Tutte le analisi, ovvero, tutta l’iconologia e l’iconografia avviate sull’arte di Mario Sironi (1865-1961) risentono, fino a non molti decenni fa, di un approccio deficitario o almeno falsato in partenza: l’artista è apparso in passato come un ectoplasma per via della sua militanza “dalla prima all’ultima ora” nel regime fascista. Nel presente lavoro, al pari dei tanti altri di medesimo intento, si vuole tentare un’impresa generalmente ritenuta improponibile: dare anima e corpo all’”ectoplasma” , per riuscire a vederlo solo “artista” in quanto tale, distinto e lontano da ogni apparentamento ideologico. Del resto, ad un appassionato di storie d’arte sarà consentito – si spera – di dilettarsi a confondere le carte dei critici blasonati, anzi, di mescolarle secondo un ordine inusitato, alla ricerca di quel quid che faccia dell’artista – di Sironi in questo caso – uno scenografo, suo malgrado, di un’epoca voltata su intendimenti ad oggi non propriamente considerati democratici.
Si resta, è ovvio, consapevoli del fatto che Sironi abbia condiviso in tutto e per tutto la “dottrina” imperante al suo tempo: a “gloria” di questa ne restano “grandiose” ed eloquenti testimonianze, per esempio, nel bassorilievo dell’Informazione di piazza Cavour a Milano, nel murale dell’Aula Magna della Sapienza di Roma oltre che nel palazzo di giustizia di Milano; ma tant’è. Non è forse vero che, in ogni tempo e per ogni dove, gli artisti siano sempre apparsi e siano stati visti come sentinelle del passato, presìdi del presente e frontiere del futuro? Secondo questa considerazione, Sironi non fa eccezione: dopo gli eccessi delle avanguardie del primo novecento, del cubismo e del futurismo in particolare, egli recupera il senso e la forma dell’espressione figurativa in arte, redige a suo modo un “manifesto-specchio” dell’alea culturale del suo tempo e vaticina sugli sviluppi di quello a venire. Tutto ciò, senza alcun dubbio di sorta, ne fa uno dei più rappresentativi e significativi esponenti della storia dell’arte del ventesimo secolo: non altrettanto, a volerla dire tutta e a paragone con Sironi, si può ammettere, per esempio, sul conto di Ardengo Soffici, Ottone Rosai, e dello stesso e più imitato De Chirico.
Mario Sironi, dunque, artista autentico perché interprete (al contrario di De Chirico, di cui pure inizialmente subisce il fascino) della “fisica” del suo tempo, capace con le sue opere di concedere, ancora oggi, a noi contemporanei “visioni” solo apparentemente apologetiche e quanto mai aderenti allo spirito dell’epoca e alle piuttosto categoriche direttive dall’”alto”.
Gli esordi di Sironi pittore si compiono (presto sconfessate del resto) tra le suggestioni simboliste, divisioniste, futuriste e metafisiche. A Roma, infatti, dove abbandona gli studi d’ingegneria, intercetta Balla, Boccioni e Severini. Ma dalla poetica futurista non è toccato più di tanto: ne rendono conto, tra i tanti altri, dipinti quali il
Camion (1914-1917) e
Paesaggio urbano (1925). Alle turbinose, “dinamiche” immagini delle opere futuriste (si pensi alla
Città che sale di Boccioni), Sironi oppone scenari aperti su melanconiche vedute, che, anche se cariche d’un sorta di intima solennità, riproducono panorami scarni ed essenziali, nemmeno cromaticamente ravvivati, quanto piuttosto sciolti nelle tinte dei grigi, dell’ocra e delle terre bruciate, che spengono del tutto le sfavillanti onde della luce futurista. Il camion – la stessa fissità delle bottiglie di Morandi – sta immobile sulla strada e al suo volante non si scorge manco il conducente, rappresentato dalla figura che l’osserva a due passi; mentre i palazzi sul fondale fanno da mera cortina paesaggistica. Forse che a qualcuno è venuto in mente il rutilante
Dinamismo di un cane al guinzaglio di Balla?
Così in
Paesaggio Urbano (1925) , il cielo è di un blu plumbeo, uniforme, quasi una coltre funebre sulla volta celeste di vetusta e gloriosa memoria impressionista. Al centro dell’abitato, un minuscolo tram scorre silenziosissimo sui binari attraverso una strada deserta, sulla quale – occhi spalancati sul nulla – s’aprono le finestre delle case. Non v’è dubbio che il tutto sia pervaso da un senso di melanconia, se non di angoscia, che fa da controcanto al diffuso esistenzialismo avvertito in ben altre sponde. Sul quel medesimo cielo si stagliano le filiformi architetture di ciminiere a ridosso di una fabbrica: un presentimento delle nascenti città industriali non certo gravido di felici aspettative. La presenza umana occorre solo indovinarla, visto che a tradirla non vi appare neppure l’illusoria sembianza d’un manichino dechirichiano.
“Metafisico”, ma non solo nel senso di difficile interpretazione, si presenta uno dei più caratteristici lavori di Sironi alle sue prime manifestazioni, ovvero
La lampada (1915). Bene al chiuso d’una stanza, buia quanto basta per indurre il manichino a tentare l’accensione della lampada a saliscendi: una luce (elettrica) che dura apparentemente fatica ad accendersi, al pari, chissà, dell’altra luce (della vita sociale). Il manichino è donna? sì: lo dicono le scarpe con i tacchi a spillo, ma lo smentisce il volto alquanto virile. Un altro elemento accresce il carico enigmatico di questo dipinto: la medesima impronta misterica delle opere di De Chirico, a cui pure l’opera rimanda. Qui, però, il richiamato manichino dechirichiano, al pari di un promettente Pinocchio, attenua la fisica materialità della sua figura, lasciando trasparire una tenue e altrettanto incoraggiante umanità. Sul tavolo, a sghimbescio, s’intravvede un soprammobile a piramide, irregolare sulla sua verticalità solo presunta e invece purtroppo reale. A quali reconditi significati può alludere?
ottobre 2021 Luigi Musacchio