragazzi come il  figlio di Margherita in questa fase gli ideali di sacrificio e dedizione patriottica che avevano animato il figlio non vengono messi in discussione dalla Grassini, ma anzi diventano un riferimento consolatorio per lei, che in seguito pubblicherà un volume in versi dal titolo ‘ I vivi e l'ombra’, dedicato al figlio. Morto il marito nel 1924 Margherita accompagna in modo sempre più scoperto l’affermazione di Mussolini e del partito esperta organizzatrice di eventi, collabora al piano della marcia su Roma, agli scritti teorici del fascismo e in pieno regime assume anche incarichi istituzionali. Probabilmente la Grassini, forte della stima di cui gode già da tempo a livello internazionale per i suoi scritti, è convinta di poter guidare le scelte politico-culturali del regime e sottovaluta la progressione del clima antisemita. Infatti, sulla questione ebraica Mussolini cambia nel tempo la sua posizione, passando da una iniziale tolleranza all’assunzione piena del modello nazista. Anche rispetto alla donna che lo sostiene egli muta atteggiamento, pur apprezzandone la bellezza la definisce avara e sordida, secondo uno stereotipo collaudato dalla propaganda fascista nel descrivere gli ebrei. Eppure il duce ha ricevuto da Margherita grande sostegno economico oltre che morale. Anche il miglior biglietto di presentazione ai governi stranieri gli giunge dalla Sarfatti che nel 1926 la scrittrice pubblica ‘Dux’, la biografia mussoliniana che adula il capo e lo descrive vitale, spregiudicato, sensuale e aggressivo, energico portatore di ciò che viene indicato come spirito italico, con la sua consueta padronanza della scena, Margherita presenta il libro negli USA assicurandogli un enorme successo. Finché Mussolini è impegnato nella prima organizzazione dello Stato fascista, la Grassini ha notevole spazio probabilmente sono sue alcune parole chiave della propaganda fascista, come fascio e duce, è sua la mistica della romanità resuscitata dal fascismo, è lei a rendere credibile all’estero l’immagine del duce. Il desiderio mussoliniano di grandezza si arma della competenza di Margherita, che intende correggere il cattivo gusto dell’estetica fascista e assumere il ruolo di musa e mediatrice. Del resto Margherita è un’autorità nel campo dell’arte, e da sempre ama valorizzare i talenti orchestrandone la riuscita, incoraggia e protegge i giovani artisti con Umberto Boccioni ed Emilio Notte ha avuto anche brevi relazioni, persegue il disegno di una nuova società in cui l’arte sia sovrana. La sua visione mescola esaltazione spirituale e residui risorgimentali, spirito pedagogico e individualismo in questo quadro gli artisti sono determinanti per la costruzione del futuro. Tra le due guerre l’arte europea, accantonando l’impeto destabilizzante delle Avanguardie, è pronta a rivalutare il realismo classico, in Italia Margherita Grassini Sarfatti auspica appunto un ritorno al classicismo. Con entusiasmo dà corpo al suo progetto, che intende coniugare la modernità con la monumentalità del Rinascimento. Infatti, nel 1922 fonda il gruppo noto come Novecento, al quale inizialmente aderiscono sette pittori A. Funi, P. Marussig, L. Dudreville, E. Malerba, M. Sironi, U. Oppi e A. Bucci; alcuni di loro se ne allontanano presto per timore di essere strumentalizzati, ma il gruppo si ricostituisce nel 1926 con il nome di Novecento Italiano e raccoglie, data la protezione assicurata dal regime, un numero assai alto di adesioni. Nonostante le pressioni di chi vuole ridurre la cultura a semplice strumento di regime, per qualche tempo la Sarfatti riesce a mantenere questa iniziativa lontana dai toni più volgarmente propagandistici, tenendo fede alle motivazioni artistico culturali che la animano. Negli anni successivi la Grassini si interessa all’architettura razionalista, privilegiando progettisti volti al contemporaneo come Terragni, Figini, Michelucci e Pollini. Proprio al giovanissimo Terragni, di cui capisce e protegge il talento, Margherita commissiona il monumento funebre per il figlio Roberto, ignorando altri professionisti più in vista, ma non ugualmente radicali. Inoltre promuove la valorizzazione delle arti applicate con il fine di coniugare modernità e tradizione, rinnova la Biennale di Monza e istituisce la Triennale di Milano, facendovi costruire il Palazzo dell'Arte. Sebbene aspiri a raccogliere in Novecento l’intera ultima produzione artistica italiana, Margherita è comunque aperta a tutti i fenomeni emergenti e interessata alle differenze estetiche ma nel frattempo il Ministero della cultura si trasforma in un rissoso centro di potere, da cui le arrivano attacchi sempre più numerosi. Mentre all’estero le finalità artistiche di Novecento riscuotono grande successo, in Italia alla Sarfatti viene meno buona parte degli appoggi.
L’emarginazione di questa lucida intellettuale coincide in architettura con l’adozione da parte del regime di un freddo e retorico stile littorio, ben lontano dalla sobrietà formale del razionalismo. Il tentativo grassiniano di dare al fascismo una piattaforma ideale ormai è diventato ingombrante, Margherita non concorda con le imprese coloniali, non approva l’intensificarsi dei rapporti con la Germania nazista, si scontra con l’ostilità di gerarchi avidi e senza scrupoli come Farinacci e Starace e nel contempo percepisce la perdita di interesse nei suoi confronti da parte di Mussolini. Nel 1938, di fronte al clima così mutato, la Sarfatti fugge all’estero; la sua famiglia invece vive in pieno le vicende del totalitarismo antisemita, tanto che una sorella Nella Grassini Errera rimarrà vittima del lager ad Auschwitz. Margherita soggiorna prima a Parigi dove frequenta tra gli altri Jean Cocteau, Colette e Alma Mahler e infine si stabilisce in Sud America, dato che il suo desiderio di essere accolta negli USA non ha trovato risposta. Ritorna in Italia alla fine della guerra e nel 1955 riesce a far stampare una autobiografia dal titolo ‘Acqua Passata’, dove il rapporto con Mussolini è quasi ignorato. Resta invece inedito a lungo il primo manoscritto delle sue memorie intitolato ‘Mea culpa’, pubblicato solo post mortem con il titolo My fault. Negli ultimi anni Margherita si isola nella sua villa di Cavallasca, vicino a Como, dove morirà nel 1961.  L’interesse per l’arte oppure per le ‘arti’ nasce precocemente  e si esprime compiutamente in occasione dell’Esposizione Internazionale di arti decorative e industriali moderne tenuta a Parigi nel 1925 e delle Biennali di Monza e poi le Triennali di Milano, occasioni cui ella partecipa direttamente. I suoi interventi in questi ambiti sono stati oggetto di studi specifici ad opera di storici delle rispettive discipline pur tuttavia, ho deciso di riportarle in questo saggio per meglio capire la sua figura di Critico d’Arte e di donna ed i vari movimenti artistici che hanno caratterizzato il primo novecento. Come non ricordare il “ritorno a Ingres“ di Picasso, con la serie dei piccoli disegni naturalistici e dei ritratti di Ambroise Vollard e di Max Jacob, dipinti dal pittore spagnolo verso il 1915, testimonianza di uno dei “ritorni” più celebri della storia dell’arte del ’900, o quello altrettanto significativo del pittore italiano Gino Severini, che nel 1916 dipinse “in una forma semplice che rammenta i nostri primitivi toscani” il Ritratto di Jeanne e La maternità? Ma quale fu la pittura che deviò il suo corso nel nuovo classico del ’900? Secondo Franz Roh, il teorico tedesco del realismo magico, tutta la migliore pittura europea, dal cubismo al futurismo, all’espressionismo, fu interessata da questo “ritorno all’ordine” e la maggior parte degli autori che avevano propugnato le tesi dell’avanguardia si ritrovarono verso la fine del secondo decennio del secolo a ripassare la lezione degli antichi maestri. Nell’elenco delle tendenze realiste comparse tra la fine dei secondi anni Dieci e i primi anni Venti, Roh cita il naturalismo di Derain, il purismo di Ozenfant e Janneret, il classicismo di Valori Plastici, la scuola di Rousseau, il verismo di Dix e Grosz, il nuovo linearismo di Beckmann e Hofer. All’origine di questa sorta neo figurativa, che attribuiva alla pittura una funzione ermeneutica della realtà profonda attraverso lo studio delle apparenze, stava l’idea del ritorno inteso non come reazione all’avanguardia, bensì come richiamo dell’antico e del classico alla contemporaneità. Scriveva nel 1988 a questo proposito Jean Clair, in un importante saggio dedicato al realismo magico, che il ritorno della pittura a schemi saldamente legati alla tradizione antica era da considerare “insito nella vita stessa delle forme”: “Non il ritorno automatico, passivo e nostalgico ai valori sicuri del passato, bensì l’espressione ansiosa, dopo il decennio frenetico che la storia dell’arte aveva attraversato fra il 1905 e il 1915, del bisogno di fondare l’arte del dipingere su basi più solide e più stabili”. Che non si fosse trattato di un “ritorno” inteso come restaurazione di uno stile antico, contrapposto al linguaggio delle avanguardie del primo Novecento, lo dimostra l’ampio dibattito critico, vivacissimo soprattutto in Italia e in Germania, attorno alla definizione della parola classico, da non intendersi, come spiegava il letterato italiano Massimo Bontempelli, come una determinazione di tempo, bensì come una categoria spirituale: “classica – scriveva infatti Bontempelli, profeta della ‘fine dell’avanguardia’ – è ogni opera d’arte che riesca ad uscire dal proprio e da ogni tempo”. I critici letterari che si occupano della produzione letteraria di Bontempelli, adoperano di solito il termine “realismo magico” per definire i tratti tipici del suo stile letterario. Comunque, occorre rendersi conto del fatto che nelle opere di Bontempelli possiamo individuare sia elementi tipici proprio per il realismo magico sia elementi che rivelano l’ispirazione da altre correnti letterarie. La produzione bontempelliana quindi non può essere definita nei limiti di un solito filone letterario, ma si tratta piuttosto di un risultato dell’influenza di vari movimenti letterari, artistici e filosofici del tempo. Siccome la presente tesi si occupa dei racconti di Bontempelli scritti negli anni ‘20 e ‘30, nei quali l’influsso del realismo magico sulla produzione dello scrittore prevale sulle altre tendenze, è opportuno soffermarsi proprio su questo argomento. Lo scopo di questo capitolo è perciò quello di provvedere uno sfondo teoretico necessario per poter affrontare l’opera letteraria dello scrittore. Si propone di definire il termine realismo magico e di individuare i tratti tipici di questo filone letterario, confrontandolo con altri filoni letterari che manifestano tratti simili. Inoltre, ci si concentra sulla concezione del realismo magico di Bontempelli, delineando i suoi concetti più significativi. Esaminando l’espressione “realismo magico”, si può notare che si tratta di una sorta di ossimoro che unisce due elementi semanticamente in contrasto - da una parte il sostantivo “realismo” che si riferisce a situazioni e ambienti reali, e dall’altra l’aggettivo “magico” che viene associato con il mondo fantastico e immaginario. Tra i tratti tipici del realismo letterario appartengono l’ambientazione precisa, i protagonisti comuni e la rappresentazione fedele della vita dei personaggi. Gli autori quindi cercano di raffigurare la realtà quotidiana, creando nei lettori la sensazione che raccontino fatti veri. Dal punto di vista della forma, la narrativa tende a seguire l’ordine degli avvenimenti senza sperimentazioni stilistiche o formali, facendo continuamente il riferimento al reale. Il termine “magico”, invece, viene spesso usato per riferirsi a eventi straordinari, soprannaturali e inverificabili. Così, nella narrazione si trovano temi e situazioni inconsueti che si intrecciano e si oppongono con gli schemi tradizionali usati nel realismo. Il termine “realismo magico” è quindi una sintesi di due termini opposti che costituiscono un legame tra il mondo reale e fantastico. In altre parole, si parla del realismo magico quando gli elementi magici appaiono in un contesto realistico. Il termine “realismo magico” è per la prima volta utilizzato nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh per descrivere lo stile particolare del gruppo dei pittori tedeschi appartenenti al movimento artistico “Nuova Oggettività”.  Gli artisti appartenenti a questo movimento cercano di esprimere l’orrore e il caos della guerra, ma i loro dipinti sono privi di ogni sentimentalità. Per di più, nella loro concezione della realtà sono notevolmente influenzati dal pittore italiano Giorgio De Chirico, esponente principale della corrente artistica che si chiama “La Pittura metafisica”. Tra i caratteri fondamentali della produzione di De Chirico appartengono per esempio le prospettive multiple, l’assenza dei personaggi umani, le scene che si svolgono nei posti isolati e l’atmosfera inquietante, tutto ciò suscita la sensazione di solitudine e straniamento. Dunque, i dipinti metafisici raffigurano oggetti ed eventi che fanno parte della realtà quotidiana, ma li presentano da prospettive diverse, creando una sensazione del mistero e della meraviglia. A differenza del realismo magico letterario, nella pittura non troviamo gli elementi magici o fantastici inquadrati esplicitamente nella rappresentazione della realtà, ma si tratta piuttosto di una visione del mondo attonita, come se la realtà fosse vista attraverso un obiettivo misterioso. Successivamente, il realismo magico è associato con il realismo insolito degli artisti come Ivan Albright, Paul Cadmus e George Tooker che fanno parte del gruppo di pittori americani attivi negli anni ‘40 e ’50. Quanti dipinti si potrebbero considerare delle vere e proprie opere che fanno parte di quel rinnovamento che, in opposizione ai linguaggi delle avanguardie, allo scorcio del secondo decennio del secolo tornarono a parlare l’antica lingua dei grandi maestri primitivi italiani, di Giotto, di Piero della Francesca e di Paolo Uccello, alcuni addirittura ritrovando nuove suggestioni nel mito delle culture arcaiche e primitive, così come magistralmente rilette da Picasso il volto più dionisiaco dell’arte contemporanea, in alcuni tra i suoi più incredibili dipinti degli anni Dieci, primo fra tutti Les demoiselles d’Avignon? Un sintetismo primitivo, che aveva appassionato anche il giovane Amedeo Modigliani, quando giunse a Parigi nel 1906, e aveva messo alla prova, suppergiù negli stessi anni, un po’ tutta l’avanguardia, da Apollinaire a Marie Laurencin, da Delaunay a Vlaminck, da Brancusi a Max Jacob, da Picasso a Max Weber, che nel culto delle antiche civiltà nere, ma soprattutto nell’opera incorrotta e profondamente ingenua del Doganiere Rousseau, colsero l’esempio più alto del realizzarsi, nell’attualità della storia contemporanea, di una nuova, perfetta congiunzione di forma, verità e simbolo. E proprio a Rousseau va dato merito se rimase accesa nell’arte europea del XX secolo una fiamma di naïvetè arcaica ed innocente, capace di alimentare il cuore di molti artisti moderni, dai già citati Picasso, Derain, Max Weber, all’italiano Carlo Carrà, che per questa via, spenta la passione futurista e non ancora domata quella metafisica, ritroverà, verso il 1915, i caratteri distintivi di una “pittura dell’origine” sua propria, animata da suggestioni e motivi che richiameranno a nuova vita non solo la tradizione arcaica dei pittori primitivi del Trecento e Quattrocento ma anche la forza perduta del simbolo. In Carlo Carrà il ricordo della figurazione primitiva di Rousseau diventerà l’allegoria del Fanciullo prodigio, un dipinto del 1915, in cui si è voluto acutamente ravvisare una sorta di ritratto dell’Artista, di colui che attraverso la sofferenza dell’età adulta ha ritrovato la fanciullezza e nella fanciullezza ha riabbracciato il prodigio della Meraviglia, lo sguardo incontaminato della purezza. Nello spazio senza tempo, dove viaggia La carrozzella, dipinta da Carrà nel 1916 o nel primitivismo scarnificato ed enigmatico di I romantici, sempre del 1916, si compie la brevissima ma intensa stagione del primitivismo italiano, che volgerà da queste premesse, verso l’affermazione di quella che il grande critico e storico dell’arte tedesca Wilhelm Worringer, proprio riferendosi all’opera di Carrà, nel 1921 definì “la misura classica dell’arte europea”. Se per la maggior parte degli artisti europei il ritorno alla figurazione coincise con un atto di rinuncia dei postulati teorici e formali delle dottrine dell’avanguardia, ci fu anche chi, come il grande pittore italiano di origine greca Giorgio de Chirico, sulla strada del classico aveva da sempre indirizzato la propria ricerca. Il pittore greco dal volto d’Apollo, padre della Metafisica, aveva fatto la sua scelta fin dai tempi della giovinezza, quando, negli anni di Monaco, aveva adottato come suoi maestri ideali Bòcklin e Klinger, e aveva trovato conferma alla sua idea di moderno nella scultura antica e nelle regole dell’arte italiana del Rinascimento. Fedele ai propri convincimenti, che gli fecero abbracciare da subito la strada di una figurazione classica, de Chirico, fin dall’inizio attese alla vita segreta delle cose e tentò di rappresentarla nelle sue prime composizioni metafisiche, all’incirca a partire dal 1910, sebbene l’anno ufficiale di nascita della Metafisica va ricondotto dal 1917, quando nella città di Ferrara, lì giunti per diverse ragioni, si incontrarono e ne condivisero le formulazioni di poetica Carlo Carrà, il più giovane Filippo de Pisis, Alberto Savinio, fratello di de Chirico e lo stesso de Chirico, che alla metafisica aveva da tempo dedicato il suo cuore e la mente. Come dice lo stesso De Chirico dalle pagine di “Valori Plastici”: “Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile, ci vorrà tempo e fatica”, tuonava Giorgio de Chirico alla fine del 1919 sulle pagine di “Valori Plastici”, ad un anno dalla prima uscita della rivista diretta da Mario Broglio. Quel processo di “restaurazione” dei valori formali che si era avviato nelle arti figurative in tutta Europa nell’immediato primo dopoguerra trovò espressione in Italia in questa rivista, luogo di convergenza e di confronto delle forze più vive dell’arte e della critica di quegli anni. Sin dal primo numero ospitò sulle sue pagine i nomi più diversi di critici e artisti, provenienti da situazioni culturali talvolta contrastanti. Comune era però l’asserzione della crisi della modernità, così come era stata espressa nell’esperienza dell’avanguardia e la ricerca di uno stile e di un linguaggio che si esprimessero nell’ambito di regole formali eterne. Ciò si traduceva nella volontà di riaffermare la concezione dell’arte come esperienza della tradizione, specificamente quella italiana, e di propugnare come alternativa un rinnovato classicismo, talvolta invocato come “italianismo artistico”. Questo clima intellettuale tipicamente italiano e l’intento di definire “il carattere dell’arte” distinguono il “clima di Valori Plastici” dalla generale tendenza del ritorno all’ordine che è diffusa negli stessi anni in tutta Europa.
È datato aprile 1918 il frammento poetico Zeusi l’esploratore che Giorgio de Chirico invia a Broglio da Ferrara perché appaia sul primo fascicolo di “Valori Plastici”, la cui uscita verrà invece posticipata, per vari motivi, al mese di novembre. Il primo numero di “Valori Plastici” apre all’insegna della Metafisica, recando sul frontespizio l’Ovale delle apparizioni di Carrà del 1918. Si accrediterà così l’immagine di rivista ufficiale della Metafisica, presentandosi principalmente come tribuna di espressione di de Chirico e Savinio, anche se nella mente di Broglio non c’era un preciso programma, né l’intenzione di lanciare manifesti, quanto piuttosto quella di provocare un confronto all’interno di una situazione comune. Nello stesso periodo si pubblicava il volume Pittura metafisica di Carlo Carrà. Tra il 1918 e il 1919 si parlava perciò ancora di Metafisica, finalmente chiarificata dai primi scritti teorici pubblicati dagli artisti stessi, proprio mentre evolvevano verso nuovi approdi. Et quid amabo nisi quod aenigma est? era stato infatti il titolo da lui dato molti anni prima ad un famosissimo autoritratto, opera nella quale il suo volto appare segnato da una profonda inquietudine, quasi che la capacità di vedere oltre le apparenze, gli rivelasse tutte le pene della solitudine e della malinconia, proprie dell’uomo contemporaneo. Ogni Piazza d’Italia del resto sarà, nello stesso tempo, luce accecante e ombre inquietanti, visibile e invisibile che si rincorrono, presente e passato che si congiungono. Se per i futuristi la relazione tra lo spazio e gli oggetti fu azione allo stato puro, per i pittori metafisici divenne luogo della rivelazione magica della vita nascosta delle cose: gli oggetti, pur rimanendo riconoscibili, persero ogni legame di contiguità e di logica concatenazione con lo spazio che li circondava o con gli altri oggetti disposti nello stesso spazio. Ne furono prove superbe le rarissime nature morte metafisiche di Giorgio Morandi che alla metafisica giunse più tardi, accompagnato oltre che dalla lezione di Carrà, da un ripensamento in guisa di una assoluta rarefazione delle cose nello spazio della lezione di Cézanne e la serie più nota delle Piazze d’Italia di de Chirico appunto, come la celebre Matinée angoissante, dipinta nel 1912, che ci rivela lo spettro dell’enigma in una Torino assolata, con il lungo porticato in ombra che corre a perdita d’occhio sulla sinistra e che incrocia in primo piano la sagoma cupa di un treno che passa, ricordo improvviso del padre e della terra natale. “La pittura di de Chirico scrisse Soffici sulla rivista “Lacerba” nel 1914 non è pittura nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni. Per mezzo di fughe quasi infinite d’archi e di facciate, di grandi linee dirette, di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei, egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, d’immobilità di stasi, che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo della nostra anima quasi addormentata. Giorgio de Chirico esprime come nessuno l’ha mai fatto “la melanconia patetica di una fine di bella giornata in qualche antica città italiana, dove in fondo a una piazza solitaria, oltre lo scenario delle logge, dei porticati e dei monumenti del passato, si muove sbuffando un treno, staziona il camion di un grande magazzino, o fuma una ciminiera altissima nel cielo senza nuvole”. Alla Metafisica successe il tempo del mito e dell’allegoria: negli anni Venti, la pittura di de Chirico, con la quale ebbe interessanti assonanze quella dell’amatissimo fratello Alberto Savinio, più interessato però alla rappresentazione onirica e surreale della realtà che all’indecifrabilità dell’enigma, si volgerà alla rilettura dei grandi Maestri del passato. La perfezione tecnica e la misura di Raffello, Tiziano, Dosso Dossi, Poussin (e negli anni Trenta soprattutto Rubens, Fragonard, Delacroix) gli fecero comprendere come raggiungere il folle sogno dell’immortalità, senza per questo rinunciare alla seduzione dell’enigma, cui si confacevano le sembianze dei manichini gladiatori, copia dei dioscuri omerici che compaiono nei suoi quadri verso il 1926, o gli archeologi ermafroditi, con il torace e il ventre ingombro di colonne, templi, alberi e quanto d’altro la sua fervida fantasia e lo stato di sogno gli suggerivano. Gino Severini anticipa tutti. Già nel 1916 aveva affermato la propria indipendenza dal futurismo, approdando alle sue prime composizioni classiche, una scelta che troverà fondamento teorico nel testo pubblicato a Parigi del 1921. È in anticipo anche sulle scelte d’altri grandi pittori del tempo, come per esempio Pablo Picasso, che solo nel 1917 porterà a conclusione, grazie anche al viaggio in Italia, quel processo pur iniziato nel ’15 di trasformazione della sua pittura in direzione neoclassica. Con Severini è forse Carlo Carrà l’artista italiano che meglio rappresenta il passaggio del guado tra avanguardia, Realismo magico, Novecento e per certi aspetti antinovecento. La sua pittura attraversò e fu protagonista di tutte le principali tappe dell’arte italiana del primo ’900, dal futurismo al primitivismo, all’avventura metafisica, all’approdo alle poetiche della nuova figurazione di Novecento, alla sublimazione dell’opposizione al regime nelle sequenze dei paesaggi dipinti negli anni estremi della dittatura. “Mutare una direzione in arte – ebbe a scrivere a questo proposito in La mia vita – non significa rinnegare tutto il passato, bensì allargarlo fino a compenetrarlo con un altro concetto estetico. Scoprire nuovi rapporti ignoti, aprire meglio gli occhi per comprendere una somma maggiore di realtà”. Passata brillantemente la prova metafisica, in cui realizzò quadri dominati dall’inquietudine ma anche opere di più complessa fattezza nate dall’ambiguità come la natura morta metafisica superò la fase critica del passaggio tra il sogno visionario metafisico e la concretezza del realismo di Novecento, tra il ’19 e il ’21, dipingendo alcune delle più radiose rappresentazioni della storia dell’arte europea del ’900. I dipinti Le figlie di Loth, L’attesa, Il Pino sul mare, esercizi di umiltà e grandezza insieme, mostrarono nella restaurazione del candore arcaico ispirato dalla pittura dei grandi Primitivi italiani, la continuità della tradizione, che allo spirito del tempo presente portava dal passato i doni della Meraviglia, della Scoperta e dello Stupore, di una pittura, insomma, che era nello stesso tempo etica ed estetica Negli anni successivi Carrà riportò la sua pittura dentro un alveo di più forte naturalismo, dando vita ad una serie di mirabili paesaggi con figure o semplici marine raffiguranti il litorale toscano, che rappresentarono anche in età tarda, tra la fine degli anni Venti e i Trenta, il permanere nella sua ricerca di caratteri di magico realismo, coniugati non più alla rarefazione narrativa del suo antico primitivismo o della parentesi metafisica, ma piuttosto alla riscoperta di una nuova mitologia del quotidiano, ancora ricca d’incanto e di sorpresa, nella quale azioni e cose, nel permanere nell’atmosfera di un misterioso incanto, assurgevano al ruolo di nuovi riti. La ricomparsa in epoca tarda di una riflessione sulla pittura di paesaggio, impegnò Carrà nell’esecuzione quasi ossessiva di opere in cui luce e atmosfera davano spazio a quella voce antinovecentista, che fu di molti artisti contrari al regime, che proprio nella rinascita di temi molto ortodossi della pittura, come il paesaggio, seppero attendere negli anni più bui del fascismo all’esercizio etico del mestiere. La Metafisica rappresentò un episodio straordinario dell’arte italiana, ma limitato nel tempo. I suoi protagonisti, in primo luogo de Chirico, ma è il caso anche di Carrà, de Pisis, Morandi, Savinio, alle soglie degli anni Venti erano già consapevoli che questo capitolo intenso ma breve della loro ricerca stava volgendo alla fine e la loro pittura era già in ascolto di nuove suggestioni, attratta più fortemente e più compiutamente da un esercizio formale e di composizione che superava, in direzione di una ritrovata classicità, la separazione dell’enigma metafisico. Peraltro la pittura metafisica contribuì con la sua poetica di rarefazione formale, di visionaria percezione della realtà, di straniante relazione tra i luoghi e le cose, a preparare un fertile terreno per quegli artisti che alla pittura dell’avanguardia avevano dato poca retta, o per brevissimo tempo ne avevano condiviso la poetica come Mario Sironi, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Felice Casorati, Virgilio Guidi, Antonio Donghi, Piero Marussig, Arturo Martini, artisti tutti già attivi sulla scena dell’arte nazionale nei secondi anni Dieci. Costoro, ignorando il clamore futurista in quel torno di tempo ancora acceso nei toni, e certo più interessati al richiamo della storia, erano pronti a scrivere il nuovo capitolo della pittura italiana postbellica, che dalla storia e dalla riflessione sul passato voleva trarre originale energia creativa. Il loro intento fu quello di far rivivere la tradizione antica nell’attualità del tempo presente, di ridare fiato alla ricerca dell’origine e dell’identità, di promuovere in un clima culturale dove la tendenza neopurista vinceva le ultime resistenze dell’avanguardia, una ricognizione sui repertori antichi per farne nuova fonte d’ispirazione. Tra gli interpreti più originali della traduzione metafisica in testi di puro arcaismo magico fu senza dubbio il piemontese Felice Casorati, autore di alcune tra le più toccanti e misteriose composizioni di quegli anni “di mezzo”, tra il ’20 e il ’23, anni sospesi tra la vocazione all’incanto del realismo magico e la più solida partita di Novecento. Casorati non visse il travaglio dei molti cambiamenti di stile, che aveva accompagnato la maturazione per esempio dell’opera di Carrà: il suo abbandono alla figurazione composta e tradizionale fu una scelta di antica data e risaliva ancora ai primi anni Dieci, quando nel 1907 fu accettato tra gli espositori della Biennale di Venezia e poi, tra il 1913 e il 1920, fatta salva la parentesi della guerra, partecipò sempre a Venezia alle rassegne di Ca’ Pesaro. Dunque non di ritorno ma piuttosto di continuità nella cifra classica si deve parlare per questo grande autore, che nella casa-studio di via Mazzini a Torino, accoglieva come discepoli giovani artisti come Gigi Chessa, Francesco Menzio, Carlo Levi, tutti protagonisti di quel momento d’oro della vita torinese, all’incirca verso il 1923, in cui le aspettative di un’arte nuova vennero a coincidere con la poetica del realismo magico. Ma quale antico, quale classico fu invocato da questi artisti sopravissuti alla tragica, lunga parentesi della prima guerra mondiale, che cambiò le sorti e il volto del vecchio continente, aprendo la strada a nuovi nefasti destini, nei primi anni Venti, anni ancora innocenti, celati sotto le spoglie dell’utopia socialista? Non bastò all’inizio richiamare a nuova vita la gloriosa storia che aveva fatto grande l’Italia artistica del Rinascimento: i più, Carlo Carrà in testa, vollero spingersi ancora oltre, fino alle nude pendici rocciose del Monte sacro dipinto da Giotto, per recuperare all’arte contemporanea l’essenzialità narrativa della lezione esemplare di verità ed etica dei Primitivi italiani, da Giotto a Masaccio a Paolo Uccello. Modelli che divennero esempi di riflessione per la nuova poetica del realismo magico, dove proprio il silenzio magico di Giotto fu la parola d’ordine che non fece perdere la rotta nella notte buia dell’ideologia, il silenzio delle parole mute, dei luoghi senza tempo, di vite immobili e sospese, l’unica vita possibile per chi non volle misurarsi o confondersi con la retorica di Stato. La magica e immota segretezza che pervase di sé gli oggetti della pittura italiana ed europea degli anni Venti, fu espressione di valori contrari a quelli delle avanguardie, sia nell’ambito pittorico che in quello afferente il significato dell’opera d’arte, che rispose a una nuova visione dell’oggetto acquistava il valore assoluto di “simbolo profondo per contrastare l’eterno flusso mediante qualche cosa che persiste”. È questa una definizione di poetica che attribuiva alle cose animate e inanimate della pittura una funzione escatologica, vicina al pensiero di Nietzsche e Schopenhauer e in evidente contrapposizione con la filosofia bergsoniana dello slancio vitale. Lo spirito del realismo magico, cresciuto e nutrito tra il 1918 e il 1922 grazie al dibattito teorico aperto dalle pagine della rivista “Valori Plastici” diretta da Mario Broglio rivista cui contribuirono le intelligenze più vive dell’arte del tempo, da de Chirico, a Carrà, a Savinio all’incirca verso il 1923 confluì e per certi aspetti si saldò con i caratteri più austeri e composti di Novecento, che non fu un vero e proprio movimento, come del resto non lo era stato il realismo magico, ma più semplicemente una tendenza di stile. L’eterogeneità del lavoro dei pittori, che oggi si indicano come novecentisti, non consentì infatti di elaborare una poetica comune, anche se furono condivisi alcuni caratteri distintivi di uno stile che fece ricorso alla figurazione, alla fedeltà ai canoni di un naturalismo idealizzante, ad una composizione sommaria, non descrittiva, ma vigorosa nella ritrovata plastica dei volumi, ad atmosfere sospese che accoglievano forti suggestioni del realismo magico. Iconografia e caratteri stilistici di questa nuova figurazione traevano esempio da modelli del mondo classico per eccellenza, ma anche da quello già ricordato dei Primitivi italiani e soprattutto dalla lunga stagione rinascimentale e dalla sua rinascita in età neoclassica, da artisti della tempra di Ingres, ma anche dalla pittura dei fiamminghi e degli etruschi, un soggetto quest’ultimo che trovò compiuta celebrazione nell’opera di Massimo Campigli. I temi più diffusi furono il ritratto, la natura morta e l’allegoria, porta aperta tra la realtà apparente e la verità profonda delle cose. L’allegoria apparve nelle sue molteplici sembianze, da quella mitica a quella biblica, da quella implicita, celata dietro l’apparente realismo delle cose rappresentate, a quella esplicita rivolta alla poesia sommessa e raccolta del quotidiano, a quella, infine, allusiva legata ad un repertorio iconografico di simboli che riflettevano le grandi problematiche della vita e della morte, del tempo, del sacro. Novecento nacque nel 1922 da un raggruppamento di sette artisti, Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi, che si presentarono riuniti sotto quest’etichetta nel 1923 alla mostra tenutasi nella Galleria Pesaro di Milano, con gli auspici di Mussolini e la presentazione della giornalista, critica d’arte Margherita Sarfatti. Nel 1924 il gruppo “Sei pittori del Novecento” (Oppi si era isolato) si presenta alla Biennale di Venezia con un testo della Sarfatti in catalogo: scopo della mostra, così come delle esposizioni che seguiranno, alcune di grande rilievo come quelle del 1926 e del 1929, fu quello di ridare alla pittura italiana, un primato nell’ambito della ricerca artistica europea. Margherita Sarfatti, teorica del gruppo, lavorò con fede e passione per ricondurre ad unità di stile e d’intenti il lavoro dei migliori artisti italiani dell’epoca, anche allo scopo di rifondare una tradizione pittorica italiana moderna. Tenace e volitiva Margherita Sarfatti difese i caratteri di “italianità” dell’arte contemporanea, cui però non pose mai veti né vincoli, accogliendo nel suo gruppo le più disparate inclinazioni, purché rivolte all’identico progetto di sostegno e valorizzazione dell’arte nazionale. E proprio in quella direzione, di un’arte profondamente italiana, capace di rappresentare il nuovo sentimento degli artisti, attenti ad un’interpretazione in chiave contemporanea della tradizione passata, ma anche di un’arte coincidente con i nuovi valori dettati dal regime si pose la delicatissima questione del rapporto arte e politica. È delicatissimo il compito di valutare criticamente, alla luce della storia tragica del Ventennio fascista, il significato di quella affinità tra l’interesse degli artisti per i Maestri Antichi e quell’identica passione espressa dalla dittatura, che in Italia proprio sulla pittura degli Antichi costruì gran parte del proprio repertorio di simboli e vaneggiamenti, di glorie e d’eroi, mostrando nella retorica della citazione il limite della propria politica conservatrice. I rapporti tra la poetica di Novecento e il regime di Mussolini, che a Novecento diede il proprio appoggio ufficiale nel 1923 in occasione della prima mostra del movimento alla Galleria Pesaro di Milano e nel 1926 alla mostra Il Novecento Italiano sempre a Milano, è un capitolo complesso della storia artistica dell’Italia fascista tra gli anni Venti e i Trenta. E la complessità derivò proprio dall’ambiguità della relazione tra l’immaginario dell’ideologia fascista, che nella sua febbrile attività di propaganda rispolverò molti dei vecchi miti dell’Italia antica, attualizzandoli in una veste retorica e conservatrice, e la poetica autenticamente originale di quel ritorno all’ordine, che dopo l’euforia dell’avanguardia, aveva ristabilito il valore dello stile come idea, della regola come metodo di conoscenza, del classico come origine e attualità. Negli anni Trenta il disperdersi all’interno della poetica di Novecento del silenzio e dell’aura incantata del realismo magico, che lasciò il posto ad un realismo sempre più concreto e assertore di valori ideologici funzionali al fascismo, fu manifesta espressione della fine dell’autonomia dell’arte. La perdita del sogno e del principio di verità favorirono l’avvento di un nuovo corso della pittura italiana, forzatamente epico e monumentale, per molti aspetti anche glorioso nei risultati, soprattutto là dove si misurò con le grandi dimensioni degli affreschi murali di propaganda. Mario Sironi fu tra i molti che si ritrovarono a dover fare i conti con le grandi committenze pubbliche, destinate a celebrare i sogni di gloria del regime, i suoi luoghi comuni, le sue virtù. Avvezzo ad una straordinaria e colta frequentazione dei repertori classici, frammista ad una pressoché unica capacità di governare con il suo gesto creativo la tettonica degli spazi delle grandi composizioni, il suo contributo emerse per qualità e altezza dei risultati pittorici, certo non secondi a quell’autentica vocazione magico realista, che nel corso degli anni Venti, nelle sue misteriose composizioni, come per esempio nel superbo dipinto del 1924 L’allieva, aveva offerto uno dei più significativi contributi del XX secolo alla rappresentazione della tragica melanconia dell’uomo contemporaneo. Per molti altri, invece, la concessione ad una pericolosa adulazione, trasformò il gesto creativo in una pedissequa propaganda, di segno dunque contrario ai principi di un’arte realmente libera. Non fu sempre facile nel turbinio degli eventi dell’arte del Ventennio riconoscere e distinguere la moralità dell’esercizio autentico dell’arte dall’acquiescenza al potere.
Ciò avvenne principalmente per due motivi: da un lato per il fatto che in Italia la questione culturale non diventò mai una bandiera in prima linea della propaganda politica, a tutto vantaggio della circolazione delle idee dell’arte, anche di quelle non propriamente in linea con il gusto del regime, dall’altro lato perché anche là dove, come in Novecento, i temi della pittura coincisero con i nuovi miti del potere politico, questo fatto, come sopra si è ampiamente scritto, non fu se non in casi eccezionali tacciabile di consapevole connivenza ideologica. Va peraltro rilevato che l’organizzazione delle attività culturali sul territorio nazionale aveva creato nel settore artistico uno strumento molto avanzato di controllo, costituito da una rete capillare di premi e di mostre “sindacali” provinciali e regionali, i cui migliori esponenti confluivano nelle grandi manifestazioni nazionali. A queste mostre, è inutile dire, posizioni contrarie al regime non furono naturalmente ammesse, mentre furono ammesse, forse perché non riconosciute come antitetiche alla politica culturale del fascismo, molte opere che oggi si possono definire “di resistenza”, opere nelle quali gli artisti, contrari al gusto dominante di Novecento, e contrari soprattutto all’idea di un’arte di regime, manifestarono il loro disagio con una fuga nelle più svariate direzioni, dal facile ripristino della poetica del paesaggio postimpressionista, all’espressionismo di toni accesi della Scuola romana, all’astrazione geometrica dei pittori milanesi attivi attorno alla galleria del Milione di Milano, al chiarismo promosso dal critico Edoardo Persico, al Gruppo dei Sei di Torino sostenuto dal critico Lionello Venturi. In questo modo si assicurò alla vita culturale del Paese un passaggio sufficientemente ampio attraverso le more del fascismo, che solo alla fine degli anni Trenta, poco prima dello scoppio della guerra, rafforzò le proprie difese contro l’opposizione culturale, che inconsapevolmente era stata nutrita e cresciuta al suo stesso interno nel corso degli anni precedenti. Negli anni Trenta, nel clima di generale dispersione delle regole e degli indirizzi di stile, che avevano governato il fronte dell’arte novecentista, emerse dunque alla superficie, pur celata da un’apparente, innocua diversità, la fronda di chi non era stato solidale all’idea del ritorno all’ordine e aveva battuto altre strade. Molti di questi artisti trovarono ragioni comuni in una pittura calata in una sorta d’esistenzialismo capace di slanci lirici della materia e del colore, inimmaginabili per la sobria plastica di Novecento, o, ancora, sospinti verso il racconto di una visione tragica e angosciosa della realtà, cosa anche questa severamente bandita dalle serene, placide composizioni del vigoroso classicismo di Novecento. Tra i molti artisti impegnati nella battaglia per la sopravvivenza di quella voce antiformalista e anticlassica, Mario Mafai e Renato Guttuso rappresentano gli estremi di una ricerca, che per vie diverse coltivò l’identica tensione di ansia e di verità. Da un lato ci fu l’avventura della scuola di via Cavour a Roma, culla della cosiddetta Scuola romana, che ebbe come principali protagonisti tra il 1927 e il 1930 Mario Mafai, la moglie Antonietta Raphäel, e l’amico intimo Scipione. La loro storia, che iniziò con il comune apprendistato presso la Scuola libera di nudo a Roma nel 1925, si intrecciò naturalmente con quella “ufficiale”, scandagliò le possibilità dell’arcaismo, della metafisica, del classicismo, per approdare infine, in dialettica con Novecento e non come radicale opposizione, ad una pittura del tutto originale, intrisa di emozionalità dove il colore riconquistò una forte carica espressiva, aiutato dal ricorso ad un tonalismo romantico che soprattutto in Scipione e Mafai corroborava la forma di una nuova capacità evocativa, non più descrittiva e analitica ma sommaria ed enunciativa. La fine precoce di Scipione, morto nel 1933, e l’allontanamento dall’Italia di Mafai e della moglie Antonietta Raphäel, chiuse un capitolo brevissimo ma intenso dell’arte italiana, la cui eredità fu accolta e interpretata da altri artisti romani impegnati in percorsi alternativi alle strettoie del classicismo, come Cagli, Capogrossi, Melli, Ziveri. Protagonista del gruppo milanese ‘Corrente’, costituito da oltre una decina di artisti riunitisi nel 1938 attorno alla rivista “Vita giovanile”, fondata dal pittore Ernesto Treccani, fu invece il giovane Renato Guttuso, un’artista che salirà agli onori delle cronache internazionali dell’arte nell’immediato dopoguerra, per il suo rigoroso impegno culturale nella vita politica dell’Italia postfascista.
Già sul finire degli anni Trenta Guttuso aveva fatto la sua scelta, proprio nella direzione anticlassica battuta da ‘Corrente’, che alla tradizione mediterranea e rinascimentale oppose una visione tutta europea, sorretta da una riflessione critica su quanto la pittura d’oltralpe aveva prodotto nella scia dell’anticlassicismo, dunque basata sul riesame dell’opera di Van Gogh, Ensor, Munch, gli espressionisti tedeschi e soprattutto di Picasso, sulla cui lezione si imposterà il lavoro di gran parte della pittura italiana alla fine della seconda guerra mondiale. Nel gruppo di ‘Corrente’ Guttuso rappresentò l’anima anti-lirica per eccellenza, che si opponeva a quel filone più incline all’espressività del colore che della forma, bene interpretato da Renato Birolli. La pittura di Guttuso fu inizialmente orientata in senso fortemente espressionista, sfuggendo ad ogni sospetto di classicità: il suo tragitto partiva da rappresentazioni nelle quali forma e colore, nell’esasperazione delle linee e dei toni, si mescolavano sulla tela come parti indistinguibili di una realtà nella quale, forse solo in misura pari alle visionarie tele di Scipione, si coagulava la ribellione alle regole e alla misura di Novecento. Agli inizi degli anni Quaranta – già dal 1937 Guttuso risiede stabilmente a Roma dove è vicino anche all’ambiente della cosiddetta Scuola romana – il suo espressionismo cede gli accenti più forti ad una più sobria figurazione, come nel caso di Figura, tavolo e balcone (1942) e Donna alla finestra (1942), opere nelle quali già si misura la sua vocazione per un realismo capace di accendere “una nuova sensibilità estetica, che andava di pari passo con una nuova coscienza sociale, che da un generico ribellismo antiborghese arrivava alla progressiva consapevolezza antifascista”. Negli stessi anni, nel silenzio di un’impresa quasi impossibile, giorno dopo giorno, ci fu chi giocò una partita assolutamente solitaria. È il caso del pittore bolognese Giorgio Morandi che rinunciò a partecipare a qualunque manifestazione pubblica e collettiva, dove l’arte fosse stata protagonista. Fu il suo un distacco dalla vita attiva, un prendere le distanze dalla politica, la dichiarazione di una propria diversità, così come diversa da ciò che si andava ricercando in Italia in quel torno di tempo, fu la sua opera, quotidianamente e quasi ossessivamente attesa allo studio e alla catalogazione delle poche, piccole cose del suo ristretto mondo domestico. Bottiglie, tazze, brocche e qualche barattolo vuoto, rimasto a decantare sul tavolo di casa divennero la ragione stessa della sua poetica, forma e contenuto della sua ricerca, tutta risolta nell’amore di un unico genere, la natura morta appunto, con qualche rara eccezione per il paesaggio. “Nel ’31 – scrive il critico Arcangeli nella monografia dedicata al grande bolognese – Morandi, torna a colare a picco, in silenzio. Modestamente, senza importunare nessuno, senza che nessuno intenda davvero, dipinge i quadri e lavora all’incisione ch’io ritengo le opere più ardite e nuove dell’Europa di quel momento. Sono i suoi soliti oggetti, ma adesso egli riprende l’indagine, tentata in profondità verso la fine del ’29 e proseguita saltuariamente nel ’30, con anche più dura, triste, accanita sapienza. Ogni opera, testimonia di un’ossessione allucinata, potente, quasi folle. Davvero, come testimonia Brandi, si potrebbe ora parlare d’attacco dissolvente all’oggetto... ma l’oggetto non cede mai... Sono i suoi ostaggi, questi oggetti di cui egli è, tuttavia, prigioniero; sono ostaggi e, sicuramente, houtes pates”. Solo un cenno ma ne vale la pena: la fine della seconda guerra mondiale azzera in Italia, come nel resto d’Europa, ogni certezza e riapre conflitti radicali tra gli artisti, tra chi è chiamato traditore e chi invece sa di non aver tradito. Ogni guerra vuole le sue vittime anche dopo la fine reale dei conflitti. In questo la cultura con le sue abiure e le sue licitazioni, con i suoi compromessi e le sue sconfessioni, sembra essere un terreno molto fertile dove si accalcano i morti, chi non ha reagito, chi non ha capito, chi non ha voluto capire, chi infine ha fortemente creduto. Il percorso cronologico-filologico ruota intorno a capolavori italiani di questa specifica temperie, a loro volta messi in relazione con alcune opere della Neue Sachlickheit, la cosiddetta “Nuova oggettività” tedesca, che per primo Emilio Bertonati promosse e fece conoscere alla cultura italiana agli inizi degli anni Sessanta attraverso la Galleria del Levante, nelle sedi di Milano e di Monaco di Baviera. I confronti saranno anche con i caratteri del Novecento Italiano di Margherita Sarfatti, dai quali il Realismo Magico si distingue, ma con il quale condivide alcune personalità artistiche come Achille Funi, Mario Sironi, Ubaldo Oppi. Gli artisti fondamentali dell’espressionismo italiano che poi divenne neo-classicismo furono Fausto Pirandello e Giacomo Manzù : Posso dire che Fausto Pirandello viene influenzato da maestri come Casorati e Carrà è evidente anche nel gioco dialettico delle contrapposizioni. Altri luoghi iconografici di incontro sono l’universo umanizzato del mondo del lavoro, ora esaltato come realizzazione individuale ora visto come legame con la terra e il paesaggio; la vita metropolitana e il sereno ambito domestico delle relazioni familiari; la festa e i suoi apparati colorati. Comune è anche l’inclinazione a legare bellezza femminile e ambiente, naturale o domestico. Infine, un senso estatico della natura, come Eden ormai remoto se non perduto, è riconoscibile in diverse opere figurative di questi anni. Se la chiave iconografica dà la possibilità di superare rigide schematizzazioni e contrapposizioni a vantaggio di un itinerario di lettura che consente di scoprire non solo le concordanze poetiche ma anche le dissonanze rivelatrici e significative, un secondo parametro "topografico" può rivelarsi non meno fruttuoso per l’identificazione di singoli profili e complessità di situazioni. Si consideri, in questa direzione, il ruolo propositivo, di influenza e di attrazione che negli anni trenta hanno avuto rispettivamente Torino, Roma e il bipolo Milano-Bergamo per il periodo che vede congiunte l’affermazione degli artisti di Corrente e quella del Premio Bergamodi cui gli stessi giovani pittori sono protagonisti. A Torino, nella svolta del decennio, l’accorta lungimiranza di Casorati e l’ardore insieme cristiano e europeo di Persico25 critico non conformista , non disposto ad autarchici arroccamenti né a consegnarsi a una separata "torre d’avorio" del mondo dell’arte - possono dimostrare l’inevitabilità di una scelta insieme modernista e legata a una solo, produttiva, cultura continentale. "I sei di Torino" Boswell, Chessa, Galante, Levi, Menzio, Paulucci esprimono chiaramente la necessità di collocare la ricerca pittorica, al di là di ogni magniloquente esercitazione retorica, in stretta vicinanza con il "gusto" europeo, particolarmente francese, derivato dalla esperienza, ma anche dalla iconografia "moderna" impressionista e postimpressionista. Quella che si è potuta definire "Scuola romana" o "École de Rome" si ricordi che la fortunata designazione si deve a Waldmar George che così definisce nel 1933 il lavoro di Cagli, Capogrossi e Cavalli esposto a Parigi e che Longhi, a proposito dell’opera di Mafai, Raphael e Scipione, aveva già parlato nel 1929 di "Scuola di via Cavour" e come ai nomi sopracitati debbano essere aggiunti Afro, Scialoja, Stradone, Pirandello, gli scultori Leoncillo, Mazzacurati, Fazzini è un clima artistico che accomuna una nuova generazione pervasa da istanze etiche di rinnovamento e dal desiderio di dare una forte rappresentazione fantastica alla vita emozionata e quotidiana di tutti. È su questo terreno, ideale e formale, che si sviluppano le profonde concordanze con gli artisti giovani operanti a Milano radunati alla fine del decennio in "Corrente", movimento che utilmente accomuna in uno stesso spazio operativo e riflessivo pittori e scultori con poeti, critici e filosofi. I modi di un rinnovato linguaggio espressionistico, adombrati nelle opere di molti artisti romani, sono qui più marcati ed espliciti così come le opzioni verso una rappresentazione figurativa che esprima la necessità di non separare libertà dell’arte e libertà delle manifestazioni di vita, individuale e sociale, secondo quanto andava sostenendo in quegli anni il filosofo Antonio Banfi. Il nuovo profilo dell’arte italiana alla fine degli anni trenta risulta ben rappresentato nelle quattro edizioni del Premio Bergamo dal 1939 al1942, autentico proscenio per una giovane generazione di pittori che sapranno dare un volto originale e riconoscibile nell’aperto contesto internazionale all’arte italiana del secondo dopoguerra. Continuano le esposizioni sull’arte durante il ventennio fascista e si continua a restituire il giusto merito ai fermenti artistici di quel periodo fortemente incoraggiati dal regime per mano di uomini illuminati come il ministro dell’educazione Giuseppe Bottai che promossero quello che è stato probabilmente l’ultimo movimento artistico italiano di portata internazionale.Dopo le due fondamentali esposizioni di Forlì, “Novecento”, e della fondazione Prada di Milano, “Post Zang Zang Tumb Tuuum”, è appena stata inaugurata a Cremona la mostra dal titolo “Il Regime dell’Arte. Premio Cremona dal 1939 al 1941” in riferimento a quel concorso pittorico d’arte fortemente voluto dal gerarca fascista Roberto Farinacci nella sua città natale a cui si contrappose volutamente negli stessi anni il “Premio Bergamo” patrocinato dallo stesso Bottai. Sebbene sia Farinacci che Bottai abbiano avuto come comune denominatore il fatto di essere fascisti della prima ora, entrambi uomini d’azione fondatori dello squadrismo delle proprie città, il primo a Cremona e il secondo a Roma, i caratteri dei due non poterono essere più distanti. Mentre Farinacci incarnò il movimentismo fascista permanente anche durante gli anni del potere del regime, Bottai, una volta dismessi i panni del rivoluzionario, rappresentò in pieno l’uomo politico borghese con una visione amplissima sulle materie che gli furono affidate, in questo caso specifico l’educazione del popolo italiano e l’arte, diventandone sia un abile manipolatore ma anche, da intellettuale coltissimo quale fu, un uomo rispettoso della qualità creativa in se stessa a prescindere dall’allineamento ideologico dell’artista. Mentre Bottai diventò un uomo politico di apparato dedicandosi a costruire la burocrazia del regime di stato, Farinacci continuò ad essere l’uomo della rivoluzione. Bottai trascorse il primo decennio in adorazione indiscussa del duce per poi, nel secondo decennio, venire a una posizione critica sempre più forte ma sempre nell’ambito di una elaborazione più interiore ed intellettuale che di azione, invece Farinacci tenne sempre una posizione di brutale indipendenza dal capo. Egli fu per Mussolini quello che Ernst Rohm, il fondatore delle truppe d’assalto naziste, le SA, fu per Hitler: un uomo d’azione affidabile per i momenti più incerti ma sempre pericoloso tanto che mentre il capo nazista riuscì a sbarazzarsi del suo amico di vecchia data in seguito a un sanguinoso regolamento di conti avvenuto nel corso di una notte, il Duce non riuscì mai ad eliminare il suo uomo forte un po’ perché ne ebbe sempre bisogno un po’ perché la spinta politica e militare di Farinacci fu sempre tale da mantenergli un’autonomia di azione, anche quando cadde per lunghi periodi in disgrazia. Ad esempio si è sempre pensato che dietro l’attentato a Mussolini di Bologna del 1926, di cui fu addossata repentinamente la responsabilità a quell’adolescente disgraziato di nome Anteo Zamboni che fu linciato sul posto, ci fosse lo stesso gerarca cremonese ma nonostante ciò nessuno gliene chiese conto, nemmeno in fase di indagine formale. Fu un uomo indomabile, violento, estremamente corrotto e, sebbene ricoprì pochissime cariche formali importanti, ebbe sempre un seguito politico non indifferente, soprattutto nella sua città, da cui pubblicava un giornale molto temuto, Il Regime fascista, da cui periodicamente partivano bordate sia verso oppositori politici ma anche verso gerarchi fascisti nemici causandone quasi sempre la caduta in disgrazia. È chiaro sin dai titoli del concorso dove volesse andare a parare Farinacci, come l’arte fosse solo strumento di propaganda sulla scorta dell’esempio tedesco e poco importa che aderirono artisti di livello o che in giuria ci fossero dei critici d’arte di primo piano come Giulio Argan o che le esecuzioni degli artisti in gara, alla fine, fossero state di buon livello: lo schiacciamento dell’arte alla volontà propagandistica ad imitazione del metodo hitleriano, con la sua visione pedante e piccolo borghese, la rese un’arte “minore” e l’intento di snaturare l’impianto artistico impostato da Bottai in un decennio fu vano. I risultati sono evidenti e non lasciano dubbi sulla mediocrità delle tele esposte e non è un caso che siano cadute in un totale oblio per sette decenni e che delle 360 opere solo una sessantina siano sopravvissute. Le poche foto allegate sono sufficienti per rendere chiaro il concetto. Termino ricordando che mentre Farinacci metteva in campo il suo concorso proprio nell’ultimo tenuto dal Premio Bergamo di Bottai, in piena guerra ormai perduta, il 1942, fu premiato vincitore il Cristo crocefisso di Guttuso, un’opera monumentale e rivoluzionaria che influenzerà l’arte nei decennio a venire bel oltre la fine del regime, totalmente fuori dai canoni della propaganda fascista e clericale. Come dice Rosario Pinto: “Non caso, ed in limine, sarà proposta nel 1942 la Crocifissione di Renato Guttuso, un’opera che, però, viene fatta oggetto di dileggio e di rifiuto da parte cattolica, fino al punto di veder comminata, da parte del vescovo di Bergamo Adriano Bernareggi, ai preti che dovessero recarsi ad ammirarla nel cotesto della seconda edizione del ‘Premio Bergamo’, la “sospensione a divinis”. Bottai non solo la premiò ma la difese strenuamente contro la censura fascista che puntualmente arrivò e dal boicottaggio perpetuato dalla chiesa perché ritenuto blasfemo. Da lì a poco tutto precipitò, L’Italia cadde nel caos del 25 Luglio del 1943, Bottai per primo perse tutte le cariche e si diede alla macchia seguito da Farinacci due anni dopo. Si ricordi che mentre Bottai durante la riunione del Gran Consiglio del fascismo si rivoltò contro Mussolini votando la mozione Grandi che portò alla fine del suo governo, Farinacci, nonostante le sue insubordinazioni plateali, si oppose strenuamente a Grandi fu fedele al Duce fino alla fine. Mentre Bottai, come Ciano, fu sempre aspramente antitedesco, Farinacci, tra i gerarchi fascisti, fu il più entusiasticamente filo nazista soprattutto dopo che furono approvate le leggi razziali a cui, peraltro, aderì anche Bottai. Mentre quest’ultimo con senso di disciplina e di responsabilità dava l’esempio ai propri camerati e alle truppe affrontando in prima linea tutte le guerre del fascismo rischiando per davvero la vita, per Farinacci, come per Starace, le guerre furono soprattutto un’occasione per compiere stragi di innocenti tanto da disgustare anche molti gerarchici di altissimo rango come Ciano, per commettere ruberie e passare il tempo in distrazioni lontano dalla prima linea. Perse una mano durante la guerra d’Etiopia mentre pescava con le bombe in un laghetto e tentò di far passare la ferita come causata da un’azione di guerra per averne i meriti militari e per poter usufruire della pensione di invalidità provocando la riprovazione irata del Duce, quando venne a saperlo, obbligandolo a versarla al fondo dei familiari delle vittime di guerra. Non poteva esserci così tanta distanza tra le personalità dei due uomini, in aperto contrasto per tutti i venti anni del regime. E se l’opposizione di Farinacci non costò la vita a Bottai fu perché quest’ultimo aveva un tal controllo della macchina statale, e per lungo tempo la stima sincera di Mussolini, da renderlo intoccabile per tutti. Ed è a questo punto che Farinacci, con l’approssimarsi della guerra nel 1939, decise di sfidare apertamente Bottai nel suo campo, quello della cultura, organizzando il Premio Cremona a cui Bottai rispose con il Premio Bergamo. Ma il confronto non poteva essere più impietosamente impari. Mentre Bottai era già stato promotore per almeno dieci anni di esposizioni, concorsi, triennali, quadriennali, confronti culturali e pubblicazioni di altissimo livello qualitativo, un immane lavoro teso a dare la massima visibilità alla produzione artistica del paese sia per permettere al regime di servirsene ma anche per il gusto di elevare lo spirito culturale del paese arrivando ad assicurare agli artisti e agli uomini di cultura una impensabile seppur relativa autonomia di pensiero e quindi creativa, invece l’intento di Farinacci era di seguire ideologicamente la linea culturale tracciata da Hitler in Germania ovvero di negare la dignità di arte a quella che quest’ultimo in persona denominò “arte degenerata”, da Picasso in giù. L’arte ammessa era solo quella asservita all’idea di stato, un’arte retorica, stereotipata, priva di fantasia, apertamente funzionale alla propaganda del regime nazista. Questo fu lo spirito del concorso di Cremona e i titoli che diedero il nome alle gare nei tre anni in cui si tennero sono esplicativi della minima dimensione intellettuale: 1939, “Ascoltando alla radio un discorso del Duce”; 1940, “La battaglia del grano”; 1941, “La Gioventù del Littorio”.Non si discute l’indubbio merito della mostra di far riemergere dall’oblio della storia anche questa coda terminale dell’espressione artistica italiana di quel periodo ma piuttosto l’intento dei curatori di porlo alla stesso livello di qualità creativa del concorso di Bottai se non, addirittura, dell’intero movimento artistico italiano del periodo fascista. Cosa che a mio avviso non fu importante per capire meglio la cultura del tempo questo lo esprime attraverso le sue opere anche Mario Sironi con ‘I teleri’ per il Palazzo delle Poste di Bergamo il 19 gennaio 1934 venivano fissati sulle pareti della Sala accettazione dei telegrammi del nuovo Palazzo delle Poste, progettato da Angelo Mazzoni e già inaugurato nell’autunno 1932, i due grandi dipinti a olio di Mario Sironi dedicati uno all’Architettura ovvero, Il Lavoro in città e l’altro all’Agricoltura poi la famosa rappresentazione Il Lavoro nei campi che nel contempo divennero trasparenti e riconoscibili allegorie delle due più tipiche immagini della cultura e dell’habitat bergamasco. Commissionati all’artista nel 1932, i bozzetti preparatori avevano ricevuto il benestare del Ministero delle Comunicazioni ai primi di giugno, venendone prevista la realizzazione per l’autunno dello stesso anno in occasione della inaugurazione del Palazzo delle Poste. Le opere sironiane non trovarono posto se non due anni dopo, nel gennaio 1934, portati da Milano in ferrovia, sotto le cure di Vittorio Barbaroux, direttore di una delle gallerie milanesi maggiormente impegnate nel sostenere gli artisti contemporanei. Aveva probabilmente tardato Sironi nella consegna dei teleri a causa dei fitti incarichi professionali che lo chiamavano in questo stretto giro d’anni a grandi impegni, dalla mostra romana per il Decennale della Rivoluzione Fascista del1932 alla direzione degli interventi di pittura e scultura alla Triennale di Milano del 1933, accompagnati da fondamentali elaborazioni di ordine teorico, delle quali il Manifesto della pittura murale  del 1933 è certamente il più significativo. I due dipinti per le Poste di Bergamo, dal punto di vista storico artistico, hanno dunque speciale rilevanza per la collocazione cronologica nell’itinerario creativo di Sironi, per le modalità rappresentative e le procedure tecniche adottate: la nuova scala monumentale delle rappresentazioni figurali, il particolare trattamento dei soggetti iconografici espresso in una cifra in cui si bilanciano modernità di temi e trasposta visione classica, la semplificazione radicale dell’apparenza pittorica, orientata a una chiara definizione dei rapporti tra temi rappresentati e ordinata complementarietà rispetto alla scansione dell’ambiente architettonico complessivo. I teleri sironiani per Bergamo segnano una svolta decisiva nella ricerca dell’artista prefigurando gli sviluppi dei successivi cicli monumentali e decorativi degli anni Trenta, e lasciano della città una metafora eroica e un’appassionante apologia. Il profondo rapporto tra Sironi e Bergamo si collega d’altra parte anche all’esperienza umana dell’artista che dispose alla sua scomparsa di riposare a Bergamo, accanto alla madre Giulia Villa ed alla figlia Rossana. Per quasi quarant’anni i due dipinti per il Palazzo delle Poste sono stati le opere d’arte contemporanea più vicini alla consuetudine quotidiana della vita della città. La Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, debitamente autorizzata, è stata ora attrezzata in modo da consentire la piena fruizione delle due importanti opere di Sironi dando così una concreta risposta al desiderio, molte volte ribadito negli ultimi anni, della città di Bergamo. Prendo la statua dal particolare meno interessante, cioè il meno importante, quello che può suggestionarmi meno, quello che può dare a me più confidenza e meno soggezione; e quindi non parlo mai nel fare una statua, che essendo un’immagine già mi turba. E vado avanti, avanti, immaginandomi l’aldilà, che non voglio mai vedere. Quando capisco che, adagio, questa operazione sta riuscendomi, e che è in pieno mio dominio, allora mi volto, e guardo la statua per la prima volta. Con un colpo, le apro gli occhi, ed è viva. . In questo modo incominciando dal particolare, che non era nella visione, che non apparteneva all’immagine avuta inizialmente, cominciò da ciò che non avevo pensato. Il famoso verso, che vien da Dio, me lo riservo per ultimo e le do il soffio finale. Il soffio è un tradimento inaspettato per la statua, e bisogna sempre aspettare un suo momento di distrazione. Mutevole come un barometro, l'artista vive continuamente in alternative di speranze illusorie e di esagerate disperazioni. Le disuguaglianze dei suoi sentimenti producono le più curiose dissonanze spirituali. Dei suoi mutamenti formali non si possono dare che spiegazioni molto approssimative. Chi può infatti incasellare le sue inquietudini, le sue emozioni, se egli vive continuamente con qualche demone?  Il corpo non ha espressione, ha carattere; e la testa è soltanto un'appendice indifferente, il più delle volte un'intrusa. Gli apparati sensori non sono in vista come nel viso e per questo le superfici diventano larghe e raccolte, e la costruzione pura. Ogni volta che noi vediamo un nudo, ci sembra sia stato creato allora, se ne riceve un senso di meraviglia, e infatti una strana animalità lo avvicina e lo lega come parte di una vitalità misteriosa alle altre cose della natura. In questi ultimi tempi si parla molto di derivazione dell'Ottocento, di atteggiamenti neoromantici; in fondo credo che è meglio partire dalla radice vicina che risalire ai tempi delle corazze e delle toghe. Noi assistiamo continuamente alla demolizione di tutto ciò che è appartenuto all'Ottocento e io ne sono stato testimone, quando ho visto la mia vecchia casa cadere, i muri crollare ad uno ad uno, le camere aprirsi un attimo alla luce e poi diventare calcinaccio e polvere. La pittura, per esempio, ci libera da molta accademia, l'individuo comincia a essere rappresentato un po' come è, nella sua luce naturale, nei suoi gesti particolari: e non si dipingono più tante storie di santi, cupidi alati, uomini dignitosi e presuntuosi: e di questo, sinceramente, dobbiamo essergliene riconoscenti. La sostanza delle cose conta più dei colori, è la sostanza che determina la forma, mentre la plasticità è intensificata dallo strato d’aria che avviluppa le cose. E’ l’aria che ci fa indovinare e vedere col nostro cervello il lato per noi invisibile degli oggetti. Contro e pro il paesaggio La pittura di paesaggio è femmina e le sue conseguenze sono il rammollimento del gusto,l’esigenza e la smania delle soluzioni ambigue che solleticano il senso, il piacere, il capriccio, la fantasia, e in ultimo lo spirito, la malinconia e la baldoria e in genere tutti i romanticismi,la lontananza dalle soluzioni rigidamente logiche e necessarie. In conclusione l’amore di tutte le inutilità che trasportano la mente senza sorreggerla né guidarla nelle aspre avventure dello spirito. Mario Sironi, 1930 Il sole tramontante proietta sul paesaggio lunghi fasci di luce. I campi sono illuminati da questa rivelazione di luce, che qua e là si spegne, conferendo al paesaggio una sensazione del divino. Sotto questa sensazione del divino prendo i pennelli e dipingo il paesaggio che mi sta solenne davanti. Al di là della pittura da cavalletto, al di là del frammento pittorico La pittura, perduti i rapporti con l’architettura, cioè con la vita, si decompose, si frantumò, annunziando fatalmente il trionfo del frammento, l’avvento del quadro da cavalletto, dell’espressione individualista. I bifolchi del sentimento - i romantici - continuarono a lungo a speculare sopra questa misera superficie di pochi centimetri quadrati illudendosi di riassumere in un rettangolo di modeste proporzioni evaso dall’ambiente funzionale, la potenza suggestiva del linguaggio plastico dei primitivi o dei classici, di coloro cioè che a contatto con Dio o con la terra, con l’immagine plastica e con l’architettura avevano compreso il compito umano dell’arte. La generazione dei bifolchi del sentimento - cioè dei pittori e scultori romantici che attribuiscono al quadro da cavalletto e al frammento pittorico o plastico poteri universali o valori plastici è in agonia. L’agonia è lenta, ma la certezza di questa fine è in noi. Noi futuristi italiani, precursori d’ogni felice indirizzo artistico e plastico, sentiamo imperiosamente la necessità di arginare l’attuale disorientamento della pittura e della scultura per la sopravvalutazione e sovrapproduzione del quadro e del frammento plastico, che ha esaurito totalmente lo sviluppo storico delle arti plastiche e la loro funzione in rapporto alla vita di un popoloin completa rinascita. Enrico Prampolini, 1934.I Sei di Torino La prima mostra dei "Sei pittori" fu il risultato di una lenta elaborazione di idee, e di un lavoro sotterraneo da cui erano esclusi ogni facile estro ed ogni speranza di successo. Per quindici giorni, Torino assistette a un carnevale non meno rumoroso e divertente di quello che nella capitale subalpina ha tante tradizioni di spensieratezza goliardica: la critica e il pubblico si accanirono contro i "Sei" con l’intuizione di un pericolo irreparabile; i giornali pubblicavano colonne e colonne di luoghi comuni, mentre i visitatori si accampavano nella saletta della mostra a spacciare le spiritosaggini più inaudite. Alla collera degli avversari, e alla impreparazione del pubblico, i sei pittori, fiancheggiati da un gruppetto di amici, opponevano quotidianamente il tranquillo decoro della ragione, e trasformavano la bottega di piazza Castello nella sede di un bizzarro comitato di salute pubblica. Edoardo Persico, 1931Era un ragazzo atletico e rosso di faccia, un’andatura da semidio e un ridere improvviso e pieno. A guardarlo, a sentire il calore della sua voce e l’impeto dei suoi discorsi, nessuno avrebbe pensato al male che lo rodeva, alla febbre che non lo lasciava più ormai da un pezzo. Tutti conoscevano il suo male, ma nessuno pensava alla sua morte. Ma Scipione aveva nel cuore la pena terribile di saper che non aveva tempo per esprimere tutto quel che dentro gli urgeva. Era di quei temperamenti dai quali ci si può attendere all’improvviso l’impossibile. Della sua generazione, era l’artista più completo e giovane, quello in cui erano più possibilità di imprevisto ed irruenza di genialità. Fu disegnatore grandissimo. Tra i moderni fu il primo a piegare ogni precedente esperienza disegnativa per raggiungere un particolare segno a tocchi improvvisi e sinuose sensualissime linee penetranti. In lui nessuna sciccheria, nessun modernismo d’accatto, nessun partito preso. Fra due pitture corrono cento, duecento disegni, espressi con mano nervosa, con ampiezza di scrittura rapidissimi, liricissimi. Era giovanissimo quando insieme a Mafai creò a Roma uno dei fenomeni più importanti nella storia della pittura dell’ultimo decennio. Chi erano questi due artisti  che tra 1930 e 1931, Mario Mafai e Scipione al secolo Gino Bonichi uno dei maggiori protagonisti della Scuola di via Cavour ovvero la ‘Scuola romana’, il cui sviluppo fu seguito da vicino da Roberto Longhi, cominciano a collaborare continuativamente, l’uno come corrispondente da Parigi e l’altro come illustratore, con ‘L’Italia letteraria’. Mafai firma importanti articoli dove è chiara l’adesione ad alcuni principi critici maturati all’interno del dibattito sull’arte e il Fascismo a partire dagli anni Venti. Parallelamente Scipione esegue e pubblica numerose illustrazioni satiriche, influenzate nello stile da precise personalità artistiche europee e dedicate a fatti e scenari nazionali e internazionali Biennale, Quadriennale, Surrealismo, Galleria d’Arte Moderna di Roma, Reale Accademia d’Italia dove la sua capacità critica trova un’inaspettata e originale sintesi grafico-narrativa. Entrambi i contributi dei pittori romani meritano un più vasto approfondimento, ancora tralasciato dagli studi specialistici, e vanno inquadrati nell’ampio contesto culturale del Ventennio. Le sortite critiche di Mafai e Scipione infatti, posseggono un alto valore esemplificativo all’interno del complesso sistema culturale dell’Italia entre-deux-guerres. Il saggio è volto a dimostrare come la politica culturale fascista, col sostegno di molti intellettuali e artisti, fosse stata in grado, già nel 1930, di favorire l’elaborazione e l’applicazione di particolari strategie culturali e critiche finalizzate all’affermazione di un “primato” italiano anche in campo artistico-contemporaneo, per nulla disinteressato al contesto europeo. Il sodalizio artistico che legava Mario Mafai e Scipione- Gino Bonichi cristallizza oggi una stagione feconda dell’arte italiana che, secondo la vulgata, sbocciò inaspettata come un fiore nel deserto di un supposto immobilismo, proprio nel cuore dell’epoca fascista. Meriti di consapevole resistenza interna e di malcelata opposizione sono stati distrattamente attribuiti a posteriori all’operato di questi due artisti, i quali con il loro espressionismo avrebbero ingaggiato una lirica contropropaganda, cosmopolita e politicizzata, al regime. Ricalibrare tali semplificazioni, giustificate da necessarie, quanto fuorvianti ragioni ideologiche, può condurre ad ampliare la portata di un percorso che invece non ignora il complesso contesto culturale in cui si sviluppa e anzi aiuta a chiarirlo . Ed è un fatto che l’attività dei due sulle colonne de ‘L’Italia Letteraria’, cominciata nell’estate del 1930 e grosso modo coincidente con il loro debutto sulla scena artistica nazionale, possa essere un importante viatico per comprendere e valutare certe posizioni estetiche e politiche, destinate, nel caso di Mafai, ad evolvere fino alla sostanziale inversione, ma non completa trasformazione, e, in quello di Scipione, a fruttificare nella manciata d’anni che di lì in poi gli fu concesso dalla sorte di vivere. Il famoso sodalizio, peraltro non esclusivo non durò più di dieci anni, se si considera che Scipione  morì nel 1933 come Mafai aveva iniziato ad affermarsi nel mondo delle esposizioni solo nel 1929. Il loro incontro data al 1924 mentre l’esperienza dello studio di via Cavour risale al 1926, ma già nel 1930 Mafai si trasferisce a Parigi, alternando soggiorni italiani e francesi fino al 1932. Tuttavia, esistono innegabili tangenze nel loro percorso, che emergono anche nell’attività per ‘L’Italia Letteraria’, dove i due sostanziano una ben definita proposta artistica e culturale veicolata dalle opere e dagli scritti. Tale proposta non va però confusa con un fiero scisma dal sapore bohémien, tutto giocato in buie conventicole fumose e in cenacoli ristretti. Assecondando le intenzioni che loro stessi apertamente manifestano, nel caso di Mafai principalmente con le corrispondenze da Parigi e nel caso di Scipione con i disegni satirici  , va bensì rilevata una reale, e questa sì consapevole, volontà di incidere all’interno delle coeve politiche e dinamiche culturali organiche al regime, con eloquenti prese di posizione che preludono alla fondazione, insieme a Marino Mazzacurati nel 1931, di una vera e propria rivista: ‘Fronte’.L’ambito in cui si sviluppa la collaborazione di Mafai e Scipione con «L’Italia Letteraria» è da individuarsi nelle frequentazioni e nelle personalità che animavano il Caffè Aragno, luogo di ritrovo di parte dell’intellighenzia culturale dell’epoca, tra rondisti e solariani , in una Roma che, al debutto degli anni Trenta, si preparava all’ambizioso progetto di diventare la capitale culturale del cosiddetto “impero spirituale” fascista. In quegli anni infatti si erano trasferite in città le redazioni di importanti testate che, alla metà degli anni Venti, avevano intrapreso e sostenuto campagne ideologiche e culturali in seno al fascismo, creando vaste correnti. Così, ad esempio, ‘Il Selvaggio’ di Mino Maccari, stabilitosi definitivamente a Roma nel 1932, seguito nel 1933 da ‘L’Italiano’ di Leo Longanesi mentre, già nel 1927, era arrivata «La Fiera Letteraria» che, con l’abbandono della direzione di Umberto Fracchia a favore di Curzio Malaparte, affiancato l’anno successivo da Giovan Battista Angioletti, nel 1929 diventava ‘L’Italia Letteraria’. Inoltre, nel 1931, con l’inaugurazione della Prima Quadriennale nazionale d’arte di Roma, sotto l’egida di Cipriano Efisio Oppo, confluisce a Roma tutta l’ ‘Italia artistica’, chiamata a mostrare i frutti della nuova politica sindacale delle arti , orchestrata a partire dal 1927 e con l’adesione anche ideologica di molti artisti compresi Mafai e Scipione  di fare di Roma un polo alternativo a Parigi che, in ottica di primato sancisse l’avvento di un nuovo corso culturale europeo e fascista. L’esperienza di Mafai e Scipione su ‘L’Italia Letteraria’ è anche una pubblica manifestazione di adesione a certe declinazioni dell’ideologia fascista così come si era andata articolando all’interno del dibattito sulle arti in relazione al nuovo ordinamento politico. Un confronto in prima istanza coagulato attorno alla nota inchiesta di ‘Critica Fascista’ del 1926 e poi sviluppato negli anni successivi all’interno dei circoli culturali e politici nazionali. Nei loro interventi infatti, è chiaro l’intento di prendere parte attiva nel processo di sistematizzazione e declinazione di un nuovo scenario artistico nazionale nelle vesti di membri di quell’ideale “partito degli artisti”, inquadrato all’interno delle politiche corporative di regime, che anelava di svolgere un ruolo rilevante, anche in termini educativi e morali, attraverso l’esercizio delle arti . Se nel 1926 e negli anni precedenti l’attenzione era rivolta principalmente, seppur non esclusivamente, al fronte interno, nel 1927 il confronto aveva preso sfumature internazionali, con una serrata inchiesta sullo scenario culturale e artistico italiano svoltasi sulle colonne della rivista francese “Comœdia”. Non è superfluo accennare a questa serie di interviste a diversi artisti e intellettuali residenti o di passaggio nella capitale francese , poiché alcune di esse accesero in Italia violente reazioni, che resero il rapporto culturale con Parigi e in generale l’opposizione tra italianismo e cosmopolitismo, un nodo importante del dibattito sulle arti, sviluppato negli anni successivi e ripreso con forza anche da Mafai e Scipione. È nota infatti la polemica suscitata dalle interviste di Alberto Savinio e di Giorgio De Chirico, che sminuirono i risultati delle politiche culturali del regime, non esprimendosi apertamente sul suo operato in altri ambiti.  Quelle dichiarazioni costarono ai fratelli l’esclusione da diverse mostre, fra cui dalla Biennale del 1928 e nel 1931 dalla Quadriennale, per la forte e pubblica opposizione di Oppo che, sulla ‘Tribuna’, in relazione alla vicenda nel 1927, parlava di Parigi nei termini spregiativi di “grande Babele” e di “Internazionale artistica”. Meno note sono le interviste di Flippo De Pisis, Umberto Fracchia, Curzio Malaparte, Guido Da Verona, Antonio Maraini, Nino Frank, Pier Maria Rosso di San Secondo e Giuseppe Prezzolini, che pongono l’accento su temi quali la possibilità di un rinnovamento italiano nel fascismo, la creazione di una coscienza nuova, la sostanziale coincidenza di intenti di strapaesani e stracittadini nell’ottica di un rinnovamento nella tradizione e della ricerca di un carattere etnico nell’arte, la quale deve essere moderna ma non modernista, e la libertà della critica di cui discutono in particolare Prezzolini e Malaparte. Tutti questi interventi non sono estranei a Mafai e Scipione che con la loro attività giornalistica si affiancano e arricchiscono questo dibattito, avvicinandosi alle posizioni di Fracchia, Malaparte e soprattutto di Oppo, la cui famigliarità con i due è testimoniata anche da diverse lettere.Esulando da un tradizionale operato artistico dunque, anche Mafai e Scipione, come molti altri artisti italiani tra le due guerre, affidarono al mezzo giornalistico un’eloquente presa di posizione che li proiettò direttamente all’interno delle più vive tematiche legate al coevo andamento politico nazionale. Non dunque degli appartati “artisti di fronda” ma, come visto, consapevoli interpreti di un largo movimento di pensiero e azione direttamente influenzato dai presupposti del fascismo “rivoluzionario” che si esplica con una precisa volontà di partecipare e incidere. Una volta manifestata l’adesione alle politiche artistiche incarnate da Oppo infatti, Mafai e Scipione tentarono di mettersi alla testa di una nuova generazione artistica estranea ai precedenti primo novecenteschi e capace, da Roma, di armonizzare le tendenze nazionali riconducendole nell’alveo di valori politici e morali, rigenerati e normalizzati nel fascismo ed esportabili come un modello: una risposta italiana alla “deriva” culturale europea post-bellica. Il tentativo, tenace quanto concentrato in poco più di un solo anno, sfuma e si perde nella molteplicità di voci che negli anni Trenta si avvicendarono per imprimere una svolta o per affermarsi all’interno del dibattito sull’arte fascista, tuttavia resta essenziale per comprendere gli orientamenti di due artisti destinati a contare nella storia dell’arte italiana del Novecento. Se le condizioni di salute di Scipione ne rallentarono le attività fino alla morte nel novembre del 1933, lasciando appesa la sua eredità ad una celebrazione dai toni a volte idealizzanti, l’attività di Mafai proseguì all’interno del contesto dell’Italia fascista fino almeno al 1938. Un'altra figura fondamentale fu Renato Guttuso che nel 1933 attraverso Le ragioni implicite disse : “Il momento artistico attuale ha una storia così complessa che sarebbe assai saggio partito non arrischiarsi a parlarne. Forse questo momento dell’arte apparirà, novello Sisifo, come un portento di buona volontà, intesi come si è alla sudata fatica di portarci dietro, costi che costi, tutta una congerie d’indirizzi aprioristici, di schemi, di analisi, di sintesi, di presupposti, di ricognizioni su un passato prossimo,remoto e remotissimo. Pare che sia colpa di un’eccessiva critica: e forse non dipende che dalla personalità degli artisti: ma è anche vero che non siano pure e semplici ragioni politiche ad aver influito così stranamente a sovvertire le naturali funzioni dell’arte. Infatti, un’arte che per il momento almeno, ha perso ogni vitale destinazione deve per forza trovare ragioni sue proprie ed esplicite per vivere e sono forse proprio queste ragioni che a loro volta, la allontanano da una comprensione generale. E in particolare, se, come in questo caso, mi occorresse illustrare o scusare il mio lavoro pubblicamente, dirò che quelle ragioni ho cercato di rendere implicite che non vuol dire negarle etanto meno non essersene avveduto non per programma -che sarebbe assai vecchio - ma pernecessità di esprimere.” Mentre Fausto Pirandello nel 1935 Il pittore moderno solo i giovani hanno ammesso l’utilità di tutte le esperienze, creatrici di fermenti vitali, e le hanno superate, perché le hanno accettate, semplicemente come si accetta un pane quando si ha fame. Nella posizione pacifica di questo stato e nella sua congenita naturalezza sta la reale libertà d’azione morale del giovane d’oggi e la sua posizione di moderno. Renato Birolli, 1934 Tempi pericolosi ma straordinari oppure come disse ancora Renato Guttuso nel 1939 : “Eravamo appena ragazzi e ci misero in testa il problema della coerenza o almeno tentarono. Gli amici indicavano, tra i nostri, questo o quel quadro, questo o quel particolare e dicevano: ecco queste sono le qualità tue, questo è il tuo senso, cerca di tenerti su questa strada. Gli amici non capiscono mai i nostri amori e sempre vorrebbero che avessimo i loro. Allora le due "grandi correnti", erano, a Milano il "Novecento", e a Roma il cosiddetto"Neoclassicismo", per cui, a un certo punto, venne la auspicata Pasqua e si parlò di "Novecentismo neoclassico". Queste delizie pretendevano di tenere a battesimo la nostra generazione. Poi vennero ad insegnarci il "tono" e la "materia pittorica" e ci fornirono la solita polemica dei calligrafi e dei contenutisti con l’obbligo di scegliere o di qua o di là. Ora tutte queste avventure ci sembrano vergognose e remote, tuttavia l’aria che c’è in giro non va bene. Sembra che nessuno si accorga che questi sono tempi pericolosi ma straordinari. Se io potessi, per un’attenzione del Padreterno, scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere del pittore. Le condizioni oggi sono storicamente privilegiate, sempre che si abbia la forza e la libertà interna necessaria in tempi così pericolosi”.  Dirò di Fausto Pirandello che con queste parole ci presenta un nutrito gruppo di opere su carta, da lui realizzate tra il 1928 e i primi anni Cinquanta, nel catalogo della mostra che si tenne alla Saletta degli Amici dell’Arte di Modena nel dicembre del 1952. “Per studio e per soggetto” sono concepite queste opere, scrive l’artista, congiungendo il destino dei suoi piccoli fogli a quello dei dipinti, spazio dove le idee e le figure, prima succintamente fissate dalla mano sulla carta, trovano la loro ultima e definitiva formulazione.  Quest’indicazione dell’artista ci aiuta nel compito non semplice di ordinare il nucleo di carte presentato oggi in mostra e giunto a noi, come gran parte degli altri suoi disegni, senza date certe. Sono parole che svelano inoltre come nel dialogo stretto tra le carte e i dipinti si dipani l’invenzione delle immagini e dei temi più cari all’artista. Come aveva osservato, già nel 1934, Roberto Melli, è nella “turbinosa grafia” dei disegni che “il mondo e le preferenze di Pirandello si scoprono eloquentemente e dove risaltano le radici, le possibilità, l’animo, la temperatura della sua arte, vero intimo vademecum del suo moto espressivo”. Le due sanguigne di più antica data esposte oggi raffigurano entrambe un gruppo di tre uomini appoggiati a ridosso di un muro, intenti a vestirsi (o a spogliarsi) nella prima, in semplice attesa nella seconda . Queste due carte possono essere datate al 1935. I tre uomini richiamano alla memoria gli atleti raffigurati nel quadro della Palestra (1934) , colti qui forse un attimo prima o un attimo dopo il loro allenamento. Figure molto simili si possono anche riconoscere in un’altra carta realizzata dall’artista proprio nel 1935, volti di spalle e appoggiati a una staccionata . Tutte immagini che esibiscono ancora quel senso di “straniata quiete”, di silenzio e di sospensione che caratterizza l’opera di Pirandello fino almeno al 1936, anno in cui comincia a farsi manifesto nei suoi lavori “un senso più dichiarato di dolore e di corruzione, che si traduce in una formulazione d’immagine di tipo espressionista”. Il muro, inoltre, pur tracciato in maniera succinta alle loro spalle, situa questi corpi nudi in un ambiente, entro uno spazio in qualche modo ancora definibile, com’era ad esempio la stanza con l’alto muro colorato cui si appoggiavano il Padre e figlio (1934). Uno spazio che negli anni successivi si dissolverà lentamente, lasciando gli stessi corpi distesi nel vuoto della superficie della carta, in uno spazio privo di orizzonte, sprovvisto di qualsiasi punto utile di orientamento, senza più nessun elemento di appiglio da cui prendere le mosse per un qualunque tipo di racconto. Intorno al 1935 è databile anche la matita raffigurante Due donne   che potrebbe considerarsi,  forse solo di poco, precedente alle sanguigne citate sopra.   Nei profili dei volti, nelle rotondità definite delle braccia, delle gambe e dei piedi, in qualche durezza  geometrica ancora presente nell’andamento dei panni che ricoprono i due corpi sembra riecheggiare ancora una lontana memoria delle solide forme delle donne picassiane della metà degli anni Venti, che Pirandello conobbe e ammirò durante il suo soggiorno a Parigi tra il 1927 e il 1930. Molto separa invece queste due figure femminili da quelle di un’altra sanguigna di soggetto simile databile al 1937 . “Tra la metà e la fine del decennio tanto muta, in Pirandello, e altrettanto permane”, ha scritto Guido Giuffrè. “Mutano i modi d’espressione di codesta verità, nel senso dell’abbandono progressivo della monumentalità statica, divenendo le campiture e gli impasti sempre più mossi”. L’“aspetto teatrale”, l’“impianto scenico”, proprio di larga parte delle opere dei primi anni Trenta, quella rappresentazione del destino umano “chiuso in un perimetro precostituito e invalicabile, privo di passione come dell’illusione, ridotto alla recita inutile di un rituale cabalistico”, si smorza e progressivamente viene meno. Fino a condurre Pirandello figlio, rimasto solo dopo la morte del padre Luigi, verso quella “più fremente drammaticità che lo avrebbe portato all’immersione panica delle spiagge”. Nelle Due donne del 1937  le vesti hanno perso l’andamento spigoloso delle precedenti, appaiono in alcuni punti graffiate, in altri sfumate, tanto da far perdere definizione al contorno dei corpi che ricoprono. Cieco e muto sembra il volto di una delle due figure, proteso verso l’orecchio dell’amica. Lì dove i due corpi cercano un punto di contatto s’accumula la materia bruna della sanguigna. Le forme, scriverà Renato Guttuso a proposito dei disegni di Pirandello, sono “imperniate, le une alle altre, attraverso macchie, sfilature, graffiature, in un aggregarsi di frammenti plastici, in segni calcati che poi allentano, sfrangiano e si sfanno, o si infoltiscono e aggrumano quasi a simulare una materia che non fosse quella del disegno o della pittura”.
La datazione di questa carta al 1937 è suggerita, inoltre, dal confronto con un altro disegno di Pirandello, tra i pochi datati dall’artista che si conoscano, intitolato La madre . Quest’opera venne esposta nel 1938 alla prima mostra che Pirandello dedicò interamente ai suoi disegni, presso la Galleria della Cometa di Roma. Anche qui il segno si anima, si fa vibrante, trasferendo il suo afflato all’abbraccio tra la madre e i quattro figli, a quei gesti tanto semplici che mettono in amorosa relazione tra loro le cinque figure. “Con la coscienza sotterranea e sicura dell’artista, – scrive Corrado Alvaro nel catalogo della mostra alla Cometa del 1938 – quello che egli aveva dapprima intuito come un punto d’appoggio di volumi e di colori, è divenuto gesto, è divenuto dramma, racconto; l’inanimato si è fatto creatura, gli elementi che nel linguaggio pittorico si ripetono fino alla sazietà (architetturali, spaziali, volumetrici, coloristici, eccetera, eccetera), si sono incarnati; un vento di creazione soffia nelle loro vesti, e attraverso i piani della pittura l’artista ha immesso il suo senso della vita, la solitudine, l’attesa, l’angoscia, la speranza, lo slancio in avanti”. Sul finire del decennio gruppi di figure iniziano ad affollare i disegni e ancor più i dipinti. In alcuni casi si tratta di persone, soprattutto uomini, in pose e atteggiamenti tali di prostrazione che sembrano prefigurare e contenere tutta l’angoscia che porterà con sé la guerra ormai imminente. Uomini disperati,  con le mani giunte sulla testa, compaiono nel disegno databile al 1939 : cinque figure simili a quelle che si agitano e accalcano nel Bozzetto inviato da Pirandello al Secondo Premio Bergamo nel 1940. Dialogano tra loro anche il Gruppo di figure con la Composizione oggi in mostra, dipinta intorno al 1939 . Gli Uomini distesi  e la grande carta con Uomini distesi a terra , dove i corpi sono disposti a formare una croce realmente inquietante, sono tutte opere riferibili allo stesso periodo, quando “la sanguigna insegue vortici di luce, incrudelisce zone d’ombra, indaga con meticolosa, ossessiva acribia le più allucinate distorsioni delle membra”. Questo insieme di fogli di carta, di piccole dimensioni, scorrono allora davanti agli occhi come in una sistematica e ossessiva raccolta di gesti, di posizioni, di possibili incastri e composizioni, una sorta di lessico personale fatto di corpi e di figure che Pirandello accumula e colleziona, foglio dopo foglio, e da cui attinge per poi comporre le più complesse e affollate combinazioni dei quadri con Bagnanti Spiagge. Un sentimento più disperante sembra tuttavia scaturire dalle carte, dovuto da un lato alla più succinta concezione di queste opere, dove il numero minore di figure non lascia spazio al pur minimo conforto di un destino largamente condiviso, che spinge gli individui, come gli animali, a stringersi tra loro; dall’altro lato, desolante appare, come abbiamo già detto, la totale mancanza in questi fogli di un qualche orizzonte, se pur lontano, di quella porzione di cielo e di mare anche minima che si intravede quasi sempre sul fondo dei quadri . Elementi che, come il leggero muro su cui si poggiavano le figure delle due prime sanguigne, ancorano questi corpi a un brandello di realtà, meno annichilente del vuoto assoluto. “Mistero dei personaggi del ventoa far visita nel silenzio.  Sono da chi sa quanto nei paraggi  aggregati chi sa a qual cosa; rischiano di diventare stolidi, di cresparsi nella calura.  Sulla soglia dubitano: per non ardire, calpicciano  mormorano, si rammemorano, mi si riscontrano: vorrebbero accoglienza”. Figure di Uomini con le braccia alzate ,   imploranti o veneranti, si alternano sui fogli allo scadere del decennio, gli stessi che si ritrovano nei gruppi di figure assiepate sulla destra e sulla sinistra della grande tavola de L’impero (Trionfo di Augusto) del 1940, uno dei quattro bozzetti che Pirandello presenta al concorso per i mosaici per il  Palazzo dei ricevimenti e congressi dell’E42. Figure tutte che finiscono col farsi specchio di una drammatica condizione collettiva. “Dov’è la ‘tematica, poetica, eroica, civile’?”, ci si chiede guardando queste opere che vennero allora commissionate per esaltare i fasti del regime fascista attraverso la memoria delle glorie dell’antico impero romano, “nella materia pittorica sfatta, nei corpi allungati e deformi, pasciniani e pre-giacomettiani? Nelle tematiche concepite come delirio allucinatorio, nel quale gli eventi e le cose, anziché come cumulo di rovine si presentano come incalzare di terribili eventi, che sappiamo separati dalle centinaia di anni e di millenni, che si congrumano in quei quattro metri quadrati di pittura?”.
Negli stessi anni, questa desolante consapevolezza d’una amara sorte, comune a tutti, sembra travalicare i confini della storia collettiva e insinuarsi in ogni aspetto della vita privata, finendo col riflettersi nei timidi e inermi sguardi del figlio Antonio, che Pirandello fissa a più riprese sulla carta tra il 1941 e il 1943 . Come i corpi nudi che si agitano nel vuoto, anche Antonio appare solo, incapace di sottrarsi allo sguardo del padre, di nascondersi, anche solo di indietreggiare timidamente di un passo per sentirsi un po’ più protetto dalla forte figura materna, come avveniva ne La famiglia : “la forma brancola come nel vuoto, nel vuoto gestisce, si ferma, si stende”. Enorme appare allora il divario tra questi ritratti dei primi anni Quaranta, fino all’Autoritratto all’acquarello del 1944 qui in mostra , e i primi ritratti e autoritratti noti dell’artista, databili intorno al 1921. Lì i volti incombevano minacciosi verso lo spettatore grazie a una costruzione dell’immagine attentamente studiata: ripresi da un punto di vista molto ravvicinato, quasi sempre di sbieco rispetto all’asse centrale del foglio, quei visi era illuminati da un chiaro scuro “da ribalta di teatro” che ne accentuava la drammaticità. Sull’onda delle suggestioni simboliste, allora pienamente accolte dal giovane Pirandello, queste immagini esprimevano una forza e una determinazione legata alla piena fiducia e adesione a un linguaggio “altro” che si sta imparando a conoscere. Quando nei primi anni Quaranta, raggiunta la piena maturità, anche l’ultima suggestione esterna è superata, Pirandello riesce a “incarnare”, come ha scritto Alvaro, quella stessa sensazione allarmante e di straniata inquietudine dalla più fredda e controllata costruzione dell’immagine, dentro al corpo vivo delle sue figure: nel loro sguardo, che ci osserva ora fisso, terrorizzato o rassegnato, interrogante o sfuggente, e nell’imperfetto, baluginante, prostrato mostrarsi delle loro membra, come nei corpi della Donna distesa e dell’ultimo Nudo . Tra 1937 e i primi anni del decennio successivo, lo stesso radicale cambiamento che investe la rappresentazione della figura umana è percepibile anche nelle carte dove si presentano, sempre “appoggiati in ordine sparso su una precaria ribalta” gli oggetti delle nature morte. Il segno ancora ordinato e nitido che evoca i pochi strumenti del mestiere nella Natura morta datata 1937 , si fa concitato e frenetico nella Natura morta con volpe e coltello, dei primi anni Quaranta .È proprio in quel volger d’anni che Pirandello abbandona quindi ogni debito, tratto proficuamente negli anni della giovinezza prima dal simbolismo, poi da de Chirico e dal surrealismo, infine dal cubismo e da Cézanne, per giungere, al termine di una lunga rielaborazione degli elementi più significativi di queste ricerche, alla piena definizione del suo stile, che si rivela assolutamente unico nel panorama italiano di allora. Un traguardo che lo allontana definitivamente da molti dei suoi primi compagni di strada, come Giuseppe Capogrossi, Corrado Cagli, Renato Paresce, Mario Tozzi, Mario Mafai e molti altri. Qualcosa fatalmente cambia, scrive lucidamente l’artista sempre nel catalogo del 1952, “quando t’avvedi a un punto di aver preso coscienza d’artista nel naufragare delle verità date. È uno sgomento che qualche volta porta ad atti disperati: porta, voglio dire, a quella specie di nichilismo intellettuale che ci fa ripudiare in blocco ogni ordine mentale scopo vero dell’arte e ci conduce all’euforia; a sospettare, cioè, di noi qualità divine e non propriamente indotte e patite dalla dura necessità di un’espressione che tenga strettissimo conto del risultato di questa nostra indagine; non più verso l’oggetto oramai indeterminabile, ma verso il nostro medesimo soggetto operante e determinato. Luogo dove poi, infine, una forma può restare invariabile e differenziarsi; un colore prestarsi alla reminiscenza come all’invenzione, indifferentemente; un rosso equivalere a un turchino, il bianco al nero; una curva ad un piano, un punto a una linea. Luogo di perfetta indifferenza per ciò che sia forma o contenuto, di dove si muove l’interesse vero dell’arte”. Infine la mostra ripercorre la parabola artistica di Fausto Pirandello  attraverso una cinquantina di opere dalla forte carica espressiva. Dal linguaggio analitico di ascendenza nordica all’espressionismo della Scuola romana, dalla scomposizione cubista e astratta al ritorno, negli anni della maturità, a una rappresentazione esasperata della figura umana, quella di Pirandello è una pittura drammatica e tormentata. Il carattere introspettivo della sua ricerca è sottolineato dagli autoritratti che ritmano il percorso espositivo, articolato intorno ai principali temi della sua pittura. Quello del corpo è protagonista dei numerosi nudi che l’artista romano dipinge con un crudo realismo fin dagli anni degli esordi, distinguendosi dal linguaggio più armonico e classico dei suoi contemporanei. Il tema delle bagnanti è declinato in modi diversi nel corso del tempo: dai forti scorci prospettici degli anni Venti ai toni terrosi degli anni Trenta, fino alle forme spigolose e sintetiche del dopoguerra. Lo sguardo che Pirandello rivolge a sé stesso incontra i ritratti di amici e parenti, tra cui spicca quello del padre Luigi, Nobel per la letteratura, e quelli, più rari, eseguiti su commissione, ad esempio per la diva Isa Miranda. Il percorso espositivo inizia naturalmente da Roma, con la Scuola di via Cavour e alcune delle personalità che via via hanno definito variamente la “scuola romana” e le sue peculiarità tecniche e tematiche, non ultima quella del tonalismo. In origine l’incontro fra i giovani Scipione e Mafai, cui presto si avvicina la Raphaël, dà l’avvio a una pittura visionaria e onirica, animata da colori accesi e drammatiche lumeggiature, nutrita dall’ammirazione per Goya, El Greco, Bosch, ma anche per i moderni Kokoschka, Chagall, Derain, Dufy. Roberto Longhi, recensendo la mostra del gruppo nella primavera del 1929, individua chiaramente nel sodalizio di via Cavour le derivazioni espressioniste francesi. Altri artisti si uniscono a una nuova e variegata koiné “neoromantica”, tra cui Mazzacurati, Pirandello, De Pisis, Melli, Afro, Mirko, Guttuso, Ziveri. L’itinerario espositivo prosegue con alcuni dei protagonisti del gruppo dei Sei di Torino (1929- 31), «una pattuglia giovane di anni e giovane di spirito» riunita attorno al carisma di Felice Casorati e alle personalità di Edoardo Persico e Lionello Venturi. Attraverso le opere di Chessa, Galante, Levi, Menzio, e inoltre di artisti come Spazzapan e Sobrero, vicini al sodalizio, si esplora una pittura di chiara ispirazione “francofona”, incentrata sul colore, ispirata dalle ricerche impressioniste e postimpressioniste d’oltralpe. Il percorso si conclude con il gruppo Corrente, protagonista dal 1938, a Milano, di un vigoroso e appassionato espressionismo lirico. Il gruppo di giovani artisti coordinati da Edoardo Persico (Badodi, Birolli, Cassinari, Sassu, Treccani, Valenti e molti altri – come Manzù, Fontana, Tomea, Cantatore, Franchina – che partecipano più o meno assiduamente alle attività della rivista e della Bottega omonime) esprimono una pittura inquieta ed emozionata, capace di «parlare alla gente di cose vive». Il dialogo fra la collezione della Galleria d’Arte Moderna e la Collezione Giuseppe Iannaccone illumina l’una e l’altra di reciproche inedite reinterpretazioni, confermando come l’arte italiana fra le due guerre, tutt’altro che affetta da provincialismo, abbia intessuto feconde e proficue interazioni con gli orizzonti europei. Gli espressionisti italiani, in piena sintonia con le tendenze internazionali ma allo stesso tempo consapevoli dello specifico della tradizione nazionale, hanno dato luogo a un lessico originale e franco, capace di interpretare con efficacia le inquietudini del loro tempo. Mentre su Giacomo Manzù posso affermare che nel secondo dopoguerra la scultura italiana doveva ritrovare la propria identità dopo i vent’anni di dittatura. Era necessario, ad esempio, ristabilire le funzioni e i canoni della scultura pubblica e di quella monumentale, finalizzate nei due decenni di regime a celebrare i caduti della grande guerra, i personaggi e i momenti eroici del fascismo. Bisognava ritrovare nuove formule per affrontare soggetti figurativi come il corpo maschile nudo o panneggiato, che negli anni trenta e quaranta aveva ripreso la tradizione classica e rinascimentale per ottenere una figura forte, muscolosa e virile. Questa linea seguiva il ritorno all’ordine e la ravvivata attenzione per l’arte italiana antica , sostenute dal Novecento di Margherita Sarfatti, e trovò un’esemplare realizzazione nelle statue degli atleti dello Stadio dei Marmi del Foro Mussolini. Dall’altro lato, c?erano le produzioni plastiche degli scultori di Corrente, reazione antinovecentista per eccellenza con il suo sostegno ad un?arte antiretorica. E ancora ma in questa sede non si può che presentare in scorcio un quadro ben più complesso il corpo maschile era stato esplorato dalle invenzioni di Arturo Martini, seguito dalle vecchie e nuove generazioni, il quale fece riferimento a un vastissimo bacino di riferimenti, primo fra tutti quello dell’arte etrusca, tanto che già nel 1922 Cipriano Efisio Oppo lo definì «l’uomo più assimilatore che si conosca» . Anche la ritrattistica doveva essere messa in discussione.
I ritratti di Mussolini, cresciuti in maniera esponenziale dopo l’esposizione di Il Duce (1923) di Adolfo Wild alla Biennale di Venezia del 1924, avevano portato parte della ritrattistica a riprenderne le caratteristiche i lineamenti duri e autoritari del condottiero, la muscolatura contratta, l?idealizzazione del soggetto ritratto, andando a sconfinare anche in altri generi l’esempio più lampante fu il Pugilatore ferito del 1931 di Romano Romanelli, la cui testa riprendeva il volto del Duce. Restavano validi, nel secondo dopoguerra, i ritratti per tipi di Marino Marini; quelli psicologici ed intimi di Giacomo Manzù; quelli dai toni aristocratici di Pericle Fazzini. Tolti questi casi a parte, agli altri scultori spettava ridefinire le direttrici del proprio lavoro: all’inizio di una nuova epoca storica non si poteva più riparare sul recupero dell’antichità, fosse quella etrusca, romana, del Fayum o dei primitivi. Un'altra questione riguardava il bronzetto, genere che conobbe ampia fortuna negli anni trenta e quaranta, sia per la facile vendibilità di statue di piccole dimensioni sia per il sostegno, in quegli anni, all’avvicinamento tra arti minori e arti maggiori . Il volume di Leo Planiscig sui Piccoli bronzi italiani del Rinascimento, pubblicato nel 1930, con il suo ampio apparato iconografico, costituì per molti scultori la fonte illustrativa a cui rifarsi per temi, soggetti e composizioni. Martini capovolse i canoni del bronzetto in termini antiaccademici, contro gli stilismi ottocenteschi ma soprattutto contro quelli rinascimentali diffusi dal volume di Planiscig  apportando valori inconsueti ad una produzione che poteva presentarsi come valida alternativa alle istanze della retorica monumentale. Nel 1936 Martini espose alla Biennale di Venezia nove bronzetti di vario soggetto (mitologico, biblico e sportivo) e molti scultori italiani, dopo averli visti, virarono la propria produzione del bronzetto seguendone l’esempio . Doveva, inoltre, essere ridefinito il rapporto tra architettura e scultura (rilievo incluso), che negli anni della dittatura si era diviso in due opposte correnti: quella che intendeva la scultura dipendente dallo stile architettonico; e quella che, all’opposto, riconosceva alla scultura, per via delle sue qualità plastiche, un carattere architettonico che la rendeva indipendente dall’architettura stessa. Superare i limiti che erano seguiti alla chiusura della scultura italiana in se stessa, nelle sue problematiche contingenti, e ridarle una nuova identità: queste erano le prime urgenze a cui si doveva porre rimedio. Diversi problemi, tuttavia, complicavano il secondo dopoguerra. In primo luogo l?evidente arretratezza della produzione plastica italiana rispetto ai lessici contemporanei, tema ampiamente discusso dalla critica e di cui erano pienamente consapevoli gli stessi scultori. La causa principale era stata la censura alle correnti artistiche più innovative avvenuta durante i venti anni di dittatura. Gli scultori italiani, sfogliando clandestinamente le riviste straniere come ad esempio i parigini Cahiers d’Art, conobbero i nuovi lessici plastici, ma dovettero metterli in pratica con oculatezza. Si pensi, ad esempio, della testa del San Giovannino (1931) di Giacomo Manzù, che per la forma ovoidale, l’arcata sopraccigliare collegata con la sporgenza filiforme del naso faceva riferimento agli ovoidi di Costantin Brancusi. Tuttavia Manzù non seguì la strada dei volumi puri e delle teste scultoree autonome di Brancusi: assimilò una soluzione formale, continuando a restare all’interno delle ricerche plastiche sulla terracotta a cui si stava dedicando Martini in quegli anni. Per gli scultori italiani aderire apertamente alle forme d’arte censurate dalla dittatura avrebbe significato essere esclusi dalle mostre e non vendere le proprie opere su un mercato italiano già in sé apatico. La chiusura alle correnti internazionali, in special modo quelle francesi, rientrava in un progetto delineato: promuovere una idea forzata di arte “mediterranea” dove l?arte italiana (o per meglio dire “italica”) sarebbe dovuta prevalere su tutte quelle provenienti dalle altre nazioni, che dovevano apparire “livellate”, legate alla propria tradizione e lontane da qualsivoglia lessico aggiornato. In tal senso, furono esemplari le Biennali di Venezia di Antonio Maraini, che bloccarono l’ingresso alle correnti internazionali più sperimentali, prime fra tutte quelle francesi, avvertite come le più pericolose per l’identità dell’arte italiana sostenuta dal regime. Venne così promosso un linguaggio artistico nazionale, omogeneo, che rispecchiasse i valori e le aspirazioni del fascismo. La seconda questione da affrontare nel dopoguerra fu la pubblicazione, nel 1945, di Scultura lingua morta di Arturo Martini, un volumetto stampato per la prima volta in una cinquantina di copie ma che circolò tra critici e artisti. Le sentenze di Martini vennero intese, ad una prima lettura, come una nichilistica affermazione della morte della scultura, quella italiana in particolare. Sembrava che Martini, da quelle pagine, intendesse come statuaria tutto ciò che presentava «fatti illustrativi» andando così a negare la validità del «soggetto costante della scultura: la figurazione d?uomo e d?animale». Martini attaccò il facile ricorso al mito, al tipo, al sentimentale. Ma sarebbe bastato leggere con attenzione quegli aforismi per trovare le indicazioni per giungere ad una nuova scultura: una scultura non più schiava della fedeltà all’anatomia, dai toni più bassi e meno autoreferenziale costruita attraverso la modellazione dei vuoti e attraverso la centralità dell’ombra quest’ultima intesa non come risultante dell’illuminazione, ma come vero e proprio elemento plastico. Pochi scultori intesero immediatamente la portata di Scultura lingua morta. Primo fra tutti, Alberto Viani, che nel 1945, anno della prima pubblicazione di Scultura lingua morta, era l?assistente di Martini all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Viani a partire dal 1942, quando seguiva le rivoluzionarie lezioni di Martini all’Accademia, iniziò a metterne in pratica gli insegnamenti, in special modo quelli che sollecitavano a porre in discussione la grammatica tradizionale del nudo . Anche Mirko, che fu allievo ed assistente di Martini della prima metà degli anni trenta, seguì le riflessioni di Martini per una nuova scultura. Tra il 1946 e il 1950 le sfruttò per capovolgere i canoni del bronzetto, superando la prevalenza dell’immagine in scultura e liberando quest’ultima dai vincoli imposti dalla materia, senza seguire la coerenza anatomica per un soggetto figurativo. Gli furono di aiuto le conoscenze sull’arte statunitense filtrate dalla stretta amicizia con Corrado Cagli dalle pitture di Julio Gonzalez alle sculture di Isamu Noguchi, a quelle di Jackson Pollock possedute da Peggy Guggenheim ed esposte a New York nella galleria Art of this Century, sino alle tele di Cagli stesso. E prima ancora che la “moda” di Henry Moore dilagasse in Italia dopo la personale alla Biennale di Venezia del 1948, Mirko prese spunto dalle sculture in legno e corda realizzate dallo scultore britannico tra il 1937 e il 1940 per aggiungere singolari valori al bronzetto. Quattro piccoli bronzi, Motivo musicale (1947), Concerto (1948), Enea (1948), Senza titolo-Composizione (1948), stabilivano un nuovo rapporto tra spazio esterno e spazio interno dell?opera attraverso delle corde di ferro, tese ed incrociate, che, analogamente alle sculture di Moore, imprigionavano lo spazio e conferivano rigidità ad una costruzione plastica antropomorfa. I fraintendimenti sul testo di Martini riemersero al momento della sua seconda pubblicazione, nel 1948. I recensori dell’attesissima XXIV Biennale di Venezia, riaperta nel 1948 dopo un periodo di inattività espositiva durato sei anni a causa del conflitto bellico, parlarono della scultura italiana come di una “scultura morta”, arretrata e pertanto “in crisi”, sfruttando le parole di Martini senza comprenderle per rendere più drammatico il confronto con la produzione internazionale. Del resto, nelle sale del Padiglione Centrale della Biennale del 1948 spiccarono poche sculture italiane: quelle degli unici ambasciatori all’estero della plastica italiana, Marini con la sua assimilazione di archetipi plastici, l’equilibrio rigoroso della combinazione di forme, masse, linee; e quelle del vincitore del Gran Premio per la Scultura italiana, Manzù, campione dei giochi chiaroscurali, del dialogo tra scultura e pittura, delle atmosfere liriche ed intime. Nella sala del Fronte Nuovo delle Arti si respirarono delle novità nelle sintesi neocubiste di Leoncillo Leonardi, nella rilettura dell’arcaismo di Nino Franchina, nei volumi puri di Alberto Viani. Ma a conti fatti, la scultura italiana si era presentata al più importante evento espositivo del dopoguerra ancorata a repertori tematici (prevalentemente nudi, ritratti, soggetti mitologici) e lessici plastici debitori degli anni passati, per nulla adeguati al contesto contemporaneo. Il problema di come conferire una nuova identità all’arte italiana e soprattutto alla scultura fu di particolare importanza per Giulio Carlo Argan. In Pittura italiana e cultura europea (1946) Argan iniziò a sostenere che «l’incontestabile ritardo della pittura italiana» rispetto al panorama europeo era determinato dal fatto che non si era ancora riusciti a «distruggere criticamente» la tradizione, che sarebbe certo tornata a farsi presente, ma solo dopo aver adottato, non passivamente, una coscienza internazionale ed europea, diventando così «segno di una realtà nuova». Il tema, ovviamente, si prestava ad essere esteso anche alla scultura, della quale Argan discusse nell’articolo dedicato ad Henry Moore e pubblicato su Letteratura nello stesso anno. La riflessione di Argan partiva dalla questione del rapporto dell’arte contemporanea inglese con la tradizione: se nel dopoguerra l?arte inglese, in special modo la scultura, fu protagonista di una imprevista rinascita fu perché in Gran Bretagna mancava una solida tradizione figurativa. Questo, secondo Argan, aveva permesso agli artisti inglesi di aprirsi pienamente all’arte europea e all’arte astratta, passando attraverso «quella fase della concretezza assoluta, della pittura come realtà immediata, causa invece che effetto dell’emozione». La questione della tradizione venne esaminata anche da Cesare Brandi. Ma mentre per Argan la tradizione doveva essere superata, per Brandi doveva costituire il punto di partenza: la conquista di una nuova identità dell’arte italiana doveva essere raggiunta trovando una linea di continuità con la tradizione. Brandi affrontò queste tematiche nel 1947 in Europeismo e autonomia di cultura nella pittura moderna italiana, una disamina della condizione della pittura moderna italiana con cui aprì il primo numero della rivista che aveva appena fondato e di cui era direttore, L?immagine. L?articolato intervento di Brandi nacque come risposta agli interventi europeisti di Argan, in particolare quello sulla pittura italiana del 1946. Brandi, di fronte al pericolo di un avvicinamento alle mode europee, sostenne la necessità di riconquistare un?«autonomia di cultura» che sarebbe stata raggiunta facendo leva sui fondamenti e sulle basi della tradizione pittorica italiana, «l’unico attivo per cui non si deve conto o riparazioni». Il testo considerava la pittura, ma anche in questo caso poteva essere allargato alla scultura. Sempre sul primo numero di L’immagine, l’intervento per gli appena deceduti Maillol, Despiau, De Fiori e Martini costituì per Brandi il giusto pretesto per contestare l’altro aspetto tirato in ballo da Argan, ovvero l?astrazione: la scomparsa di quegli scultori, che avevano contrastato il naturalismo ottocentesco, avrebbe potuto avvantaggiare si interrogò Brandi  «quella tendenza astratta che, nella scultura, aveva vissuto la vita eccentrica d’un’avanguardia ormai canuta, neppur più capace di sollevare polemiche»? Certamente per Brandi, che di lì a poco avrebbe definito l’astrazione come «vacuo tentativo di essere non-figurativo», la domanda era del tutto retorica. Ma diversamente dalle sue aspettative, la scultura italiana a partire dal 1948 trovò la propria salvifica linfa nello scultore “astratto” a cui aveva riservato i commenti più caustici, il “Messia” Henry Moore. Questi scritti precedevano di un biennio l’uscita dell’unico testo teorico sulla scultura nel panorama estetico italiano del secondo dopoguerra: il Periplo della scultura moderna, che rivela in diversi passaggi delle riflessioni di Brandi nate dalla lettura di Scultura lingua morta di Martini. Come, ad esempio, quando Brandi individuò in Canova il responsabile della frattura tra immagine e formulazione dell’immagine stessa in scultura, una rottura che aveva aperto al neoclassicismo e al suo aver fatto dell’arte antica «una lingua morta» mirando, in un eccesso di formalismo, alla «sagoma senza sondare la forma» contro la prevalenza dell’immagine si era espresso Martini. O quando Brandi rimproverò al neoclassicismo di essersi relegato in una degradazione dello spazio naturale appartandosi «nella sfera della pura figuratività», negando l?autonomia spaziale a favore di una realtà umana affievolita, immobilizzata, generica (è esplicito il riferimento alla condanna martiniana di una scultura che si chiude nelle sue funzioni illustrative). Brandi, inoltre, aveva colto alcune considerazioni di Martini che squalificavano Marini e Manzù, gli unici scultori italiani spendibili in quel giro d’anni in un contesto internazionale. In Scultura lingua morta laforisma che elevava il primato dell’anonimia su quello della personalità andava inesorabilmente a porre in discussione la riconoscibilità stilistica dei “tipi” di Marini. E quando Martini attaccava la sensibilità «ossigeno da moribondi, risorsa estrema» si schierava contro il sentimentalismo di Manzù e delle superfici delle sue opere, appena graffiate: «la scultura antica ha sempre sdegnato la sensibilità. Quello che gli scultori moderni chiamano con questo nome  non è che l?aspetto creato dalle corrosioni patine screpolature o rotture del tempo». Brandi, all’opposto, chiuse il Periplo con i due medaglioni dedicati a Manzù e Marini, capovolgendo gli attacchi di Martini ed insistendo su quanto quest’ultimo aveva declassato: la lavorazione delle superfici plastiche. Esaltò quelle di Manzù perché accoglievano fratture e “scalfiture” e rafforzavano una costruzione per piani e volumi stratificati. Lodò quelle di Marini perché in esse la superficie plastica «appena irritata, sollecitata dalla luce come da uno spillo, ma a quella luce impenetrabile», rendeva un?atmosfera più che segnare il ritmo o le linee strutturali dell’opera, permettendo all’immagine di manifestarsi e di non rimanere né chiusa né congelata nelle forme. Questo significava che Marini non aveva mascherato un modellato inerte ed accademico, ma che aveva fatto «affiorare lo spazio interno all’esterno», conducendo ad una frattura tra lo spazio esistenziale dell’osservatore e la spazialità della scultura. L’operazione di Brandi era chiara: alla constatazione dell’arretratezza della scultura italiana del dopoguerra si poteva uscire attraverso il ricorso alla tradizione e, nel frattempo, sostenendo i più validi scultori la cui produzione si era sviluppata negli anni con coerenza e senza subire incrinature. Manzù e Marini rappresentavano per Brandi l’eccellenza della scultura italiana perché ad entrambi era spettato il merito di aver superato i limiti prodotti dalla scultura dell’Ottocento, sebbene per vie divergenti. Manzù aveva rimediato alla mancanza ottocentesca della «costituzione d’oggetto» ed aveva ripristinato il valore della «formulazione d’immagine», riconquistando lo spazio plastico attraverso la dinamica interna della forma, divenuta «il ritmo segreto della modulazione plastica». Marini, che Brandi definì «il superstite vittorioso della sfortunata spedizione ottocentesca nei campi minati della forma», aveva superato l?ostacolo impressionista della diffusione della scultura nella luceatmosfera, riportato il volume plastico in una spazialità autonoma ed affrontato i problemi della forma senza rinunciare ad una «cultura d?immagine» . Tra il 1948 e il 1950 Argan si impegnò profondamente per restituire un?identità rinnovata alla scultura italiana ponendola a confronto con le tendenze europee, cercando delle risposte concrete a Scultura lingua morta. Il 1948 vide il critico impegnato nella stesura di due scritti di singolare rilevanza: la prima biografia straniera su Henry Moore e la presentazione della collezione di Peggy Guggenheim per il catalogo della XXIV Biennale di Venezia. Durante il suo soggiorno di studi al Warburg Institute di Londra nel 1946, Argan visitò Henry Moore nella sua casa a Perry Green, dando inizio ad un?amicizia duratura che si consolidò negli anni, nutrita da una continuativa corrispondenza durata sino agli anni settanta. Per Argan, l?astrazione di Moore era dotata «di un?esistenza non più simbolica ma reale» in cui la natura, risolta come rappresentazione concettuale, era un passato da conoscersi storicamente e la realtà, data come problema aperto e come uno stato di crisi della coscienza, era l?assoluto presente da cogliersi e vivere nell’atto. Argan, nella monografia del 1948, presentò Moore come un?artista che si era «preservato dalla crisi della cultura figurativa moderna» ma al tempo stesso lo promosse come «scultore di forme astratte». E? stridente e limitativo definire Moore come astrattista alla data del 1948, dal momento che la maggior parte della sua ricerca esplorava soggetti figurativi. Il presupposto teorico, però, da cui partiva Argan era il rinvenimento nell’opera di Moore della concezione dell’astrazione come processo dinamico tra realtà e uomo, che non giungeva mai a risultato e in cui la materia si costituiva nel tempo, senza offrirsi come definitivamente costituita. L?astrazione, così formulata da Argan, era il momento più elevato della vita in quanto immanente alla realtà e pertanto storia. Sotto questo profilo di cornice marxista, Argan vide, non senza forzature, nelle opere di Moore la presenza di una materia che «è innanzitutto storia» , relazionata ad uno spazio inteso come fenomenologia del reale dal momento che non escludeva il sensibile dal processo di astrazione. Diversamente da Mondrian e Kandinsky, che invece avevano negato il reale, Moore aveva mantenuto vivi i contatti con la natura e con la realtà. Nel testo per la collezione di Peggy Guggenheim, ospitata non senza critiche interne alla Commissione per le Arti Figurative della XXIV Biennale nel Padiglione Greco, Argan definì l’astrazione in maniera confusa ed incerta. Presentò genericamente come «astratte o non figurative» le correnti artistiche che «escludendo ogni relazione tra il fatto artistico e la natura, considerano l’opera d?arte non come rappresentazione di oggetti, ma oggetti essa stessa», riducendo l’astrazione ad una pura sperimentazione atta sorprendere la fenomenologia del fatto artistico nel suo prodursi. Due, secondo il critico, erano le correnti dell’astrazione: una partiva dal cubismo e tendeva alla «pura costruttività, alla genesi mentale della forma»; l?altra prendeva le mosse dall’esperienza espressionista e da quella Fauves, aveva come referente Kandinsky e mirava alla «designazione di un puro ritmo attraverso la sintesi della sensazione di spazio e tempo». L’intervento, oltre a non rappresentare la Collezione Guggenheim, mise in luce le difficoltà incontrate da Argan nel rapportarsi ad un argomento che non gestiva ancora con piena maturità . Argan difatti era scivolato in un?impasse teorica. Nel testo per la Collezione Guggenheim aveva escluso dall’astrazione ogni contatto tra arte e natura, facendola così assurgere come momento culminante della manifestazione artistica, ma al tempo stesso chiudendola ad un evento interno all’arte stessa, esclusivo della fenomenologia dell’arte. All’opposto, nella monografia su Moore definì l?astrazione in termini di fenomenologia del reale insistendo proprio su quanto invece aveva bandito nel testo per la Collezione Guggenheim, ossia l?inserimento del sensibile nel processo di astrazione, elemento nodale per la lettura del fatto astratto come immanente alla realtà nel suo essere processuale tra realtà stessa e uomo, pertanto storia. L’assegnazione del Gran Premio per la Scultura alla Biennale di Venezia del 1948 a Manzù, rappresentante di un «„sud? sicuramente cattolico e romano», confermò ad Argan la predisposizione della scultura italiana di conservare quegli elementi «le materie, i processi,  i contenuti ed i tipi»  desunti da una tradizione plastica ancora legata al figurativo. Questo non penalizzava agli occhi di Argan l’opera di Manzù, al quale, assieme a Marini, riservò un posto di privilegio nella plastica italiana. Le logiche di Argan erano tuttavia differenti rispetto a quelle di Brandi: entrambi gli scultori avevano superato il formalismo novecentesco attraverso un?esigenza morale (cattolica in Manzù, laica in Marini); entrambi avevano fatto appello a quella tradizione che Martini aveva sfumato nel mito e nella favola, riabilitando la «possibilità di una storia» . Inoltre, il rifiuto di Marini all’arbitrio dell’invenzione e l?instaurazione di una coscienza storica, non solo secondo Argan istituiva rigorosamente una «pura plastica» e un?intangibilità della forma, ma conseguentemente portava anche alla degradazione dei contenuti («la “lingua morta” della scultura») spingendo la scultura ad acquistare, alla pari del linguaggio storico, «la forza di una sentenza e di una sanzione». Se Marini era per Argan il vessillo dell’uomo del mito moderno per quel suo incalzare la storia ed assumerla come dato di fatto, Manzù aveva superato la fine della statuaria identificando idea e cristianesimo: la storia così era insieme umana e divina e postulava «una verità d?immagine oltre la “finzione” del modellato» . Durante l’estate del 1944 lo scultore bergamasco Giacomo Manzù si trovava a Laveno, ospite dell’industriale De Angeli-Frua, che lo aveva incaricato di eseguire una maschera funebre e un ritratto della moglie. Durante questo soggiorno Manzù lavorò molto, riprese il tema delle Erbe a cui si era dedicato qualche anno prima, e scrisse diverse lettere agli amici, come quella citata, indirizzata alla signora Anna Musso. Sono poche, semplici parole, ma rivelano alcuni aspetti importanti dell’esperienza dell’artista a quest’epoca. Da un lato il bisogno quasi fisiologico di applicarsi alla materia scultorea, secondo un istinto che si pacifica solo quando tocca «la grazia che gli viene dal lavoro quotidiano», secondo un’attitudine che sarebbe andata accentuandosi sempre più nel carattere di Manzù, che nel dopoguerra, quando avrà raggiunto una celebrità internazionale, farà di questa artigianalità dell’ispirazione una specie di ‘marchio di fabbrica’. Dall’altro, la necessità del lavoro raccolto nella solitudine del proprio studio, dove le opere prendono forma, vengono fatte e disfatte. Uno studio che negli anni della seconda guerra mondiale, dal 1942 al 1945, Manzù installò a Clusone, cittadina della Val Seriana dove decise di sfollare insieme alla moglie Tina Oreni e al figlio Pio, in una sorta di autoesilio. Lo studio di Clusone gli era stato procurato nientemeno che dal Direttore generale delle Arti del Ministero dell’educazione nazionale, Marino Lazzari, che aveva scritto di persona al podestà Silvestro Messa («Poiché egli desidera sistemarsi in codesto Comune per svolgervi il suo lavoro, e poiché si tratta di artista di altissime qualità e di chiarissima fama, Vi sarò grato se vorrete in ogni modo facilitare a lui e alla sua famiglia la migliore sistemazione»). Manzù era arrivato nel capoluogo seriano nell’inverno del 1942 e aveva trovato ospitalità presso la villa del professor Carrara. Aveva scelto Clusone su suggerimento dell’amico Attilio Nani, scultore a sua volta, la cui bottega di via Torretta 10, a Bergamo, il giovane Manzù aveva frequentato a lungo. E come lui l’avevano frequentata anche altri artisti e intellettuali bergamaschi come Achille Funi, Alberto Vitali, Trento Longaretti, Bartolomeo Calzaferri, che adesso si ritrovavano quasi per caso tutti radunati a Clusone in una sorta di piccolo convivio di esiliati (di cui facevano parte anche Umberto Vittorini, Ezio Pastorio, Pietro Fassi e Arturo Tosi). Con loro Manzù ritrovava il senso di una comunità artistica interessata a discutere e confrontarsi, come l’aveva sperimentata a Milano nel corso degli anni Trenta. La scelta di Clusone, d’altra parte, era stata fatta anche per ragioni pratiche: la presenza di una stazione ferroviaria  che rimase in funzione durante tutto il tempo di guerra permetteva allo scultore di raggiungere agevolmente Milano e Bergamo, ma anche Torino e Roma, dove continuò a recarsi lungo quei tre anni per ragioni d’insegnamento e di attività espositiva. Quando arrivò a Clusone nel febbraio del 1942 Giacomo Manzù era un giovane scultore di trentaquattro anni pienamente affermato nella scena artistica nazionale, ed era già considerato a tutti gli effetti un ‘maestro’, perché la sua scultura aveva cominciato a influenzare quella dei suoi contemporanei, ma anche, in senso letterale, perché aveva iniziato a praticare l’attività didattica. Nel giugno del 1941 la nomina per «meriti artistici eccezionali», «senza concorso e con esenzione dal periodo di prova», alla cattedra di scultura dell’Accademia di Brera con immediato trasferimento all’Accademia Albertina di Torino, in uno scambio di cattedre con Marino Marini aveva costituito l’ultimo, significativo episodio di un percorso di ascesa che lo aveva portato a distinguersi quale una della personalità più importanti e stimate nel panorama dell’arte italiana. Milano era stato il suo primo palcoscenico. Vi era arrivato nel 1928 e vi restò per un quindicennio, prima di prendere la strada della valle. Era, quella, la Milano del novecentismo e dell’antinovecentismo, dell’apertura all’arte astratta con la Galleria del Milione di Ghiringhelli, la Milano dello spiritualismo di Edoardo Persico e quella delle raffinate edizioni di Scheiwiller, la Milano dell’architettura razionale del bar Craja con la sua bohème di critici, artisti e letterati e quella dell’impegno politico di «Corrente». Una Milano molto propensa a offrire spunti per un’aneddotica fervida e duratura, che nel caso di Manzù si è spesso sostituita a un’approfondita ricostruzione biografica: il viaggio a Parigi e il rimpatrio forzato per manifesta indigenza, la mansarda condivisa con Aligi Sassu e lo studio in corso XXII Marzo abbandonato di notte per non pagare la pigione, la fede regalata a Tina Oreni fatta con i rimasugli dell’oro usato per la porticina di un tabernacolo per l’Università Cattolica, le gallette che Guttuso gli lanciava dalla finestra della caserma per sfamarlo. In quella Milano, nonostante tutto, Manzù restava ai margini, frequentando tutti e soprattutto Sassu, Birolli, Quasimodo, Vittorini, Guttuso , ma non facendo mai integralmente parte di alcun gruppo; anche a costo di attirare su di sé accuse di ambiguità: come quelle dell’amico Birolli, che sarebbe arrivato a definirlo «umanista delle convenienze». La sua formazione di (quasi) autodidatta, d’altra parte, l’aveva reso insofferente rispetto alle sovrastrutture interpretative e ai posizionamenti ideologici che all’epoca condizionavano inevitabilmente la discussione sui fatti artistici. Ad ogni modo, forte di un «inconsapevole, istintivo primitivismo», arginato da un evidente «bisogno di chiarezza formale» che sovrastava l’impeto del sentimento, l’opera di Manzù s’impose molto rapidamente all’attenzione della critica, tanto che Carlo Ludovico Ragghianti già nel 1940 poteva definire Manzù «uno scultore celebre, accettato senza riserva». E questo nonostante la feroce polemica scoppiata nel gennaio 1941 a seguito dell’esposizione alla Galleria Barbaroux di quattro bassorilievi intitolati Cristo nella nostra umanità, che rappresentavano le scene della crocifissione e della deposizione di Cristo, avesse mobilitato contro lo scultore buona parte della critica ‘ufficiale’. In quella serie Manzù aveva scelto di riunire l’immagine dei carnefici di Cristo nelle fattezze di un «soldato nudo, ventruto, ritto su gracili gambette, di piccolo sesso, munito di sciabola generalizia al fianco e di elmetto tedesco in testa», mentre la Vergine era stata sostituita da una «prostituta, disfatta nel corpo abbondante», rendendo così evidente la natura polemica e soprattutto politica dell’opera. L’esposizione aveva suscitato scandalo, forse anche perché aveva avuto l’appoggio di un critico ‘istituzionale’ come Cesare Brandi, che su «Le Arti», rivista propriamente ministeriale, aveva fatto pubblicare anche la riproduzione di una di quelle opere, accompagnandola con un commento tutto concentrato sugli elementi plastici della scultura, mirato cioè a disinnescare i prevedibili tentativi di esegesi ideologica. La stampa di regime (Telesio Interlandi, Giovanni Preziosi) e quella cattolica (Celso Costantini) si erano lanciate in una campagna denigratoria contro lo scultore, che arrivò addirittura a rischiare la scomunica. Era servita tutta la diplomazia di Monsignor Giuseppe De Luca di cui si dirà per permettere a Manzù di ottenere un colloquio con papa Pio XII e giustificare le proprie scelte artistiche. Proprio Brandi fu uno degli interlocutori privilegiati per Manzù negli anni di Clusone. Il rapporto tra i due era recente, ma caloroso fin da subito. Nelle lettere i reciproci apprezzamenti si alternano agli aggiornamenti sul lavoro creativo e su piccole commissioni che il critico riesce a procurare allo scultore. Poi, a un certo punto, gli scambi si concentreranno su un progetto che avrebbe dovuto accreditare la produzione di Manzù nell’alveo delle istituzioni ecclesiastiche: il progetto della Grande pietà, per il quale la mediazione di Brandi sarebbe stata fondamentale. Prima di arrivare a questo punto, però, è necessario osservare come le lettere di questi anni rappresentino per Manzù vere ‘scritture del dispatrio’, espressioni di un bisogno di mantenere i contatti con il mondo dell’arte  insolito per un personaggio come lui, che per decenni avrebbe costruito la sua fama sull’immagine dell’artista isolato, laconico, burbero. Dell’archivio epistolario di Manzù ancora oggi si sa molto poco, anche a causa della mancanza di un «ordinamento sistematico dell’archivio cartaceo» avviato, in forma embrionale, solo intorno al 2000 e a quanto si sa tutt’ora in corso. Non giustifica una simile situazione il fatto che Manzù non sia mai stato un appassionato scrivente, forse anche per via di una non completa dimestichezza con l’italiano. D’altra parte proprio il periodo di Clusone rappresenta un frangente eccezionale nel suo percorso artistico; l’isolamento in qualche modo autoinflitto scatena nello scultore la necessità di mantenere attiva la sua presenza nella diasporica comunità intellettuale e artistica (milanese e non solo), spingendolo a ricorrere alle lettere più spesso di quanto non fosse abituato. L’epistolario di questi anni è ricco e variegato e, pur ricostruibile attualmente solo a partire dagli archivi dei destinatari, consente di dare corpo a una rete di relazioni eterogenee per origine e appartenenza che dicono molto del profilo umano e culturale dello scultore. Ci sono gli amici, come i coniugi Fubini, Anna Musso, il poeta Libero De Libero o Attilio Nani, i critici come Brandi, Ragghianti e Giulio Carlo Argan, i ‘colleghi’ come Luigi Bartolini, Toti Scialoja o un ancora apprendista Mario Negri, ma anche i poeti come Salvatore Quasimodo e gli editori come Ferdinando Ballo e Giovanni Scheiwiller. L’epistolario di questi anni offre di Manzù un’immagine nuova: quella di un artista che, seppur autodidatta e interessato quasi esclusivamente a portare avanti una ricerca propria e autonoma rispetto alle mode del tempo, si dimostra sensibile alle istanze espressive delle altre arti (come la musica e la letteratura), ma soprattutto coinvolto in un processo collettivo che vede gli intellettuali italiani esprimere, ciascuno secondo i propri mezzi chi facendo libri, chi disegnando o scolpendo, chi componendo verso, il bisogno di fare arte «come motivo di presenza umana»; un’arte che riportasse al centro la dimensione esistenziale dell’uomo per ricostruire da lì il sostrato culturale della civiltà italiana, devastata dal ventennio fascista e dagli anni della guerra. E sono le lettere con gli editori a rivelare meglio questi caratteri. Sono diversi quelli che cercarono di coinvolgere Manzù nella realizzazione di disegni da inserire in pubblicazioni illustrate, secondo una tradizione libraria raffinata che, paradossalmente, negli anni di guerra vide una proliferazione eccezionale di proposte e anche di riuscite. Con Ferdinando Ballo già pianista e direttore d’orchestra, poi cronista musicale all’«Ambrosiano», collaboratore di «Domus» e «Casabella», infine fondatore insieme all’industriale Achille Rosa delle edizioni Rosa e Ballo Manzù intrattiene tra gennaio e luglio del 1943 una breve ma fittissima corrispondenza conservata nel fondo Rosa e Ballo presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori  che ha per oggetto la realizzazione delle illustrazioni di un volume del compositore Goffredo Petrassi, probabilmente gli Inni sacri. Il libro doveva rientrare in «una collana di musica sacra in belle edizioni illustrate» (Ballo a Manzù, 23 gennaio 1943) che avrebbe connotato fortemente l’identità dell’editore che in quei mesi avviava la sua attività. È evidente che l’unione di uno dei compositori più abili e raffinati del panorama italiano e di un artista di fama consolidata doveva sembrare a Ballo la soluzione migliore per garantire alla collezione una riconoscibilità molto forte. E nei piani dell’editore Manzù sarebbe dovuto essere coinvolto anche nella realizzazione di altri volumi. Tuttavia, nonostante l’immediata disponibilità dichiarata da Manzù, la corrispondenza mette in luce fin da subito gli ostacoli che avrebbero portato al naufragio dell’iniziativa. Innanzitutto lo scultore tarda a rispondere alle lettere dell’editore, attende a fissare appuntamenti, non dà aggiornamenti sul lavoro in corso, mentre Ballo, che aveva già in mano gli spartiti di Petrassi, ha urgenza di chiudere il volume per cominciare a mettere un primo mattone nel catalogo della nuova casa editrice che proprio di questa dispersione di energie, tra progettazione e realizzazione dei piani, soffrirà fino alla fine. Anche perché nel frattempo i bombardamenti su Milano si erano fatti più frequenti, e così la distanza che separava i due si rivelava un ostacolo ancora più insormontabile per la preparazione del volume. Neanche il trasferimento di Ballo a Treviglio, nella bassa bergamasca, nell’aprile del 1943, riuscì ad agevolare i loro incontri. Il 3 giugno l’editore rimproverava senza mezzi termini  anche se con una certa bonarietà «Carissimo pasticcione, si può sapere cosa hai combinato?» lo scultore: «Sbrigati a rispondere altrimenti corri il rischio di prenderle tanto da me quanto da Petrassi che scalpita dall’impazienza» (Ballo a Manzù, 3 giugno 1943). In realtà il 10 luglio, a un mese dal precedente contatto, Manzù avvertì che le acqueforti erano pronte e doveva solo trovare il modo di stamparle; solo che la lettera arrivò a Ballo troppo tardi: il tempo a disposizione per realizzare il progetto ormai era scaduto. Il 20 luglio le acqueforti si trovavano ancora a Clusone e Ballo, ormai rassegnato di fronte all’‘autosabotaggio’ di Manzù, si diceva pronto ad attribuirgli tutta la responsabilità del fallimento del progetto; che naufragò, in effetti, insieme all’iniziativa delle edizioni musicali illustrate e insieme alla collaborazione tra Ballo e Manzù. Ebbe invece successo la collaborazione con Giovanni Scheiwiller, che aveva tuttavia radici ben più profonde. Scheiwiller era stato il primo a scrivere una monografia sulla scultura di Manzù, un piccolo volume corredato di dieci fotografie, stampato nel novembre del 1932 in 350 volumi dalla tipografia L’Eclettica di Milano. A spingere l’editore a scrivere era stata una sintonia spontanea di fronte alla scultura dell’artista, segnata da una sorta di ‘inattualità’ immediatamente riconosciuta. Nelle sculture di Manzù, Scheiwiller doveva senz’altro aver colto un riflesso di quell’ideale estetico che poi egli avrebbe sempre perseguito, attraverso un catalogo fatto di «testi inediti o rari, di litografie e incisioni originali, di opere prime, di piccoli libri di grandi autori con edizioni in sedicesimo e in ventiquattresimo, di tirature molto limitate». Quell’episodio aveva segnato l’inizio di una frequentazione tra Scheiwiller e Manzù, cementata da una corrispondenza che si protrasse con discreta continuità fino al 1945 conservata oggi nell’Archivio Scheiwiller presso il Centro APICE di Milano. Manzù, come tanti altri artisti nella Milano degli anni Trenta, aveva trovato in Giovanni Scheiwiller un vero punto di riferimento, al quale mandava (o portava di persona) fotografie delle opere in corso di lavorazione che andavano ad arricchire la ricca e ordinatissima fototeca dell’editore , ricevendone in cambio invii periodici delle nuove pubblicazioni e un’attenzione critica ed editoriale incomparabile. Questa consuetudine era ormai consolidata quando Manzù si trasferì a Clusone negli anni della guerra, che Scheiwiller trascorse invece «in continuo spostamento tra Milano, la sua baita sotto il Grignone e la frazione Garotto di Cernobbio, sul lago di Como» e proseguì a mezzo posta. A partire dal dicembre 1944 lo scambio si concentra sulla preparazione di un volumetto dedicato all’opera di Manzù da inserire nella collezione ‘Arte Moderna Italiana’, pubblicata da Hoepli ma affidata alle cure di Scheiwiller, che poi la rileverà. Si tratta della piccola ma preziosa monografia che sarebbe uscita nel 1946, con un testo di presentazione di Beniamino Joppolo. Il volume avrebbe dovuto raccogliere un ricco numero di riproduzioni (alla fine saranno 32) a testimonianza di un’intera fase della produzione di Manzù, dalla svolta del 1934 fino agli anni della guerra. Si troveranno infatti tra le ultime tavole del libro anche i particolari del complesso della Grande Pietà, al quale Manzù aveva cominciato a lavorare all’inizio del 1943 e che lo stava coinvolgendo a tal punto da impedirgli di spostarsi da Clusone («è un’opera che forse verrà destinata dal Vaticano per una Basilica Romana», scrive a Scheiwiller il 24 gennaio 1945). Si spiega così l’ennesimo invito a Scheiwiller di andare a trovarlo in valle per concordare i dettagli del lavoro così come aveva fatto con Ballo e come avrebbe fatto di lì a poco anche con Marco Valsecchi, che intendeva prendere accordi per un volume da far uscire per le edizioni Uomo. Tra le fotografie che Manzù mandò a Scheiwiller, però, a colpire di più quest’ultimo furono le riproduzioni delle Crocifissioni e Deposizioni, su cui lo scultore continuava a lavorare. E lo colpirono a tal punto che decise di dedicare loro uno specifico volume nella preziosa ‘Serie Illustrata’ sotto le insegne del Pesce d’oro, per la preparazione del quale, naturalmente, coinvolse l’artista. Nacque così il volume pubblicato con il titolo di Passio Christi a nome di Aligi Sassu, autore di un testo critico a commento degli otto bassorilievi di Manzù. Un volume importante per Scheiwiller, perché si presentava al pubblico selezionato dell’editore animato dalla stessa tensione strutturale che governava la collana ‘All’insegna del Pesce d’Oro’: un «libro-sineddoche», come lo ha definito Stefano Ghidinelli, ovvero «un campione o un segmento esemplare dell’ipotetico taccuino dello scultore», che viene invitato dall’editore, e dall’originale formato tipografico, a «operare una prima sintesi esemplare del continuum avantestuale dell’ispirazione». Inizialmente Scheiwiller avrebbe voluto che il testo di accompagnamento fosse di mano di Manzù, il quale aveva declinato l’invito «quanto lei gentilmente mi ha chiesto non è possibile; non concepisco scrivere della propria opera» il 24 marzo 1945, obbligando l’editore a trovare un’alternativa. Tuttavia, nel momento in cui ebbe sotto gli occhi il testo dell’amico Sassu, Manzù si dovette sentire costretto a redigere una paginetta di presentazione, che si trova nel volume finito di stampare nell’agosto del 1945. Quello di Sassu era infatti un testo ‘d’artista’, in cui «prevalgono gli elementi sentimentali su quelli puramente formali» e che quindi non doveva soddisfare molto lo scultore, che voleva invece che il suo ciclo fosse accolto e compreso come parte integrante di un percorso di riflessione artistica personale. Così, il 7 luglio 1945, Manzù spedì a Scheiwiller un breve scritto in cui restituiva ai bassorilievi lo statuto di ‘studi’ su un tema, corrispondenti a uno stato d’animo contingente ed eseguiti sull’onda di quel sentimento; al tempo stesso, però, legava quel primo ciclo a un progetto scultoreo che ampliava la trasfigurazione in chiave biblica dell’immaginario contemporaneo e che sarebbe proseguita con «altre due serie: La Pietà, e Il Convegno dei Santi e Martiri». Manzù dava così la coerenza di un percorso alle opere alle quali si era dedicato prima e durante gli anni di Clusone e trasformava quell’importante ciclo, che tante discussioni aveva suscitato dopo la mostra alla Galleria Barbaroux, nella prima tappa di un percorso che sarebbe dovuto proseguire proprio sul tema della Pietà, affrontato nell’omonimo bozzetto. A questo proposito, sono altre le lettere che consentono di vedere come Manzù provasse in qualche modo a sfruttare l’autoesilio clusonese per mettere a punto una strategia di riposizionamento nel campo artistico che gli permettesse, dopo la guerra, di dare nuovo slancio alla sua parabola. In primis c’è l’avvocato Fubini, che insieme alla moglie Stefania e alla già citata Anna Musso, è il destinatario di una ventina di lettere che, costellando tutto il periodo di Clusone, permettono di tracciare le oscillazioni dell’umore dell’artista, il quale dopo l’iniziale entusiasmo per il raccoglimento creativo clusonese, con l’inasprirsi del conflitto cominciava a considerare il prolungamento dell’esilio con sempre maggiore insofferenza. Ad aggravare la situazione erano arrivate, il 26 agosto del 1944, la requisizione dello studio, che veniva messo a disposizione del Comando Militare Germanico di Clusone, e il mese successivo la convocazione per la presa di servizio a Brera: lo scarso livello degli allievi e il disagio dei continui spostamenti non lenivano in alcun modo l’insofferenza di Manzù, amplificata se mai dalla fatica con cui riusciva a portare avanti i propri lavori. Di questi, puntualmente, Manzù lasciava traccia nelle lettere attraverso schizzi improvvisati ai margini dei testi. Sono disegni fatti con ironia e senza troppa attenzione, con il solo intento di dare agli amici un’idea del suo modo di lavorare e di quanto aveva in cantiere mentre scriveva; tuttavia, oltre a dimostrare la sua grande abilità nel disegno, forniscono puntuali aggiornamenti sul suo laboratorio creativo. Qui compaiono di volta in volta le Crocifissioni, alcune variazioni sul tema Il pittore e la modella e anche, in una lettera del 22 ottobre 1943 ad Anna Musso, una prova del bozzetto della Grande Pietà, l’opera più significativa tra quelle intraprese a Clusone e soprattutto un «punto d’arrivo e, insieme, di partenza nell’ambito della sua produzione sacra». Contrariamente a quanto sostiene una certa vulgata, il progetto della Grande pietà testimonia la resistente ambizione dello scultore a realizzare un’opera ‘grande’, sia per le dimensioni che per la destinazione, dato che venne pensata per il monumento funebre a papa Pio XI. Questo lavoro, inoltre, certifica il mutamento dell’orizzonte dello scultore, che da qui in poi avrebbe rivolto a Roma le sue attenzioni, come dimostra anche la candidatura, nel luglio 1947, al concorso per la realizzazione della Porta di San Pietro in Vaticano. A prescindere da quanto Manzù fosse consapevole di come questo suo nuovo orientamento avrebbe poi condizionato radicalmente la sua parabola artistica e la sua immagine pubblica, è evidente fin da questo progetto l’intenzione di cercare nel Vaticano una nuova e più sicura committenza. Sono le lettere a Cesare Brandi a certificare come questo progetto acquisti progressivamente centralità nell’interesse di Manzù. Era stato Brandi, d’altra parte, che a Roma aveva presentato l’opera di Manzù a don Giuseppe De Luca, prete romano, erudito bibliofilo, editore in prima persona, ma soprattutto sostenitore di un dialogo tra arte contemporanea e istituzioni ecclesiastiche al di sopra di ogni pregiudizio. Manzù l’aveva conosciuto nel 1941, nei giorni della polemica sui bassorilievi del Cristo nella nostra umanità esposti alla Barbaroux di Milano: alla serie di proteste scandalizzate levatesi negli ambienti ecclesiastici si era inizialmente sommata anche l’indignazione di De Luca, che aveva visto in quelle opere una provocazione senza pregi. La necessità di fare chiarezza sui valori artistici e anche ideologici dell’opera di Manzù spinsero Brandi a fare la conoscenza di De Luca. L’opera di persuasione riuscì tanto che De Luca, convintosi dell’importanza del tema prescelto da Manzù e delle scelte espressive adottate, si sentì a tal punto in torto con lo scultore che volle conoscerlo. Vista quindi la passione con cui De Luca aveva ‘sposato’ la causa artistica di Manzù, lo scultore si era convinto che la sua intermediazione avrebbe potuto favorire significativamente i propri interessi. “Proporre quest’opera al papa era già nella mia mente; l’avrei fatto appena le possibilità me l’avessero permesso. Quindi figurati la mia contentezza nel sentire da parte tua e di Don De Luca l’entusiasmo e l’apprezzamento.” Manzù aveva chiesto a Brandi di mostrare a De Luca il bozzetto della Grande pietà e questi ne aveva apprezzato soprattutto il modo in cui lo scultore era riuscito a esprimere «una intuizione degna di un Padre della Chiesa», con la figura della Madonna sostituita da quella di un pontefice, metafora della Chiesa che «porge all’adorazione del clero e dei fedeli e al conforto degli uomini straziati il corpo sacrosanto di Gesù, più straziato ancora del nostro». Il bozzetto, infatti, si compone di tre elementi: al centro si trova la figura di un cardinale o di un pontefice, distinguibile per i paramenti liturgici, che sorregge il corpo nudo di Cristo; ai lati due prelati che, inginocchiati, pregano rivolti verso il Cristo morto, l’uno alzando lo sguardo in una sorta di devota ispirazione, l’altro volgendo gli occhi verso il basso in segno di commosso raccoglimento. Affinché nulla di quella ‘trovata’ iconografica andasse frainteso, Manzù si era premurato di affidare a un altro ecclesiastico, don Bartolomeo Calzaferri, anche lui rifugiato a Clusone, la stesura di un breve testo di presentazione che accompagnasse alcune fotografie della Grande Pietà in una pubblicazione che avrebbe visto ufficialmente la luce solo nel 1946, ma che già negli anni della guerra dovette avere una certa circolazione. Lo scultore aveva infatti pensato quel piccolo opuscolo come un fascicolo di autopromozione da mandare ai diretti interessati; e non è un caso che la lettura proposta da Calzaferri, che era dotato di una riconosciuta sensibilità letteraria, ma non certo di particolari doti nell’esegesi del fatto artistico, sia tutta sbilanciata sugli aspetti biblici e spirituali della rappresentazione sacra, utile quindi ad accreditare la candidatura dello scultore a farsi interprete di un rinnovato spirito cristiano, moderno e al tempo stesso sensibile ai valori dell’arte religiosa tradizionale. Anche per questo, probabilmente, De Luca aveva accettato con entusiasmo la proposta di collocazione del monumento. E il progetto sembrava andare nella direzione sperata da Manzù, tanto che nell’aprile del 1944 Brandi aveva cominciato a pensare di creare interesse intorno all’opera pubblicandone qualche riproduzione su riviste ecclesiastiche come «L’Osservatore romano» o «Ecclesia». Manzù, inoltre, confermava che i primi riscontri critici sul bozzetto erano stati positivi (pensava forse a Scheiwiller), inattese conferme di come gli esiti della sua ricerca più personale potessero incontrare uno spontaneo favore proprio presso quegli ambienti che in altri momenti non gli avevano risparmiato critiche. L’insistenza affinché Brandi e De Luca si facessero carico della promozione del progetto della Grande Pietà si spiega proprio con il grande investimento simbolico di cui Manzù aveva caricato l’opera. Che pure rimaneva allo stato di bozzetto, poiché la realizzazione finale sarebbe stata necessariamente condizionata dall’architettura all’interno della quale posizionarla. L’attesa, intanto, macerava l’animo dello scultore, che per l’impazienza di vedere il proprio progetto realizzato si diceva pronto a ripensarlo anche «per una chiesa qualunque in Roma» (7 maggio 1944). Da questa prospettiva il grande impegno profuso intorno alla Grande pietà mostra come Manzù fosse interessato da un lato a concludere l’opera indipendentemente dall’effettività della sua destinazione, dall’altro a insistere sull’intervento di De Luca nella sua vicenda, poiché solo il prelato avrebbe potuto sostenere la sua candidatura. Tanto che, da un certo punto in poi, la realizzazione dell’opera verrà messa in secondo piano rispetto alla prosecuzione dei rapporti con il prelato, al quale Manzù si era affidato per una propria sponsorizzazione in Vaticano. Fu De Luca, infatti, ad aiutarlo ad avere l’incarico per la realizzazione della Porta di San Pietro (conclusa solo dopo la sua morte – avvenuta nel 1962 – e a lui dedicata) e anche quello per la realizzazione del busto di papa Giovanni XXIII, figura che ha ricoperto un ruolo fondamentale nel consolidamento dell’immagine di Manzù come ‘scultore dei papi’. Ed è curioso come una diretta corrispondenza epistolare tra i due sia cominciata solo nel 1946, quando la guerra era finita, Manzù era tornato stabilmente a Milano e, soprattutto, il progetto della Grande pietà era definitivamente tramontato. Un fatto, questo, che aiuta a confinare quel progetto nell’alveo dell’autoesilio di Clusone, periodo davvero fecondo per la produzione di Manzù, che aveva maturato una strategia di auto-costruzione artistica negli scambi epistolari, in quelle ‘scritture del dispatrio’ che gli servirono come terreno di riflessione meta-compositiva, ma anche di verifica delle proprie possibilità come scultore in un campo artistico che avrebbe mutato radicalmente i connotati rispetto al periodo del ventennio. Fin dai primi anni del dopoguerra Manzù si distinguerà come uno dei protagonisti dell’arte italiana contemporanea, molto più di quanto non avesse fatto nella prima metà del secolo e non solo per ragioni anagrafiche: a confermarlo si potrebbe citare il primo premio della XXIV Biennale di Venezia nel 1948 (peraltro molto discusso e che resta tuttavia l’ultimo grande riconoscimento artistico). Merito di un’attenta strategia artistica, appunto, perseguita da Manzù con convinzione, anche a costo di veder irrigidirsi la sua immagine pubblica, sempre più vincolata alle etichette affibbiategli dalla stampa generalista e sempre più distante dagli orizzonti della nuova ricerca artistica.
 
 
Galleria d’Arte Moderna Roma
L’estetica della deformazione. Protagonisti dell’espressionismo italiano
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