Il
concetto generatore dell'esposizione, da cui è stato mutuato anche il titolo, si ispira all'
idea utopica di Marino Auriti, un artista auto-didatta di origine abruzzese, che il 16 novembre del 1955 depositò all'ufficio brevetti statunitense i progetti per la costruzione di un
Palazzo Enciclopedico. Questo avrebbe dovuto racchiudere, nei suoi 136 piani,
tutto il sapere dell'umanità attraverso la collezione delle più grandi scoperte del genere umano, dalla ruota al satellite. Un'impresa che rimase incompiuta ma che ben descrive il sogno di conoscenza universale e totalizzante che ha spinto spesso il genere umano a sognare di
sintetizzare l'immagine del mondo.

Una
strutturazione della conoscenza che la nostra contemporaneità rende sempre più difficile, visto il diluvio di informazione da cui siamo investiti giornalmente, ma che, secondo il curatore, sembra sempre più disperatamente necessaria. Naturalmente, il Palazzo Enciclopedico di Gioni è volutamente “impossibile” quanto quello di Auriti. Opere e artefatti in mostra traducono in modo eterogeneo desideri, ossessioni e paranoie relativi al sapere e alla conoscenza, mentre l'
approccio curatoriale, quasi antropologico, procede per associazioni e vicinanze che ricordano in qualche modo l'opera di Aby Warburg e di Roland Barthes. Così, non conta “chi ha prodotto cosa” ma l'intensità dell'immagine che l'opera trasmette. In un'orchestrazione generale finemente articolata emergono contemporaneamente slanci artistici autobiografici, per una sistematizzazione dell'infinito, ma anche sentimenti di fallimento che traducono l'impossibilità umana di compiere questa impresa.
Ogni lavoro esposto pone l'osservatore nella condizione di chiedersi cose vede quando “non guarda”, quando si allontana dalla visione retinica e si addentra nel proprio inconscio. A questo viaggio alla scoperta di diversi “sé” concorre anche un
allestimento che crea un ambiente intimo, che spinge ad una fruizione ravvicinata dell'opera. Pareti bianche e spazi raccolti aiutano ad esempio a mitigare anche la “drammaticità” di molti ambienti dell'Arsenale, mentre, nella prima sala dei Giardini, luci basse e ben calibrate ristabiliscono un contatto tra lo spettatore e la cupola di Chini, fresca di restauro. La mostra si apre proprio in questo ambiente, dove trova posto il
Liber Novus, un manoscritto illustrato cui lavorò, dal 1913 e per più di 16 anni,
Carl Gustav Jung. Le raccolte di visioni auto-indotte presenti nel libro sono il punto di partenza di un viaggio di riflessione, qual è l'intero percorso articolato da Gioni, “sulle immagini interiori e sui sogni”, multipli e diversi quanto è difforme l'umanità.

Nel percorso si scoprono i quadri astratti di
Hilma af Klint, le interpretazioni simboliche dell'universo di
Augustin Lesage, le divinazioni di
Aleister Crowley che si intrecciano alle opere di artisti contemporanei. Questi esempi rendono manifesta una condizione comune dell'umanità, quella di essere essa stessa produttrice, veicolo ma anche al giogo dalle immagini. Toccante il lavoro dell'artista polacco
Artur Zmijewski che in un video traduce uno dei temi centrali della mostra, la rappresentazione dell'invisibile: un gruppo di persone non vedenti dipinge il mondo svelando quanto l'aspetto culturale concorra a creare nella mente umana l'immagine canonica delle cose. Disegni estatici della
comunità Shaker, cosmografie di
Guo Fengyi e di
Emma Kunz, icone religiose e danze macabre di
Jean Frédéric Schnyder si fanno metafora del nostro presente, di quanto anche nel mondo contemporaneo l'immagine abbia un potere, in un certo senso, talismanico.
Uno stupore cosmico che pervade molte opere in mostra, a partire dai lavori di
Melvin Moti, di
Laurent Montaron e
Thierry De Cordier, ma anche una riflessione interiore che dà vita, nelle opere di
Ron Nagle,
Anna Zemánková e
Geta Bratescu, a realtà nelle quali natura e immaginazione si accavallano. In mostra si trova il micro e il macrocosmo, l'alto e il basso, per porre lo spettatore nella condizione di riflettere sulla necessità dell'arte e sul campionario del visivo, immaginario ed ossessivo che popola anche il mondo degli artisti. Il che spiega in qualche modo il
Leone d'oro alla carriera per
Marisa Merz e
Maria Lassnig, due artiste che hanno saputo trasformare autoritratti e corpi in cifre dell'universo.
Ampio spazio è dedicato anche all'illustrazione, nella traduzione visiva di scritture figlie di Jorge Luis Borges per mano di
Christiana Soulou e di Franz Kafka grazie a
José Antonio Suárez Londoño, ma anche della Genesi. Ed inoltre i disegni su lavagna di
Rudolf Stainer, i cui diagrammi tentano di tradurre e comprendere, in uno sforzo impossibile, l'universo intero, e i mondi alternativi immaginari o reali di
Morton Bartlett,
James Castle,
Peter Fritz,
Achilles Rizzoli,
Eva Kotátková e dell'artista italiana
Rossella Biscotti, presente in Arsenale. Proprio in quest'ultimo grande spazio espositivo si procede dalle forme naturali a quelle artificiali in una sorta di
Wunderkammer. La volontà di stupire e meravigliare, costruendo mondi in cui si intrecciano affinità elettive e gusto personale, si fa in qualche modo metafora della nostra cultura contemporanea nella quale l'essere sempre iper-connessi sembra oramai imprescindibile in tutti i campi; ma qui la mostra dichiara la sua vicinanza all'idea barocca di raccolta – che contempla l'incompletezza – piuttosto che alla concezione enciclopedica di Diderot.

In questa Biennale si incontra anche
una celebrazione del libro, nuova “specie” da proteggere, e microcosmo della memoria quanto può essere un video come
Grosse Fatigue di
Camille Henrot –
Leone d'argento della mostra – che narra una storia dell'universo tenendo conto dei miti di creazione di diverse società. Suggestiva e quasi labirintica l'installazione di sculture in argilla cruda di
Fischli e Weiss, ironiche nel loro fare a pezzi gli eccessi romantici della catalogazione totalizzante. Ma “la storia delle immagini è anche una storia di corpi e di sguardi”: così, ecco le performance di
Tino Sehgal –
Leone d’oro per il miglior artista – e le sculture di
Pawel Althamer, ma anche la vera sorpresa della mostra ovvero la
sezione curata da Cindy Sherman. L'artista americana, mettendo in scena più di 200 opere di oltre 30 artisti, “sperimenta e riflette”, com'è nelle corde del suo lavoro, “sul ruolo che le immagini hanno nella rappresentazione e nella percezione del sé”.
Infine, una serie di progetti in esterni completa il percorso della Biennale nel
Giardino delle Vergini. Performance e installazioni di
John Bock,
Ragnar Kjartansson,
Marco Paolini,
Erik van Lieshout e altri, ispirandosi alla tradizione cinquecentesca dei “teatri del mondo”, costruiranno in questo luogo nuove immagini simboliche dell'universo.

Corpi, desideri, cultura dell'iper-visibilità, inquietudini, il post-umano e la smaterializzazione dell'era digitale e molto altro. Il "Palazzo Enciclopedico", nella sua celebrazione eccentrica del mondo, sembra quindi suggerirci di guardare dentro di noi per trasformare le nostre visioni in realtà.
Alessandra Benacchio, 3/6/2013
*Joseph Beuys, Alcune richieste e domande sul Palazzo nella testa umana, testo originariamente concepito per il quotidiano “Il Mattino” di Napoli, 16 aprile 1981, ripubblicato in Terre Motus, catalogo della mostra (Ercolano, Villa Campolieto, 6 luglio – 31 dicembre 1984), a cura di Michele Buonuomo, Napoli, Electa-Fondazione Amelio, 1984, pp. 24-26: p. 24. Citato da Massimiliano Gioni in E' tutto nella mia testa?, Catalogo della Biennale Arte 2013, p. 28
Didascalie delle immagini
1. Marino Auriti e il modellino del Palazzo Enciclopedico, Collection American Folk Art Museum, New York (fotografo non identificato)
2. Marisa Merz, Senza Titolo, Londra, Tate Modern, 1966 © Marie-Lan Nguyen, Wikimedia Commons
3. Camille Henrot, Grosse Fatigue, 2013, frame da video
4. Tino Sehgal, performance nella spazio principale della mostra Il Palazzo Enciclopedico