Giovanni Cardone Febbraio 2023
Fino al 15 Febbraio 2023 si potrà ammirare al Museo Diocesano di Napoli la mostra Il San Zosimo di Antonello da Messina incontra Ettore Spalletti. Un focus sulla pittura meridionale del XV secolo a cura di Pierluigi Leone de Castris. L’esposizione nata dal rapporto di collaborazione tra l’Arcidiocesi di Napoli e il Museo Diocesano da un lato, e la Regione Campania, il Museo MADRE e la Fondazione Donnaregina per l’arte contemporanea dall’altro, l’occasione di poter esporre in mostra a Napoli la grande tavola su fondo d’oro col San Zosimo del giovane Antonello da Messina ha fatto nascere l’idea di affiancare per la prima volta nelle sale del Museo Diocesano un’opera d’arte contemporanea a confronto con un’opera d’arte antica, grazie alla generosa disponibilità e al prestito da parte della Galleria Lia Rumma. Una occasione unica di ammirare uno dei più antichi dipinti di Antonello da Messina conservato nel Duomo di Siracusa, il San Zosimo. L’opera di particolare fascino del più celebre pittore del Rinascimento meridionale, Antonello da Messina una grande figura di San Zosimo su fondo d’oro, già attribuito all’artista messinese e considerato un caposaldo della sua attività giovanile dal Di Marzo (1903) e in seguito da Adolfo e Lionello Venturi (1915, 1907), Roberto Longhi (1914) e no a Ferdinando Bologna (1955, 1977) e a Fiorella Sricchia Santoro (1986).
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L’occasione rara di avere in prestito dall’Arcidiocesi di Siracusa questo dipinto così importante e prestigioso sin qui mai esposto fuori dalla Sicilia e di poterlo per la prima volta mostrare al grande pubblico internazionale in condizioni di visibilità ottimali, rende possibile un piccolo ma importante focus sulla cultura artistica meridionale al passaggio dagli anni di Alfonso I a quelli di Ferrante d’Aragona, affiancando all’opera del giovane Antonello da Messina, ancora caratterizzata dalla sua formazione a Napoli nella bottega di Colantonio e dallo studio della pittura fiamminga e valenzana presente a corte, alcuni dipinti su tavola di artisti meridionali suoi contemporanei: la grande Deposizione dalla croce del suo maestro Colantonio proveniente dalla chiesa di San Domenico Maggiore ed oggi al Museo di Capodimonte, straordinaria derivazione dagli arazzi fiamminghi di Roger van der Weyden posseduti da Alfonso il Magnanimo e a quel tempo esposti nella Sala poi detta dei Baroni in Castel Nuovo; il polittico con San Benedetto dello stesso Museo Diocesano di Napoli, datato 1475 e proveniente dalla chiesa napoletana di Santa Patrizia; il trittico coi Santi Francesco, Lucia e Caterina della chiesa cittadina di Santa Maria la Nova, opera d’un artista di cultura ispano-amminga prossimo al pittore valenzano di corte Jacomart Baço; e inne il sin qui sconosciuto San Nicola datato 1471 e siglato dall’altro pittore di corte questa volta campano Antonello da Capua o del Perrino, rubato anni fa dalla chiesa di Santa Maria in Cosmedin di Portanova ma di recente recuperato dai Carabinieri del Nucleo Tutela e a?dato ora in consegna allo stesso Museo Diocesano di Napoli. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Antonello Da Messina che incontra Ettore Spalletti e il rapporto tra antico e contemporaneo apro questo mio saggio dicendo : Con l’ascesa al trono di Giovanna II dopo la morte del marito il regno ritrovò quell’apparente pace del secolo precedente e la fioritura delle arti liberali come nel resto della penisola. Ad ostacolare il percorso distensivo ci fu Martino V che chiese alla regina sostegno economico per ricostruire l’esercito pontificio ma questi negò sotto consiglio di Sergianni Caracciolo , il più fidato consigliere del regno. Sotto il regno di Giovanna II iniziarono a manifestarsi le prime e timide espressioni dell’umanesimo quattrocentesco. La corte, da sempre sensibile alle manifestazioni artistiche, in questa fase tarda del regno intraprese un rinnovamento figurativo dapprima in architettura, nella scultura e nella pittura, e in seguito anche nelle altre. Cardine di tale cambiamento divenne il cantiere di ampliamento della Chiesa di San Giovanni a Carbonara voluto proprio da Ladislao. I continui scambi economici tra la comunità fiorentina presente nella capitale e la stessa città fondata sulle rive dell’Arno divennero vettore delle novità che stavano accadendo nei cantieri di Firenze,iniziarono a diffondersi i nomi di Filippo Brunelleschi, Masaccio e Donatello, questi è l’unico della prima età dell’umanesimo fiorentino a realizzare un’opera scultorea a Napoli: il Sepolcro del cardinale Rainaldo Brancaccio tra il 1426 e il 1428 con l’aiuto di Michelozzo e Pagno di Lapo Portigiani .

La particolarità del sepolcro, fu quella di essere stato scolpito a Firenze ed inviato, via mare, a Napoli per poi essere assemblato. Innovativo fu anche l’aspetto iconografico della tomba gentilizia, rinnovando il tema del baldacchino, già visto nelle sculture funebri di Tino da Camaino in Santa Chiara e in Donnaregina Vecchia. Nell’opera di Donatello si percepisce un senso di teatralità dovuto alla sapiente gestione della prospettiva introducendo per la prima volta la tecnica dello stiacciato a Napoli. L’influenza di Donatello divenne di notevole portata nella capitale tanto da influenzare anche i piccoli scultori come si evince dal Sepolcro di Ludovico Aldomorisco di Antonio Baboccio da Piperno, che seppur realizzato qualche anno prima del Monumento Brancaccio, già presenta passaggi compositivi donatelliani, probabilmente dovuti ai suoi continui spostamenti lungo la penisola italiana prima di fermarsi a Napoli. Nel cantiere di ampliamento di San Giovanni a Carbonara si assistette al superamento dell’arte tardogotica attraverso la costruzione della Cappella Caracciolo del Sole. L’impostazione architettonica dello spazio interno risente ancora dell’influenza delle grandi volte ad ombrello costolonate. Ad un primo e timido superamento delle istanze medioevali sono i cicli pittorici realizzati da pittori non locali, ma ancora debitori ai modi rappresentativi giotteschi e cavalliniani e misti alle influenze d’oltralpe, in special modo all’approccio fiammingo che in quegli anni inizi andava diffondendosi massivamente presso le varie botteghe cittadine. Particolarmente innovativi sono i cicli di Leonardo da Besozzo dove emerge una spinta sensibilità alla figurazione dello spazio in profondità, senza però raggiungere la scientificità brunelleschiana della rappresentazione come nei dipinti di Masaccio. Gli altri autori sono Perinetto da Benevento e Antonio da Fabriano. Discorso a parte merita il sepolcro di Sergianni Caracciolo, datato tra gli anni venti e gli anni trenta del Quattrocento. La composizione è inquadrata ancora in una visione del monumento sepolcrale medioevale, l’opera è ascrivibile ad un autore di ambiente toscano non ancora maturo nel raggiungere l’espressività classicista. Gli storici attribuiscono la paternità su Andrea Ciccione o su Andrea Guardi, entrambe scultori fiorentini e collaboratori di Donatello, la cui influenza è ravvisabile nelle sculture a figura intera alla base. Attribuita sempre ad Andrea da Firenze è l’enorme macchina sepolcrale dedicata a Ladislao. L’opera commissionata da Giovanna, sorella del defunto, si erge per circa venti metri di altezza rendendo la scultura uno dei più complessi manufatti realizzati nei primi anni del Quattrocento. La composizione si eleva su quattro ordini, dove nel settore centrale del secondo, sotto a un arco di gusto moderno sono collocate le statue dei due regnanti e sostenute da quattro virtù cardinali. A cingere il monumento, terzo e quarto ordine, c’è il canonico baldacchino funebre già riproposto negli altri sepolcri angioini di Tino da Camaino. Significativo per l’arte napoletana del primo quattrocento fu il regno di Renato d’Angiò In questo periodo molto breve ed intenso, patrocinato dal re quale mecenate di diversi artisti di corte, si assistette al raggiungimento dell’apice della Congiuntura Nord-Sud. A Napoli arrivarono numerosi artisti fiamminghi, il più rappresentativo fu Barthélemy, Eyck che a Napoli impiantò una scuola di pittura dove si formò il maestro di Antonello da Messina, il Colantonio . Dettaglio della facciata di Palazzo Petrucci a Carinola Dettaglio della facciata di Palazzo Penne, esempio paradigmatico dell’architettura della prima metà del secolo In architettura si assistette al superamento delle forme gotiche italiane per approdare ad un linguaggio sintetico nordeuropeo, italiano e rinascimentale. Il passaggio non fu caratterizzato dallo studio delle antichità romane come avvenne per Brunelleschi, ma all’implementazione delle stesse antichità in una matrice ancora di stampo francoprovenzale e che risulta ancora visibile nei piccoli centri dell’entroterra. Il simbolo del passaggio tra i due riferimenti culturali è proprio l’abbandono dell’arco ogivale a favore dell’arco romano a tutto sesto, ma quest’ultimo è ancora declinato all’interno di un decorativismo desunto dal gotico, come ad esempio le costine trilobate o addirittura impiegando profili trabeati ma con ricche decorazioni vegetali eseguite al traforo o impiegando il motivo della finestra, entrambe i motivi sono presenti in palazzo Petrucci - Covelli a Carinola .

Nel 1438 il Regno venne assediato da Alfonso di Trastamara, mettendo alle strette Renato che chiese aiuto al Pontefice e alla signoria di Milano, gli Sforza. Questi ultimi vennero sbaragliati nel 1443 e nello stesso anno venne dichiarata l’unione tra il regno di Sicilia e di Napoli. I primi anni del regno aragonese furono molto difficili, la capitale perse parte dei privilegi con conseguenze catastrofiche per gli intellettuali locali dopo la chiusura temporanea dello studiorum federiciano. L’idea di Alfonso fu quella di adattarsi allo stile e alla cultura delle signorie centrosettentrionali. Iniziò una politica di controllo dei feudatari locali iniziando quel processo che ebbe il suo maggior sviluppo nel secolo successivo, il progressivo inurbamento dei nobili presso la corte aragonese. Napoli divenne un grande cantiere di edilizia civile e religiosa, mentre nelle parti più interne del regno persistevano ancora modelli costruttivi e decorativi legati agli strascichi del gotico internazionale di matrice angioina. Alfonso fu un sovrano mecenate ed erudito come furono i suoi coetanei centrosettentrionali costituendo a corte una delle più importanti biblioteche della penisola . La chiusura dello studiorum servì come atto dimostrativo a far capire i regnicoli che la cultura ufficiale fosse quella propugnata a corte. L’umanesimo aragonese vide tra i protagonisti Lorenzo Valla e Giovanni Pontano tra gli autori più rappresentativi della prima età aragonese. Ad essi seguirono il Panormita e Bartolomeo Facio. La vicenda biografica di Antonello è stata soggetta a speculazioni e ricostruzioni contraddittorie, talvolta fantasiose. La sua ipotetica data di nascita risale al 1430 circa ed è ricavata dalla relazione tra le notizie fornita da Giorgio Vasari, che nelle sue Vite afferma che Antonello morì a 49 anni, e la data di redazione del testamento dell’artista presso il notaio Antonio Mangianti il 14 febbraio del 1479. Non è mai stato ritrovato un vero e proprio atto di nascita. A questo riguardo va precisato che gran parte delle informazioni documentarie circa la vita dell’artista sono state recuperate e pubblicate nel 1903 da due famosi ricercatori siciliani, il palermitano monsignor Gioacchino Di Fiore, prefetto della Biblioteca Palatina di Palermo, e il messinese Gaetano La Corte Callier, segretario del Museo Civico Peloritano nella sua città. Tuttavia quasi tutta la documentazione originale utilizzata dai due studiosi è andata distrutta dal terremoto che colpì l’area dello Stretto di Messina nel 1908: ciò che rimane sono le trascrizioni dei ricercatori che costituiscono le basi per qualsiasi ricerca sull’artista. Antonio de Antonio, o de Antoni, vero cognome dell’artista e non patronimico nasce a Messina da Giovanni de Antonio e tale Garita, probabilmente Margherita. Il padre era un “mazonus”, termine utilizzato per indicare un artigiano che si occupava perlopiù di scultura ma anche muratore, e avendo una certa confidenza con le questioni di carattere artistico, appoggiò l’inclinazione del figlio per la pittura. Dopo un primo periodo di apprendistato nell’isola, nel 1442 è a Napoli nella bottega di Colantonio , come testimonia una lettera del 24 marzo 1524, dell’umanista Pietro Summonte al collezionista veneziano Marcantonio Michiel. Giorgio Vasari, nella seconda edizione delle sue Vite, attribuisce ad Antonello il merito di aver portato in Italia la pittura ad olio, a seguito di un viaggio nelle Fiandre: è ormai dimostrato da tempo che la biografia del Vasari non abbia fondamenti storici e non esiste nessuna prova concreta dell’ipotetico viaggio nel Nord; è più plausibile che proprio nella città partenopea, luogo di congiunzione tra la culturale mediterranea e nord-europea che Antonello venne a contatto con la coeva pittura fiamminga grazie al suo maestro e cominciò ad apprenderne le tecniche pittoriche. A questo periodo si è soliti attribuirgli la collaborazione con Colantonio nella realizzazione delle tavolette laterali con i Beati francescani del Polittico di San Lorenzo, del 1445 circa . Intorno al 1457 Antonello inizia a lavorare come pittore autonomo: in questa data infatti, l’artista è impegnato nella realizzazione di un gonfalone commissionatogli dalla confraternita di San Michele dei Gerbini a Reggio Calabria, su modello di quello precedentemente eseguito per San Michele a Messina. Entrambe le opere sono andate perdute. Un importante documento, datato 21 aprile dello stesso anno, testimonia l’attività della bottega di Antonello: il suo allievo Paolo di Ciacio si impegnava ad estinguere il debito contratto con il maestro per il suo apprendistato. In questi anni sposa tale Giovanna Cuminella, vedova e madre di Caterinella, dalla quale avrà il figlio Jacobello, anch’egli pittore che prenderà il posto del padre nella bottega. In Sicilia, Antonello ebbe modo di entrare in contatto e studiare le opere di Petrus Christus , appartenente alla generazione di pittori fiamminghi successiva ai famosi Robert Campin, Rogier Van der Weyden e Van Eyck e che dopo la morte di quest’ultimo, nel 1441, ottenne diversi incarichi da commercianti italiani presenti a Bruges. Si è ipotizzato in passato che i due artisti potessero essersi incontrati a Milano, dove nel 1456 sono registrati un “Antonello Siciliano” e un “Piero da Bruges” ma l’ipotesi oggi è stata scartata; tuttavia, l’ascendenza delle tavole di Christus nel pittore messinese si manifesta nella configurazione dei paesaggi e degli interni, riscontrabile nelle opere della metà degli anni Settanta; nell’Annunciazione , realizzata nel 1474 e conservata adesso al Museo di Palazzo Bellomo di Siracusa, la suddivisione della stanza, le finestre aperte da cui si intravede il paesaggio e gli inserti architettonici sono un forte richiamo all’opera del fiammingo. Dalla pittura fiamminga, Antonello derivò anche il modello del ritratto che diventò uno dei temi peculiari della sua produzione. Un primo tentativo di adeguamento al canone fiammingo è costituito dal Ritratto d’uomo, conservato al Museo Civico Malaspina, databile 1468 circa . Nonostante qualche incertezza, il fondo scuro e il parapetto sono sul modello iconografico eyckiano e da quest’ultimo prenderà la consuetudine di datare e firmare le sue opere; nel ritratto di Pavia a firma appare come incisa ma nelle opere successive quest’idea verrà superata con quella di porre la scritta su un cartellino, dando l’illusione di essere applicato al di sopra della superficie pittorica. Il ritratto di Pavia, il più antico tra tutti quelli giunti sino al giorno d’oggi, segna l’inizio della carriera assai fortunata del maestro come ritrattista. In tutti i soggetti di Antonello emerge la componente autoironica celata sotto un velo di apparente serietà e lo spettatore diventa parte dell’opera. Il caso più eclatante è il Ritratto di ignoto marinaio , del 1470, al Museo Mandralisca di Cefalù in cui l’uomo rappresentato appare enigmatico e giocondo ma la sua furbizia e ambiguità lo rendono indimenticabile. Un altro dei temi cari alla produzione artistica del maestro e che ancora una volta è un rimando alla cultura fiamminga è la serie dei cosiddetti Ecce Homo, un tentativo di sintetizzare due diverse tradizioni: da una parte la volontà di voler rappresentare Cristo com’era rimasto impresso sul velo che lo detergeva durante il Calvario, sul modello del Cristo coronato di spine del Beato Angelico al Duomo di Livorno , dall’altra quella dell’Uomo dei dolori di Petrus Christus a Birmingham . La sintesi operata da Antonello è del tutto personale: l’Ecce Homo conservato al Collegio Alberoni a Piacenza , datato 1473, è caratterizzato da una ripresa ravvicinata che gli conferisce un’intensa drammaticità; Cristo è rappresentato con un’espressione addolorata, con la corda intorno al collo, la corona di spine stretta sulla fronte e le gocce di sangue che scivolano sul suo corpo, raggiungendo un livello di pathos altissimo. Un altro noto documento attesta che il 15 gennaio del 1460, il padre Giovanni noleggiò un brigantino per recarsi ad Amantea, in Calabria, ad attendere il figlio e la sua famiglia che sarebbero rientrati da non si sa dove da lì ad otto giorni. La mancanza di fonti documentarie che attestino la presenza dell’artista nelle regioni di Sicilia e Calabria nei tre anni precedenti hanno spinto la critica a supporre che in questo lasso di tempo Antonello abbia compiuto diversi viaggi nel territorio italiano tra il 1458 e l’anno successivo si presume che il pittore abbia compiuto un viaggio nell’Italia centrale, nel corso del quale avrebbe avuto la possibilità di rapportarsi con Piero della Francesca che in questi anni stava certamente lavorando a Roma. L’influenza del pittore di Sansepolcro sullo stile di Antonello non può essere considerata marginale: le volumetrie e il rigore geometrico ripresi dal maestro, miscelate con la cura dei particolari tipica della pittura fiamminga sono evidenti in opere come La Visita dei tre angeli ad Abramo, conservata alla Pinacoteca Civica di Reggio Calabria la cura per la rappresentazione delle rocce sulla destra e del prato in primo piano sono di derivazio ne fiamminga, rimarcata dalla scelta della tipologia delle vesti, che ricordano quelle degli angeli musicanti della monumentale opera di Jan van Eyck, il Polittico di Gand . L’influenza del pittore di Sansepolcro invece emerge dalla rappresentazione del paesaggio sulla sinistra e dal taglio prospettico che Antonello dà al tavolino rotondo. Inoltre, questo tema biblico è caro a Piero: infatti, i tre angeli che compaiono nel Battesimo di Cristo sono un riferimento all’apparizione ad Abramo sotto la quercia di Mambre (Genesi, 18, 1-3), inserite nella scena battesimale come riferimento al tema trinitario. Le affinità elettive tra il pittore di Sansepolcro e Antonello appaiono evidenti nel modo in cui entrambi scelgono di rappresentare le mani di alcuni personaggi in determinate opere: ad esempio, è lecito ipotizzare che la mano della celebre Annunciata di Palermo, realizzata intorno al 1477, dopo il soggiorno veneziano, abbia un ideale modello nel Profeta Ezechiele, dipinto da Piero della Francesca tra il 1458 e il 1466 nell’altrettanto celebre ciclo di affreschi delle Storie della Vera Croce, della basilica di San Francesco ad Arezzo. Tuttavia, nell’Annunciata il punto di vista è diverso , come se il maestro siciliano volesse superare le premesse gettate da Piero della Francesca, grazie alle nuove conoscenze acquisite dopo il soggiorno lagunare. In conclusione, nonostante non si possa asserire con certezza la presenza di Antonello nell’Urbe duranti gli anni di attività di Piero, è innegabile che il maestro sia venuto in qualche modo a contatto con le opere di Piero della Francesca e da esse sia stato influenzato. Il periodo che contribuì maggiormente a rendere la fama di Antonello da Messina internazionale ed eterna fu sicuramente quello a Venezia. Nell’ultimo quarto di secolo, la Repubblica di San Marco rappresentava lo stato più potente sul territorio italiano : crocevia degli scambi commerciali tra Oriente ed Occidente, tutto ciò che veniva prodotto nei diversi paesi era reperibile nel mercato veneziano; costituiva la prima città al mondo per numero di abitanti, composto da un variegato insieme di etnie: questi elementi contribuirono a creare un ambiente fertile per le nuove idee di artisti ed intellettuali i quali erano incoraggiati dalla nobiltà locale e dal governo repubblicano, stimato da tutta l’Europa. La seconda metà del Quattrocento costituì un periodo fondamentale per il panorama artistico a Venezia: le nozioni del primo Rinascimento fiorentino erano state assimilate e rese proprie dagli artisti locali, facendo diventare la pittura la punta di diamante della città lagunare. Questo fu reso possibile da geni del calibro di Giovanni Bellini che, dopo essersi formato con il padovano Andrea Mantegna, seppe adottare gli stili dei grandi ‘forestieri’ come Donatello, Piero della Francesca e Antonello da Messina alle tradizioni locali, senza rinunciare alla propria personalità. La presenza di Antonello da Messina a Venezia nel biennio 1475-76 trova la sua giustificazione nel recente interesse, da parte degli intenditori d’arte veneziani, per la pittura fiamminga.

È legittimo pensare che già al suo arrivo il maestro godesse di una certa popolarità nella città tanto da ricevere la commissione della Pala di San Cassiano da parte del patrizio veneziano Pietro Bon nel 1475 l’anno successivo, poco prima della consegna della Pala, il committente si dichiara così entusiasta tanto da affermare che sarà destinata a diventare il dipinto migliore mai avuto in Italia e all’estero. Il prestigio di Antonello accrebbe tanto da attirare l’attenzione del duca Galeazzo Maria Sforza il quale, nel marzo del 1476, lo invitò a Milano affinché assumesse il posto del pittore di corte, Zanetto Bugatto, appena deceduto. Tuttavia, non si hanno testimonianze che attestino la presenza del pittore nel capoluogo lombardo. Nel 1477 Antonello è nuovamente presente a Messina, impegnato nella realizzazione di un gonfalone destinato alla confraternita di Santa Maria dell’Annunziata di Ficarra, dove rimarrà sino alla morte che avvenne nel febbraio del 1479. Tuttavia, dopo la fama raggiunta a Venezia, non è plausibile che la sua attività negli ultimi anni di vita si riducesse a così poco: piuttosto è probabile che i contatti con la città lagunare una volta trasferitosi nella sua terra natia non si fossero interrotti e che Antonello continuò sino alla morte a lavorare per la sua clientela veneziana. D’altronde è a Venezia che è possibile collocare l’ultima grande opera del maestro: il trittico di San Rocco destinato alla chiesa di San Giuliano del quale sopravvive soltanto il San Sebastiano, databile al 1478 e oggi conservato nella Gemäldegalerie di Dresda. La realizzazione di questa tavola è legata ad un avvenimento storico ben preciso: nel 1477 la peste dilagava per Venezia. Le cure mediche inadatte, che consistevano esclusivamente nell’isolamento dei malati, costrinsero a rifugiarsi nell’invocazione dei santi per richiederne l’aiuto: un gruppo di fedeli appartenente alla scuola di San Rocco scelse di dedicare un’opera a San Cristoforo e alle figure di San Rocco e di San Sebastiano, famosi protettori dalla peste. Il primo che segnalò la presenza di un dipinto del maestro nella chiesa di San Giuliano fu Francesco Sansovino , che attribuì ad Antonello il San Cristoforo e ad un certo Pino da Messina il San Sebastiano, collocati ai lati del santo protettore. Successivamente Carlo Ridolfi inserì l’opera tra quelle realizzate durante il suo periodo veneziano, tra la fine del 1474 e l’estate del 1476 ma il ritrovamento nel 1979 della Mariegola della scuola di San Rocco ha completamente stravolto il pensiero critico: tra le pagine di questo volume si trova un inventario dei beni della Scuola datato 20 luglio 1533 che attesta la presenza della pala in San Giuliano. Inoltre, la confraternita fu fondata nell’estate del 1478 dunque l’opera non poteva appartenere al soggiorno veneziano di Antonello, concluso già da due anni. Le peripezie affrontate dal polittico furono diverse: fu rimosso dall’altare appena dopo il 1581 per essere sostituito da due tele di Sante Peranda (1566-1638), tuttora collocate nella chiesa; all’epoca di Ridolfi il trittico era già stato smembrato, il San Rocco era stato sostituito da una scultura, il San Cristoforo si trovava “in casa Zanne de Piazza” mentre del San Sebastiano non si hanno notizie sino al 1654, quando compare nell’inventario dei beni passati da Lady Alethea Talbot al figlio visconte Stafford. Poco dopo il 1662 fu acquistato dai fratelli Frans e Bernhard von Imstenraedt che lo rivendettero nel 1670 al conte Carl von Lichtenstein- Castelcorno il quale lo collocò nel suo palazzo arcivescovile di Kromeriz, in Moravia. Nel 1830 fu venduto all’asta e nel 1869 comparve a Vienna sotto il nome di Giovanni Bellini; alla fine fu acquistato dalla Galleria di Dresda nel 1873. L’attribuzione del San Sebastiano ad Antonello da Messina si deve allo straordinario lavoro di Crowe e Cavalcaselle, tuttavia la sicurezza di trovarsi di fronte ad uno degli scomparti perduti del trittico di San Giuliano si ebbe solamente nel 1944. Dunque il trittico di San Giuliano fu probabilmente l’ultima opera eseguita dal maestro siciliano. Vi sono diverse ipotesi su come egli abbia ricevuto la commissione in patria: la più plausibile è che alla sua partenza da Venezia, Antonello abbia lasciato una succursale della sua bottega, capace di gestire le commissioni e di inviargli quelle più importanti. Difatti, la bottega di Antonello, suddivisa in due branche, quella messinese e quella veneziana, non scomparve con la sua morte: non è un caso che, dopo il 1478, a Venezia girassero una grandissima quantità di quadri antonelliani, spesso recanti la firma dell’artista, deceduto nel frattempo. È lecito pensare quindi che il trittico di San Giuliano fu terminato da quel precedentemente citato Pino da Messina, attivo all’interno della bottega. È ormai universalmente accettato che Pino altro non sia che il diminutivo della forma veneta di Jacobello, figlio di Antonello. Ciononostante diversi dubbi circondano questo personaggio. Il gusto antonelliano sopravvive a se stesso per circa due decadi, con un seguito più modesto sia nel Sud, dove i suoi discepoli si limitarono a riprodurre i suoi schemi iconografici ma non furono in grado di raggiungerlo in maestria, e un lascito assai più significativo a Venezia dove il suo stile fu assimilato e sviluppato dalla generazione successiva di pittori, come Giovanni Bellini, Cima da Conegliano e Vittore Carpaccio. Nella stessa sala troveremo esposto, in un dialogo tra arte antica e arte contemporanea, il dittico rosa di Ettore Spalletti, quadro a tempera e foglia d’oro su tavola di grandi dimensioni. Posso dire che nelle opere di Spalletti lo spazio, che da sempre ha avuto un ruolo centrale nella composizione architettonica, viene incluso nelle esperienze artistiche in senso non più puramente visivo-rappresentativo, aprendo alla possibilità di costruire delle opere d'arte a dimensione ambientale che solo successivamente saranno chiamate “installazioni ambientali”. Infatti, è solo dalla fine degli anni Settanta che questa pratica specifica inizia a essere definita installation art.
Ettore Spalletti, di origine abruzzese, ha cominciato lì la sua carriera per arrivare, nei primi anni ‘70, a una cifra stilistica personale. Nel 1974 la personale Rosso bianco verde bianco giallo alla galleria romana La tartaruga di Plinio de Martiis lo ha avviato al confronto con un pubblico maturo. I mezzi espressivi adottati sono la pittura e la scultura che si generano da una concezione spaziale-architettonica estrinsecata in forme geometriche e l’uso di una certa tipologia di colore. Per sua stessa definizione il suo lavoro si può chiamare pittura tridimensionale. Originale la tecnica. Le sue opere non sono classici monocromi. Tutto parte dall’impasto di gesso e colla che viene steso caldo sulla superficie da dipingere, il pigmento aggiunto, una volta assorbito, conferisce colore a tutto lo spessore, mentre il risultato cromatico dipende dalla quantità di bianco mescolato. L’effetto levigato è dovuto all’abrasione successiva che polverizza parte del colore. I materiali maggiormente utilizzati sono legno, tela, marmo e le superfici parietali. Crea spesso oggetti tridimensionali in cui il volume dialoga con lo spazio. Da qui nascono gli ambienti completi, luminosi, sospesi, avvolgenti pur nella loro apparente semplicità. Le sfumature, le superfici delicate trasformano i luoghi fino a farli diventare illusori e parte di un sogno a occhi aperti. Gli elementi geometrici portano a un dialogo reciproco e anche chi guarda raggiunge un’intimità con il contesto o con la singola opera. L’armonia nasce dalla perfezione della forma che si mantiene nonostante una breccia o un angolo smussato. La costruzione dei volumi è sempre lieve e lineare. Può far pensare all’infinito e, afferma, «non sarà mai sempre lo stesso». Così accoglie la luminosità dei paesaggi ma anche la particolare luce che si trova a Roma dove ha fatto varie esperienze nel corso della sua vita. Spalletti riesce a cogliere l’atmosfera e a ricrearla. Le origini dell’opera dell’artista abbracciano il pensiero concettuale dell’arte astratta e minimalista che hanno caratterizzato il ‘900. Il risultato dell’intero corpus delle sue realizzazioni fa pensare a una volontà di appagamento di tipo estetico, a una volontà di bellezza e positività. C’è l’aspetto seducente che si incentra proprio sul fattore estetico e porta in sé la capacità di ammaliare. C’è la ricerca del classico che si combina con il contemporaneo. Nonostante la gamma ristretta di elementi utilizzati riesce a essere sempre innovativo. L’attenzione a ciò che lo circonda viene così rielaborata in creazioni propositive che si incanalano nella direzione dell’appagamento della vista. Nascono grandi attese che lo accompagnano nel suo interrogarsi da artista e raggiungono il fruitore che ama l’arte concreta e realizzata. Da ciò il riflesso incondizionato dell’esperire che porta a una pace e a una quiete che interiorizzano il sentimento. Trovarsi davanti all’opera di Spalletti esige una pausa, il sopraggiungere e lo svolgersi di un silenzio che alleggerisce. È pregnante la comprensione che c’è uno spessore animato da un concetto di base. E appunto quel silenzio mette nella condizione di porre attenzione e ascoltare tutto ciò che si può recepire nei percorsi personali che ogni spettatore può fare. Queste stimolazioni sensoriali, questi stati cognitivi in cui lo spettatore si trova sono assolutamente naturali, mai forzati, tanto che ci si accorge di giungere alla riflessione su ciò che si vede e a una formulazione intellettuale senza strappi. Spalletti si pone sempre in maniera radicale e assoluta riuscendo però a imporsi in modo cosciente e delicato, come una musica dolce. Il pensiero che lo segue è quello di rappresentare la sua epoca, di vivere nell’oggi e in qualche maniera renderlo migliore. Queste qualità lo hanno reso celebre a livello nazionale e internazionale. I
colori che ricorrono nell'opera di Spalletti spaziano dall’azzurro rubato al mare della sua infanzia, al giallo del sole, al rosa della pelle. Raramente ci si discosta da queste cromie simboliche, vibranti di vita, ancorate alla realtà e alla memoria dell’artista. Il suo colore prediletto è però il grigio, che pare portarsi dentro la sintesi perfetta: a metà tra bianco e nero, neutro senza essere banale, si sposa bene a ogni altra nota cromatica, è “il colore dell’accoglienza”. La natura scultorea delle
opere di Ettore Spalletti non passa solo attraverso un uso materico del colore, ma si sostanzia anche nella relazione simbiotica con lo spazio. I suoi quadri strabordano dalla cornice, irridono le convenzioni formali, rinunciano alla loro integrità per cercare una totale compenetrazione con il contesto espositivo.
D’altra parte pur nell’astrattismo che domina i suoi lavori si possono rintracciare archetipi scultori chiari, come il vaso, la colonna, la coppa. In questa sintesi di linguaggi, che rende l’arte intrinsecamente “fisica”, tridimensionale, tattile, non può che essere chiamato in causa anche lo spettatore, che con il suo sguardo e la sua esperienza la completa.
Biografia di Ettore Spalletti
Nato a Cappelle sul Tavo - Pescara, dove ha trascorso tutta la sua vita. Le sue opere sono state presentate a Documenta a Kassel (1982, 1992), alla Biennale di Venezia (1982, 1993, 1995, 1997) e in mostre personali a Essen (Museum Folkwang, 1982), Gand (Museum Van Hedendaagse Kunst, 1983), Rennes ( Halles d’art contemporain, 1988), Francoforte (Portikus, 1989), Monaco (Kunsteverein, 1989), Amsterdam (De Appel, 1989), Parigi (Musée d’art moderne de la Ville de Paris, 1991), New York (Guggenheim Museum, 1993), Anversa (Museum van Hedendaagse Kunst, 1995), Strasburgo (Musée d’art moderne et contemporain, 1998), Napoli (Museo di Capodimonte, 1999), Madrid (Fundaciòn La Caixa, 2000), Leeds (Henry Moore Foundation, 2005), Roma (Accademia di Francia, Villa Medici, 2006; Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 2010), Kleve (Museum Kurhaus Kleve, 2009), Venezia (Palazzo Cini, 2015), Principato di Monaco (Nouveau Musée National de Monaco, 2019). Nel 2014 la più completa retrospettiva dell’opera dell’artista, intitolata Un giorno così bianco, così bianco, è stata allestita in un circuito museale formato dal MAXXI di Roma, dalla GAM di Torino e dal Museo Madre di Napoli. Tra le installazioni permanenti la Salle des dèparts (1996), per l’Hôpital Ray-mond-Poincaré a Garches - Parigi, e la Cappella (2016) realizzata insieme all’architetto Patrizia Leonelli per la Casa di cura Villa Serena, a Città Sant’Angelo – Pescara.
Museo Diocesano di Napoli
Antonello da Messina incontra Ettore Spalletti. Un focus sulla pittura meridionale del XV secolo
dal 16 Dicembre 2022 15 Febbraio 2023
dal Lunedì al Sabato dalle ore 9.30 alle ore 16.30
Domenica dalle ore 9.30 alle ore 14.00
Lunedì Chiuso