Giovanni Cardone  Giugno 2022
Fino al 30 Ottobre 2022 si potrà ammirare al Museo di Capodimonte di Napoli la mostra di Salvatore Emblema  a cura di Sylvain Bellenger l’esposizione è realizzata con il supporto scientifico del Museo Emblema e del suo archivio, con la collaborazione dell’Associazione Amici di Capodimonte Ets. La mostra si inserisce nel ciclo di mostre focus “Incontri Sensibili” in cui le opere di artisti contemporanei sono messe a confronto con quelle della collezione storica del Museo ed evidenzia la stretta relazione tra l’attività pittorica e la parallela ricerca in campo installativo di Salvatore Emblema. A Capodimonte, il progetto espositivo si articola in un percorso diffuso tra gli spazi interni del Museo e quelli esterni del Real Bosco, per approfondire quel processo di riappropriazione e sublimazione dell’elemento naturale e paesaggistico che ha caratterizzato gran parte dell’attività di Emblema tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80. La mostra si inserisce nel filone di mostre monografiche dedicate al rapporto di alcuni artisti con la città di Napoli: Pablo Picasso, Caravaggio, Vincenzo Gemito, Luca Giordano, Santiago Calatrava. Questa mostra di Salvatore Emblema la più ampia personale in un museo pubblico dedicata all’artista da dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2006. Nella Sezione di Arte Contemporanea del Museo, le oltre trenta opere pittoriche rappresentano lo sviluppo della ricerca dell’artista in vent’anni di attività, tra gli anni ’60 e ’80. Attraverso la pittura, Emblema destruttura e amplifica nello spazio gli elementi costitutivi del quadro, valicando la superficie del supporto. Ne emerge una produzione operata dentro e fuori l’oggetto-quadro, pur lasciando inalterato quel linguaggio visivo e corporeo, fatto di colore, forma, luce e materia. In una mia ricerca storiografica e scientifica sull’informale e sulla figura di Salvatore Emblema apro il mio saggio dicendo : Potrebbe sembrare oziosa la ragione per cui abbiamo pensato forse, di mutare la datazione tradizionale del periodo  artistico più recente , che parte in genere dal secondo dopoguerra,  cioè  dal 1945:  considerando quindi gli anni delle guerra quasi una coda , o una logica conseguenza degli sviluppi del decennio precedente, se non, quasi, un’interruzione nel flusso degli eventi artistici. Se in parte sono vere tutte e tre queste cose , è anche vero che per ragioni magari contingenti, il periodo bellico, più ancora della vittoria finale americana, è stato quello che ha determinato lo spostamento della capitale internazionale dell’arte da Parigi a New York ed ha rappresentato un importante momento di incubazione di esperienze che sono esplose nel periodo immediatamente successivo, come la grande fase internazionale dell’ Informale. In questo periodo siamo nei primi anni quaranta dove un gruppo di artisti e fotografi europei andarono in esilio in America ed in particolar modo a New York . Da tante fotografie dell’epoca si evince che erano di nazionalità francese iniziando dal capo storico del Surrealismo Andrè Breton , gli artisti Masson , Tanguy , Ernest, Duchamp  e Matta tra loro è presente anche Piet Mondrian che avrebbe vissuto gli ultimi anni nella città di New York lascandovi l’eredità della sua complessa speculazione sullo spazio e sulla superficie pittorica. Inoltre erano tornati in America anche come emigranti altri esponenti della cultura surrel-dada , oppure astratta e costruttovista , come Man Ray, Laslò Monholy – Nagy, e Hans Hofmann, un artista tedesco sottovalutato ma che la sua influenza fu determinante per la nuova generazione degli artisti americani. Altri artisti arrivarono in America come l’armeno Gorky e l’olandase De Koorning ma nel contempo molti di loro furono influenzati anche da Mirò, Picasso ed arrivarono anche gli echi di Kandiskij. Ecco perché nasce il dripping grazie al giovane Pollock, egli fu influenzato in parte dai colori di Marx Ernest.
Bisognerà attendere il 1947 prima che questo procedimento diventi per lui abituale,  con le dirompenti conseguenze che lo hanno reso celebre .Definiamo con il termine onnicomprensivo di ‘Informale’ tutta una serie di esperienze verificatesi negli Stati Uniti e in Europa tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni sessanta. E’evidente che, nello spazio di tempo di un quindicennio , in una situazione tanto articolata e vasta quanto quellaintercontinentale  presa in esame , non ha quasi senso parlare di ‘un’ solo ‘movimento artistico’ ; ed evidente che le sfaccettature sono tante e molteplici da risultare in alcuni casi incomprensibili tra loro. Dobbiamo pensare che in questo periodo vennero battezzate numerose etichette che solo oggi comprendiamo lo stesso temine: Action Painting e Abstract Expressionism in America , ovvero: ‘Pittura Materica o gestuale’ in Italia ‘Tachisme’ in Francia ecc….E’ ovvio in questo senso , che non solo il termine ‘Informale’ , come verrà qui usato , ha un suo valore ‘riassuntivo’ rispetto a queste esperienze diverse limitiamoci per ora a constatare delle differenze che sono solo fondamentalmente di orientamento e di scelta puramente formale dividendo tra gestuale , materica e segnica . Possiamo dire che l’Informale risolve il suo approccio all’arte apparentemente in modo formale con un ritorno al quadro, alla pittura,  e alla scultura. Questo ritorno alla pittura consiste quindi nel coprire la superficie della tela con materie colorate questa distinzione tradizionale tra fondo e figura e tra forma  e spazio che era sopravvissuta in linea di massima in ogni caso tutto è cambiato c’è quasi un’aggressione al quadro ed inoltre la pittura ‘veloce’ come l’informale  richiedeva  una trasformazione tra ‘forma e dinamica’ tutto diviene un movimento tralasciando la staticità che c’era nella tradizione astratta. La pittura è un’attività ‘autografica’ , quindi quasi una ‘scrittura’ , privata del pittore , determinata nel tempo ( che coincide col tempo, in genere veloce , di esecuzione del quadro ) , una pulsione interna che viene espressa attraverso il gesto oppure attraverso una sequenza di gesti. Alla base c’è il gesto questa è la novità della nuova ‘pittura’ che si evince in primis dal gesto, ma anche dal concetto di ‘improvvisazione’ come avviene anche nella musica ‘jazz’. Poiché la superficie del dipinto si presenta come un insieme in cui non sono realmente distinguibili figura e sfondo , il disegno, quando compare , non si presenta come contorno di una campitura ben delineata , ma come ‘struttura di segni’, che innerva la superficie del dipinto , così come il colore non riempie nessuna forma, ma si contrappone liberamente ad altri colori , facendosi esso stesso disegno , figura’, o superficie , o tutte e tre le cose contemporamente. In effetti tutti i residui di illusionismo spaziale che è dato di cogliere sono dovuti alla libera contrapposizione dei colori tra loro. Dato che la superficie è alla base del nuovo percorso comunicativo dell’artista e nel contempo si denota una differenza tra l’astrazione e la pittura informale alla base, c’è un linguaggio lirico di ascendenza espressionista. Negli Stati Uniti si inizia ha definire un tipo di pittura ‘Espressionismo astratto’ , come quella di De Kooning che cerca di percorrere sia il linguaggio figurativo e astratto la stessa cosa avviene in Europa dove si afferma il gesto e l’improvvisazione. Molti sono gli esempi l’informale figurativo è una pittura che procede con larghe stesure di superficie , in cui il disegno interviene spesso come una struttura ulteriore , che ricopre la superficie ‘a griglia’ . La gabbia dei segni non è necessariamente astratta , pur opponendosi alla nozione di ‘forma’ . Anche la linea paradossalmente si fa superficie. Appaiono quindi , a volto, delle ‘figure’ : quasi dei graffiti infantili,  come nei quadri di Dubuffet , di De Kooning e di  Antonio Saura. La seconda Guerra Mondiale porta un mutamento all’interno dell’arte, perché l’arte non è indifferente alla storia degli uomini. Mutamento che riguarda soprattutto la fiducia nel progresso e nella scienza che ha portato alla bomba di Hiroshima, con una conseguente idea di sfiducia nella possibilità di riscatto per la razza umana e di sfiducia nel futuro. La scienza non è sempre evoluzione, ma può essere anche morte e distruzione, può portare una idea di futuro radioso o disastroso. Basti pensare a tutto il periodo della guerra fredda, all’ipotizzato futuro pieno di alieni comunisti, basti pensare alla nascita dell’esistenzialismo di Sartre (che tanta influenza ha nel cinema, nel teatro ed in molte manifestazioni dell’arte), con il suo senso del tragico, con una idea di impotenza rispetto ad un mondo che sta andando verso distruzione e depressione. E’ un mutamento negativo, ma non rassegnato né depresso: c’è una ricerca di nuove forme espressive da parte degli artisti, che creano una via di uscita e si danno una possibilità attraverso la codificazione dell’Informale. ‘Informale’ è storicamente definita una tendenza più che una corrente o movimento dell’arte contemporanea che si distacca dalle forme artistiche delle precedenti avanguardie ed i cui attori, per risultati, caratteri e temperamenti del tutto imparagonabili e specifici, pongono in luce le ragioni esistenziali della propria ‘rivolta’ nelle singole poetiche meditative e vanno alla ricerca di un senso del ‘profondo’ con svariate tecniche, al di là delle apparenze nelle storiche modificazioni delle forme. Occorre comprendere una esatta definizione di ‘Informale’ anche attraverso una analisi delle premesse linguistiche, storiche e culturali che l’hanno caratterizzata, prima di tentare di tracciarne un percorso.  Con il termine ‘Informale’ vengono indicati quegli artisti e quelle personalità che danno vita a movimenti che, dopo le avanguardie storiche ed il loro intrinseco formalismo (che caratterizzano l’arte fino al 1940-1945), riportano in luce in maniera certamente individuale il primato dell’espressione nelle arti figurative, centrando l’attenzione sulle tensioni gestuali, sul recupero di una immagine non necessariamente colta, ingenua, sul recupero della materia. Il termine viene indicato nel testo teorico di Michel Tapié ‘Un art autre’ del 1952 (illustrato da opere di Fautrier, Dubuffet, Wols, Soulages, Hofmann, Pollock, Francis e altri), testo che con chiarezza mette a fuoco le istanze fondamentali della ricerca di questa nuova dimensione ed entra in uso in Europa con riferimenti all’action painting ed all’espressionismo astratto americani, nonché alla pittura materica e all’ art brut. “Il problema – scrive Tapié – non consiste più nel sostituire un tema figurativo con una assenza di tema e cioè con l’arte cosiddetta astratta, non figurativa, non oggettiva, ma piuttosto nel creare un’opera, con o senza tema, davanti alla quale, qualunque sia l’aggressività o la banalità del contatto epidermico, ci si accorga a poco a poco che si perde terreno e che inesorabilmente si è chiamati ad entrare in uno stato di estasi o di demenza, perché uno dopo l’altro tutti i criteri tradizionali sono rimessi in causa; e tuttavia una tale opera porta in se stessa una proposta di avventura nel vero senso della parola, ossia qualche cosa è assolutamente sconosciuto di cui è impossibile predire l’esito futuro”.  Quel termine, informale, va a comprendere un’area che va a fare perno sulle individuali situazioni esistenziali di ciascun artista, come comune denominatore circa la soggettiva percezione rispetto ai tragici problemi del mondo in quegli anni.  E’ il periodo dell’esistenzialismo di Jean Paul Sartre in cui è espresso uno stato d’animo di incombente scacco alla razionalità ed all’individuo. Comincia a circolare un senso di impotenza della coscienza nel cogliere ciò che è vissuto come se “…L’esistenza è un pieno che l’uomo non può abbandonare”, come indicato da J.P.Sartre nel suo libro La Nausea del 1938. Tale è una delle caratteristiche che si formano nella cultura europea di quegli anni. Ogni settore dell’arte e della cultura (filosofia, letteratura, cinema, musica, etc.) fin dai primi decenni del novecento viene invasa, in qualche modo, dalla percezione di incomunicabilità abissale che separa la vita dell’uomo dal concetto tradizionale di razionalità: l’impossibilità di comprendere la realtà da parte dell’uomo verso il reale stesso. Nella scena culturale più ampia di quel periodo storico, l’Informale non è un fenomeno isolato e relegato all’interno del mondo dell’arte visiva, ma è ovviamente collegato, congiuntamente alle problematiche filosofiche, esistenzialistiche e letterarie dell’epoca (Heidegger, Bachelard, Sartre, etc.), con le teorizzazioni degli anni Trenta di filosofi come Martin Heidegger , circa la scomparsa di punti di riferimento nella morale, sviluppata successivamente, come già accennato, come ‘filosofia della crisi’ dall’esistenzialismo di Jean Paul Sartre , e lo stesso Albert Camus nei suoi scritti, preso da profondo turbamento di fronte alla vita e dalla sua continua lotta contro ‘l’assurdo’ , contrassegna una idea filosofica atea e pessimista che ha largo assenso e seguito nell’Europa postbellica. In Italia, in ambito cinematografico, mentre il cinema hollywoodiano inizia ad esportare oltre oceano i propri divi come Marilyn Monroe e James Dean, vi è una grande vitalità con l’arrivo del Neorealismo ed il suo nuovo linguaggio politicamente e socialmente impegnato e che si avvale di uno stile semplice e diretto, scarno e incisivo per rappresentare la realtà del paese nel dopoguerra. Confronto con il dramma della guerra che va a toccare oltre che il campo della letteratura, con la sua poetica intrisa di angoscia esistenziale, anche la musica con i nuovi linguaggi del Jazz (Dizzy Gillespie, Miles Davis, John Coltrane) e del Rock and Roll (Elvis Presley e Bill Haley), provenienti dall’America e che molto vanno a significare soprattutto per la nuova cultura giovanile. Nel dopoguerra la scienza ha richiesto una profonda riflessione sul mondo, sulla possibilità che la scienza stessa possa essere portatrice di progresso o di morte (come la bomba atomica su Hiroshima). Consideriamo il pensiero francese, l’esistenzialismo di Sartre, come accennato appunto, con il suo senso del tragico, non metafisico di De Chirico, ma di incapacità nei confronti di un genere umano che sta imbattendosi nella sua devastazione, nella totale crisi per ciò che succede intorno. Gli artisti devono cercare una via d’uscita ed una di queste possibilità sarà l’Informale, cioè senza forma, la cosa che non parte da un’idea di formalità. Gli informali cominciano a pensare che la forma può essere altro rispetto alle catalogazioni precedenti. Nell’Informale viene messo tutto quanto, tutto ciò che in quegli anni non si può catalogare. Per quanto riguarda le premesse storiche e linguistiche specifiche, occorre in qualche modo risalire un po’ più al passato. Certamente, però, in concreto le premesse storiche più interessanti vanno ricercate dopo la crisi nell’arte figurativa durante tutto l’ottocento, dopo che si è cominciata ad affermare l’esigenza di nuovi linguaggi rispetto ai rispecchiamenti della forma e dell’immagine della figura iconica del passato, che approda alle proposte formali delle avanguardie storiche, dal cubismo al neoplasticismo. Negli anni 40-45 vengono superate le dicotomie ‘forma-contenuto’ da parte dei protagonisti dell’informale, negando il valore della compiutezza formale e ponendo l’accento su una sorta di continuità tra natura e coscienza, annullando i confini tra iconico e aniconico, immaginando la materia svincolata da simboli e stili e superando ogni questione stilistica e di linguaggio a partire dagli impressionisti e fino alle avanguardie storiche. Giulio Carlo Argan sostiene che gli artisti informali considerano come la fine di un linguaggio e di una civiltà le guerre e le rivoluzioni. Essi sentono la condizione dell’uomo non come un percorso limitato dal passato. Il passato perde la sua logicità nello sviluppo di una vita, qualora non esista una giusta collocazione della coscienza dell’uomo nel suo presente. Da questo nasce la consapevolezza del gesto espressivo come nuova pretesa di assolutezza morale e… “se questa non è un’arte d’avanguardia - conclude Argan - qualche volta tocca alle retroguardie decidere la sorte della battaglia” D’altronde, nel 1952, Michel Tapié, quando analizza l’area dell’ art autre o informel, sostiene che le opere degli informali si affermano al di là delle nozioni tradizionali di Forma, Bellezza, Spazio ed Estetica, concetti contro i quali si sono scontrate le opere dell’avanguardia. Le opere informali ignorano volutamente tali nozioni come se non fossero mai esistite, rimanendo del tutto indifferenti davanti ad esse. Come detto, il termine informale30 viene usato per la prima volta in Francia quasi specificamente riferito alle opere di artisti come Wols, Dubuffet, Fautrier ed altri e rispecchia perfettamente sia il tipo di tecniche usate dagli artisti, che la percezione visiva della totale distruzione di una qualsiasi forma geometrica o naturalistica, come segno di una diversa ontologia nell’arte. Nell’area delle arti figurative, quindi, le tragiche circostanze dei conflitti degli anni 30-40 sono alla base di importanti cambiamenti, in maniera complessa e problematica, per la completa crisi di sfiducia nelle teorie e metodologie su cui si fondano le precedenti ricerche, contraddistinte dalla volontà di totale trasformazione della visione del mondo, sia quelle più razionali di tipo ‘astratto-geometrico’ che meno di tipo ‘surrealista’. Le nuove consapevolezze del reale portano alla sola certezza del crollo del senso della continuità storica. L’uomo-artista è solo con sé stesso, con la sua individualità di fronte all’immanenza ‘esistenziale’, impossibilitato ad utilizzare l’esperienza come traccia progettuale fra soggetto ed oggetto. L’artista sente imporsi il presente nella propria coscienza, seppur inquietante e con la propria frammentarietà del contingente, ovvero il presente che preme con urgenza sulla ricerca di reazione estetica.
Tutto questo, come già accennato, non contribuisce a far sì che vengano imposti tentativi di programmi e progetti, né singoli né di gruppo, andando a validare l’opera come fatto in sé, unico, come testimonianza creativa irripetibile. In quel clima culturale, in quel particolare momento storico, di crisi e di rinnovamento insieme, tale atteggiamento critico e creativo appare in genere, a mio parere, una delle chiavi di lettura dell’atteggiamento ‘informale’ rispetto all’affermazione dell’arte in quelle condizioni di emergenza. In quel clima culturale, politico, sociale, quindi, emergono in Europa le poetiche ‘informali’ di artisti come Fautrier, Hartung, Wols, Dubuffet, Michaux, Mathieu, Soulages, nonché Antoni Tàpies in Spagna e quelli nordeuropei del Gruppo CoBrA (tra cui Asger Jorn, Karel Happel, Pierre Alechinsky, Corneille, etc.). Nel panorama italiano troviamo Burri e Fontana, due, amici-nemici, che vanno a connotare una situazione artistica di grande interesse, nonché artisti componenti del ‘Gruppo Origine’ come Colla e Capogrossi e quelli del ‘Gruppo degli Otto’ composto da Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato e Vedova, i quali seppur nelle proprie diversità sono protagonisti di quella stagione artistica. Detto ciò, è anche opportuno precisare che anche la tendenza, corrente o movimento che sia, ‘informale’ è soggetta ad assenza di dogmatismi di appartenenza. Se i citati protagonisti si siano di fatto riconosciuti o meno nell’informale non è cosa di per sé rilevante: si sa bene come gli artisti, tranne poche eccezioni, abbiano sempre rifiutato e rifiutino tuttora di avere etichette e classificazioni: lo stesso Dubuffet ha sempre contestato di essere considerato in quella tendenza, pur se da considerare ‘informale’ per eccellenza, come Fautrier. Solenne e sofferente sconfitta dell’io, al pari delle scene di un dramma, nel riscontrare come vera la incapacità della ragione sulla realtà, o pacifica contemplazione di tale sconfitta, vissuta quasi come liberazione, attraverso tecniche originate in una cultura primitiva e, ancora, non accettazione della forma proposta o richiesta, dello stile, di linguaggi antichi metabolizzati da prerogative di una tradizione ormai defunta, ma anche dalle precedenti avanguardie storiche: tali caratteristiche, a volte in contraddizione le une con le altre, competono genericamente all’informale, sia come tale esperienza si è manifestata in Europa, sia come, pur in parte e con diverse denominazioni, si è manifestata in America. Non è mai semplice descrivere l’opera degli artisti, e degli informali in particolare, che spesso sfuggono alle definizioni critiche e che appaiono a volte difficilmente catalogabili da un punto di vista storico. In questo senso, però, possono considerarsi una esperienza fenomenica e significativa dell’arte moderna più di altri movimenti successivi, a partire dalla pop art. L’informale, in qualche modo, nella sua intera complessità, è l’ultimo tentativo, l’ultima prova fatta con incertezza di riuscita di una tradizione espressiva, ancora alla ricerca di un nuovo tipo di pensiero come atteggiamento intellettuale. L’Informale non ha un progetto ideologico, non ha un progetto. Sono artisti che sentono la necessità di esprimere uno stato d‘animo anche esistenzialista, che non hanno una configurazione naturalistica. A tal proposito, il nostro sguardo all’arte deve essere disincantato, libero dal gusto che deve restare fuori dalla porta fino a che non lo abbiamo affinato a puntino. Occorre ascoltare ciò che l’arte ci dice: gli artisti sono intellettuali, fanno operazioni intellettuali e nel loro linguaggio, definito o in fase di ricerca, sono le persone più colte che esistono, parlando direttamente ‘della’ propria arte o parlando soltanto ‘con’ la propria arte. Con uno sguardo veloce nel panorama America-Europa, circa gli artisti che sono considerati gli iniziatori, si vede bene come, ad esempio, la macchia e i graffi apportati sulla tela di Wols, che inizialmente aveva usato il segno sensibile e fantastico di Paul Klee, vanno a cancellare ogni tipo di elaborazione formale precedente. In America, negli stessi anni 1946- 1947 Arshile Gorky, pur partito dalle idee surrealiste del suo amico Bréton, inizia a stravolgere le forme, confondendole oltre il disegno come se avesse deciso di spaccare o pulire la tela, fornendo al quadro un pathos di innovativa espressività; e lo stesso Pollock, pur partito da matrici surrealiste ed iconiche, attraverso il suo ‘dripping’ fornisce spazio allo spazio, energia all’energia, segno al segno, colore al colore attraverso lo sgocciolamento diretto della sostanza pittorica. Altri, come Dubuffet e Burri, ad esempio, dimostreranno una eccezionale capacità di indagine sul mondo delle materie, con incredibili risultati, pur partendo da modi ingenui, eludendo la propria educazione alla forma. In sostanza, ed almeno in apparenza, tutti questi artisti non tengono conto né della tradizione classica, né, più direttamente e non ancora storicizzata, di quella delle avanguardie. Il dripping, lo sgocciolamento, la macchia e le cancellazioni, i graffi e l’uso delle materie in maniera massiccia vanno a determinare nuove forme di linguaggio rispetto alla tradizione ed alle ‘avanguardie’ in generale, in questo differenziandosi da quegli artisti che negli anni tra il 1930 ed il 1950 facevano parte dell’area dell’astrattismo che dominava la scena artistica occidentale. Mentre negli Anni tra il1940 e il 1950 a New York un gruppo formato da svariati artisti anche piuttosto diversi nelle individuali personalità, comincia ad affermarsi sulla scena artistica americana, determinandone indubitabilmente una assoluta innovazione, con uno specifico timbro ‘americano’. E’ una vera e propria nuova tendenza che si forma all’interno della cosiddetta Scuola di New York35. Questa denominazione correttamente indica un luogo, New York appunto, che è teatro dei fenomeni artistici in questione, piuttosto che un gruppo di artisti dalle caratteristiche unitarie. E’ il pittore e critico Robert Motherwell ad usare per primo tale espressione nel corso di una conferenza nel 1949, sottolineandone alcune caratteristiche, quali l’origine nel surrealismo (dal quale poi gli artisti americani si sarebbero affrancati) e un atteggiamento nei confronti dell’arte di tipo emotivo ed emozionale, avendo a che fare con la sfera sensitiva, piuttosto che di tipo evocativo-intellettuale. Robert Motherwell individua nella Scuola di New York, oltre a sé stesso, pittori come Arshile Gorky, William Baziotes, Adolph Gottlieb, Hans Hofmann, Willem de Kooning, Jackson Pollock, Ad Reinhardt, Mark Rothko. Questa tendenza viene denominata Espressionismo astratto americano e vede un gruppo di artisti che vogliono uscire dai canoni del realismo della pittura americana dell’epoca ed allo stesso tempo intendono andare oltre i linguaggi delle avanguardie europee di quel periodo, tentando di superarle attraverso la elaborazione di linguaggi originali. L’etichetta ‘espressionismo astratto’, creata in precedenza da Alfred Barr direttore del MoMA nel 1929 in riferimento a Kandinskij, viene poi definitivamente introdotta da R.Coates nel 1946, quando questi intende fondere due concezioni dell’arte che provengono dalle avanguardie storiche, quella dell’espressionismo e quella dell’astrattismo Clement Greenberg sottolineerà nel suo trattato ‘Astratto e rappresentazionale’ del 1954 che quest’arte è astratta “non perché sintomo di decadenza, ma semplicemente perché accompagna per caso una decadenza della storia dell’arte”, avanguardie ritenute rappresentative nella loro globalità di quegli artisti che operano a New York, senza peraltro sottolinearne le evidenti individuali differenze stilistiche.Da quel momento il termine viene utilizzato sia nei confronti di artisti con l’indole più anarchica come De Kooning e Pollock, quanto per artisti più riflessivi come Rothko e Motherwell. Si afferma, quindi, una diversa iconografia dell’arte astratta, con la scomparsa delle forme geometriche dipinte su uno sfondo e con una pittura definita da pennellate libere, segni e sbavature, in un ‘campo’ che non rinvia più ad una idea di figura-sfondo. Gli artisti, ora, affermano di prelevare dalle emozioni, dai sentimenti e dall’inconscio, con esplicito richiamo alle teorie psicanalitiche di Jung che conosce l’arte e per il quale é importante come sogniamo, diversamente dalle teorie freudiane che del sogno fanno un racconto attraverso i comprensibili codici archetipici dell’arte.Il critico e gallerista americano Sidney Janis nel suo saggio Abstract and Surrealist Art in America del 1944 individua nella inusuale mescolanza di surrealismo e astrattismo il timbro identificativo della nuova pittura americana, riferendosi in particolare a pittori come Rothko, Gottlieb, Gorky e Motherwell, creatori secondo lui di un nuovo linguaggio portato a rappresentare la soggettiva esperienza di ciascuno mediante un uso più libero del colore, mediante visioni biomorfiche, mediante l’automatismo, già elemento classico per i surrealisti. Tale iniziale entusiasmo per il Surrealismo fa sì che molti di tali artisti indirizzano comunque quella ispirazione verso un segno fortemente individuale che per molti di loro si trasformerà in uno stile personalissimo protratto con continuità nelle loro opere. Ma il momento più significativo in relazione ai futuri sviluppi dell’espressionismo astratto (che determina anche la differenza con ciò che tende verso il profondo inconscio del surrealismo e delle sue tecniche di automatismo) avviene quando si dichiara: “Noi sosteniamo l’espressione semplice del pensiero complesso. Noi siamo per la forma ampia, perché essa possiede l’impatto dell’inequivocabile. Noi desideriamo riaffermare la superficie del dipinto. Noi siamo per le forme piatte poiché esse distruggono l’illusione e rivelano la verità”. E’ all’interno dell’Informale che in America si colloca il fenomeno dell’action painting, basato su un rapporto energetico con il supporto. Avviene in quel periodo storico-artistico un vero e proprio passaggio di poteri: l’espressionismo astratto determina la nascita dell’arte americana, spostando nettamente il centro del mondo dell’arte da Parigi a New York, come ad affermare anche nel campo dell’arte l’America quale nazione più potente del mondo. Diversamente da quanto accaduto in Europa durante la guerra, con il logorante esilio di tanti artisti e intellettuali, negli Stati Uniti la fine della guerra dà inizio ad una fase di costruzione del nuovo modello culturale nordamericano in rapporto alla situazione egemonica del paese nel nuovo scenario mondiale: nei sussidi alla ricostruzione dell’Europa, in campo artistico rientra anche la grande promozione della nuova pittura dell’ ‘Espressionismo astratto’, eretta a emblema dell’identità nazionale nordamericana da figure di altissimo livello, come Clement Greenberg, famoso critico che sin dagli inizi degli anni ’40 se ne presenta come il difensore, contribuendo a far divenire quel fenomeno come un riferimento mondiale di modernità per tanti artisti. Vero è che quel passaggio di testimone da Parigi a New York si afferma anche, come accennato, attraverso l’arrivo in America, a New York in particolare, di molti artisti, letterati ed intellettuali europei (soprattutto delle tendenze astratte e surrealiste) che fuggono dalla barbarie nazista e dalla guerra. Dopo la chiusura del Bauhaus nel 1933 da parte dei nazisti molti artisti si portano a New York e tra questi, una delle figure più importanti per quello che sarà poi l’Espressionismo astratto è quella di Hans Hofmann, anche lui in fuga dalle persecuzioni naziste. Negli anni successivi arrivano a New York anche Fernand Léger, André Breton, Marcel Duchamp, Piet Mondrian, Max Ernst e sua moglie Peggy Guggenheim, conosciutissima collezionista d’arte e mecenate, fuggita nel 1941 dalla Francia occupata dai nazisti. Molto si attivano i surrealisti e vengono organizzate mostre e conferenze e si dà vita ad un dibattito culturale che coinvolge anche giovani artisti americani. In particolare l’opera di Peggy Guggenheim è fondamentale in questa fase con la creazione della ‘Galleria Art of this Century’, nella quale espone assieme opere di artisti surrealisti e di artisti astratti in un ambiente assolutamente nuovo e innovativo per l’epoca, con dipinti sospesi per aria, con pareti curve ed altri lavori poggiati semplicemente in terra. E in quella Galleria vengono esposti anche i primi lavori di artisti americani, che saranno poi gli artefici ed i massimi rappresentanti del nuovo linguaggio newyorkese come Jackson Pollock, Clyfford Still, Mark Rothko, Arshile Gorky, Willem de Kooning, tutti pittori della stessa generazione e che abitano a New York, cresciuti in un clima culturale simile e tutti con lo scopo di superare i canoni espressivi codificati per giungere, seppur per vie diverse ad una nuova visione e riflessione sul mondo contemporaneo. Le loro esperienze individuali o collettive, seppur manifestando le loro diversità,  dimostrano atteggiamenti simili di rivolta esistenziale contro tutto ciò che è standardizzato e tradizionale, con un rifiuto di tutto ciò che è figurativo e, quindi, con la ricerca di un linguaggio pittorico astratto e attraverso una strada di libera individualità. In questa fase storico/culturale la figura di Peggy Guggenheim assume davvero tutta la sua centralità per l’affermazione dell’arte americana contemporanea nel panorama internazionale. Dopo aver fatto sì che la sua collezione cominciasse ad assumere il carattere di un documento storico con la creazione di svariate mostre con la sua ‘Art of This Century’, nel 1948 la Guggenheim (dopo un precedente breve passaggio a Venezia) viene chiamata ad esporre la sua collezione alla Biennale. Accade per la prima volta che in Europa vengano presentate opere cubiste, astratte e surrealiste insieme ad opere di artisti come Pollock, Rothko e Gorky, che ancora non sono conosciuti, formando quindi una esposizione complessiva ed illuminata di tutto ciò che rappresenta il modernismo dell’epoca.
E dopo quella prima esposizione, la sua collezione viene presentata a Palazzo Reale a Milano, a Palazzo Strozzi a Firenze e, nel 1950 contemporaneamente al Museo Correr di Venezia (l’intera collezione dei quadri di Pollock) ed al padiglione statunitense della Biennale di Venezia con il debutto dello stesso Pollock in quell’evento. In quegli anni c’è un dualismo tra New York e Roma, anche per merito degli Oscar del cinema neorealista italiano. I giovani artisti Turcato, Vedova, Dorazio, Sanfilippo, Accardi, ecc si affacciano sulla scena dell’arte, grazie alla illuminata figura di Palma Bucarelli, direttrice della GNAM di Roma, che con borse di studio ne invia molti a Parigi a conoscere le opere di Braque, di Kandinskij e di Picasso. A Roma, oltre all’alleanza Bucarelli-Argan-Prampolini, ci sono artisti della generazione precedente come Mafai, Guttuso, De Chirico, anch’essi interessati al cambiamento anche se il perbenismo corrente era in evidente disaccordo Emilio Vedova è molto contrastato dal Partito Comunista che rifiuta l’astrattismo  è ben noto un articolo su Rinascita di Rodrigo di Castiglia, pseudonimo di Palmiro Togliatti, che dopo una mostra a Bologna attacca fortemente gli astrattisti, sostenendo che l’oggetto dell’arte deve essere la realtà e che avrebbe voluto solo la rappresentazione del mondo comunista, con i canoni classici del lavoratore con falce e martello. Malgrado ciò, tutti quegli artisti, dopo le emozioni parigine e la scoperta di Picasso, cominciano a guardare il reale in maniera nuova, non retorica, con una idea di astrattismo. E creano un Gruppo con la ‘Rivista Forma’, che fa solo un numero e,  quindi, ‘Forma 1’, scrivendo nel loro manifesto “ ci interessa la forma del limone , non il limone”, intendendo affermare la loro particolare attenzione al sociale e l’allontanamento dall’espressionismo, con un distacco comunque dalla realtà, come sarebbe stato inimmaginabile da parte di artisti di sinistra. Contemporaneamente Palma Bucarelli crea il Gruppo Origine, che da spazio e cavalca la via dell’astrazione (anche Burri ne fa parte seppur con scarsa convinzione e per brevissimo tempo), mentre, per ritornare ad una scena più allargata, la Guggenheim crea all’isola tiberina di Roma la ‘Galleria La Tartaruga’ (poi divenuta L’Obelisco), dove espone Pollock e De Kooning.Tutto questo nuovo ambiente culturale è fondamentale per la nascita e la affermazione transnazionale della nuova avanguardia americana, il cui processo di sviluppo afferma, come già accennato, valori di libertà, individualità e intraprendenza, quale american way of life, intesa come nuova esperienza di vita. In questo senso, la pittura d’azione, ‘l’action painting’, particolarmente con Hofmann precursore europeo delle nuove tendenze americane, Pollock, De Kooning, Gorky e Kline sottolineanofilosoficamente che l’atto del dipingere, l’atto in sé più che il risultato, è autenticamente dimostrativo della creatività dell’artista, con un linguaggio soggettivo, violento anche, improvviso e improvvisato e soprattutto libero dai precedenti canoni stilistici e da schemi identificativi di una ricercata razionalità. E’ il grande critico Clement Greenberg ad inventare il termine ‘action painting’ per specificare una maniera così esclusiva di dipingere, nella quale non vi è un punto centrale né un verso di osservazione, e la composizione si mostra senza una determinata direzione, a tutto campo.  E’ un nuovo modo di dipingere che vede in Pollock il simbolo riconosciuto unanimemente che esprime ‘l’atto puro’, ‘l’azione pura’, come essenza autentica all’interno di una nuova dimensione fenomenologica. Certamente fuori da ogni quotidiano conformismo, come forma individualistica di opposizione, non necessariamente caratterizzata da esplicite scelte politiche, che finisce per confermare ideologie e valori dominanti il senso di libertà individuale del nuovo sistema capitalistico americano, traslati in una idea di società così libera e aperta da legittimare anche coloro che vi si pongono contro.  In una famosa lettera Giulio Carlo Argan si capisce il linguaggio unico di Salvatore Emblema. Caro Emblema : Poiché non l'ho incontrata alla sua mostra, voglio dirle quanto abbia apprezzato la serietà e la qualità del suo lavoro. Mi ha colpito la meditativa malinconia " metafisica" dei suoi quadri. Lei è consapevole della crisi del" quadro" nella cultura artistica odierna: contestato come prodotto di una tecnica raffinata e come portatore di un messaggio, il quadro sopravvive tuttavia come una dimensione, un luogo, sebbene deserto, della nostra coscienza. Era lo strumento dell'immaginazione: lo schermo magico sul quale l'immagine prendeva corpo di oggetto, si dava come realtà, si faceva coscienza. Ma in questo nostro tempo che glorifica l'informazione
l'immaginazione è paralizzata, il suo schermo vuoto non dice che la propria disponibilità o virtualità. Analizzando la realtà oggettuale del quadro - nient'altro che la tela, il telaio, il campo della preparazione - lei constata che ha assorbita e fatta propria la mutabilità e la luce dell'immagine. Il quadro si sensibilizza perché non si limita a ricevere, fa la pittura: non è solo uno schermo, è una matrice. É l'ipotesi, o la prospettiva, di uno spazio immaginario.
E anche questo è un messaggio: malinconico, ma non disperato. La saluto con affettuosa amicizia.
Giulio Carlo Argan
Roma, 8 dicembre 1972
Per capire meglio la collocazione del  percorso artistico di Salvatore Emblema bisogna partire da due concetti fondamentali. Il primo è quello dello spazio mentre il secondo è quello della pittura, che Emblema ha voluto affrontare con un taglio inedito e del tutto originale. La sua pittura è basata sul rapporto tra luce ed ombra, elemento imprescindibile nella sintassi visiva dell’artista campano. Tra queste due coordinate di base, si gioca tutto il lavoro di Salvatore Emblema, che inizia,  a lavorare sulla iuta con il procedimento della “detessitura” nel 1958, di ritorno da un soggiorno a New York, dove si era avvicinato a Rothko, entrando in grande sintonia con il suo processo creativo. È proprio di ritorno da quell’esperienza americana, che l’artista campano comincia a ragionare sulla possibilità di affrontare la tela con un approccio radicalmente differente da quello tradizionale. Comincia, cioè, a sentirsi stretto nella gabbia del quadro affrontato con gli strumenti pittorici tradizionali, e di conseguenza a voler “sfondare” la superficie della tela. Il suo interesse è indirizzato verso quelle esperienze che sono andate oltre la superficie del quadro, senza però negare interamente l’atto del dipingere. In prima fila, tra i suoi punti di riferimento, c‘è Rothko, naturalmente. Rothko che, come scrive Emblema nei suoi appunti critici, “ti faceva sentire la tela che da sotto il colore vibrava: intuivi che c’era un vita dietro”. E poi Fontana, che per primo aveva oltrepassato la superfcie del quadro con i buchi prima, e con i tagli poi. Ma il taglio, ci avverte Emblema, portava il discorso un po’ più in là di quello che a lui, pittore puro, pittore che cercava la luce e la trasparenza nello spazio dipinto, interessava. Per Emblema, quello di Fontana era “un fatto di teatro” prima che interamente appartenente alla sfera della pittura. Mentre lui, pittore di luce, cercava una soluzione diversa, una soluzione che lo portasse a capire “che la pittura esiste sempre un poco prima e un poco oltre l’atto del dipingere”. Si sia o meno d’accordo con lui nel definire un gesto per così dire “teatrale” la ricerca di Fontana di uno spazio oltre la tela, è un fatto che l’artista che, con i tagli, rivoluzionò l’arte moderna, con lo spazialismo lavorò per il superamento del gesto pittorico, e, alla fine, della stessa idea di pittura “gli spaziali vanno al di là di questa idea”, scriveva nel Manifesto tecnico dello Spazialismo, del 1951: “né pittura, né scultura “forme, colore, suono attraverso gli spazi” Emblema, invece, stava cercando qualcosa d’altro – qualcosa che lo lasciasse legato al gesto pittorico, riuscendo al contempo a sottrarlo alla dittatura del gesto, della “semplice” pennellata sulla superficie del quadro. Niente “fatti di teatro”, dunque, per Salvatore Emblema, niente installazioni luminose o ambienti spaziali, ma unicamente una ricerca su quella luce che con la pittura, nel quadro “solamente” dipinto, non riusciva più a trovare. Non la luce di Fontana, portata fatalmente “fuori dal quadro”. Non quella di Rothko, l’artista che Emblema amò forse più di tutti, ma la cui luce, dirà un giorno, “era una menzogna tremenda”, poiché “era un colore che ti dava l’idea di essere una luce, non certo una luce che diventava lei stessa colore”. Ed ecco allora l’intuizione, l’idea, quella che segnò il suo lavoro pittorico di tutta una vita. “Per secoli, lo spazio dietro il quadro è stato uno spazio morto. Era necessario far vivere quello spazio, perché è là che la verità aspetta di essere scoperta”. Nasce così, per Salvatore Emblema, nel 1958, al ritorno dal suo viaggio newyorchese, la “scoperta” del linguaggio che di fatto gli apparterrà sempre, e sempre contraddistinguerà il suo lavoro pittorico – la cosiddetta “detessitura”. Per capire il clima in cui l’artista giunge a questa sua iniziale intuizione linguistica, bisogna rendersi conto di ciò che avveniva, nel campo dell’arte contemporanea, in quel periodo storico. L’Italia era, si può dire senza timore di essere smentiti, all’avanguardia nelle sperimentazioni sulle nuove possibilità della pittura di andare oltre lo spazio del quadro. Il Manifesto Blanco, il primo manifesto dello spazialismo, data al 1946; nel ’58, quando Emblema torna in Italia, di fatto l’avventura spazialista può dirsi conclusa. Non è forse un caso, tuttavia, che proprio del ’58 sia, contemporaneamente, sia la realizzazione, da parte di Fontana, del primo “taglio” su una tela i celebri “concetti spaziali” che lo stesso artista definì anche col Senza titolo, fortemente evocativo e spirituale, di “Attese”, poiché, quando li realizzava, raccontò in seguito, si sentiva “un uomo liberato dalla schiavitù della materia, un uomo che appartiene alla grandezza del presente e del futuro”, sia la costituzione del “Gruppo Zero”, cui lo stesso Fontana aderì, con l’idea di azzerare, appunto, tutte le esperienze cui si era giunti fino a quel momento. Anche le sperimentazioni sui materiali di Burri datano alla fine degli anni Quaranta: alla prima metà degli anni Cinquanta appartiene invece la sua serie più famosa, quella dei “sacchi”, mentre già tra la metà e la fine degli anni Cinquanta iniziano le “combustioni”, i “ferri” e le sperimentazioni sui nuovi materiali. Mimmo Rotella esponeva invece il suo primo décollage nel 1954, alla mostra Sette pittori sul Tevere. Il movimento dei Nouveaux Réalistes, con la codificazione di una “linea europea” al superamento della pittura, è dei primissimi anni Sessanta. Sono invece del 1957-‘58 i primi Achromes di Piero Manzoni, anch’essi realizzati nella direzione di un completo “azzeramento” del gesto pittorico, un dipingere se si può ancora definire dipingere “al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore di superfcie”, come dichiarerà lo stesso Manzoni. È dunque proprio questo ristretto periodo, quel pugno d’anni situato tra la metà e la fine degli anni Cinquanta, che segnerà uno spartiacque fondamentale per gli artisti che, in quel momento, stavano ragionando, come Emblema, sul rapporto tra la superfcie del quadro, lo spazio in cui questo si pone e la possibilità di utilizzare altri mezzi, altre soluzioni tecniche e formali per andare “oltre la pittura” senza doverla abbandonare del tutto. La via, se ci pensiamo e, soprattutto, se ci pensiamo col “senno di poi” , è piuttosto stretta: c’è infatti chi si staccherà completamente dal mezzo pittorico, dando vita a nuove esperienze linguistiche installative, scultoree, spaziali; chi troverà, come Rotella, una sua cifra stilistica interna al quadro, di destrutturazione cosciente, per farvi entrare le tensioni e le suggestioni “della strada” ma molti suoi compagni di strada appartenenti al gruppo dei Nouveaux Réalistes si staccheranno completamente dal gesto pittorico, e a volte dalla superficie stessa della tela chi troverà altre strade, ancora più immateriali, virando verso altre forme linguistiche, come la performance o il video. Emblema, dunque, in questi anni lavora all’interno di questa via stretta, cercando un compromesso coerente e perfettamente equilibrato tra la ricerca di una spazialità di ciò che esiste “dietro il quadro”, alla ricerca di quella “verità che aspetta di essere scoperta”, senza però rinnegare o allontanarsi dal gesto e, potremmo dire dall’intenzione pittorica: per lavorare, cioè, all’interno della pittura, e non al di fuori di essa, pur con altri materiali, altri gesti e altre sintassi che non siano quelle pittoriche tradizionali. È qui, dunque, che si situa l’intuizione della pratica della detessitura: singolare coincidenza, pur con tutte la differenze del caso, che siano più o meno gli stessi anni in cui Mimmo Rotella sta cercando la sua via a un ribaltamento della superficie del quadro, che troverà anch’egli in un “de” – cioè in un atto di de-costruzione, di smantellamento programmato e cosciente dell’unità della composizione: il décollage, appunto. Punto non secondario – seppure, ripeto, giunto attraverso intenzioni e riflessioni assai differenti l’una dall’altra  poiché è proprio questo periodo, quello del decennio degli anni Cinquanta del Novecento, che attraverso la “decostruzione”, molti artisti giungono a una sorta di ricostruzione, e di rielaborazione, dello stesso gesto artistico. È a partire da queste stesse premesse che Salvatore Emblema giunge infatti, in quei tardi anni Cinquanta, all’elaborazione del “suo” principio decostruttivo, e da quello di rielaborazione formale del quadro, e alla creazione, di fatto, di un proprio linguaggio autonomo e originale. “Io appartengo alla luce”, scriverà Emblema nei suoi appunti critici. “L’ho cercata dentro i quadri, nella pittura, ma si è trattato di un posto come un altro. Personalmente mi ha interessato la luce, quella vera, fisica. Quella cosa chiara che permette di vedere e noi impariamo a vedere ogni volta che apriamo gli occhi. Quella cosa bella, bellissima, che entra nei quadri e ne tira fuori il colore. Che si muove, che cambia , che gioca con le ombre e con la materia. Quella cosa che ti fa crescere e che ti emoziona”. La luce è, nell’alfabeto pittorico di Salvatore Emblema, il punto cardinale, lo zenith cui tendere per la ricomposizione di una sintassi visiva nuova, reinventata secondo parametri differenti da quelli conosciuto fino a quel momento. In questo, potremmo classificare davvero Emblema nel novero dei pionieri, degli avventurieri dell’arte che, sperimentando e tendendo il linguaggio fino al suo estremo punto di rottura, scoprono soluzioni e strade mai tentate prima. Una rivoluzione apparentemente minore, uno scarto quasi insignificante, rispetto ai grandi gesti teatrali, come li chiamerebbe lo stesso Emblema, delle avanguardie: non ci sono proclami, manifesti, o eclatanti gesti provocatori, come avvenuto in passato, e come nuovamente accadrà di consueto qualche decennio dopo. C’è, però, un tirare il linguaggio fno alle sue estreme conseguenze, fino al suo punto più estremo. La detessitura è, per Emblema, un sottilissimo lavoro di scavo intellettuale e visivo, un gioco a rimpiattino con lo sguardo dello spettatore, che non si fermerà più sulla sola superficie del quadro, ma cercherà di penetrarlo, di attraversarlo, per renderlo tutt’uno con la parete su cui è appoggiato, di modo che il quadro stesso, come noterà giustamente Ammon Barzel, si trasforma in qualche cosa d’altro, in una “pittura scultorea”, in un quadro vivo, dinamico, non più statico e fermato nell’attimo del suo compimento, ma aperto alle mille interpretazioni successive degli sguardi che nel tempo vi si poseranno sopra. Ogni sguardo che vi si soffermerà sopra noterà infatti, a seconda della luce del momento, dell’angolatura con cui si trova a fissarlo, persino dello stato d’animo di chi lo guarda, ombre differenti, e diverse sfumature della medesima ombra in movimento. Lo stesso Emblema scriverà non a caso che “il quadro non dev’essere fine a se stesso”, ma, soprattutto, è “meglio ancora se non è affatto finito”. Il quadro, infatti, è ipotesi, possibilità. Non è una cosa ferma, non è né un’immagine né un concetto: è movimento. Il quadro conclude con un’immagine fortemente poetica Emblema, “è quando lo spazio si mette a fare l’amore col tempo”. È il tempo, dunque, ci dice Salvatore Emblema, il “convitato di pietra” di una pittura che è tutta giocata sui pieni e sui vuoti, sulla sensazione impalpabile di qualcosa che, col tempo e nel tempo, ha perso degli elementi (i fili), e, paradossalmente, perdendoli ha guadagnato qualcosa d’altro: il rapporto con il più impalpabile e soggettivo degli elementi, il tempo appunto, che per ognuno ha un valore diverso a seconda di come è vissuto. Quella di Emblema appare dunque come una sfida al limite dell’impossibile, quella di dominare il tempo, inserendolo tra le variabili di cui è impastata la materia pittorica. E proprio in questa sfida apparentemente impossibile voler dominare il tempo  sottraendo il quadro alla ineluttabilità di un tempo e di un lavoro finito e destinato a rimanere finito per sempre, c’è davvero un che di romantico, di utopistico, che porta la ricerca di Emblema nel novero delle grandi sperimentazioni linguistiche della seconda metà del Novecento. Ma il lavoro di sperimentazione linguistica di Salvatore Emblema, pur innovando, e innovando con forza rispetto alle esperienze che l’hanno preceduta, non è però avulso dalla tradizione e dal contesto in cui l’artista è cresciuto. Tutt’altro. Potremmo anzi dire che quello di Emblema sia un discorso profondamente radicato nella terra che l’ha visto nascere. Non è un caso che, nell’affrontare la pars costruens del lavoro pittorico, egli abbia scelto di avvalersi di pochi e attentamente calibrati pigmenti. Si tratta infatti di pigmenti terrosi, strettamente legati al luogo in cui l’artista ha sempre vissuto la zona limitrofa a Terzigno, nel napoletano, proprio alle falde del Vesuvio: colori che derivano dalla sedimentazione minerale di detriti lavici, raccolti proprio sulle falde del vulcano, e dalla trasformazione chimica della roccia vesuviana in terriccio variamente colorato. In questo modo, il gioco di sperimentazione linguistica assume un carattere fortemente autoctono, ben radicato nell’heimat, nel territorio e nella tradizione, naturale prima che artistica, del luogo in cui questa pittura è maturata. È, questa di Emblema, una scelta profondamente e orgogliosamente identitaria, di grande innovazione, ma condotta sempre entro le leggi non solo linguistiche della propria terra, ma innanzitutto naturali, appartenenti cioè al ciclo e ai riti della natura di quella terra così fortemente improntata e piena di carattere che è il territorio campano. Non è un caso che Emblema arrivi alla realizzazione del quadro finito solo dopo un lungo processo che risulta quasi rituale, nella scelta dei pigmenti, nel suo stenderli con una fortissima gestualità e una simbologia che conserva in sé qualcosa di antico, quasi religioso. La stessa elementarità e apparente semplicità dei gesti, il suo cercare una leggerezza estrema nella stesura del colore, una forma rituale nel modo in cui vengono stesi sulla tela, appartengono in qualche modo al carattere identirario, profondamente religioso, arcaico, originario, della sua terra. C’è sempre un che di arcaico, del resto, oltre che di necessario, nella sua scelta di rari, quanto mai sintetici segni attorno i quali far ruotare la composizione del quadro. Parrebbero a volte, i quadri di Emblema, misteriosi codici antichi, creati con lo scopo di trasmettere messaggi cifrati, enigmatici, difficili da decifrare, ma di cui una parte istintiva, intuitiva del nostro cervello recepisce gli stimoli. Piccoli segni, arabeschi, linee continue o interrotte, e poi la detessitura che diviene essa stessa segno, messaggio in codice, linguaggio a se stante. È una cartografa misteriosa e segreta, che solo pochi iniziati sembrano poter comprendere. Tre linee interrotte sul pigmento, una linea di detessitura, altre tre linee sul pigmento. Pare un codice morse di tempi antichissimi, di cui si sia persa persino la memoria, un ancestrale linguaggio di cui, per caso, ci sia giunta sola una vaga testimonianza, scampata alla distruzione del tempo. A volte, la tela stessa è annodata, a formare un’interruzione nel ciclo dei gesti. La punteggiatura di Emblema si arricchisce ogni momento di nuovi elementi, labili particelle di un discorso non dicibile se non con gli strumenti che l’artista ha scelto in quel momento di utilizzare. Non c’è, nella pittura di Emblema, malgrado la forte coerenza e riconoscibilità del lavoro e del percorso artistico attraverso cui è giunto, mai nulla di prestabilito, di scontato, di prevedibile. Non c’è e non ci potrà mai essere una stele di Rosetta per poter decifrare il suo misterioso alfabeto. È un alfabeto che ogni volta reinventa da capo la propria grammatica e la propria semantica. Il segno, i segni, sono sempre simili a quelli che li hanno preceduti, e tuttavia sempre radicalmente differenti. A volte, la tela stessa pare uno spartito di una partitura musicale di cui non conosciamo nulla, ad eccezione della sua arcana eleganza. Allora, gli stessi pigmenti si fanno più rarefatti, appena accennati sulla superficie della tela detessuta; altre volte, ai pigmenti fanno invece da contrappunto i fili stessi della tela detessuta, lasciati liberi sulla superficie del quadro, ad andare ad arricchire il misterioso alfabeto visivo dell’artista. Parrebbe, a volte, che le tele detessute di Emblema siano nate per respirare l’aria che le ha viste nascere. Allora, dietro quei fili rarefatti, sembra quasi di sentir spirare, non solo la luce, quella luce di cui lo stesso artista rivendica di essere un foglio naturale, ma anche il vento che dalle falde del Vesuvio stoffa a volte con ritmo gioioso e spavaldo. Le tele di Emblema, eternamente mobili, mai statiche, si trasformano allora di nuovo. Diventano il fantasma di ciò che forse, in un altro tempo remoto, erano state: degli strani strumenti musicali, all’interno dei quali i fili servono per modulare, spezzare e trasformare variamente in canto, il suono altrimenti omogeneo del vento. E la tela stessa, allora, torna ad appartenere completamente alla natura, a quella natura da cui fin dall’origine è nata, e per la quale è vissuta. Lungo il percorso espositivo della mostra troveremo opere di Salvatore Emblema che rappresentano il suo essere artista spicca tra le tele tinte, sovrapposte e detessute nelle tonalità di celeste, rosa, blu e nei caldi giallo, rosso o marrone esaltate nella loro materica bellezza dalla luce naturale in sala, spicca Senza Titolo – Terraemotus  del 1984, l’imponente opera in terre colorate e carbone su tela di juta, originariamente realizzata per il tragico terremoto del 1980 che sconvolse la Campania. L’opera resterà nella Sezione di Arte Contemporanea del Museo come donazione degli Eredi Emblema al Museo di Capodimonte.
Nelle parole di Emblema si coglie tutto il senso della sua ricerca e il suo rapporto con la pittura. “Debbo confessarti una cosa. Esporre i quadri mi spaventa assai. Perché i quadri miei chiedono. Come amanti e dei più capricciosi. Chiedono alla luce di essere completati. Allo spazio di essere accolti. Addirittura implorano i muri di cambiare la loro stessa natura, di farsi porte immaginarie, cieli, orizzonti, terre o perimetri per lo sguardo. Ma alla fine cosa diamo in cambio? Trasparenza, quella sicuramente. Ma ti basta? Io e i miei quadri ci offriamo come carne nuda ai tuoi occhi giudici. Ma così ci sono quasi gli estremi per l’oltraggio al pudore. Capisci? Io non lo so se la pittura è ancora una cosa attuale o se vale la pena, oggi, fare ancora un quadro. So solo che un quadro ben riuscito assomiglia tanto a una casa con la pelle sottile, costruita sulla strada che corre tra i tuoi occhi e questo impercettibile movimento del sole. Proprio ora, qui. Mentre ti sto parlando”. Lo spazio interno del Museo e quello esterno del Bosco trovano un ideale punto di convergenza nella sala “Incontri Sensibili”, al secondo piano. Qui l’orizzonte del giardino storico di Capodimonte incontra l’opera Senza Titolo del1989, e lo schermo quadripartito dell’opera Scatole Trasparenti, un progetto inedito, risalente agli inizia degli anni Settanta che segna il tentativo più avanzato e rarefatto di includere la variabile ambientale e l’elemento paesaggistico all’interno dell’opera d’arte. Scatole Trasparenti è un’opera dei primissimi anni ‘70 che Salvatore Emblema lascia allo stadio di prototipo. La trasparenza propria della plastica, sebbene limpida e pura, sembrava collidere con la pratica artigianale prediletta dall’artista. Il progetto è presentato per la prima volta al pubblico in una versione realizzata in plastica ecosostenibile e concepita come uno spazio accessibile solo agli occhi dell’osservatore. Scatole trasparenti è un congegno percettivo che si anima di possibilità sensoriali infinite, accogliendo dentro la pelle dell’opera, solo apparentemente muta e impenetrabile, tutte le variabili paesaggistiche del Real Bosco di Capodimonte. Un quadro perseguito nello spazio e con lo spazio. Una unità abitativa minima, binaria. Come un incontro a due: tra lo sguardo e l’orizzonte. E sempre nelle sue parole si coglie il suo personale significato di “quadro”, “muro”, “orizzonte”, “tempo” … “Per capire cos’è un quadro uno si dovrebbe prima domandare a cosa è legato. Io credo che dopo il focolare la pittura è la più domestica delle cose umane. Non c’è pittura senza casa. Come non c’è casa senza muri. Nelle canzoni, forse. A me il muro, devo dire, seduce come fosse un corpo vivo. È il confine, la soglia tra lo spazio dove governi tu e quello dove governa qualcos’altro. Appartiene alla geografia dell’esistenza più che all’edilizia. Ti protegge dai dubbi dell’orizzonte aperto. Pensaci, i muri vivono di tempo. E il tempo li segna. Li graffia, li tormenta. Ma tutto questo avviene fuori. E dentro? Magari la pittura è lo strumento che ci siamo inventati per tormentare i muri: da dentro. Che poi è tormento buono, si capisce. Come quando consumiamo, fino allo sfinimento, le cose che amiamo. Per troppo averle tenute tra le mani”.
Le installazioni, tra Cellaio e Real Bosco
Le tele esposte nel Museo preludono e suggeriscono le evoluzioni ambientali degli anni successivi, visibili all’interno del Cellaio, uno dei 17 edifici storici del Real Bosco. Qui sono esposte alcune delle grandi installazioni realizzate negli anni Settanta, concepite come un complesso congegno scenografico. Giochi di trasparenze, superfici tessili, lignee e metalliche si fondono con l’architettura ospitante e con lo spazio naturale circostante. “Ad un certo punto ho voluto rubare il quadro al muro. Desideravo una pittura che la potevi abitare. E partivo dallo schema di una siepe che filtrava la luce. Ma come costruire uno spazio senza dividerne un altro? Assegnai ad ogni materiale la sua trasparenza, la sua personale portanza nell’aria. Ed era un Labirinto. Però facile, benevolo. Me ne accorsi subito. Più mi allontanavo dal muro e più la pittura si riprendeva tutte quelle pareti trasparenti che andavo alzando qua e là. Ogni cosa diventava immagine, forma, colore. E perciò era pittura.
Ma era una pittura nuova e mi emozionava, forse perché non la facevo io” (Salvatore Emblema). Altre installazioni di maggiore ampiezza sono poste in stretta relazione con il paesaggio del Real Bosco di Capodimonte, parte integrante del percorso diffuso. Tra queste, ci sono Ricerca sul paesaggio, 1972-74, un’installazione ambientale di reti metalliche colorate che resterà a Capodimonte, esposta sulle praterie antistanti il Cellaio, come dono da parte degli eredi Emblema. Nel Cortile monumentale della Reggia sarà visibile Senza Titolo - Ricerca sull’architettura del 1995-2000, una struttura cubica in ferro e pietra lavica di 3 metri. In questi lavori, gli elementi e le variabili dello spazio concreto sono unite entro una superficie d’insieme, pittorica e visuale al contempo. Le istallazioni ambientali si smaterializzano fino a diventare sottili filtri per lo sguardo, paesaggi incastonati nel paesaggio. Il Catalogo della mostra Salvatore Emblema e stato pubblicato da Iemme Edizioni.
 
Biografia di Salvatore Emblema
Nasce a Terzigno (Napoli) nel 1929. Dopo aver frequentato l’istituto d’arte e la Scuola del Corallo di Torre del Greco, la sua ricerca prende avvio a Roma, dove si trasferisce nel 1948, portando con sé i primi lavori: collages di foglie disseccate (“fullografie”) il cui successo gli aprirà le porte dei circoli artistici di via del Babuino. Nel corso degli anni Cinquanta sperimenta nuovi materiali, passando dalle foglie alle pietre e alle terre vulcaniche, che compariranno nelle opere esposte nelle prime personali, a cominciare da quella del 1956 presso la Galleria San Marco. Nello stesso anno si reca negli Stati Uniti dove intraprende un percorso di studio e di comprensione profonda delle proprie esigenze creative. Conosce gli artisti della School rimanendo colpito, soprattutto, dalla ricerca di Mark Rothko. Agli inizi degli anni Sessanta vive tra Roma e Napoli. Lavora come scenografo a Cinecittà realizzando interni per numerosi film, tra i quali La strada di Federico Fellini. Nasce in quegli anni una serie di opere caratterizzate da una profonda istanza materica. Nella seconda metà del decennio vedono la luce le prime “tele nude”, incorniciate da fasce di colore. Lo spazio reale e quello pittorico coesistono in una matrice unica e si esaltano l’un l’altro. È un ulteriore passo verso quella che sarà la sua conquista più personale: la “Trasparenza”, canonizzata da Giulio Carlo Argan nel 1979. Le tele “detessute”, come le definisce Palma Bucarelli, sono l’oggetto di numerose esposizioni durante tutto il corso degli anni Settanta. Quel grande fermento creativo culmina nel 1979 con due importanti esposizioni: a Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, e a Napoli alla Villa Pignatelli. Nel 1980 e nel 1982 partecipa alla Biennale di Venezia. Gli anni Ottanta segnano altre importanti tappe. Un suo autoritratto sul tema della trasparenza è scelto da Argan per la collezione degli Uffizi di Firenze, tiene personali alla galleria comunale di Cesena (1981) e al Palazzo Reale di Napoli (1985). Nel 1982 tiene una mostra al Museo Bojmans di Rotterdam, dedicata al suo lavoro ambientale. Negli anni la pittura di Emblema è andata acquistando in scioltezza, agilità compositiva e urgenza di esecuzione: il rapporto tra la luce, la materia e gli elementi fondanti della pittura si è sviluppato per semplificazioni successive, secondo le regole di una “matematica emotiva”, definizione proposta dal critico israeliano Amnon Barzel.
 
 
 
 
 
 
Museo di Capodimonte Napoli
Salvatore Emblema
dal 26 Maggio 2022 al 30 Ottobre 2022
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 17.30
Mercoledì Chiuso
Cellaio  - dal Venerdì, Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 17.00
Real Bosco - Le Istallazioni ambientali sono visitabili dal Lunedì alla Domenica dalle ore 7.00 alle ore 19.30