Il problema della pittura di Antonio Mancini

di Mario URSINO

Virgilio Guzzi (1902-1978) in un acuto e tuttora valido testo critico del 19431 sul pittore Antonio Mancini (Roma 1852-1930), dopo aver sgombrato il campo dal pregiudizio, purtroppo ancora oggi non del tutto dissipato, che la sua opera sia “senza soggetti” e “senza pensieri”, sul presupposto della “illetteratezza” dell’artista,  lo presenta invece (forse per  la prima volta) come un autentico innovatore. Questo perché, sosteneva l’illustre critico-artista, Mancini aveva compreso, con molto anticipo, che la pittura del suo tempo aveva ormai abusato del “verismo” e dei “soggetti storici”, secondo la lezione dei Morelli, Celentano, Cammarano; egli quindi si proietta, per una sorta di geniale intuito, verso la modernità con un esasperato e personalissimo naturalismo suggeritogli dai temi, o piuttosto dai modelli pauperistici tratti dal contesto umilissimo nel quale era vissuto nella prima giovinezza, ovvero la Napoli dei vicoli oscuri di S. Gregorio Armeno; ed è qui che realizza i suoi precoci capolavori: il celebre Scugnizzo, 1868 (dipinto a soli 16 anni), Prevetariello, 1870, Dopo il duello, 1872, Bacco, 1874, detti anche dalla critica “i temi dell’infanzia povera”; “lo scugnizzo sono io”, dirà poi Mancini in anni più tardi. E lo scugnizzo, come sappiamo, è stato anche allievo di Domenico Morelli, dopo l’apprendistato insieme all’amico Vincenzo Gemito (1852-1921) presso lo scultore Stanislao Lista (1824-1904).

Ma, per tornare all’analisi di Guzzi, che nel mettere in evidenza la formazione e la singolarità della pittura  di Mancini con i suoi potenti richiami al luminismo del Seicento napoletano e olandese (l’artista aveva viaggiato in Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda, Olanda), per trarre da queste alte fonti una concisione moderna (al pari di un Manet, per esempio), Guzzi, dunque, porta proprio come esempio il monumentale Ritratto della Signora Pantaleoni, 1894: “frutto di questa difficile elaborazione, è, possiamo dire senza tema di essere contraddetti, uno dei più belli e completi quadri della pittura europea del tardo Ottocento. Dalla misura all’impaginazione, tutto è grandioso. L’impeciatura di quel nero energicamente incastrato nella risonanza di quel giallo panneggio; i verdi agri delle piante, i rosa delle carni, la fluidità e la densità dell’impasto, la tensione dei rapporti tonali tutti appoggiati a quel nero, l’euforia borghese del personaggio è il suo tipo, lo sprezzo del particolare sono da maestri.”2 Tuttavia tali capacità dovettero sconcertare gli ambienti della cultura napoletana del suo tempo3, e perciò “l’accusa più grande che al maestro è stata fatta - scriveva Guzzi - è cioè d’essere un pittore senza soggetti e quindi di poca fantasia, un pittore senza pensieri, derivi dall’equivoco diffuso d’intendere come contenuto dell’arte un contenuto astratto”.4 Lo stesso Roberto Longhi, nel 1949, riferendosi al Mancini nei suoi rapporti con Parigi e gli impressionisti, lo definisce: “artista di occhio acutissimo, ma ineducabile”; il critico pensa infatti che egli non abbia inteso la lezione impressionista, e definisce la sua opera una “Estetica sbrigativa che si illumina nelle relazioni strette con Meissonier, Fortuny, ecc.”5, che invece costituiscono, come è noto, solo e soltanto una fase dell’arte manciniana, succeduta ai dipinti ispirati alla cosiddetta “infanzia povera”.

Che Mancini sia stato “ineducabile” certamente è vero, ma è altrettanto vero che questo essere fuori da ogni schema fu il tratto inconfondibile della sua genialità. L’artista, infatti, “dissentendo dalle opinioni dominanti - ha scritto Costanza Lorenzetti nel 1953 - osservava: “Le leggi moderne del vero sono in contrasto con l’estetica del bello e allontana dalla spiritualità antica”. Intende un vero di scelta, soggettivo - prosegue la studiosa - quello che gli antichi seppero cogliere: “L’ideale artistico…nelle manifestazioni pittoriche non è il verismo reso antipaticamente insopportabile ma è la formazione di note ove si riconosca un’autorità di scelta dell’artista il gusto che proprio appartiene alla creazione”.6
Eppure una buona parte della critica ha continuato ad affermare (da Ojetti, nel 1922, a Borgese, a Schettini, fino a Sgarbi, nel 1991, che ha scritto “Mancini non aveva idee”) che la sua pittura sia solo estro, priva di “anima”, “senza pensieri”. Viceversa se c’è stato un artista tormentato da pensieri sull’arte (vastissima la quantità dei suoi appunti e scritti vari, tutti però a frammenti - del resto come la sua pittura - e perciò sino ad ora mai pubblicati organicamente) è stato Antonio Mancini, ancorché  “illetterato”, o “ineducabile”, come voleva Longhi. Basterebbero le sue profonde riflessioni sulla pittura antica, su Tiziano, Velázquez, le testimonianze del suo peregrinare, sin dalla fanciullezza, nelle chiese napoletane7 davanti alle tele del Caravaggio, Ribera, Battistello, Cavallino, Mattia Preti, Fracanzano, Luca Giordano, Guido Reni, Domenichino; e poi a Roma e Venezia, e i citati viaggi all’estero, nei musei, che poté compiere grazie all’immediato apprezzamento della committenza straniera, dal conte Cahen alla nota casa d’arte parigina di Goupil, all’olandese Mesdag, al tedesco Messinger e all’italo-francese Du Chène.
 

Mancini e i suoi committenti

È senza dubbio preponderante, quindi, la spinta della committenza straniera nello sviluppo della pittura manciniana, almeno a partire dagli anni Settanta del sec. XIX; quella italiana, diversamente, inizia molto modestamente con qualche richiesta da parte di rigattieri, o venditori di anticaglie, tanto che l’artista ricorderà in età matura: “Io non sapevo come procurarmi un mercante…”8; ma fortuna volle che un musicista belga, il conte Albert Cahen d’Anvers (1845-1903), notò un’opera che il giovane Mancini aveva esposto in una mostra alla “Promotrice di Belle Arti di Napoli”, 1871, una Figura con fiori in testa, e ne commissionò subito una copia, stabilendo con l’artista un rapporto di amicizia e di mecenatismo.9 Tramite Cahen, che viveva a Parigi, Mancini ha modo di farsi conoscere dal noto mercante francese Alphonse Goupil con il quale stipulò subito un contratto ed ha occasione di presentare le sue opere ai Salon di Parigi nel 1876 e 1877; e poi nella Sezione Italiana dell’Esposizione Universale del 1878, dove figurava anche il celebre Saltimbanco10, già acquistato appunto dal Cahen.
La notorietà che Mancini va acquistando a Parigi raggiunge un altro tra i più importanti committenti stranieri, il pittore olandese Hendrik Willem Mesdag (1831-1915), artista proveniente da una famiglia di ricchi banchieri, il quale gli fornì continuativamente aiuti economici tra il 1885 e il 1900, in modo da potergli consentire di lavorare in tranquillità11; Mancini in cambio gli inviò molte opere, “almeno centosessanta”, al punto che Mesdag creò nel suo museo una intera sala dedicata al Nostro.
“Quando Mancini seppe che coi suoi quadri si era formata tutta una sala di museo - ha scritto Arturo Lancellotti nel 1940 - volle andare a vederla. Ma, allorché giunse all’indirizzo di Mesdag e si trovò innanzi ad un palazzo principesco, fu invaso da un tale senso di sgomento che girò sui tacchi rifacendo la via percorsa. In questo episodio c’è tutto Mancini, semplice e timido. Mesdag seppe la cosa troppo tardi per porvi riparo, e così accadde che i due artisti non si conobbero mai”.12

Dopo numerosi viaggi all’estero, Mancini, dal 1883, si stabilisce definitivamente a Roma, ed ha modo di incontrare un altro sensibile mecenate (questa volta italiano), il marchese Giorgio Capranica del Grillo (1850-1922), per il quale esegue il noto ritratto nel 1889, oggi conservato nella National Gallery di Londra; con quest’opera inaugura un nuovo tipo di ritrattistica che gli aprirà la strada a numerose future committenze italiane e straniere. Tanto teneva a questo ritratto che il Mancini lo tenne per sé fino a quando non venne acquistato dopo il 1900 da Hugh Lane, direttore della Galleria Nazionale di Dublino13, del quale esegue anche uno splendido ritratto. “A spingere il nostro pittore alla carriera di ritrattista - riferisce Dario Cecchi nella sua notevole biografia del Mancini del 1966 - dovettero influire non poco i Curtis, ricchissimi americani residenti a Venezia, a Palazzo Barbaro […]. I Curtis, a Palazzo Barbaro, rappresentavano un animatissimo centro internazionale d’incontro tra l’alta società e gli artisti. Daniele Curtis era cugino del già famoso John Singer Sargent, il quale aveva soggiornato più volte a Venezia…”14

Tramite i Curtis, dunque, Mancini conosce Sargent e ne riceve grande ammirazione: l’artista inglese afferma perentoriamente: “Ho incontrato in Italia il più grande pittore vivente: Antonio Mancini”; anche la celebre collezionista americana Isabella Steward Gardner, presente a Venezia nel 1895, in occasione della I Biennale e che già possiede qualche opera sua, desidera conoscerlo. In seguito a questi successi Mancini si reca a Londra tra il 1901 e il 1902, e qui riceve molti incarichi per eseguire ritratti (tema molto prediletto dagli inglesi). Il più importante incontro è con la famiglia Hunter (tramite Sargent). La signora Mary Hunter, già ritratta dallo stesso Sargent, da Boldini e da Rodin,  vuole un ritratto anche dal Mancini; prese l’artista sotto la sua protezione, ricevendolo con grande cortesia, come si evince da una lettera del 1° ottobre 1901: “Mon mari desire un portrait de votre main. Alors vous serez bien occupé; je ferais mon possible pour rendre votre sejour ici heureux et confortable15.

Del periodo inglese, oltre ai ritratti per gli Hunter, va segnalato per importanza quello notevole di Mathilde Hirsh (oggi in coll. priv. inglese), il Ritratto di Signora (Mrs. Shine), 1908, documentato in una foto del Mancini al lavoro, il Ritratto di Lady Gregory, 1907, nella Galleria di Dublino, e i due eseguiti nel 1908 a Dublino per i signori Williamson. Dopo il successo inglese, il Mancini godrà della protezione, tra il 1900 e il 1911, di un altro grande mecenate e collezionista, il barone tedesco Otto Messinger16 che risiedeva a Roma a Palazzo Massimo e per il quale fece un primo ritratto nel 1907 ed un altro più imponente nel 1909, donato poi da questi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
L’ultimo grande committente manciniano è stato Fernand Du Chène De Vère, ricco industriale italo-francese, che lo indusse a trasferire il suo studio, dal 1911 al 1918, nella sua proprietà a Frascati, Villa Jacobini, con l’incarico di dipingere per le sue collezioni personaggi in costumi esotici sei- settecenteschi, con i quali l’artista rivestì i numerosi modelli frascatani, pastorelli e ciociare, senza tuttavia abbandonare mai la grande ritrattistica (v. Ritratto di Tina Du Chène De Vère, 1912 o il Ritratto della nipote Enrica, 1918).
 

Il Ritratto della Signora Pantaleoni: “la forma della luce in rilievo” e il sistema della “graticola”

Anche se più limitata, come abbiamo visto, la committenza italiana ha dato modo al Mancini di produrre importanti dipinti dello stesso tenore dei soggetti stranieri, a partire soprattutto dal sopra citato Ritratto del Marchese del Grillo, 1889, con il quale l’artista elabora una sorta di ritrattistica solenne, mai retorica, a suo modo aulica (il seicentismo sempre presente), di una certa borghesia in ascesa e compiaciuta di sé. Già nel Ritratto di Elvira Santini, 1887, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, sono evidenti le aspirazioni alla rappresentazione sontuosa del personaggio, tale da rammentare, a mio avviso, lo straordinario Ritratto di Antea, 1535-37, del Parmigianino, (Napoli, Pinacoteca di Capodimonte); ma una maggiore monumentalità, ancora più accentuata, Mancini la esprime proprio nel Ritratto della Signora Pantaleoni, 1894, e in quello del barone Otto Eugenio Messinger, 1909, entrambi nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

I due dipinti presentano inoltre le tracce evidentissime del singolare sistema compositivo della “graticola”, usato dal Mancini ponendo due identici telai reticolati con cordicelle, uno di fronte al modello e l’altro poggiato sulla tela, in modo da stabilire le esatte proporzioni della figura e di ciascun particolare da dipingere17 con quella materia pittorica grondante e piena di spessori (a volte l’artista riempiva il colore di materiali estranei, quali pezzi di vetro, stoffe, metalli per accrescere la suggestione materialistica dell’immagine; ma niente a che vedere, sia ben chiaro, con il polimaterismo delle avanguardie ancora di là da venire). Notava l’Oppo nel 1940: “La materia manciniana è come una forza naturale espressa per eruzione, che si dispone via via in semplici liquidi trasparenti o in strati cristallini e più spessi, e sempre più spessi e grumosi; che si calcifica e si immadreperla. Il bianco, questo non colore, è adoperato dal Mancini come luce, con effetti che sembrano impossibili e certamente sono rarissimi; come il nero, quest’altro non colore, è adoperato invece proprio come colore (e di ciò i veneziani avevano già dato esempio e non come “scuro”)”.18 Ed è noto quanto Mancini amasse la pittura dei veneziani, del Tiziano vecchio in particolare, che mescolava allo studio del Velázquez, quello presente a Roma con il capolavoro del Ritratto di Innocenzo X, 1650, nella Galleria Doria Pamphilj, davanti al quale era solito prendere appunti: “E’ un risultato di pozze di rilievo, di luce, di giustezza che non esprime la pittura, ma l’uomo e la vita […]. Vorrei potermi avvicinare a tale armonioso risultato […]. La forma della luce in rilievo”19
Perciò, quando gli viene commissionato il Ritratto della Signora Pantaleoni nella primavera del 189420 da uno dei figli dell’effigiata, Raul, Mancini si mise subito al lavoro, infervorato da queste idee del comporre, su una grossa tela della misura di due metri e dieci per un metro e cinquantuno con il sistema della “graticola”. E due mesi dopo l’opera era compiuta.

Così la descrive Dario Cecchi nella sua biografia: “…qui in un giardino illusorio, evocato da piante robuste, ma che forse mascherano una specchiera in un angolo del salotto, la ritrattata21 (abito a gran maniche, tipico del 1894, e che di lì a poco, esagerati ancor più quegli sboffi, contrappuntati dall’allargatura della gonna, creeranno la cosiddetta “linea-clessidra”), chiusa nel più bloccato dei bloccatissimi neri pittorici dell’artista, domina come una regina-madre della più austera alta borghesia”22.

Questo sontuoso ritratto che a Virgilio Guzzi ricordava il Renoir del grande Ritratto della Signora Hartmann, 1874, Parigi, Jeu de Paume, a sua volta derivato, secondo Guzzi, da Tiziano (e noi potremmo persino pensare al supposto Ritratto di Caterina Cornaro, 1570, Vienna Kunsthistorische Museum), opere con molta probabilità note allo stesso Mancini, se non altro per la loro intrinseca densità cromatica. Si può porre quindi l’opera del Mancini emblematicamente al centro di quella contemporanea ricerca della pittura europea sulla crisi del “vero” e reazione anti-impressionista, così come la praticavano i vari Liebermann, Slevogt, Sickert e, soprattutto, il marsigliese Adolphe Monticelli (1824-1886)23; comparazione, quest’ultima, pressoché ignorata in tutti i precedenti e recenti studi sull’opera di Mancini. Il Monticelli, un “maestro dell’anti-impressionismo”- come lo ebbe a definire Giovani Testori nel 1986 - che ha trasformato la materia dei suoi colori in pietre, brillanti, topazi, smeraldi, ametiste, perle, cristalli, conchiglie, opali; e ha depositato poi il tutto sul luttuoso fondo violastro dei legni”. E ancora aggiunge il critico: “Come…arrivasse poi a portare il “ritratto” al limite in cui il disfacimento della materia corporale, che è carne e insieme colore, paralizzasse se stesso in una sorta di mai visto “contro-mano” pittorico; e psicologico”.23 Così come avvenne nel Mancini, a nostro avviso, con il Ritratto della Signora Pantaleoni, ma in una maniera straordinariamente naturale.
           
 
Note:
  1. 1 V. Guzzi, Antonio Mancini, Roma 1943
  2. 2 ibid., pp. 15-16
  3. 3 cfr. R. Causa, Antonio Mancini o la crisi dei valori tradizionali, in Napoletani dell’800, Napoli 1966, pp. 89-93
  4. 4 V. Guzzi,  op. cit., pp. 8-9
  5. 5 R. Longhi, prefazione a J. Rewald, Storia dell’Impressionismo, Firenze 1949, p. XIII
  6. 6 F. Bellonzi, C. Lorenzetti, Antonio Mancini, Roma 1953, p. 14
  7. 7 cfr. M. Biancale, Antonio Mancini. La vita, Roma 1952, pp. 28-29 D. 8 in Cecchi, Antonio Mancini, Torino 1966, p. 38
  8. 8  cfr. ibid., pp. 38-52; e A. Pinelli, Un lavoratore frenetico in balia dei mercanti, “Il Messaggero”  28 giugno 1991
  9. sul tema dei “saltimbanchi” si veda il testo di Fred Licht,  Mancini and Gemito in the Gilgore Collection, in cat. A. Chisel and A Brush, Naples, Florida 2000, pp. 15-16; e Vivien Greene, Saltimbanco after performance, ibid., p. 7
  10. Per i rapporti tra Mancini e Mesdag si veda di Hanna Pennok, Le opere in Olanda di una “mente geniale”, in cat. mostra di Antonio Mancini a Spoleto, a cura di B. Mantura e E. Di Majo, Roma 1991, pp. 13-25
  11.  A.Lancellotti, Pittori romani. Antonio Mancini, in “Capitolium” marzo 1940, n. 3, p. 602
  12. 12 cfr. D. Cecchi, op, cit., p. 225 e p. 322
  13. 13 ibid., pp. 127-129
  14. 14 ibid., p. 176
  15. 15 cfr. P. D’Achiardi, La collezione Messinger, Parigi-Roma 1910
  16. 16 Sul sistema della “graticola”, Mancini ha scritto numerosi appunti, oltre alle testimonianze diverse di persone che si sono interessate alla sua opera; tra le varie ci è apparsa particolarmente interessante quella descritta da Leonetta Cecchi Pieraccini, in una visita che la scrittrice fece nello studio dell’artista nel 1924; in “Art Club” Lo studio di Antonio Mancini, Milano, dicembre 1962, p. 36 e p. 40
  17. 17 C. E. Oppo, Ottocento Pittorico. Antonio Mancini, “Il Frontespizio”, Firenze, Agosto 1940, pp. 425-426
  18. 18 In D. Cecchi, op. cit., pp. 116-117
  19. 19 cfr. D. Cecchi, op. cit., p. 150
  20. si tratta della signora Isabel Pantaleoni, di origine irlandese, nata Massy-Dawson Saint Claire, madre del noto economista Maffeo Pantaleoni (1857-1924), docente universitario e autore di un’opera classica di questa disciplina, Principi di economia pura, 1889 (cfr. Diz. Lett. Bompiani, Autori, Milano 1957, pp. 61-62); nel 1904 il professore ha donato allo Stato il ritratto della madre che però è entrato a far parte delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna solo nel 1908 (atto di consegna, 1° agosto 1908, archivio GNAM)
  21. D. Cecchi, op. cit., p. 151
  22. sul rapporto Monticelli-Mancini, si veda di P. M. Bardi. Mancini Casa d’arte, mostra a La Spezia, 1931
  23. G. Testori, Maestro di antimpressionismo, Adolphe Monticelli,  “Corriere della Sera”, 9 ottobre 1986
    Roma 19 / 10 / 2017                              Mario URSINO