“Se gli urbanisti classici avevano un concetto geometrico – ha scritto Giulio Carlo Argan – gli urbanisti moderni hanno un concetto economico. E poiché lo spazio non  è una realtà oggettiva, ma una funzione mentale – la materia dello spazio e l’oggetto di quel pensiero che per gli antichi era la natura, per i moderni è la vita degli uomini nella sua viva e complessa attualità, cioè nella sua organizzazione sociale (…) La città, in questo senso, è fenomeno geografico, organizzazione economica, un teatro di azioni sociali, ed un simbolo estetico di unità collettiva. La città favorisce l’arte ed è arte essa stessa”.

Per iniziare a comprendere la viabilità siciliana possiamo fare riferimento all’Itinerariun  Antonini ( un documento del III e IV secolo d.C.), o a testi di studiosi come il Ravennate o il Guidone. Da questi possiamo capire l’intera costruzione del territorio, le strade, i nodi degli scambi e del commercio e le penetrazioni a fondo valle. Infatti gli antichi itinerari svevi, angioini, aragonesi, vicereali, ricalcano i più antichi tracciati romani, legandoli alle nuove realtà delle diocesi, dei vescovadi, delle baronie e delle vie fortificate. L’insediamento umano era prevalentemente costiero; le strade terrestri non erano di prima necessità perché le merci venivano pesate e pagate alla consegna nei caricatoi costieri, e perché erano facilmente sostituite dalla navigazione di piccolo cabotaggio. All’interno, i grani, la frutta e l’olio venivano trasportati a dorso di mulo.

Bisogna arrivare al Settecento per trovare studi urbanistici di un certo spessore storico culturale: infatti la prima carta scientifica dell’isola verrà stampata tra il 1719 e il 1721 dal servizio dell’esercito austriaco diretto dal barone Samuele di Schmettau. Il fenomeno del brigantaggio, molto esteso nel ‘700, fa si che la viabilità interna all’isola non venisse quasi per nulla utilizzata, con un conseguente rallentamento allo sviluppo stesso della viabilità, favorendo invece quella costiera e quella fiumana, ritenuta più sicura. Il secolo XVIII è denso di avvenimenti europei che avranno influenza in Sicilia. Dal trattato di Utrecht (1713)  alla pace di Vienna (1738), la Sicilia cambia tre padroni, con Vittorio Emanuele duca di Savoia, Carlo VI d’Austria, Carlo III, figlio di Filippo V di Spagna. Ottenuta l’investitura del Regno delle due Sicilie ed incoronato a Palermo nel 1735, Carlo fu un sovrano riformista, seguace delle idee dei filosofi e degli economisti a lui contemporanei. Cercò con alcuni provvedimenti di sollevare il territorio siciliano dalle estreme condizioni di degrado e miseria in cui versava. Chiamato al trono di Spagna nel 1759, lasciò quello di Napoli al figlio Ferdinando (1759/1825), che ne continuò la politica servendosi  dell’opera del viceré Caracciolo, seguace degli enciclopedisti francesi, ma la mancanza di una borghesia ben consolidata fece fallire ogni tentativo di migliorare l’assetto territoriale dell’isola. Tuttavia la viabilità del luogo risalirà alla politica di Carlo III, quando (1774-1777) il Parlamento siciliano si preoccupò di mettere in comunicazione i diversi paesi tra loro, e questi con le marine, per regolare cosi il commercio esterno. Riguardo alle pessime condizioni delle strade in quel periodo, bisogna pensare che il sistema baronale non aveva interesse ad incrementare lo sviluppo del commercio interno e quindi non incoraggiò la costruzione di strade. Ogni feudo era autosufficiente: i baroni temevano gli assalti delle famiglie rivali e rendevano le loro proprietà inaccessibili privandole di comunicazioni stradali. Nel 1766 venne avanzata la proposta di una contribuzione volontaria di alcuni proprietari di terre per il mantenimento delle strade, e nel 1767, sull’esempio della Francia, che in alcuni casi aveva affidato la costruzione e la manutenzione delle strade, la Sicilia ottenne di potere utilizzare duecento condannati per la costruzione di opere pubbliche, ma l’iniziativa non ebbe corso per le difficoltà economiche di sorvegliare i condannati stessi. La prima vera presa di coscienza circa la necessità di intraprendere una seria politica di sviluppo delle strade avvenne nel 1778. La rappresentanza nazionale deliberò la costruzione di ponti e strade per facilitare i trasporti dell’interno e verso la costa. Nel 1778 si costruiscono le prime vie borboniche. I collegamenti importanti furono: le vie regie percorse periodicamente dai corrieri del regno, i quali andavano da un capo all’altro dell’isola rendendo possibili le comunicazioni tra la capitale e le altre città; le vie cosiddette dei caricatori, che costituivano dei paesaggi obbligati per condurre i cereali prodotti nell’entroterra verso i grossi depositi dislocati in particolari punti della costa o della città verso i caricatori dell’agrigentino, particolarmente numerosi. I percorsi obbligati che i corrieri compivano lungo le vie principali, sono stati ritenuti fondamentali per la ricostruzione dello schema portante di tutta la viabilità. Questa situazione di disimpegno del potere politico durò ben oltre l’Unità d’Italia.
 
Ogni spazio antropico comunica. L’uomo nell’organizzare lo spazio intorno a sé tiene conto di ciò che è funzionale alla comunità, disegna e realizza scenari in cui possiamo leggere le regole, le risposte e i comportamenti che ogni società si da nel corso dei secoli. Da sempre quindi, cuore pulsante delle nostre città sono state le dimore patrizie della Sicilia del Settecento, dimore che, apparentemente destinate al privato, rappresentavano un microcosmo articolato e complesso che non pertiene solamente a comportamenti individuali. Ogni cultura quindi, delimita il privato e organizza il tutto in modo diverso in quanto le variabili date dal potere, dalla religione e dalle istituzioni che di volta in volta si insediano in un territorio antropico lo mutano e lo modificano, impostandolo su modelli culturali su cui si fondono poi modelli di vita collettiva. I palazzi, visti come un microcosmo di un macrocosmo chiamato Paese, sono emblemi apparenti del privato, in realtà sono l’espressione più alta dell’essere e dall’apparire di una società: quindi anche nell’aspetto architettonico è possibile fare una lettura storico – antropologica degli spazi abitativi che hanno caratterizzato la Sicilia del Settecento sia dal punto di vista urbanistico sia da quello delle dimore patrizie. Nel mutare dei costumi, il Settecento si presenta come un periodo storico di rivolgimenti, in cui vengono fatte proprie le tendenze e le innovazioni che già nel XVII secolo si erano prospettate ma di cui ragioni storiche avevano impedito la diffusione. Nel Settecento, il palazzo si trova al centro dei cambiamenti che caratterizzeranno la Sicilia per tutto il secolo. Come abbiamo detto il palazzo assume un segno molto forte e si delinea come sede di potere e luogo dei rapporti relazionali che comportano importanti scelte politiche  e regole economiche. Dall’imponenza del palazzo possiamo capire l’imponenza e il prestigio politico-sociale della famiglia che esso stesso rappresenta. Sono prevalentemente queste le motivazioni che spingono le famiglie nobili siciliane ad abbandonare le dimore dei latifondi, lasciando questo ultimi in mano a uomini di fiducia, e a insediarsi nelle città, ampliando e abbellendo  i palazzi con la volontà di apparire e spesso ostentare il proprio potere economico. Da qui scaturisce una frenetica attività artistica, che caratterizza tutta l’isola di quel secolo in particolar modo della città di Palermo, sede del vice regno. La città diventa quindi un grande cantiere, viene pervasa da fermento edificatorio e arrivano architetti artisti e artigiani da tutte le parti d’Europa. Nei palazzi, rigidamente codificati in spazi destinati al pubblico e al privato, ogni elemento pensato e realizzato risponde all’opulenza del committente, il quale a sua volta deve sottostare alle leggi che gli impone il proprio rango. Ogni dettaglio è funzionale a tutto un sistema di ruoli e funge da veicolo per messaggi: le allegorie fissate negli affreschi che sovrastano coloro che attendono di essere ricevuti o le prospettive dei feudi raffigurate nei sovrapporta se da una parte accolgono l’ospite dall’altra lo ammoniscono. Il palazzo, infine, racchiude al suo interno un universo sociale gerarchicamente distribuito anche nell’uso dei suoi ambienti. L’articolazione dei piani dipende dalla destinazione d’uso degli ambienti: al piano terreno generalmente sono presenti le botteghe e i magazzini; al mezzanino le residenze per la servitù e altri locali destinati alla servitù stessa; al piano nobile saloni di rappresentanza, sale, gallerie, camere e anticamere. Il secondo piano, infine, è destinato ad alloggi per altri membri della famiglia.
 
Biagio Amico, nel 1726, descrive cosi gli ambienti interni del piano nobile di un tipico palazzo del Settecento siciliano: la sala di ampie dimensioni; almeno due o tre anticamente, in enfilade, una sala più grande per le feste e i ricevimenti; le camere da letto, quella di parata con il letto in mezzo alla stanza “che serviva per pura comparsa”, comunicante direttamente con le anticamere, e quella d’inverno dove effettivamente si dormiva; almeno 2 gabinetti vicino alle alcove e diverse retrocamere per il lavoro femminile  disimpegnano dalle anticamere o dalla sala; la cappella vicino alla camera da letto e infine una galleria per esporre le opere d’arte. Anche le scale in un palazzo del Settecento siciliano assumono una importanza fondamentale che caratterizza il rango della famiglia stessa: scale diverse rispetto ai piani da raggiungere o a chi ne faceva uso.
 
Se è vero che la storia insegna che la grandezza e la magnificenza di un popolo si rivela dalle tracce che rimangono sul territorio, i palazzi ne rivelano una duplice grandezza: le capacità delle diverse maestranze, ognuna nel proprio campo, di coniugare la fabrilità con l’arte, e poi una lunga schiera di pittori stuccatori, marmorai, indoratori, incisori, intagliatori, ebanisti, argentieri, orologiai e ceramisti (a quest’ultimi si devono tutte le maioliche che a tappeto ricoprono le pavimentazioni dei palazzi e le rappresentazioni di stemmi). Spesso alcuni di questi artigiani legavano la loro vita interamente alla famiglia presso cui lavoravano in quanto alla fonte di guadagno sicuro si coniugava una protezione familiare. L’altro aspetto che dimostra la grandezza di un palazzo è certamente il gusto e la raffinatezza che le famiglie seppero imprimere alle loro dimore, famiglie del calibro dei Caracciolo, Alliata, Ajutamicristo, Filangeri, Geraci Mazzarino e tante altre ancora, che hanno reso la Sicilia un polo artistico degno del Rinascimento fiorentino o romano, come sottolineato da numerosi scritti di viaggiatori stranieri che attraversavano la Sicilia, vedi Lord Byron o Goethe, al punto che quest’ultimo scrisse che l’Italia senza la Sicilia sarebbe come un corpo senz’anima.


Paolo Tinorio