1626: è l’anno in cui si celebra la riedificazione in forma nuova dell’antica cattedrale segnina. Dalla vicina Roma, artisti di grande sensibilità scoprono, in ispecie in pittura e architettura, le forme mai viste d’una tecnica nuova: le linee diritte delle trabeazioni e delle facciate degli edifici sacri “si piegano” sollecitando nuove fughe e nuove prospettive; gli interni aborriscono il freddo dialogo ad angolo retto del classico arredo rinascimentale; un “respiro” nuovo anima le chiese e le cattedrali più cospicue: il barocco prende forma e sostanza, influenzando d’ora innanzi le avanguardie delle conquiste artistiche. Sempre a Roma, Bernini, Borromini e Pietro da Cortona “dettano legge”: sono loro i “novi magistri”, alla cui sequela si pongono, con diseguale fortuna ma con pari accanimento, manipoli non rari di discepoli e apprendisti, che, ammirati da tanta e sovrabbondante “novità”, tentano le minori strade della periferia romana. Le pur ragguardevoli opere di costoro si ritrovano, in tal modo, ad arredo e ornamento nei palazzi nobiliari e nelle chiese del contado romano.

Per quella sollecitudine così comune tra le genti nostrane verso le “cose belle”, non v’è cittadella, paese o, a volte, borgata, che non aspiri a impreziosirsi almeno d’una di quelle opere che fanno “unico” il Palazzo della Comunità o la Chiesa patronale. Prìncipi e famiglie nobiliari non si esimono dal perseguire, a mo’ di lustro per la loro schiatta, l’abbellimento con affreschi e quant’altro le loro sedi più importanti e rappresentative. Zagarolo per la famiglia Rospigliosi, Genazzano per i Colonna, Valmontone per i Pamphily ? per fare solo alcuni esempi ? divengono così centri di un potere che ormai poteva esprimersi soprattutto nell’esibizione di un fasto collegato alla magnificenza delle loro dimore.
Segni, l’antica città ultramedievale, sede antichissima e prestigiosa di Diocesi praticamente da sempre, non può, naturalmente, tollerare che la propria cattedrale, ormai dispersa tra ruderi e mutili resti di antiche vestigia, non abbia a risorgere come dalle proprie ceneri dopo il sacco del 1557. Notabili della città, sostenuti dall’orgoglio e dallo zelo di tutti i cittadini, nonché dall’interessata presenza del Vescovado, portano alla riedificazione, in chiave barocca, della Cattedrale cittadina.
Ma non esiste riedificazione nuda e cruda che tenga senza il supporto, specialmente per una chiesa, dell’apparato figurativo-simbolico a necessario ornamento della sacra struttura. I segnini, che per fama sono oltremisura benpensanti e lungimiranti, non potendo evidententemente aspirare ad avere nella loro chiesa addirittura opere del Bernini, si acconciano ad averne, tra altri, (e non è poco!) di Giovan Battista Gaulli, Francesco Cozza e (senza escludere la possibile presenza di Pietro da Cortona), soprattutto, dei fratelli borgognoni, Guglielmo, Giacomo e Antonio Courtois.
Non si può affrontare l’argomento dell’
Esaltazione della Croce a cuor leggero. Ne va della spontaneità e della “sincerità” del dire. Sia per il credente che per l’agnostico, si pone, allora, il problema di porre l’argomento in parola nel contesto del sentire comune, non estraneo tuttavia alle lusinghe (o ai richiami) dei misteri religiosi. A seguire, si può leggere un modesto tentativo di introdurre il tema dell’”esaltazione della Croce” quale prolusione a quello che in seguito si dirà sul conto delle opere dei fratelli borgognoni ospitate nella cappella del Sacramento della cattedrale di Segni.

.Durante tutto il Medioevo e fino al Rinascimento, contemporaneamente alla venerazione del Crocifisso, si sviluppò ben presto l'adorazione della Croce intesa come “legno” sul quale si sarebbe consumato l'estremo sacrificio. Nacque così il mito della "vera" croce grazie anche alla fortuna estremamente popolare della raccolta di agiografie
Legenda aurea di Jacopo da Varagine, scritta dal vescovo ligure intorno al 1230 e subito tradotta in
Leggenda dalla vulgata.
È in questo filone storico-religioso che si pone e si spiega il capolavoro di Piero della Francesca, le
Storie della Vera Croce (1460), affreschi scaturiti, in particolare, dai precedenti lavori di Agnolo Gaddi nel coro di Santa Croce a Firenze e di Cenni di Francesco nella cappella della Croce di Giorno della chiesa di San Francesco a Volterra.
Esattamente due secoli dopo le
Storie di Piero, una piccola “impresa” artistica, formata da tre fratelli provenienti dalla Borgogna, Guglielmo, Giacomo e Antonio Courtois, in pieno periodo barocco si dedicava alla decorazione d'interni di palazzi nobiliari e di chiese.
Corre l’anno 1661, i tre artisti ormai già affermati in altre imprese che li avevano visti protagonisti si ritrovano eccezionalmente insieme ad affrontare gli affreschi della cupola e i dipinti della Cappella del Sacramento. Il decoro della cupola è affidato ad Antonio, mentre la Cappella, con i tre olii tutti e tre ispirati all’Esaltazione della Croce, secondo gli studi più recenti è lasciata alle cure di Guglielmo e Giacomo.
C’è qui da considerare come sia oltremodo difficile stabilire il “quantum” dipinto dall’uno e dall’altro fratello. Fatto è che la Cappella non mostra discontinuità o disarmonie di sorta ma tutta insieme e con sole tre raffigurazioni sintetizza il ritrovamento e l’esaltazione della vera Croce. A Giacomo, il “Borgognone delle battaglie”, vero maestro degli scontri guerreschi, è deputato il compito della pittura delle scene più complesse; a Guglielmo, invece, quelle di carattere più “pianamente” narrative: una simbiosi non solo d’intenti ma di felice sintesi nella resa d’insieme.
Ma, a scanso di ulteriori preamboli, si entri nella Cattedrale dopo aver salito i gradini dell’ampio sagrato. La Cappella del Sacramento di cui si vuol dire si presenta subito a sinistra della grande navata. I dipinti sono tre a illustrare le tre pareti, quella d’altare e le due laterali.
? La “lettura” iconografica più corretta è quella che parte dall’olio su muro di destra,
Ritrovamento della Croce di S. Elena, madre dell’imperatore Costantino, S. Macario patriarca di Gerusalemme e il popolo davanti le mura della Città Santa (1661). In forma magna, baroccamente illustrata, nella gestualità enfatizzata di tutti i personaggi che la compongono (secondo l’esempio di Pietro da Cortona, ma magistralmente mitigata da un sentire e da una visione classicheggianti) la scena, d’aspetto pressoché teatrale, mostra Sant’Elena nell’atto del ritrovamento (un fatto già di per sé miracoloso) delle tre croci del Calvario e, a riprova della veridicità di quanto scoperto, viene trovata anche la tavoletta infissa in alto sulla croce di Cristo con il motivo della condanna, così come preteso da Pilato. Tavoletta che viene mostrata a Sant’Elena, che ne resta evidentemente sgomenta.
Si pone, allora, il grande problema: vi sono tre croci, due certamente dei ladroni; ma quale è la “vera” Croce che sopportò il martirio di Gesù? Interviene a questo punto, secondo la leggenda, il vescovo di Gerusalemme, San Macario, che, rapito dal momento altamente “drammatico” ( e, per capire l’entità di questa “drammaticità”, si immagini di fare una tale “scoperta” oggidì), invoca e quasi reclama il “segno” di un miracolo. Senza por tempo in mezzo fa toccare in successione con le croci una matrona che stava lì lì per esalare l’ultimo respiro. Al tocco della terza croce, la matrona guarisce. È quella la Vera Croce. È l’inizio di una devozione pressoché universale: il legno del sacrificio del Salvatore si fa esso stesso non solo icona ma sacro mezzo invocato nella liturgia del sacrificio misericordioso del Redentore e nelle cerimonie pubbliche e private della pietà popolare.
Ma si torni, ancora per un po’, sulla scena così copiosamente rappresentata. Una prospettiva più che magistralmente fugata, quasi in trasparenza leonardesca per le visioni delle mura in lontananza di Gerusalemme, si fa momento ecumenico di dialogo cielo-terra (non mancano i putti incuriositi dal ritrovamento di tal fatta) e il luogo stesso della scoperta si fa motivo di raduno d’una folla che accorre frastornata da tale novella (non manca una mamma con il suo bambino che “vuole essere presente” e lo stesso Vescovo a fatica arranca verso il miracoloso evento. In primo piano restano le croci appena portate alla luce: sono due, la Terza, evidentemente, è già rapita dal destino d’essere portata a testimonianza nel mondo. Elena, infatti, la divide in tre parti con destinazione Costantinopoli (per il figlio imperatore), Gerusalemme (per il Vescovo Macario) e Roma (qui, per custodirla, viene costruita La Basilica Helaniana, anche detta Sessoriana, ma universalmente nota con il titolo di S. Croce in Gerusalemme).
? A sinistra, ancora un olio su muro,
Recupero della Croce. L’imperatore Eraclio che porta la croce; il re dei Persiani Cosroe: il Patriarca di Gerusalemme Zaccaria, soldati e popolo (1661). La Vera Croce, ovvero quella parte che ne era rimasta a Gerusalemme dopo la “spartizione” eleniana, tre secoli dopo il suo ritrovamento, e cioè nel 630, viene trafugata, tra lo sgomento del popolo di Gerusalemme, da Cosroe, re dei Persiani. Eraclio, imperatore di Costantinopoli, se ne fa un cruccio tanto da decidere di lottare contro Cosroe, al quale sottrae il sacro legno e s’apparecchia a riportarlo a Gerusalemme. Giustamente orgoglioso per tale impresa, in gran parata, in alto i vessilli della grande vittoria, tra uno stuolo di cavalieri, Eraclio fa per entrare a Gerusalemme. Ma i conti non gli tornano: le porte della Città Santa gli si chiudono davanti. Rabbia e sgomento. Subito dopo però gli si para innanzi, inoppugnabile, la verità. Egli non può portare la Croce nei sontuosi paludamenti imperiali dopo che il Salvatore l’aveva trasportata tra i flagelli del supplizio fino al monte Calvario.
Cambiamento di scena e di programma: Eraclio, in atteggiamento profondamente e sinceramente penitenziale, avvolto in umili vestimenti, riporta “a spalla” la Croce entro le mura di Gerusalemme.
Questa la leggenda. E Guglielmo Courtois, soprattutto lui, la rivolge in pittura in maniera affatto esemplare. La scena, anche qui, è da “opera magna” che, però, pur nella sua magniloquenza, descrive un fatto di “cronaca”, quasi l’atto di un
fotoreporter. Eraclio, penitente, ma con passo tuttavia imperiale, Croce in ispalla, guida un corteo di popolo curioso e tutto preso dal vedere uno spettacolo del tutto inconsueto. Non manca la guardia imperiale (bellissimo il cavallo bianco che segue l’imperatore), ma si muove defilata. Il Vescovo Zaccaria pare consolare e incoraggiare, novello Cireneo, il ben disposto, augusto penitente. E, a completare l’insieme, non manca la nota “a effetto”: la mammina che, con l’indice proteso, indica l’accadimento al suo bambino.
? I due cennati avvenimenti costituiscono tuttavia il prologo di quello che attende la Vera Croce: la sua
esaltazione a imperituro motivo del sacrificio del divino Figlio e a gloria della sua discesa salvifica tra gli uomini. Per il dipinto a olio sulla tela d’altare Guglielmo Courtois sa di trovarsi di fronte ad un’impresa immane, da rappresentare tuttavia in aspetto quanto mai “leggibile” come si conviene per le opere anche le più complesse.
La Croce assurge così, nell'ideazione dell’artista, a simbolo universale, assisa sul mondo, non di dominio ma di servizio, non d'iniquità ma di giustizia, non di odio ma di fratellanza, un miracolo di sintesi: un legno incrociato che racchiude la storia dell’Antico e del Nuovo Testamento, la Premessa e la Storia di un Dio che sceglie di farsi uomo per redimerlo; e racchiude, altresì, quasi un “Terzo” Testamento compreso e costretto in un unico comandamento: «Amatevi gli uni gli altri come fratelli».
La Croce, composta d’un asse verticale elevatissimo, si fa scala ascendente congiungente la terra col cielo, dove, tra cori angelici adoranti (delizia per gli occhi dell’osservatore), si fa faro di luce perpetua.
La composizione, tanto semplice quanto ardita, ha destato la critica negativa di qualche critico supponente col definire questa pala d’altare la meno riuscita tra le tre opere che decorano la cappella. Ma il capolavoro è evidente: nulla potendosi eccepire per la tecnica – pari di certo a quella di Pietro da Cortona, se non addirittura di Bernini – quali altri significati e messaggi potevano concepirsi in un’opera destinata a celebrare l’esaltazione della Croce?
Guglielmo e Giacomo Courtois, dunque e soprattutto, due artisti che, nella loro capacità di accogliere e assommare gli stimoli e le istanze della “nuova” arte, che sempre più si profilava specialmente nella Roma papale, senza però indulgere in inutili manierismi, raccoglievano consenso e successo, un motivo in più per far dire allo storico dell’arte Luigi Lanzi, del primo: « Il Borgognone , fu de' migliori di questa epoca; scolare piuttosto che imitatore di Pietro (da Cortona) . La sua stima era pel Maratta (Carlo), a cui aderì nella scelta e varietà delle teste, e nella sobrietà della composizione più che ne' partiti delle pieghe o nel colorito: in questo mise una lucentezza che ha del fiammingo . Influì nel suo stile ancora il fratello, di cui fu ajuto, e lo studio ne' caracceschi : spesso parve avere imitato dal Guercino il forte rilievo e gli azzurri campi . Merita che di lui si vegga la Crocifissione di S. Andrea nella sua chiesa a Monte Cavallo, la battaglia di Giosuè al palazzo del Quirinale , una Madonna fra varj SS. alla Trinità de' Pellegrini . Vi si trova una unione felicissima di varj stili , nè mai se ne indovinerebbe la scuola se la storia non l' additasse» . E di Giacomo: «Gesuita, detto dalla patria il Borgognone, portò quest'arte “della battaglia” fin dove non giunse né prima, né dopo lui . Lo stesso
Michelangelo delle battaglie (Cerquozzi) scoprì il suo talento, e dagli altri studj di pittura che coltivava , lo rivolse , e fermollo in questo. La battaglia di Costantino espressa da Giulio (Romano) nel Vaticano fu l'esemplare per segnalarvisi. Aveva prima già militato, e le idee della guerra non gli venner meno fra l'ozio di Roma e del chiostro. Egli dà un'evidenza a' dipinti , che par vedervi il coraggio che combatte per l'onore e per la vita ; sembra quasi udirvi, come altri ha scritto, il suono della guerra , l' annitrir de' cavalli , le strida di que' che cadono; uomo quas' inimitabile nel suo genere; di cui dicevano i suoi scolari , che i lor soldati combattevan da giuoco ; quei del Borgognone da vero ; e fu , come dicono, pieno di colore; onde fa miglior effetto in lontananza che da vicino; frutti come può credersi di quel tempo, che passò in Venezia osservando Paolo (Veronese) , e in Bologna convivendo con Guido (Reni)» (
Storia pittorica della Italia, 1795-1796). Un riconoscimento non da poco per due pittori che,”non avendo lavorato che in Italia, non appartengono alla scuola francese che per la loro nascita” (
Biografia universale antica e moderna ossia Storia per alfabeto, Vol. XIV, 1823).
Luigi Musacchio
OTTOBRE 2018