E’ senz’altro una delle imprese editoriali più impegnative nel campo della pubblicistica d’arte questa che la casa editrice di Foligno etGraphiae, attiva da poco tempo ma già segnalatasi per testi che hanno avuto una notevole risonanza, manda in libreria in questi giorni, licenziando tre ponderosi volumi dedicati a “Il Capriccio architettonico in Italia nel XVII e XVIII secolo” (fig. 1).
Il lavoro, frutto di faticose ricerche e grande impegno, è firmato da Giancarlo Sestieri, tra i più competenti studiosi di queste particolari raffigurazioni iconografiche ed in genere della pittura italiana tra Sei e Settecento: tutti conoscono i suoi repertori sulla pittura romana barocca e rococò o sui pittori di battaglie, e le monografie su Sebastiano Conca, Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, Michele Rocca, solo per citare alcune delle sue numerose pubblicazioni.
Quest'opera monumentale segna sicuramente un punto di arrivo difficilmente superabile, per la mole di opere presentate - in una veste grafica inappuntabile - oltre che per il gran numero di artisti presi in esame con una linearità espositiva che la rende scorrevole e di piacevole consultazione, e di cui va apprezzato innanzitutto - oltre che la ricchezza argomentativa - l’inquadramento di carattere storico e culturale latu sensu che, già a partire dalla Introduzione l’autore propone.
Proprio questa impostazione ci aiuta a concentrare l’attenzione su un piano complementare rispetto a quello con cui di solito si guarda o si imposta il lavoro artistico, cioè con una sensibilità maggiore riguardo all’analisi dei fattori contestuali, oltre che stilistico-formali. Sappiamo che larga parte della storiografia d’arte del nostro paese ha molte remore nel cogliere queste suggestioni, rimanendo legata ad una visione critica fondata sulla forma, la cronologia e lo stile, che spesso porta a sottovalutare l’inquadratura storica e perfino teoretica.
Il problema dunque, quando si analizza un fenomeno artistico, una scuola o anche una sola opera, è che si dovrebbe inserirne lo studio in un più ampio collegamento con i fattori storici, economico sociali e geoambientali che definiscono un contesto, studiando quella che Giovanni Previtali chiamava la “storia totale”, cosa che, entrando più nel merito della pubblicazione di Sestieri, ci consente di arrivare a risultati apprezzabili.
Con ottimi argomenti, lo studioso fa risalire la nascita del genere del “capriccio architettonico” (fig. 2) a Viviano Codazzi, al quale ascrive anche il merito di essere stato “il moderno iniziatore della ‘veduta realistica’“ (fig. 3); vale a dire, due aspetti contrastanti in quanto l’uno - sostiene l’autore - basato sulla fantasia e l’altro attinente alla realtà, sottolineando in questo la sua discrepanza di opinioni con David R. Marshall, a suo tempo autore della monografia sui Codazzi (cfr. D.R. Marshall, Viviano and Niccolò Codazzi and the Baroque Architectural Fantasy, Rome, Jandi Sapi, 1993).
Lo studioso anglosassone in effetti non accettava la seconda ulteriore qualifica ora invece ribadita da Sestieri, perché riteneva i “capricci” di Codazzi come “risultato della pratica di costruire con la prospettiva, piuttosto che guardando con i suoi occhi” ; egli infatti sosteneva che la formazione dell’artista bergamasco fosse esclusivamente di ambito napoletano, senza contemplare un apprendistato romano nel quale, secondo invece il parere di molti studiosi, tra cui Longhi, Briganti, Zeri, Scavizzi e altri, avrebbe anche appreso l’approccio realistico di impronta caravaggesca; non a caso Sestieri afferma che la personalità di Codazzi sia stata “supportata” sia da una profonda erudizione specifica, sia da un’osservazione diretta della realtà.
Ma per quanto riguarda gli inizi di Viviano Codazzi, accettando in pieno il ragionamento di Sestieri, mi pare condivisibile anche la ricostruzione che lo studioso opera circa la protostoria, se si può dire, di questa particolare iconografia, di quando cioè - in che epoca, ad opera di chi - le architetture in particolare ebbero un ruolo di rilievo - anche se pur sempre esornativo - nelle raffigurazioni; l’autore prende giustamente prese in esame, ad esempio, le incisioni di alcuni artisti fiamminghi, in particolare Hans Vredeman de Vries (Leeuwarden, 1526 – Amburgo, 1607 - fig. 4), autore del trattato de Prospectiva, di cui si potrebbero citare molti di esempi che possono averne influenzato le realizzazioni.
Sestieri fa inoltre riferimento ad alcune realizzazioni di Paolo Veronese, di cui in particolare commenta un affresco di Villa Maser (fig. 5) realizzato dal Caliari dopo un viaggio a Roma, nel 1561, cioè un anno prima che il grande artista veneto avesse licenziato le Nozze di Cana, dove emergono con particolare accentuazione l’architettura e una studiata attenzione ai motivi popolareggianti, che dieci anni dopo, riproposti nell’Ultima Cena del 1573, gli costarono l’attenzione e l’intervento censorio dell’Inquisizione, tanto che, come tutti sanno, l’opera sarebbe divenuta Convito in Casa Levi, chiudendo così anche il tentativo - semmai ci fu - di popolarizzare, laicizzare le storie e le raffigurazioni religiose: l’ultimo tentativo prima del Riposo durante la Fuga in Egitto Doria di Caravaggio, per quanto riguarda la pittura in Italia.
Diverso fu quanto accadde sotto questo aspetto nei Paesi Bassi, dove, al contrario, il processo di laicizzazione si esplicò in una vera e propria torsione dei significati, con un’inversione di senso e di contenuto, dal momento che la scena di genere prendeva il primo piano e la scena religiosa compariva sullo sfondo (si vedano, ad esempio, le cucine e i mercati di Pieter Aertsen e Joaquim Beukelaer, ma anche dopo, alcune opere di pittori come Erasmus Quellinus e altri ancora). Ma questo avviene nelle Fiandre, appunto, a dimostrazione di come il dato contestuale potesse contribuire a definire anche le regole iconografiche.
Tornando all’opera di Giancarlo Sestieri, proprio confrontandoci col contesto, se consideriamo il largo prevalere di architetture di fantasia ma basate su vedute con rovine romane, va certamente sottolineato il richiamo che lo studioso fa alla necessità di operare una differenziazione rispetto a quanto avveniva già nel Seicento, quando proprio raffigurazioni del genere vedutistico comparivano nei dipinti di Breembergh o Polemburg o altri ancora, sulla scia di Paul Brill, nel cui ambito peraltro si era temprato anche Agostino Tassi (fig6) in alcune opere del quale lo stesso Viviano Codazzi può aver trovato spunti. Si tratterebbe però di “anticipazioni solo esteriori”, dal momento che con Codazzi si passa “da una rappresentazione scenografico prospettica, al conferimento alle sue architetture di un’apparenza corporea ed oggettiva”.
Resta da capire cosa, come riconosce lo stesso autore, oltre “alla cognizione approfondita dei trattati e alla elaborazione dei vari supporti incisori cui si è accennato”, abbia favorito quel tipo di “conseguimenti obiettivi”, animati dai fatti comuni del giorno, a cui è legata la vera nascita del genere pittorico. E sotto questo punto di vista, uno sguardo a certi aspetti della cultura contemporanea crediamo sia opportuna: quali tendenze culturali allora si confrontarono? Quali sviluppi vi furono? Quali figure emersero nel panorama d
el tempo per profondità ed originalità delle loro ricerche?
Una figura di spicco in questi anni è senza dubbio quella del gesuita Athanasius Kircher (Geisa 1602 – Roma, 1680), un intellettuale a tutto tondo, specialista in storia, filosofia, egittologia; nelle enciclopedie è presentato come l’autentico rappresentante dell’enciclopedismo seicentesco, ma si sa che fu in effetti anche una sorta di ultimo rappresentante dell’esoterismo rinascimentale, con i suoi interessi verso le scienze occulte e la cabala; non tutti sanno però che i suoi interessi spaziavano anche nel campo architettonico, dove amava riproporre le descrizioni bibliche delle grandi architetture attraverso raffigurazioni conformi ai dettami stilistici del tempo, valendosi di un linguaggio espressivo, ancorchè di matrice letteraria tuttavia del tutto compatibile a livello architettonico e progettuale.
In una mostra di alcuni anni fa, curata come il catalogo (che non ha perduto nulla della sua efficacia) da Marcello Fagiolo (cfr. Archiìtettura e massoneria. L’esoterismo della costruzione. Roma, 2006) si faceva rientrare la produzione architettonica settecentesca sotto l’influenza di questi ambienti esoterici, correlando all’influenza della Massoneria uno sviluppo di temi che a partire dai tre modelli ‘naturali’ del costruire , cioè la capanna, la caverna e la tenda, arrivava fino alla sorprendente dimostrazione di quanto ne fosse stato determinante il ruolo nella elaborazione teorica e nelle progettazioni delle avanguardie artistiche e architettoniche del 1° novecento.
Se pensiamo al richiamo continuativo al tema delle rovine romane in queste raffigurazioni (e basta solo sfogliare i volumi di Sestieri per rendersene conto) e ci poniamo il problema di capirne le origini e le cause, se ne possono trovare le motivazioni in un testo “The Constitutions of the Free-Masons” pubblicato nel 1723 da James Anderson, un massone scozzese, secondo il quale il culmine della tradizione architettonica si avrebbe nell’Antica Roma, con l’apogeo raggiunto nel periodo augusteo, quando cioè comparve il Messia, vale a dire il grande architetto della Chiesa, e visse Vitruvio, ritenuto coram populo il padre di tutti gli architetti. Travolto dalle invasioni barbariche, lo stile augusteo, secondo questa teoria, sarebbe rinato in Italia, con Bramante, Michelangelo e soprattutto con Palladio, la cui architettura quindi, a partire dal 1723, diviene la Architettura di Stato della Massoneria, certo come segno del gusto del tempo (ma qualche peso lo deve aver avuto anche il fatto che Palladio si era formato nella loggia degli scalpellini vicentini).
Del resto anche per altri protagonisti del genere del capriccio architettonico vale la domanda su cosa abbia determinato il conseguimento di quella meta dell’obiettività, caratteristica di questa tipologia iconografica. Vale per Ghisolfi, vale per Panini, per il quale il 1718 è considerato da Sestieri l’anno decisivo per la trasformazione del suo linguaggio, con la sua piece de reception - come dice l’autore- dell’Accademia di san Luca, posto che negli anni precedenti - considerando il 1711 l’anno del suo approdo a Roma - non compaiono lavori di questa impostazione.
Sestieri in effetti dedica largo spazio alla vicenda e alle opere di Panini, che definisce una “icona emblematica del capriccio architettonico”, autore di una sorprendente trasformazione della sua impronta figurativa fondata su una capacità inventiva eccezionale applicata alle antichità classiche della città eterna, che gli consentiranno un grosso successo internazionale.
E a ben vedere, questo torno di anni, tra la fine del primo e gli inizi del secondo decennio del XVIII secolo è effettivamente carico di eventi e dunque decisivo per la sorte stessa del genere delle ‘erbose ruine’. Risale al 1719 infatti la presenza a Roma di Canaletto (Venezia, 1697 – 1768), insieme con il padre, per lavorare su due opere di Scarlatti rappresentate al teatro Capranica nel 1720; è anche l’occasione della “scomunica solenne del teatro” operata dall’artista, come tramandano le cronache e come Sestieri ricorda opportunamente.
Certamente in questa circostanza Canaletto ventenne ebbe modo di approcciare i lavori di Gaspar van Wittel (Amersfoort, 1653 – Roma, 1736) conosciuti tramite quelli posseduti probabilmente da collezionisti romani, e certo desideroso di staccarsi dal mestiere del padre - come ha fatto notare Laura Laureati - istalla se stesso come pittore di vedute sul modello del maestro olandese.
Un passaggio, questo dal teatro alla veduta, che, dice Sestieri, non fu però così netto e drastico. Su questo tema egli è andato molto a fondo, considerando anche il fatto che sul pittore esiste una bibliografia assai ampia, nella quale peraltro il momento dello ‘stacco’ sarebbe rappresentato da alcuni lavori giovanili, cioè un set di disegni di vedute ora al British Museum dove appaiono incertezze e limiti compositivi (fig7) dovuti all’inesperienza che certamente non si conciliano con lo stile già di pochi anni dopo (fig8), ma che ben potrebbero adattarsi al periodo di questo soggiorno romano.
Si tratta di dodici disegni con vedute di monumenti piazze e rovine romane, dove, come appare da quanto afferma Hugo Chapman, il curatore delle schede che li dà per autografi, tuttavia “salta agli occhi l’inesperienza di Canaletto”. Sono lavori –che non tutta la critica ritiene autografi- in cui secondo Sestieri l’artista appare più propenso al capriccio che alla veduta oggettiva,e in cui esprime una “commistione tra il ‘paesaggista’ e il ‘vedutista’ per la cui qualifica “risulta ancora in effetti immaturo”. Ed andare più a fondo in questa tesi della commistione tra il paesaggista e il vedutista ha un suo senso preciso, se consideriamo ancora il panorama figurativo del tempo a Roma; è ancora nel 1720 che un notevole e già affermato paesaggista come Paolo Anesi realizza le sovrapporte della Galleria Spada, la serie di incisioni delle varie vedute di Roma (pubblicate proprio agli inizi del terzo decennio) per il cardinale Imperiali, ed anche, con ogni probabilità, le tavole che costituiscono le porte dipinte di palazzo Pallavicini Rospigliosi, (la tesi è illustrata da Costanza Barbieri in un saggio sul Bollettino d’Arte, che pur senza documentazione tuttavia dall’analisi stilistica sembra non aver dubbi quanto all’attribuzione).
Dobbiamo considerare che si tratta di opere che travalicano - a parere della critica che se ne è occupata - l’aspetto puramente decorativo, dal momento che dovevano rivestire un senso diverso, funzionale al prestigio del luogo dove dovevano essere poste, visto che la collocazione era - come ancora è - la sala di passaggio alla Sala del Trono, dove si riceveva la corte pontificia; e non per caso presentano un uso della illuminazione assai più studiato, nelle distanze, negli effetti atmosferici, nella precisa resa dei particolari, nella percezione dei dettagli perfino delle figurine; insomma, funzionalità, adesione al dato di natura, oggettiva resa spaziale, gusto per la descrizione di luoghi e ambienti, sono elementi unificanti di questa serie di artisti che vivono il portato di una nuova sensibilità che richiama ai temi dell’illuminismo.
Anesi, com’è noto, collaborò con Panini a villa Torlonia (già Albani) dopo la metà del Settecento, quando però le sue opere parlano linguaggi differenti, proprio come accadrà per Panini il quale, nota Sestieri, nelle sue imprese decorative esplica “un’immagine leggermente diversa da quella dei capricci” (fig. 9): a dimostrazione di come lo sviluppo delle rappresentazioni figurative si evolve - o involve, a seconda dei punti di vista - secondo quella che Alessandro Marabottini definiva la ‘regolata iconografia’, vale a dire quel complesso di regole dipendenti dalla situazione storica obiettiva e che qualche volta, non sempre, determinano come conseguenza anche uno stile regolato, cioè un adeguamento del linguaggio artistico, sulle cui conseguenze è sempre opportuno riflettere, come credo che la ricca esposizione di Sestieri può aiutarci a fare.
05/04/2015