di
Massimo FRANCUCCI
Ricco di capolavori e accompagnato da un solido catalogo è in mostra da qualche giorno alle
Scuderie del Quirinale il
Museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova, a cura di
Valter Curzi, Carolina Brook e
Claudio Parisi Presicce, per analizzare gli scopi, i modi e gli esiti che presiedettero alla partenza e alla successiva restituzione di molte opere d’arte sottratte ai luoghi di origine nel corso del pur effimero regno napoleonico e rientrate con la
Restaurazione.
Il sogno malcelato di
Bonaparte era la nascita a Parigi, centro dell’impero, di un museo universale che ne esaltasse il potere politico e che favorisse il rilancio dell’arte francese: se ciò ha portato all’irrimediabile perdita di contesti artistici, data la concomitante soppressione di numerose istituzioni religiose, ha d’altra parte riacceso l’interesse per l’opera d’arte quale esempio paradigmatico di patrimonio condiviso, d’orgoglio e di valore identitario dei vari campanili italiani.
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Come troppo spesso accade, l’importanza del patrimonio artistico viene riconosciuta solo nel momento della sua perdita, come accade oggi quando piangiamo le ferite inflittegli dal terremoto, non più rimarginabili. La nuova concezione di museo che scaturì da quegli eventi è in voga ancora oggi, scontata per chi è nato nel secolo scorso, ma che mostra la corda in un mondo sempre più interattivo. Decontestualizzate, le opere si offrirono ad uno studio ravvicinato e diedero la possibilità in un’epoca in cui gli spostamenti erano alquanto costosi e complicati, di poter riunire in un sol luogo gli apici della produzione artistica di sempre, la cui conoscenza era considerata imprescindibile e propedeutica alla nascita di nuovi capolavori. La possibilità di osservare i dipinti da una posizione privilegiata condusse poi a un rinnovato interesse per la tecnica con cui erano stati realizzati e per la loro conservazione; peccato che ciò implicasse in Francia l’uso del trasporto delle tavole su tela, con la perdita di una miriade di informazioni, e per sempre.
Il merito del viaggio in Italia del
commissario Denon è quello di aver favorito la riscoperta dei primitivi, di pari passo con l’interesse collezionistico per questi incunaboli dell’arte europea che l’inflazionarsi dei capolavori classicisti andava favorendo. La stessa
Rivoluzione francese, con la dispersione della
collezione d’Orleans a Londra andava promuovendo anche in Inghilterra il cambio di gusto, tra i privati in prima battuta, negli anni precedenti la nascita della
National Gallery[1].
Sulla base della selezione operata dai commissari francesi si è fatta, in occasione della mostra, una scelta felice di opere allo scopo di ricreare in piccolo una
Grande Galerie. Dopo un omaggio reso alle figure che presiedettero alle restituzioni, un bel ritratto di
Pio VII di
Camuccini, uno di
Canova - suo il
Marte e Venere - donato allo scultore da
sir Thomas Lawrence, il grande pittore che dipinse anche i ritratti ufficiali di
re Giorgio IV; presenziano i calchi del
Laocoonte Vaticano che con
l’Apollo del Belvedere è un’immagine emblematica delle ferme intenzioni accentratrici di Napoleone.Tra Quattro e Cinquecento si individua nella linea che da
Perugino conduce a
Raffaello, in mostra il suo
Leone X, la via maestra del classicismo che non può dimenticare il
Correggio prima di inebriarsi del colorismo veneto. Non sarà un caso se al momento di stimare la
collezione Borghese -in mostra la copia d'arpinesca della
Deposizione Baglioni - saranno

proprio
Tiziano con
Raffaello e
Correggio a strappare le valutazioni più alte. Guardava a
Correggio Annibale Carracci quando dipingeva il suo
Compianto su Cristo morto per i cappuccini di Parma, mentre un legame viscerale lega il
Guercino, qui presente con un giovanile ma già sbalorditivo
San Pietro dalla natia Cento, alla commovente
Carraccina, firmata da
Ludovico nel 1591 per la
chiesa della Trinità della stessa cittadina emiliana.
Un bel
Plutone di
Agostino Carracci per un soffitto estense a
Palazzo dei Diamanti potrebbe aver ispirato l’ostentata nudità sfoggiata dal dio degli inferi nel
Casino Ludovisi di
Caravaggio, se questi è mai stato a Ferrara. Ora trionfa
Guido Reni, con la
Strage degli innocenti e il
San Giovanni Battista. Un piccolo aggiornamento bibliografico si rende necessario per la
Fortuna dell’
Accademia di San
Luca, scelta con poca originalità quale emblema della mostra: la scheda in catalogo non tiene conto del fatto che, in seguito al recente restauro, la tela sia stata riconosciuta come la medesima descritta da
Filippo Baldinucci in
casa Altoviti a Firenze, dipinta da
Antonio
Giarola e ritoccata da
Reni rimpiazzando il borsello con la corona per fare un dispetto all’
abate Gavotti che aveva esposto pubblicamente la prima versione del quadro non ancora finito e per di più rapidamente inciso dallo
Scarsello rubandone l’invenzione
[2].
Verona svolse un ruolo importante nella volontà francese di completare le proprie collezioni con i massimi esempi del rinascimento in laguna, come testimoniano il
Veronese, Tintoretto e soprattutto la pala dell’
Assunta realizzata da
Tiziano per la cattedrale scaligera.
Al piano superiore vi sono opere meno scontate che comunque attrassero l’attenzione del già nominato commissario al
musée Napoléon,
Vivant Denon, in Italia nel 1811, tra cui si segnala la predella di un polittico di
Agnolo Gaddi in cui riconoscere la mano del giovane
Lorenzo Monaco: la
Decapitazione di San Giovanni Battista è stata eseguita da un boia così bravo da recidere la testa con un colpo preciso risparmiando le sottostanti mani giunte in preghiera. L’
Ecce Homo del
Perugino, Zanobi Machiavelli e il piemontese
Mazone, con un dipinto che dalla
cappella Sistina di Savona è approdato ad Avignone via Parigi, servono a dar conto degli interessi eclettici del funzionario capace dopo la prima scrematura effettuata di indirizzare la sua attenzione su artisti non ancora correttamente rivalutati.
Le restituzioni presiedettero alla costituzione di importanti gallerie cittadine da affiancarsi alle rispettive accademie artistiche, come ad esempio a Bologna e a Venezia. Un
Simone dei Crocifissi che voleva essere un
Vitale,
Francesco Francia che avrebbe tanto voluto essere
Raffaello e un
Cima da Conegliano fuori sede testimoniano l’importanza della pittura a Bologna prima del suo secolo d’oro, mentre il problematico “
Stefano Plebanus”, un bel
Bartolomeo Vivarini e due santi di
Crivelli, già parte a Camerino del trittico della
Madonna della candeletta, ceduti poi da
Brera a Venezia ansiosa di rimediare all’assenza in patria di un così grande figlio con uno scambio di figurine, testimoniano l’importanza delle
Gallerie dell’Accademia.
Lo stesso discorso sarà da estendere alla collezione meneghina, da ammirare il Moretto, conteso col Louvre, e da sottolineare la predominanza della scultura, arte che a Milano in
Bambaia toccò uno dei suoi apici.

La
Venere italica di
Canova, l’
Italia del 1848 di
Hayez e alcuni esemplari della serie di busti progettati da
Canova per celebrare i grandi italiani al
Pantheon, ricordano che la restituzione rafforzò il valore identitario dell’Italia e del suo passato ancor prima che il Risorgimento conducesse all’unità del Paese celebrando la centralità ricostituita di Roma.
L’entusiasmo per tanta bellezza non dovrà però farci dimenticare i rischi che lo spostamento di tanti capolavori comporta, come ci ricorda la sfortunata avventura del
Laocoonte che sui ghiacci del Moncenisio, sulla via del ritorno a casa, si procurò una frattura che nessuna assicurazione potrà mai risarcire.
Massimo Francucci