Gangemi Editore, Roma 2016
Il volume di
Paola Mangia messo recentemente in stampa dalla Gangemi editore (ediz. fuori commercio)
(fig 1) non è solo una sorta di aggiornatissimo e quanto mai opportuno ‘documentario’ che illustra in modo esauriente e per la prima volta lo stato e la condizione del patrimonio di beni storico artistici appannaggio delle nostre ambasciate all’estero, bensì una vera e propria storia, una storia per immagini. Immagini splendide e a volte uniche di edifici, decorazioni, dipinti, sculture, emblemi araldici, arredi, che, per varie vicende, soprattutto di carattere bellico, hanno subito spostamenti e movimenti che ne hanno compromesso la fruibilità ed anche la riconoscibilità. Un lavoro di ricerca e di aggiornamento, dunque, tanto più meritorio in quanto ha consentito anche di poter delineare, come l'autrice ha saputo fare in modo impeccabile, anche i contesti urbani nei quali si situano le opere concesse nel corso del tempo da vari musei italiani per arredare queste residenze all'estero, nonché i personaggi che ne sono stati partecipi. Sembra in effetti di essere di fronte ad una sorta di rappresentazione scenica, che si fa memoria storica di eventi passati proprio grazie alle realizzazioni artistiche adesso finalmente catalogate e che coprono un lungo arco di tempo, dall'antico al contemporaneo, passando per l’età barocca e neoclassica, testimonianza sicura di gusti estetici e stili via via affermatisi.

La studiosa -la quale, occorre dirlo, ha ricoperto per lungo tempo ruoli dirigenziali di grande rilievo in in Italia in qualità di funzionario dei beni culturali e dunque conosce alla perfezione il ‘mestiere’ e i compiti dello storico dell’arte- per questa certosina ricerca si è avvalsa di una notevole documentazione d’archivio spesso inedita grazie alla quale ha saputo organizzare molto appropriatamente e in modo scientificamente inappuntabile un lavoro in cui documenti ed immagini dialogano e rendono quasi direttamente ancorchè immaginariamente fruibili i luoghi da lei visitati e studiati, cioè la ambasciate di
Berlino, Dublino, Lisbona, Londra, Madrid, Parigi, Praga, Stoccolma, Vienna. Come spiega lei stessa, questa scelta si è concentrata soprattutto in Europa per la “significatività culturale di alcune collezioni rispetto alle altre”, ma è del tutto evidente che ad altre situazioni (ad esempio la Russia) anche extraeuropee – in particolare gli Stati Uniti, la Cina e così via- la ricerca deve essere estesa se si vuole realizzare davvero l'idea con cui è nato questo importante progetto vale a dire “valorizzare questo patrimonio di opere poco note” tenendo presente che “adeguare con arredi di prestigio le sedi estere” non è affatto un'opzione secondaria, visto che queste sedi “si prestano sempre più spesso ad ospitare incontri di carattere economico e di promozione commerciale”.
IL progetto di
“Censimento e valorizzazione del patrimonio d'interesse storico artistico del Ministero degli Affari Esteri e del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali” si è realizzato attraverso diverse fasi cui la Mangia dà conto con una ricostruzione puntuale ed esaustiva: studio dei documenti d'archivio, catalogazione, riscontri negli inventari, quindi ricognizione presso le varie ambasciate, campagne fotografiche e ulteriori riscontri inventariali, per arrivare ad una “ispezione ravvicinata” di quello che è definito come “un patrimonio compreso tra l'età antica e l'epoca contemporanea” del quale essa stessa ha potuto verificare nel corso dei suoi sopralluoghi quale fosse “lo stato di conservazione” ed anche “ricercare i Musei prestatori e le collezioni di provenienza”; alla fine si è proceduto alla “campagna di schedatura” realizzata con la collaborazione di alcuni giovani studiosi.
Si è trattato, se si può dire, di una specie di
Grand Tour al contrario, cioè di un autentico itinerario di conoscenza, nel nostro caso in direzione opposta rispetto a quello che i viaggiatori stranieri facevano in giro per l’Italia per ammirarne le bellezze, annotando descrivendo o disegnando le testimonianze artistiche che scoprivano. Proprio come i viaggiatori stranieri di tre o quattro secoli fa , infatti, anche l’autrice ha potuto valersi del privilegio di ammirare e analizzare un patrimonio artistico spesso ignorato anche dalla storiografia del settore, seguendo la traccia del filo della storia e restituendo così alla conoscenza di tutti e alla nostra memoria quanto fino ad ora era rimasto ignoto.
Di qui il volume in questione che “chiude questo progetto pilota” ma che è stato pensato e realizzato come “uno strumento di lavori in fieri” che -come si diceva- deve trovare ulteriore sviluppo estendendo ad altre sedi estere l'intervento ricognitivo, dal momento che -come l'autrice sottolinea acutamente- “il patrimonio della singola Ambasciata … potrebbe assumere le caratteristiche di inedito
museo d'arte, unico ed esclusivo per tipologia del suo arredo,
satellite, per la sua collocazione oltre il confine italiano, e
puntiforme nel territorio europeo quale prestigiosa testimonianza della cultura italiana”.
Il frutto più importante di questa indagine lucida e circostanziata è quindi la conoscenza, unita alla consapevolezza di come siano importanti certi elementi che potrebbero apparire del tutto in ininfluenti –come gli arredi- nel buon andamento o almeno nella buona predisposizione nelle relazioni diplomatiche; e tuttavia, la serietà della ricerca si comprende anche dal fatto che la studiosa non di rado ha lasciato margini di dubbio, ad esempio nella classificazione e nella attribuzione di dipinti non documentati; suona in effetti a suo merito non essersi lasciata condurre da un eccesso di immaginazione, che, come metteva in guardia
Jorge Luis Borges può tradursi nell' “abbandonarsi alla finzione” (per cui può capitare –annotava il grande scrittore argentino- in una rappresentazione scenica che ci si persuada che un attore sia Amleto anche se sappiamo che non è Amleto).
Va detto che nel seguire questo percorso le sorprese sono state tante, sia sul versante storico artistico che su quello architettonico, tanto che si deve alla fine ritenere che il lavoro, ci fa scoprire trame di rapporti e collegamenti inattesi ed a volte imprevedibili. Quasi sempre infatti i palazzi delle

ambasciate sono forieri di sorprese inaspettate, sia per quanto riguarda le decorazioni e i tesori di notevole rilievo che contengono, sia perché consentono di gettare un fascio di luce perfino sui rapporti che sono intercorsi tra i vari personaggi che grazie ad essi sono entrati in qualche modo in contatto: ambasciatori, mercanti, famiglie e così via, per non dire degli eventi politici e culturali che li hanno accompagnati.
Ad esempio, all'
ambasciata italiana a Berlino (fig 2) un monumentale palazzo che ha sede nel
quartiere di Tiergarten, il “quartiere delle Rappresentanze diplomatiche”, era stato riservato un posto di particolare rilievo addirittura da
Albert Speer, cioè l' architetto personale di
Hitler, che fu il massimo interprete dell'architettura nazista (venne poi condannato a venti anni di reclusione nel Processo di Norimberga); qui, nota l'autrice “si

evidenzia una indubbia dissonanza tra i riferimenti alla cultura architettonica rinascimentale italiana -con echi anche di quella prussiana- e lo spazio urbano ove si colloca”. Si sa che Speer scelse come architetto
Friedrich Heltzelt che procedette ad elaborare “un'architettura italianizzante” con evidenti citazioni “dal mondo assiro babilonese, dal mondo greco romano, dalle costruzioni quattrocentesche” fino alle “tipologie ricorrenti nei palazzi di
Ferdinando Fuga, apprezzate anche da Hitler”, senza preoccuparsi affatto di “soddisfare i colleghi italiani del regime, come
Marcello Piacentini”. Ne derivano “ambienti di dimensioni dilatate” caratterizzati da “maestosità” corredati con materiali di ottima qualità
(fig 3) come quelli per i pavimenti rivestiti da eleganti parquet e per i soffitti con cassettoni lignei intarsiati”, tutto questo con l'aggiunta di pezzi di arredo di notevole importanza e di epoca rinascimentale “camini di marmo, edicole di alabastro” ed altri materiali provenienti dal mercato antiquario acquisiti tramite vari passaggi. Si

segnalano un “portale di pietra serena con bassorilievi vicini alla maniera di Andrea Sansovino, un camino con testine angeliche già attribuito a Domenico Rosselli; una mostra di portale lombardo … uno scudo con l'arme della famiglia di Giuliano da Majano
(fig 4) “ ma poi una serie eccezionale di

arazzi di manifattura belga o francese, per non parlare dei numerosi dipinti antichi o contemporanei, catalogati come “opere di interesse storico artistico”. Ecco insomma che “le superumane dimensioni dei marmi e delle colonne sembrano voler dimostrare un potere sovrano oltre ogni limite che supera di molto qualsiasi modello di edificio italiano di corte”.
(fig 5)
Il prestigioso castello di
Lucan House, risalente al XII secolo, ristrutturato nel '700, è sede dell'
ambasciata italiana di Dublino (fig 6), considerata “una delle più belle sedi di rappresentanza della Repubblica italiana” ed allo stesso

tempo un'autentica rarità dell'architettura del periodo georgiano, nata con strutture di carattere gotico, adeguata sul finire del Settecento allo stile neoclassico ormai diffuso in tutta Europa anche grazie ai viaggiatori del
Grand Tour. “Il complesso architettonico è un'aperta citazione delle ville di Palladio -sottolinea Paola Mangia- soprattutto il corpo centrale a tre ordini che avanza dal piano di fondo, come un nodo plastico inciso dalla luce in tutte e ore del giorno”. La descrizione degli interni è altrettanto suggestiva, laddove anche le scelte ornamentali richiamano al “repertorio antichizzante”, mentre le decorazioni dei diversi ambienti rispecchiano le diverse destinazioni degli stessi.

Ed anche qui le decorazioni degli “eleganti camini” -tra cui quello più significativo ideato, come molte fasi decorative, da
Pietro Bossi -uno dei maggiori interpreti della decorazione tardosettecentesca- rispecchiano “una evidente adesione agli schemi neoclassici”, con “motivi di patere, urne, candelabri, ghirlande, figure mitologiche”, perfettamente armonizzate con gli stucchi che spaziano lungo le pareti “. Le sculture antiche del piano terra e gli arazzi fiorentini secenteschi si accompagnano alla collezione di dipinti, soprattutto paesaggi
(fig 7) “espressione di diversi contesti ed epoche della pittura italiana …. di
Van Bloemen e di
Dughet, etc...”, tutti elementi perfettamente inseriti nella cornice architettonica degli ambienti che lascia nel visitatore “un'atmosfera di una casa-museo di raro e inaspettato valore”.
L'
ambasciata italiana a Lisbona -che ha sede nel
Palazzo dei Conti de Pombeiro, acquistato nel 1925 dall'Italia
(fig 8
) - contiene, a giudizio della studiosa “una delle più belle collezioni d'arredo alla stregua di quelle di Londra e di Parigi”. Colpiscono in particolare i “diversi apparati ornamentali di azulejos che si distribuiscono tra la corte d'onore, l'androne d'ingresso, una stanza della Rappresentanza e l'ambiente d'ingresso”, con scene che illustrano le imprese degli avi dei Conti e descrivono la storia del palazzo. Compaiono anche nella monumentale scala d'ingresso a due rampe richiami alle soluzioni

michelangiolesche nelle scale della
Biblioteca Laurenziana, mentre la decorazione ad azulejos è ispirata la matrimonio avvenuto per procura e firmato nel 1661 tra
Caterina di Braganza e Carlo II Stuart (
fig 9). Alla fine del XIX secolo risalirebbe invece il ciclo sempre ad azulejos dei paesaggi marini nella Anticamera, opera di maestranze portoghesi, mentre nella sala detta dell'Ambasciatore compaiono putti e apparati floreali;

vanno segnalati per il loro valore un prezioso cassettone intagliato e dorato probabilmente di mano del piemontese
Giuseppe Maria Bonzanigo (fig 10), considerato tra i primi ebanisti del XVIII secolo, nella sala da ballo (oggi Salone) con derivazioni d'epoca di dipinti di grandi autori seicenteschi come
Guido Reni o
Bartolomeo Schedoni. Ma certo la collezione di dipinti in questa residenza è particolarmente importante; la Mangia cataloga tavole attribuite a
Pedro Machuca della scuola di
Raffaello, insieme ad altre del Seicento, tra cui una notevole prova del genovese
Domenico Fiasella, fino ai temi ottocenteschi di
Francesco Podesti e ad altri dipinti di autori non ancora identificati ma tutt'altro che trascurabili.

Un particolare rilievo nella ricognizione di Paola Mangia assume l'
ambasciata italiana di Londra (
fig 11) descritta come “una delle residenze diplomatiche più illustri” che peraltro “al pari di un museo” conserva al suo interno “una delle più importanti raccolte d'arte”. La studiosa la descrive con estrema efficacia ricostruendo anche alcuni aspetti della storia delle relazioni diplomatiche intessute in particolare al tempo del regno di
Vittorio Emanuele II, quando il giovane
Re del Piemonte, nel 1856, fece visita alla
Regina Vittoria a Londra inaugurando così quella politica di alleanze che con
Cavour risultò fondamentale per la nascita del
Regno d'Italia. La residenza è ospitata nel
palazzo Grosvenor, terrminato nel 1728 e poi variamente rimaneggiato fino agli inizi del '900. La decorazione, in “
stile Adam”, dal nome dell'architetto
Robert Adam, fra i maggiori interpreti della decorazione improntata al neoclassicismo, pur mantenutasi solo parzialmente, ancora mostra in effetti la grande finezza esecutiva ravvisabile in vari ambienti. La studiosa si sofferma nella descrizione della

Sala dei pranzi ufficiali, con i sei arazzi del
Bachiacca (
fig 12) e le “mirabili spalliere” commissionate da
Cosimo I de Medici per Palazzo Vecchio realizzate da maestranze belghe attive a Firenze nella prima metà del Cinquecento; di grande rilievo anche i dipinti del XVI e XVII secolo custoditi all'interno delle specchiature delle pareti. Assolutamente di gran prestigio alcuni mobili, vero vanto

dell'ebanisteria italiana, come il forziere emiliano del '400, il cassettone lombardo del '700 uno straordinario tavolo romano seicentesco di marmi ed alabastro
(fig 13). Ma sono veramente di così notevole rilievo tutti gli ambienti che si dovrebbe parlarne più approfonditamente di quanto non si possa fare in questa sede; vanno però almeno citati ancora gli arazzi fiorentini e un originale Eros risalente al II secolo dopo Cristo; nella Adam Room del piano superiore ancora arazzi ma della manifattura di Gobelins, mentre nella Blue Room importanti dipinti italiani e inglesi sei-settecenteschi. Vengono spiegati in maniera dettagliata tutti i passaggi degli arredi e del mobilio che dall'Italia nel corso del tempo hanno impreziosito le sale di questa residenza londinese, riconosciuta di “rilevante prestigio politico” e quindi proprio per questo “arricchita di capolavori che illustrano contesti stilistici e realizzazioni riferibili ai più noti ambiti e personalità dell'arte del territorio del nostro paese”.

E sicuramente non minore per importanza e prestigio è anche la sede della nostra
rappresentanza diplomatica a Parigi (
fig 14), presentata come un autentico “teatro delle Arti”, vero capolavoro dell'architettura transalpina “felice connubio di stili ed espressioni artistiche di epoche diverse”, in grado di esprimere al meglio -come sottolinea la studiosa- “l'osmosi tra le due culture, francese ed italiana”.
La
Maison de Janvry, in
rue de Varenne, poi divenuta
Hotel de la Rochefoucauld Doudeauville, ha conosciuto, prima di ospitare la diplomazia italiana dal 1936, molti cambiamenti nell'arco dei tre secoli che ci separano dalla sua edificazione, senza però venir meno al caratteristico stile Rococò che è un po' la cifra delle realizzazioni collegate al gusto francese, con un'architettura che oltre alla sovrabbondanza decorativa tipicamente
rocaille appare tuttavia improntata anche alla funzionalità e all'armonia, vero esempio insomma di “nobiltà e grandezza”. Le vicende storiche della prestigiosa

residenza, ricostruite dall'autrice in ogni particolare, evidenziano qui come meglio non si potrebbe come le diverse situazioni politiche si possano riflettere anche nelle scelte degli arredi e delle decorazioni, in relazione all'alternarsi dei proprietari schierati ora con la
Rivoluzione, ora con la
Restaurazione e fino al tardo Ottocento, sempre comunque seguendo l'indirizzo de “la fastosa arte del Settecento francese”. Di grande impatto, in pieno Ottocento, l'inserimento dello Scalone monumentale nello stile Luigi XIV
(fig 15), che guidò anche il recupero, nello stesso torno di anni,

delle varie sale, come quella del Mappamondo, o delle Allegorie o ancora
des Jeux des enfants. Ulteriori sviluppi decorativi conobbe il palazzo dopo il 1936, quando, come dicevamo, divenne sede dell'ambasciata italiana, a cominciare dal giardino dove trovò posto il
Teatrino siciliano proveniente da Palermo
(fig 16), e dove i nuovi allestimenti richiamavano l'esplicito obiettivo, perseguito direttamente dal governo di Roma nella persona del Ministro degli Esteri,
Ciano, di “illustrare l'eccellenza della cultura italiana” nonché di “confrontarsi con la magnificenza settecentesca del palazzo francese”; per questo ci si avvalse dell'allora “
roi des antiquaires”
Adolfo Lowi, amico dell'ambasciatore. Fu lui a curare l'acquisto di quadri di
Antonio Guardi dal
Palazzo Moncenigo di Venezia e del mobilio “con pezzi di rilevante valore artistico per lo più settecenteschi”, come la grande Ribalta con alzata di produzione piemontese, risalente all'ultimo quarto del XVIII secolo o la Consolle francese in legno dorato d'epoca Luigi XV, per non dire di altri “mobili di rara importanza”, della bottega di Maggiolini, o firmati dal milanese Colombo, oppure ancora decorati con disegni di
Angelica Kauffmann, per non dire della commode a ribalta romana simile a quella in collezione
Barberini.
L'ambasciata, insomma, è oggi -come si diceva- una vera raccolta d'arte figurativa, comprendente importanti dipinti e sculture, e anche di arte applicata, infatti agli straordinari esempi che abbiamo citato si accompagnano i busti di marmo e mischio, gli arazzi e i rarissimi orologi, i pezzi di

archeologia o di bisquit in porcellana Sèvres, per finire con riproduzioni novecentesche di vasi cinesi antichi e ceramiche e di
Delft. Infine, altri pezzi di alto valore antiquariale e storico sono raccolti nella casa di
Cultura italiana a Parigi, provenienti dalla collezione del gesuita
Athanasius Kircher o inviati dal
Museo di Capodimonte, come le tele di
Luca Giordano.
Il
Palazzo Oakhill, alla sommità dell’omonimo colle, ospita l’
Ambasciata d’Italia a Stoccolma (
fig 17). Qui “decoro e funzione s’intrecciano sapientemente” in virtù di un impianto architettonico sobrio ed elegante che “richiama in senso ‘razionalista’ –come scrive la Mangia- stilemi classici derivati da
Palladio”. Il prospetto, come si vede nelle immagini, è costituito da una lunga facciata con un avancorpo che ospita la veranda sopra

la quale un’ampia terrazza consente di cogliere il suggestivo panorama che spazia dal centro storico della capitale svedese fino ai fiordi. Internamente alla residenza elegantissimi rivestimenti in
boiserie impreziosiscono anche le colonne del grande salone(
fig 18) che, come altri significativi vani, a cominciare dal

salotto rosa (
fig 19), sono “tra gli esempi più originali e raffinati dello
Jugendstijl, in voga agli inizi del Novecento” del quale l’ideatore del palazzo, l’architetto svedese
Ferdinando Boberg , fu grande interprete. Costruito tra il 1908 e il 1910 il
palazzo Oakhill passò all’Italia nel 1926 insieme al terreno circostante ed agli arredi. Riguardo alla collezione di beni di questa Ambasciata essa si è rivelata “di particolare interesse storico artistico”, come scrive l’autrice della nostra ricerca che ha potuto verificare de visu ispezionare e registrare “ben 49 opere provenienti da ex collezioni di palazzo Pitti e dal castello di Moncalieri”, ricostruendone e documentandone i trasferimenti. Così per la coppia di consolle della prima metà del ‘700 che presentano lo stemma ovale impresso a fuoco della Casa reale sabauda, come per la serie di poltroncine con lo stesso stemma (
fig 20) ed altre consolle e sedie. Da Moncalieri provengono anche i cinque dipinti di natura morta di scuola piemontese, mentre ancora da Pitti sono una serie di capolavori fiamminghi sul tema delle scene di genere o di paesaggio. La collezione si arricchisce

di soprammobili e mobili di piccolo formato dopo il 1945 e di due arazzi settecenteschi; ma soprattutto va segnalato l’intervento di
Giò Ponti nell’ideazione e nella realizzazione dell’
Istituto Italiano di Cultura, tra il 1952 e il ’58 (
fig 21).
La storia delle
ambasciate di Praga e Vienna, come pure delle rispettive raccolte collezionistiche, è molto suggestiva e si può in qualche misura considerare parallela considerati i legami e i collegamenti storico-politici, senza contare che entrambe si avvalgono di “nobili pezzi d'arte boema e

viennese”, per non dire del clima culturale improntato alla Secessione che si percepisce chiaramente nei lavori seguiti all'acquisto del palazzo praghese da parte dello stato italiano, nel 1924. Proprio la
residenza della capitale della Repubblica Ceca (
fig 22) peraltro è precisa testimonianza del livello raggiunto dalle relazioni culturali e storiche con il nostro paese, che ebbero in questo stesso Palazzo, tra il '700 e l'800, come sottolinea l'autrice, un “riferimento sociale importante” soprattutto in considerazione della “rivoluzione artistica operata nel giro degli stessi anni da numerosi esponenti, architetti, scultori e pittori, giunti dall'Italia e partecipi della ricostruzione

imperiale della città boema ed anche del Palazzo”. Un'eloquente atmosfera di inizio secolo si percepisce nello scalone monumentale d'ingresso, ma procedendo sembra quasi che la ricostruzione degli ambienti da un punto di vista storico appaia come scompigliata da motivazione forse più di carattere sentimentale che non razionale. Ci sono specchiere con lo stemma sabaudo,
consolle di

origine italiana e varie opere d'arte provenienti da residenze reali del Piemonte o da
Palazzo Pitti. Dal
Palazzo di caccia di Stupinigi provengono una serie di importanti dipinti “riferibili – a parere della Mangia- a
Pompeo Batoni e alla sua scuola”
(fig 23). Ma numerose altre tele impreziosiscono le diverse sale della residenza, ad esempio una copia cinquecentesca “di buona qualità stilistica” della famosa “Notte” di
Correggio, o i tre grandi ovali attribuiti al
Grechetto, o i due “Ritratti di dame della corte medicea” attribuiti a
Tiberio Titi, provenienti sempre da Pitti. Le sale di rappresentanza meritano una citazione particolare, come pure il salotto blu e la sala degli specchi o della musica, soprattutto per la posizionatura degli arredi che appare particolarmente curata quasi si volesse dare degli oggetti disposti nel locale una valenza scenografica. Infine, una notazione particolare l'autrice la dedica ai lampadari di Boemia, le cui mille gocce di cristallo sembrano rimandarci un’immagine dei grandi saloni affollati nelle serate di rappresentanza, trasmettendo altresì la “magia che il quartiere di Mala

Strana possiede per la sua ineguagliabile posizione”.
La storia della collezione nel
Palazzo del “Gran Cancelliere Clemens Wentzel Lothar Von Mettercnich” è il significativo titolo di apertura dedicato all'Ambasciata italiana a Vienna
(fig 24), che conclude questo importante lavoro di Paola Mangia. E non poteva essere altrimenti se pensiamo al ruolo che il principe rivestì nella storia diplomatica e politica dell'Europa e in particolare dell'Italia negli anni a cavallo tra la fine del XVIII e la metà del XIX secolo. Non è difficile immaginare quali furono e quanto rilievo ebbero le vicende che si svolsero in questo palazzo, gli incontri politici, ma anche le feste e i banchetti, tra cui in particolare “il fastoso ricevimento dei membri del
Congresso di Vienna il 18 ottobre del 1814” svoltosi nella Sala da Ballo, soprannominata “
Villa Metternich” un edificio ad un solo piano dove il cancelliere amava trascorrere i mesi estivi e i momenti di riposo. Nota molto bene Paola Mangia come l'impianto generale della Villa, esempio di architettura classica tipicamente mitteleuropea del primo Ottocento, corrispondesse ad una “dimensione estetica basata sull'identità di spirito e natura” che appare “espressa anche nelle opere di
Beethoven e
Schiller”. Lasciamo ai lettori ripercorrere i vari numerosi interventi di adeguamento alle diverse esigenze d'uso e ai mutamenti stilistici succedutisi nel corso del tempo fino alla demolizione del 1873 causata dalle difficoltà finanziarie della

famiglia; tutti eventi documentati con vera acribia dall'autrice che tiene a sottolineare come dell'edificio originario “ci sono giunte alcune decorazioni a stucco dei soffitti delle Sale del Piano nobile, risalenti alla metà del XIX secolo” e che “anche del giardino antico resta piccola parte”; sempre “all'esterno sopravvivono due interessanti frammenti secenteschi, due lastre di travertino ove è scolpito il
drago dei Borghese di Roma”(
fig 25), probabilmente frutto di saccheggi di marmi operati nel giardino Borghese e poi trasferiti illegalmente all'estero.
Dunque non per caso, quando, nel 1908, lo stato italiano acquistò il palazzo, questo era completamente spoglio ad eccezione dei rivestimenti lignei, delle specchiere fisse, degli ornamenti parietali e di alcuni caminetti. I lavori di ripristino e di ristrutturazione, iniziati nel 1910 nelle parti orientali del palazzo, sono proseguiti fino al 1969 quando venne ristrutturato anche il secondo piano, e tuttavia degli interni dell'epoca di
Metternich restano le testimonianze tramandateci dagli acquerelli del pittore
Rudolf von Alt.
Ma è’ come se una vena di nostalgia affiorasse talvolta in particolare negli allestimenti delle sale che avevano conosciuto i successi e le imprese -è il caso di dire- del Cancelliere e dove, come nota bene la Mangia, vecchio e nuovo convivono spesso senza alcuna relazione, tanto che in certi casi perfino la

coerenza storica è subordinata all’efficacia di un colpo d’occhio scenografico. E tuttavia la disposizione – o, se si può dire, la messa in scena- appare particolarmente curata, ed è come se qualcuno avesse voluto porre sapientemente insieme opere e mobilio di varie provenienze per creare un effetto di “casa-museo” che effettivamente è rimasto. I numerosi dipinti hanno provenienze differenti: dai castelli reali del Piemonte, come il castello di Moncalieri o la Villa della Regina, al
Museo napoletano di San Martino, alla
Pinacoteca di Bologna ed appartengono ad artisti anche di gran richiamo, italiani e stranieri, come
Luca Giordano, Mastelletta, Scarsellino, Valerio Castello, Marcantonio Franceschini, Pieter Van Bloemen, il Borgognone ed altri ancora. Da segnalare anche mobili attribuiti alla bottega dell’ebanista vercellese
Ignazio Revelli e riferibili allo
stile di Maggiolini diffusosi in tutta l’area nord occidentale italiana. Tutti arredi di gran pregio cui si accompagnano degnamente alcune sculture del II secolo d.C. (molto affascinante anche se sbrecciata in più punti una
Venere Anadomiene –
fig 29) e soprattutto i “busti di Imperatori romani”, copie seicentesche di originali antichi, sui cui basamenti lignei compaiono “due stemmi papali con tiara, e due gentilizi, tra cui si identifica lo stemma di
Urbano VIII Barberini e di
Benedetto XIII Orsini” che, secondo Paola Mangia “potrebbero essere stati portati da Metternich a Vienna dal suo viaggio a Roma nel 1822”; il che –non conoscendo le modalità del trasferimento- potrebbe pure suonare come un ulteriore segno di disprezzo da parte di chi forse più di chiunque altro fu nemico giurato dei patrioti risorgimentali italiani.
8 / 5 / 2016