Fundamentals, cioè Fondamentali. È il titolo con cui ha aperto quest’anno la Biennale di Architettura di Venezia, che si concluderà il prossimo 23 novembre. La Mostra, curata da un protagonista dell’architettura contemporanea, come l’olandese Kerm Koolhaas (Rotterdam, 1944) si presenta infatti nello stesso tempo “radicata nella disciplina e multidisciplinare, protesa verso i nuovi sviluppi del costruire e consapevole del passato comune e delle molteplici storie proprie dei vari Paesi chiamati a contribuire”, come ha scritto Alessandro Martini sul Giornale dell’Arte. Riprocedere dalle “basi” insomma, “dai Fundamentals del costruire”, questo è quanto reclama un titolo così evocativo: “Dopo edizioni spettacolari, ricche di incursioni in mondi onirici ma poco realizzabili, la Mostra internazionale di Architettura (nata nel 1980) torna alle origini di un lavoro di ricerca che guarda al futuro, senza archistar e senza troppo spettacolo”.

 
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E' una considerazione che ci pare possa ben attagliarsi alle idee ed alla produzione grafica che Franco Luccichenti ha raccolto in una pubblicazione edita da De Luca Editori d’Arte (Roma, 2009) qualche anno fa: Architettura nascente (fig. 1), ma che certamente - proprio a confronto con l’impostazione e i fini che la manifestazione veneziana si prefigge - mantiene ancora attuali tutti i motivi che l'avevano suggerita.
Il libro comprende decine di disegni, schizzi, acquerelli, tecniche miste, composti in una serie di fogli, tra l'altro molto ben illustrati, raffiguranti idee, progetti e studi realizzati a partire dal 1977, in più di un trentennio di lavoro e di impegno alla guida di uno studio di architettura a Roma: “Una sorta di inventario - come scrive Claudio Strinati nella sua Introduzione - di possibili soluzioni architettoniche che sono messe su carta con un senso di totale libertà e, insieme, di forte concretezza e di attenzione alla Storia e alla Natura”.
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L'interesse per la pratica del disegno è un fenomeno che riguarda tanto l'antico che il moderno, che ha attraversato tutte le epoche, esprimendosi in vari e differenti ambiti realizzativi. Se lo si considera frutto di come l’impulso espressivo possa manifestarsi e successivamente determinarsi graficamente - in una pittura o in una scultura o in un'opera architettonica - anche a prescindere dalla realizzazione pratica, allora esso diviene testimonianza delle capacità comunicative dell'autore, cioè una sorta di dato che mette a nudo il processo creativo che si viene a formare a monte di un lavoro, in una logica di piena ed autonoma indipendenza mentale.

architettura 3In effetti, in queste prove, pur improntate ad uno spirito di forte modernità, Franco Luccichenti mostra, oltre ad una buona dose di maestria, un forte attaccamento alla storia ed in genere alla propria (nostra) cultura. Né poteva essere altrimenti, in un paese in cui l’esperienza figurativa ha valorizzato ed esaltato il disegno, ritenuto perfino la prima e più spontanea creazione della mente, anzi “una espressione e dichiarazione del concetto che si à nell’animo”, come scriveva Giorgio Vasari svolgendo la propria teoria del disegno, decisamente incentrata sulle elaborazioni michelangiolesche :”Il disegno procede dall’intelletto - annotava lo storico aretino - il quale intelletto di molte cose ne cava un giudizio universale ed è come una forma et idea della natura”. (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, a cura di A. M. Francini Ciaranfi, Firenze, 1963, I, p. 151).
Con queste idee, egli traduceva in forma teorica compiuta quelle che da tempo erano le sue convinzioni e che avrebbero fatto scuola per larga parte della critica d’arte, almeno a partire dal 24 maggio del 1562, allorquando inaugurando la cappella Montorsoli, nel chiostro del Convento della chiesa dell’Annunziata a Firenze, riconosceva nel Disegno, per l’appunto, “il padre universale dell’arte nostra”. Il grande storico e artista aretino non faceva altro che addivenire a quella che era stata precisamente  la volontà espressa dall’amico Giovanni Angelo Montorsoli (Firenze, 1507 – 1563), un frate servita nonché artista - ora ignoto ai più, ma a suo tempo scultore di rilievo (collaborò anche con Michelangelo in san Lorenzo e fu attivo soprattutto a Messina) - il quale appena un anno prima della sua scomparsa gli aveva rivelato l’intenzione di voler donare quella cappella affinchè vi fossero sepolti, oltre a lui stesso, “tutti gli uomini dell’arte del disegno”: nello specifico “pittori, scultori ed architettori” qualora  non avessero avuto un “proprio luogo dove essere sotterrati”.

architettura 4E tuttavia, onorare al meglio la memoria del caro amico, dopo che questi era appena scomparso, avrebbe significato soprattutto dare il via anche all’idea - di cui i due avevano discusso insieme, almeno a leggere le Vite dell’aretino - di ripristinare in qualche modo, giusto in quella cappella, la ormai da troppo tempo scomparsa  “Compagnia del disegno” che era stata in vigore al tempo di Giotto. Ma Vasari, anche in ragione del ruolo di primo piano che aveva assunto presso la corte medicea, percepì immediatamente che l’evento si sarebbe potuto prestare anche ad un altro scopo, ed infatti, a leggere le cronache del tempo, egli non si limitò ad una semplice celebrazione dell’ amico e delle sue volontà. Egli approfittò della circostanza per far trasferire nella cappella appena inaugurata, anche il corpo di un grandissimo artista da poco defunto, vale a dire Jacopo Carucci, meglio noto come il Pontormo (Pontorme, 1494  - Firenze, 1557), i cui resti però, a dire il vero, erano già inumati nel primo chiostro dell’Annunziata.
Cosa aveva dunque suggerito allo storico di esorbitare sia pure parzialmente dalle volontà del Montorsoli?
La verità è che si sapeva che le ultime pitture lasciate dal Pontormo nel coro della Chiesa di san Lorenzo avevano fatto e stavano facendo molto discutere quanto ad ortodossia religiosa; quegli ‘strani’ affreschi infatti a qualcuno sembravano richiamare molto da vicino le proposizioni sulla ‘giustificazione per fede’ apparse qualche anno prima in un libretto noto come Il Beneficio di Cristo, censurato dalle autorità ecclesiastiche per le sue tesi eterodosse, ma che stava avendo un clamoroso successo (pare che a Venezia in pochi mesi ne fossero state vendute 40 mila copie). Portare dunque i resti del Pontormo in un luogo sacro deputato all’accoglienza funebre degli artisti, significava anche recuperarne la figura in chiave di osservanza religiosa, reinserendola dentro la retta dottrina del cattolicesimo, legittimandone così il ruolo, la veste sociale, se si può dire, se non le opere, o almeno “quelle” opere (che infatti proprio dal Vasari saranno molto criticate e successivamente - quasi due secoli dopo - cancellate).
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architettura 6Ovviamente non è questa la sorte che attende le composizioni di Franco Luccichenti; eppure, se un parallelo può essere consentito, esso potrebbe dipendere - detto con estrema cautela - dalla considerazione che, a nostro parere, l’autore sembra avere delle sue creazioni, che in effetti paiono racchiudere intuizioni che puntano a voler oltrepassare il dato eminentemente grafico, assumendo infine valenze tali da inserirsi in un ambito marcatamente artistico, generando cioè una vera e propria ‘maniera’. Né crediamo di avere esagerato oltremisura, se consideriamo che ancora sul Giornale dell’Arte l’odierna Biennale veneziana è stata definita, con un efficace gioco di parole, la “Biennale di artitettura”, vista  “la complicità e la reciproca attrazione tra architettura e arte contemporanea” che si può apprezzare “nella mostra centrale di Rem Koolhaas ma soprattutto nei padiglioni nazionali”.

E’ un discorso che ci riconduce necessariamente al tema dell’evoluzione del concetto di arte e del ruolo della persona che crea o che progetta, un’evoluzione in senso intellettualistico che ne sollecita l’emancipazione e l’inserimento sociale in un senso sempre più dialettico e sempre meno vincolato. Non sappiamo dire se questo sia anche effetto di quella “ambiguità genetica del disegno di architettura” che proprio a Roma “si ritrova quanto mai amplificata”, come scrive Franco Purini nel dotto e corposo saggio Disegno ed Architettura nell’opera di Franco Luccichenti, dove la città eterna viene anche definita “una città del disegno, un ambiente che per secoli è stato trasfigurato e duplicato in un universo parallelo di vedute panoramiche, di scorci, di dettagli, di frammenti architettonici indagati con partecipata attenzione “, arrivando alla conclusione che “… poche culture architettoniche sono così intrise di disegno come quella romana” .

architettura 7La raccolta pubblicata da Franco Luccichenti crediamo possa inserirsi bene in questo discorso, dimostrando in effetti quanto siano veritiere le affermazioni di Purini; ma altrettanto vero è che non sempre è stato così e non tutti i progettisti hanno voluto lasciare memoria del frutto della propria “cultura architettonica” applicata alla nostra città, per dirla come l’eminente studioso.
Tutti sanno quanto abbia contribuito a caratterizzare certi profili di Roma un genio come Francesco Borromini (Bissone, 1599 – Roma, 1667) ; pochi sanno quanto egli fosse geloso dei suoi disegni, che - almeno a leggere i resoconti di Filippo Baldinucci - considerava come “i suoi propri figlioli”, al punto che non voleva che “andasser mendicando la lode per lo mondo, con pericolo di non averla”. E certamente fu per questo motivo che pochi giorni prima di morire, il grande ticinese arrivò al punto di bruciarne una larga parte, come appare ancora dal racconto dello storiografo fiorentino: ”Pochi giorni avanti alla sua morte diede alle fiamme tutti quei disegni, che egli aveva destinati all’intaglio, e non avevalo potuto effettuare: e ciò fece per timore che i medesimi non venissero in mano de’ suoi contrarj, i quali o gli dessero fuori per lor proprj, o gli mutassero» (F. Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua, a cura di P. Barocchi, Firenze, 1974, V, p. 140).
 
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Se si può aprire una parentesi e se consideriamo il particolare carattere, anche in questo caso ben poco accomodante, lo stesso atteggiamento distruttivo probabilmente può avere avuto il Caravaggio verso la sua grafica; le pagine degli storiografi seicenteschi (educati alle idee del classicismo raffaellesco-carracciano) tramandano l’idiosincrasia del genio lombardo verso il disegno: “ … privo però della necessaria base del buon disegno, si palesò poscia d’invenzione mancante, et come del tutto ignudo di bella idea, grazia, decoro, Architettura, Prospettiva, et altri simili convenevoli fondamenti”. (F. Scannelli, Il microcosmo della pittura, overo trattato diviso in due libri, Cesena, per il Neri, 1657, pp. 51-52). Si tratta in realtà di affermazioni che pur ormai smentite da un più accorto e progredito studio delle fonti, che indicano disegni, ‘sbozzi’ e bozzetti pittorici realizzati dal Merisi per vari committenti, tuttavia hanno generato un’autentica sconcertante quanto scorretta vulgata, ancor’oggi difficile da superare.
 
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architettura 10Ma per ritornare all’importanza e al ruolo della grafica nell’ambito della progettualità, Purini delinea bene anche gli elementi che a suo dire stanno alla base dei lavori di Luccichenti, individuati in “una forte quadratura prospettica inverata in spazi accuratamente misurati … (con) prospettive a volo d’uccello permeate di chiarezza cartesiana ... un senso preciso e per così dire matematico dell’inquadratura … una esemplare resa della scala e delle proporzioni” per finire con la “qualità del tratto”.

Non devono apparirci troppo insistenti questi richiami sia a quelle che sono le peculiarità, le specifiche caratteristiche costitutive dell’opera nel nostro caso di un architetto, sia alle radici culturali che ne hanno generato modelli ideazioni e progetti, e che sembrano confermare quanto diceva Jean Braudillard, quando ne Il sistema degli oggetti definiva “l’Architettura” come “un misto di nostalgia e attesa, storia e arte”.
In questo senso sembra indirizzarsi in effetti l’attenzione di Luccichenti e l’azione grafica che ne deriva, a cominciare dall’ispirazione che lo ha guidato dalla progettazione di Waset city, in tandem con Eurotecnica spa, vale a dire una possibile “Città Meravigliosa” d’Oriente, elaborata nel 1977, seguendo una  “idea che appartiene alla coscienza occidentale”, (figg. 2, 3)  ma che “sembra anticipare certe suggestioni futuribili del film Balde Runner” del 1982, alla “pianificazione di una zona desertica nelle vicinanze di Porto Said - Red Free See Zone - Port Sudan”  (figg. 4,5, 6), alla ideazione di un “villaggio turistico a Bourg el Arab (Egitto) (fig. 7 – sviluppo di Robert Sears).

architettura 11Sono alcuni dei progetti - come scrive Valentina Piscitelli nel suo saggio Il disegno come strumento di organizzazione del pensiero - che “rimandano a linguaggi dell’architettura di varie epoche, dagli archetipi murari delle città mediterranee al modello di città comunale, dal funzionalismo dell’architettura industriale al post modern”. Insomma, una sorta di contaminazione fra linguaggi e soprattutto fra culture che se a prima vista può sembrare in genere un frutto spurio di quella evoluzione globale che caratterizza da tempo questa come altre discipline, sulla scia della globalizzazione dell’economia, tuttavia resta al centro di ogni progetto davvero compiuto.

Certo è che - sotto questo aspetto - tutto è cambiato da quando Gian Lorenzo Bernini, chiamato da Luigi XIV, approdò a Parigi, per completare la facciata est del Louvre e si vide rifiutato il suo progetto soprattutto per la contrarietà di Colbert, perché evidentemente risentiva troppo dell’imprinting italiano. Oggi gli architetti italiani o europei lavorano regolarmente negli Stati Uniti o in Asia, e viceversa. L’importante è saper capire e cogliere il contesto in cui si inserisce un progetto, perché questo può perfino agevolarne  la rinascita; il caso del Guggenheim di Bilbao è esemplare da questo punto di vista, considerando come un architetto certo non spagnolo bensì canadese di Toronto, come Frank Gehry, con quella struttura così innovativa abbia saputo trasformare una zona depressa nella parte trainante della città.
 
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Si è parlato spesso in effetti di come l’arte del progettare possa correre il rischio di diventare una specie di franchising perdendo le proprie peculiarità di storia e stile acquisiti. Ma sono preoccupazioni superabili se si tiene conto delle condizioni di partenza, di come cioè l’ambiente locale debba essere declinato in un linguaggio architettonico contemporaneo.
architettura 13In questa logica Luccichenti sembra perfino aver precorso le tappe; lo mostra bene il progetto steso per un “Centro Italia” a Mosca, “per la promozione dei prodotti italiani”, dove emerge con chiarezza la mentalità che sottende l’impianto architettonico, come si vede nella tecnica mista che prefigura la “piazza storica” e che rivela un’attenzione particolare alla “ricerca dell’identità italiana” (fig. 8) tanto nello “schema planimetrico della piazza allungata” che sollecita la “memoria del circo romano”, quanto nello “schema quadrato, memoria dell’Italia dei Comuni” (fig. 9).
Non si trattava qui evidentemente di importare in Russia un modello, quanto di prendere ispirazione da una cultura e muoversi nella logica di trasformare lo schema della città italiana in relazione al contesto locale: uno di quei casi, insomma, in cui l’architetto deve riuscire a cogliere lo ‘spirito’ del luogo e del tempo, convertendo modelli e forme secondo la sua propria sensibilità, dove si dimostra che l’intreccio tra culture è la carta vincente.

Ma crediamo che la concezione dell’architettura che ha maturato Luccichenti e lo ha guidato nel corso della sua opera sia ancora testimoniata dalla progettazione risalente al 1984 per “gli uffici degli stabilimenti Necchi di Pavia” (ribattezzati, non senza un eccesso di enfasi, “Uffizi di Pavia”) dove le “memorie di acquedotti romani”, cui fanno da cerniera “due torri comunali sormontate da bandiere che segnalano il movimento dell’atmosfera”, sono, se si vuole, una mera risorsa, ovvero la circostanza, per lo sviluppo di un proposito creativo assolutamente non congiunturale, come si evince dal commento:  “Sulla destra una modularità apparente scandisce il ritmo delle partiture architettoniche; improvvisamente un muro interrompe la ripetizione seriale delle superfici specchiate: in questo elemento vi è il Punctum dell’immagine; l’interruzione è un elemento di discontinuità del pensiero” (figg. 10, 11).
 
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Tanto Strinati che Purini hanno creduto di individuare influenze di un ‘antico’ come Piranesi e di un contemporaneo come Roberto Clerici in altri lavori di Luccichenti, come nel progetto per un ”Hotel nell’area aeroportuale di Fiumicino”, che può richiamare, secondo l’autore, un esempio di “architettura sognata”, dove “nasce il ‘castello incantato’ che privilegia l’impostazione planimetrica della croce” (fig. 12) e dove nella tecnica mista del primo prospetto (fig. 13) si accentua dichiaratamente  “attraverso il richiamo alla storia, la distanza e l’estraneità dell’oggetto architettonico rispetto alla forte impronta tecnologica dell’ambito aeroportuale”.
 
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Una sorta di contrappasso ben evidenziato dalle due curiose iscrizioni apposte in calce al prospetto stesso, in cui la prima  Edifici per Templari itineranti evoca magia e spiritualità, mentre l’altra sottostante vi unisce dinamicità e modernità, come appare dalla scritta Individui cinetici che la notte dormono, che sembra riecheggiare certi slogan futuristi alla Marinetti. Impressione avvalorata, d'altra parte, da una probabile citazione di certe elaborazioni di Antonio Sant’Elia (Como, 1888 - Monfalcone, 1916), fondatore, com’è noto, del Manifesto dell’Architettura futurista, soprattutto se analizziamo il disegno con “l’approfondimento del progetto” (fig. 14), anche se vi “permane l’idea del castello che assume i caratteri dell’architettura post moderna”.

nuova figuraAncora altre suggestioni, pur sempre inquadrate nella logica dello slancio verso il futuro e nella consapevolezza delle proprie radici, sembrano suggerire i lavori grafici per la Nuova Fiera di Roma progettata da  Studio Valle, frutto di un decennio di elaborazioni - dal 1999 al 2009 - tradotte in un vero e proprio laboratorio sull’architettura in sé, laddove “l’idea di veicolare un messaggio fortemente tecnologico in un luogo che per sua natura è aperto allo scambio e alla comunicazione, si associa al senso di chiusura verso l’esterno. Grande importanza assume dunque l’involucro… che si manifesta come un grande oggetto da fruire” (figg. 15, 16).

Possiamo concludere rilevando come tanto nei progetti per l’estero quanto in quelli per l’Italia Franco Luccichenti appare sempre ben consapevole del fatto che l’architettura sia un’arte personale ma anche sociale, o, per meglio dire, un mezzo di espressione individuale che rispecchia una società e i suoi valori, dove i progetti, le idee e lo stesso design non possono prescindere da dati obiettivi, quali sono le tradizioni, i ritmi di vita, le storie o, più semplicemente, i materiali a disposizione, i fattori atmosferici, la qualità della luce, e così via: non possono prescindere, insomma, dai “Fundamentals”.
Pietro Di Loreto, 10/09/2014

V. Piscitelli, a cura, Architettura nascente. Progetti di Franco Luccichenti 1977-2007,
De Luca Editori d'Arte, Roma 2009, pp. 127, € 28