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Chiara MARIN
Il documento pubblicato qui di seguito integralmente fa parte di una ricerca più ampia, intrapresa dalla scrivente a partire dal 2009
[1], che ha già portato ad alcune scoperte che si ha avuto modo di pubblicare nei cataloghi delle due mostre dedicate a
Carlo Saraceni tenutesi nel 2013 e nel 2014 presso
Palazzo Venezia a Roma e le
Gallerie dell’Accademia di Venezia, al fine di contribuire ad una migliore conoscenza della biografia di questo artista e dell’organizzazione della sua bottega
[2].
Come si ha avuto modo di indagare, l’arrivo di
Saraceni a Roma fu agevolato dalla conoscenza da parte del pittore, fin dalla sua giovinezza, di collezionisti e artisti già molto noti al tempo, così a Roma come a Venezia. Conoscenze che per un artista giovane ed emergente non dovevano essere facilmente accessibili. L’individuazione da parte di chi scrive della provenienza dell’artista da una famiglia di mercanti di seta, dunque agiata per il tempo, sembrerebbe spiegare entrature così rilevanti
[3].
Giuseppe Tassini infatti riportava la genealogia dei
Saraceni fra quelle dei
Cittadini veneziani e proprio tramite questa ho già potuto mettere in evidenza un importante legame per
il giovane Saraceni a Venezia, che potrebbe far altresì ipotizzare
un passaggio di questi per le Marche prima del suo trasferimento a Roma
[4]. Il 6 agosto 1600 infatti Carlo dedica, da Venezia, un compendio storico
, I Fatti d’arme famosi, scritto dallo zio omonimo, al
Duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere: nella speranza che l'opera sia «
pienamente gradita, degnando d'accettar me, se non per la sua propria persona, almeno come nipote dell'Autore suo humilissimo servitore»
[5].
Se il soggiorno marchigiano resta un’ipotesi d’interesse per l’analisi degli esordi della carriera artistica del pittore, ho di recente avuto modo d’individuare un inventario utile per la ricostruzione dei suoi ultimi anni di produzione.
Sino ad oggi gli ultimi tre documenti noti nella cronologia della biografia dell’artista, erano il testamento
[6] - redatto da
Saraceni stesso il 13 giugno 1620 in casa dei fratelli
Pietro e Giorgio Contarini a Venezia, in cui dava disposizioni a
Giorgio Contarini di consegnare alla moglie
Grazia Luna, rimasta a Roma, 250 scudi e 100 zecchini, cioè il corrispettivo che lo stesso Giorgio Contarini doveva finire di riscuotere dal conte palatino
Sebastian von Füll Windach come corrispettivo per tre dipinti, fra cui il
San Francesco in estasi e la
Morte della Vergine oggi presso l’
Alte Pinakothek di Monaco- la registrazione della morte del pittore
[7] e l’inventario
post mortem[8] dei pochi beni che l’artista lasciò in casa dei
Contarini (comprendente undici dipinti di cui non è segnato il nome dell’autore tranne che per «
tre paesi tondi de man de Gotfredo» e «un altro paese quadro de man de un fiamengo chiamato Moise»).
Nel testamento però
Saraceni non menzionò i beni che aveva lasciato nella sua residenza romana e che certamente dovevano essere ben più consistenti, dal momento che la maggior parte della sua carriera si era svolta nell’Urbe.
Per ciò che riguarda la moglie, è noto che si risposò l’8 dicembre 1620, quindi appena cinque mesi dopo la morte del pittore, con uno spedizioniere francese
[9].
Alla luce di questi elementi, l’individuazione dell’inventario dei beni
(Doc. 1), datato 22 marzo 1622, che Grazia Luna lasciò in casa del nuovo marito,
Giovanni Bauldrager, è certamente rilevante per i suoi contenuti, quanto interessante per la peculiarità della situazione in cui si venne a trovare la donna e per le motivazioni che la portarono a far stilare tale inventario.
Grazia Luna, difatti, è qui segnata «
quae est ingressura in venerabile Monasterio Domus Piae de Urbe» mentre si dispone che i suoi beni vengano divisi: «
partim asportare fecit ad Monasterium praedictum et partim domo D. Angele eiusdem D. Gratiae matris et cum intendat in eadem Domo demittere et relaxare bona propria ut asseruit dicti sui Mariti petiit et institit illa describi et inventariari prout describi et inventariari petiit».
Grazia Luna quindi sembrerebbe essere stata forzata ad entrare nel monastero e per tal motivo faceva stilare un inventario dei beni che lasciava in casa del secondo marito.
Stando a questi elementi, la semplice lettura del documento lascia certamente perplessi perché non si coglie per quale motivo la donna venisse rinchiusa e perché dovesse far stilare un inventario dei beni che lasciava in casa del marito, ma tali dubbi possono essere sciolti se si analizza il tipo di monastero in cui andò a stare
Grazia Luna.
Il
monastero Domus Piae era un monastero che si trovava nel rione romano di
Sant’Eustachio, presso l’attigua
chiesa di Santa Chiara, ed era gestito dalle monache clarisse che si occupavano delle donne «mal maritate» o anche dette cattive mogli.
Difatti, le donne da recuperare, ex peccatrici e donne traviate, nubili o mal maritate, del
Monastero di S. Marta, vicino alla chiesa di
S. Maria Sopra Minerva e sorto con la Bolla del 1538, nel 1563 furono trasferite da
Pio IV nel
Monastero Domus Piae di Santa Chiara, case pie che prendevano per l’appunto nome dal pontefice che ne fu il fondatore.
Sia la
Casa Pia di Santa Chiara per peccatrici, anch’essa nei pressi della chiesa della Minerva, che il nuovo chiostro furono quindi costituiti da
Pio IV. Alessia Lirosi ha sottolineato che fu questo uno dei rari casi a Roma in cui in una casa di recupero si seguisse una Regola che non fosse quella di sant’Agostino, le cui norme erano solitamente adottate dalle nuove fondazioni destinate ad uno scopo sociale quale il recupero delle peccatrici o

l’assistenza delle fanciulle povere, orfane o malate.
[10]
Il
Monastero Domus Piae scelto per l’«assistenza» di
Grazia Luna era quindi un monastero sui generis e non è purtroppo dato sapere il motivo per cui la donna
fosse stata ritenuta una cattiva moglie a tal punto da esservi rinchiusa. Certo è che, come sembrerebbe dalla lettura del documento, se la madre della donna decise di far stilare un inventario dei beni che la figlia lasciava in casa del marito, doveva esserci un qualche motivo di sfiducia nei riguardi di quest’ultimo.
Se nel medesimo volume vi sono due procure, del 25 marzo e 22 aprile 1622, di Grazia Luna alla madre
Angela che sono di minor conto
(Doc. 2 e Doc. 3), ma che danno l’informazione di essere realizzate da Grazia «
ad cratas ferreas Monasterii» e quindi quando questa era già fra le grate di ferro del monastero, la vicenda diventa ancor più singolare successivamente. Il 3 novembre 1622, infatti, in un consenso trovato dalla scrivente
(Doc. 4) redatto dallo stesso notaio che stilò l’inventario in questione,
Giovanni Bauldrager[11] affida
Grazia Luna, appena quattro mesi dopo il suo ingresso nel monastero, ad un certo
Giovanni Battista Ardiciono. La donna quindi veniva fatta uscire dal monastero con il beneplacito del marito.
Da questo nuovo documento si ricava un’altra informazione interessante, ossia che la casa di
Giovanni Bauldrager, dove Grazia Luna aveva lasciato i propri beni, fra i quali i dipinti di cui parleremo più avanti, si trovava in «
viam Juliam in vicolo respondente ad Palatium Capitis Ferrei». Il Palazzo in questione era
Palazzo Capodiferro, che nel 1632 divenne proprietà della
famiglia Spada e oggi è la sede della
Galleria Spada. Il vicolo in cui si trovava la casa di
Giovanni Bauldrager invece potrebbe essere
il vicolo dell’Arcaccio, che iniziava per l’appunto in
via Giulia e finiva di fronte alla facciata verso il
Tevere dell’
ex Palazzo Capodiferro, o il
vicolo del Polverone che fiancheggia
Palazzo Capodiferro da
via Giulia sino a
Piazza Capo di Ferro dove è la facciata principale del palazzo
(fig. 1).
L’edificio fu costruito a partire dal 1549 dal cardinale
Girolamo Capodiferro (1502-1559) negli ultimi tempi del pontificato di
Paolo III (1534-1549) e continuato sotto quello del suo successore
Giulio III (1550-1555).
Nel 1622 però, anno in cui
Giovanni Bauldrager e
Grazia Luna vivevano in questa casa,
Palazzo Capodiferro, a seguito della morte del cardinale nel 1559 e della madre
Bernardina nel 1569 (che rese erede universale il nipote
Pietro Paolo Mignanelli), era stato affidato ai cardinali
Vitellozzo Vitelli, Agostino Cusani, Francesco Davila, Ferdinando Gonzaga, e ad ambasciatori imperiali e del re di Francia. Si annoti, per i legami con la Francia, che nel palazzo aveva risieduto per un certo periodo anche il
Cardinale Ippolito II d’Este (Protettore del Regno di Francia) e che, secondo una notizia del XVII secolo, il Palazzo fu altresì sede dell’Ambasciatore francese a Roma, difatti sulla parete di fondo del cortile è ancora visibile lo stemma della Casa regnante di Francia.
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Ricordando quindi che
Bauldrager era uno spedizioniere francese si può immaginare frequentasse il palazzo e che forse alcuni dei beni già della moglie andarono a finire ad un certo punto fra queste mura sebbene, come è noto, la maggior parte delle opere della galleria provenga dalla collezione di
Bernardino Spada e da quella di suo nipote il cardinale
Fabrizio Spada (1643-1717). Questa resta tuttavia solo un’allettante ipotesi dal momento che, ad oggi, non si conoscono opere ascrivibili a Saraceni o alla sua cerchia in questo museo, ad eccezione di una copia da
Saraceni, effettivamente molto prossima a
Jean Le Clerc come la riteneva
Longhi nel 1950, raffigurante una
Flagellazione (fig. 2) che comunque non è citata nell’inventario dei beni di
Grazia Luna[12].
Ma tornando ora all’inventario in questione si possono formulare diverse ipotesi sull’operato di Saraceni e del suo
entourage. Oltre ai beni di uso quotidiano, abiti, alcuni manoscritti, ed oggetti di interesse quali un «cavaletto da Pittore» o «una carta da navigar» con «li compassi», difatti, sono qui annotati venti dipinti ed un disegno.
Sebbene a lato dei titoli dei dipinti non sia riportato il nome del loro autore, ad eccezione di un’
Arca di Noè «di mano del
Bassano»
[13], dal tipo di soggetti descritti si può ipotizzare che possano essere opere di
Saraceni e di suoi collaboratori, dal momento che i titoli rivelano che molti di questi sono fra i più replicati dal pittore e dalla sua cerchia
(fig.3)
Al piano terra, nella «prima camera», sono ricordati ad esempio una Maddalena su rame e un quadro di un
san Carlo. Com’è noto
Saraceni nel 1614 aveva realizzato a Roma una
Maddalena penitente già della famiglia di
Girolamo Gualdo jr. (oggi conservata presso la
Pinacoteca di Vicenza,
fig. 4) e intorno alla stessa data un’altra redazione per
Pietro e Giorgio Contarini (oggi alle
Gallerie dell’Accademia di Venezia). Se queste due opere però sono su tela, come una versione citata più avanti nel medesimo inventario di Grazia Luna, se ne conosce un’altra variante conservata a Roma presso la collezione di
Fabrizio Lemme e realizzata sul supporto del rame
[14]. Tuttavia, mancando le misure dell’opera nell’inventario e non conoscendo ad oggi altre raffigurazioni di
Maddalene su rame attribuibili a
Saraceni, non è dato sapere se l’opera citata nell’inventario fosse un’ulteriore versione autografa di questo soggetto o opera di uno degli allievi.
Si può pensare però che, visto il gran numero di dipinti citati nell’inventario e il tipo di descrizione degli spazi (contenuti ma non troppo) della casa di
Giovanni Bauldrager,
Grazia Luna avesse deciso di portare nella casa del nuovo marito solo i beni più preziosi.
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Se questa resta comunque solo un’ipotesi, va rilevato che, oltre alla Maddalena su rame, più avanti nello stesso inventario è altresì ricordato un
san Pietro «lacrimante» su tela, dal momento che di questo tipo di soggetto ad oggi se ne conosce solo una variante (su rame) ascrivibile a
Saraceni, conservata anch’essa presso la collezione di
Fabrizio Lemme di Roma
[15].
Ma nell’inventario si trovano anche opere di grande interesse sia per il soggetto come per il supporto. Nella camera dello studio, ad esempio, dove era conservata gran parte dei quadri citati, vi è una
Madonna di Loreto realizzata su vetro.
Come noto questo soggetto fu raffigurato da
Saraceni almeno in un’occasione e resta fra le primissime opere ascritte all’artista. Mi riferisco alla
Madonna di Loreto della chiesa di
San Bernardo alle Terme a Roma
[16] (fig. 5), opera che fino a poco tempo fa veniva presa ad esempio per provare, attraverso le morfologie dei due angeli ceroferari inginocchiati in primo piano, un probabile apprendistato di Saraceni presso la bottega di Palma il Giovane a Venezia e poi presso
Camillo Mariani a Roma, ma che sembra presentare alcune assonanze anche con una realizzazione dal soggetto analogo recentemente attribuita al
cavalier d’Arpino.
Infatti, se
Morena Costantini ha già messo in rapporto tre testimonianze pittoriche coeve ed iconograficamente prossime al dipinto di Roma
[17], è interessante sottolineare che in occasione della
Biennale Internazionale di Antiquariato di Firenze del 2015, la
Galleria Porcini di Napoli ha esposto una di queste tre varianti
, con attribuzione di
Herwart Röttgen e di
Maria Cristina Terzaghi a
Giuseppe Cesari detto il
cavalier d’Arpino (fig. 6) [18], che ancora una volta dimostrerebbe il legame fra questi due artisti. Sebbene sia indubbio che la composizione formale sia prossima in tutte le varianti citate, stante la scelta degli autori di riprendere la statua della
Madonna di Loreto proprio come appariva nel 1598 (anno in cui
Pietro Aldobrandini intraprese il viaggio a Ferrara con
Clemente VIII) e malgrado il diverso decoro della dalmatica tra le varie raffigurazioni menzionate in nota e la versione di Saraceni
[19], si ravvisa una stimolante prossimità tra le figure degli angeli realizzati da
Cesari e
Saraceni. Quindi, se già il disegno del d’Arpino con il
Perseo libera Andromeda (Venezia,
Gallerie dell’Accademia, Gabinetto disegni e stampe, n. 239), che ho segnalato per
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la mostra veneziana dedicata a Saraceni, è in evidente rapporto con l’
Andromeda incatenata liberata da Perseo (
Digione, Musée des Beaux Arts) realizzata da quest’ultimo, dimostrando che ai suoi esordi l’artista guardava alle composizioni del
d’Arpino, la
Madonna di Loreto della galleria napoletana sembrerebbe confermarlo. La citazione nell’inventario di
Grazia Luna del 1622 fa supporre che
Saraceni rimase legato a questo soggetto, poiché ne conservò una raffigurazione presso la propria dimora romana. Quest’opera poi doveva essere particolarmente preziosa dal momento che è segnata essere realizzata su vetro. Se si potesse confermare l’attribuzione a
Saraceni sarebbe dunque l’unica opera dell’artista, ad oggi nota, realizzata su questo supporto.
Nell’inventario ritroviamo poi segnati alcuni quadri con soggetti di cui ad oggi non si conosce alcuna redazione attribuibile a Saraceni o a suoi collaboratori, come
Jean Le Clerc. Tra questi soggetti infatti vi sono: «
una Madonna grande con un Christino che dorme et un S. Giovanni», un quadro «di un ecce homo», una
Conversione di san Matteo, «una testa di una madonna piangente in tela», «
un quadro di un Christo picolo con croce in tela» e ben due dipinti raffiguranti santa Caterina.
Ritroviamo però altri soggetti che invece furono spesso dipinti da
Saraceni come: «
una Madonina picola in Rame senza cornigi con Cristo in bracio»
[20], e due quadri raffiguranti
san Carlo, soggetto particolarmente fortunato dell’artista dal momento che, oltre al
San Carlo Borromeo che comunica un appestato nel lazzaretto della
chiesa dei Servi di Maria di Cesena e all’
Elevazione e estensione del sacro chiodo da parte di san Carlo Borromeo della chiesa romana di
San Lorenzo in Lucina, sappiamo che fu ripreso più volte da quest’artista grazie all’elenco delle opere perdute
[21].
É interessante notare poi che molti dipinti siano segnati essere «senza cornigi», portando quindi a supporre che provenissero effettivamente dalla bottega dell’artista, dove nelle botteghe solitamente erano così esposti per essere venduti.

Nella «sala di sopra» è poi segnalato nell’inventario un disegno definito «grande» raffigurante un
Cristo nel sepolcro. Come noto non si conoscono molti disegni attribuibili a
Saraceni: ad oggi, difatti, gliene sono stati attribuiti sedici, di cui solamente nove sono in rapporto con sue opere e non sono comunque ascrivibili con certezza a quest’artista non essendo firmati. L’esiguità di disegni nel catalogo saraceniano ha portato gli studiosi a supporre che l’artista preferisse realizzare i suoi studi preparatori direttamente sulla tela e, come ha già avanzato anche chi scrive, si servisse talvolta del supporto del rame per realizzare i modelli di opere che in seguito trasponeva ad affresco. Saraceni evidentemente, in linea con le sue origini veneziane, prediligeva i supporti dove poteva esprimersi al meglio attraverso un espediente espressivo particolarmente importante nelle sue opere: il colore.
La presenza di un disegno nell’inventario, sebbene non possa essere ritenuto con certezza come di mano dell’artista, sembra dimostrare ad ogni modo il suo interesse, e dei suoi collaboratori, per questo tipo di medium. Collaboratori sui quali si sottolinea che ad oggi le notizie certe sono scarse dal momento che gli unici artisti che sono segnati, in anni diversi, fra gli abitanti della casa di Saraceni in via Ripetta a Santa Maria del Popolo, in una fascia temporale che va dal 1612 al 1619, sono:
Pietro Paolo Condivi, Giovan Battista Parentucci, Antonio Giarola detto
il cavalier Coppa e
Jean Le Clerc[22]. Per uno studio più approfondito della cerchia di Saraceni si rinvia alle ricerche in fase di elaborazione da parte della scrivente che saranno pubblicate in un prossimo volume.
Fra gli ultimi beni in inventario è infine segnalata un «
Arme del Cardinal Bonzi». A tal proposito non è dato sapere ad oggi se Saraceni ebbe dei rapporti con il cardinale Giovanni Bonzi ma si ritiene interessante rilevare che il
Bonzi fu uno di quei personaggi che a Roma aiutò e ospitò, presso il proprio palazzo nobiliare, alcuni artisti. Nel 1621 infatti il pittore Alessandro Magni viveva nel palazzo del
cardinale Giovanni Bonzi, nell’Isola sotto a
Trinità dei Monti nella
parrocchia di Sant’Andrea delle Fratte[23].
Grazie al ritrovamento dell’inventario di
Grazia Luna si può quindi aggiungere un nuovo tassello per la conoscenza della poliedrica e «audace»
[24] figura di Saraceni ma forsanche per il suo stile di vita e per l’analisi della sua bottega.
Ringrazio sentitamente
monsignor Sandro Corradini (ineguagliabile esperto d’archivistica e paleografia) per il preziosissimo aiuto nella trascrizione e per i consigli fornitimi. Un ringraziamento va anche alla
Prof.ssa Sabina Carbonara e al qualificato e disponibile personale dell’
Archivio di Stato di Roma, in particolare a
Orietta Verdi, Michele Di Sivo e Maria Antonietta Quesada.
[1] C. MARIN,
Carlo Saraceni, tesi di dottorato, 2 voll., École Pratique des Hautes Études, Parigi/ Università Ca’ Foscari di Venezia 24° ciclo, 2013.
[2] M. HOCHMANN e C. MARIN,
Carlo Saraceni a Venezia in
Carlo Saraceni 1579-1620. Un veneziano tra Roma e l'Europa, catalogo della mostra a cura di M. G. Aurigemma, Roma, Palazzo Venezia, 29 novembre 2013- 2 marzo 2014, Roma 2013, pp. 31-44 e C. MARIN,
Breve profilo biografico per Carlo Saraceni in
Carlo Saraceni 1579-1620. Un veneziano tra Roma e l'Europa, catalogo della mostra a cura di R. Battaglia, Venezia, Gallerie dell'Accademia, 21 marzo - 29 giugno 2014, Roma 2014, pp. 33-42.
[3] HOCHMANN E MARIN, 2013, p. 34 e MARIN, 2014, p. 33.
[4] G. TASSINI,
Cittadini veneziani, Venezia 1888.
[5] G. C. SARACENI,
Fatti d’arme famosi, successi tra tutte le nationi del mondo, da che prima han co- minciato a guerreggiare sino ad hora: Cauati con ogni diligenza di tutti gli Historici, & con ogni ve- rità raccontati da M. Gio. Carlo Saraceni, in Venezia: nella stamperia di Damian Zenaro, 1600, p. 2; MARIN, 2014, p. 33.
[6] Archivio di Stato di Venezia (ASV), Sezione notarile, b. 374, c. 275, Atti Federici Nicolò; A. PORCELLA,
Carlo Saraceni in «Rivista della città di Venezia», Anno VII, n. 9, settembre (1928), pp. 392-395.
[7] Archivio Storico del Patraircato di Venezia (ASPV), Curia Patriarcale di Venezia, Sezione Antica, Parrocchia di Santi Gervasio e Protasio (vulgo di San Trovaso)
Registri dei morti, fasc. 2, 16 giugno 1620; PORCELLA, 1928, p. 395.?
[8] ASV, Sezione Notarile, Atti, notaio Nicolò Federici, b. 6013, cc. 323v- 324v; inventario già citato in M. G. AURIGEMMA,
Addenda e corrigenda Saraceni, in «Arte Documento», 8 (1994), pp. 185- 190 e riportato integralmente in M. G. AURIGEMMA,
Carlo Saraceni, un Veneziano a Roma, in
Caravaggio e il Caravaggismo, a cura di S. Danesi Squarzina, G. Capitello, C. Volpi, Dispense del corso di Storia dell’arte moderna I, Università degli Studi di Roma «La Sapienza », Roma 1995, pp. 124, 128-129, 134 nota 5.
[9] Archivio Storico del Vicariato di Roma (ASVR), Sant'Andrea delle Fratte,
Matrimoni, 1620, c. 118v; R. VODRET in
Alla ricerca di 'Ghiongrat'. Novità su alcuni artisti citati nei libri parrocchiali romani dal 1600 al 1630 in
Alla ricerca di 'Ghiongrat'. Studi sui libri parrocchiali romani (1600- 1630) a cura di R. Vodret, Roma 2011, pp. 41, 93 nota 232.
[10] A. LIROSI,
I monasteri femminili a Roma nell’età della Controriforma : insediamenti urbani e reti di potere (secc. XVI-XVII), tesi di dottorato, Roma 2009-2010, pp. 57-58.
[11] In questo documento il cognome di Bauldrager viene italianizzato in Boldroiett.
[12] olio su rame, cm. 37,5 x 29. Per la provenienza del dipinto la più antica citazione nota è nell’inventario della Galleria Spada del 1759. Non è quindi dato sapere dove fosse l’opera prima di questa data e se possa quindi effettivamente provenire dalla collezione della famiglia Capodiferro; F. ZERI,
La Galleria Spada in Roma, catalogo dei dipinti, Firenze 1954, p. 124, n. 216; MARIN, 2013, n. A63(c), pp. 432-433 (con bibliografia).
[13] La presenza di quest’opera nell’inventario non stupisce dal momento che, come si è sottolineato (Hochmann e Marin, 2013 e Marin 2014), Saraceni conobbe una vera fascinazione per le realizzazioni dei Bassano, riprendendo invenzioni come i famosi notturni a lume di candela o riutilizzando la composizione dell’
Adorazione della Santissima Trinità di Francesco Bassano (Roma, chiesa del Gesù), nel
Paradiso del Metropolitan Museum of Art di New York (olio su rame, cm 54 x 49,7, inv. 1971.93). Vista la mancanza delle misure e del supporto dell’
Arca di Noè di Bassano citata nell’inventario, non è possibile fare molte supposizioni per la sua individuazione, ma si rinvia alla versione di Jacopo Bassano conservata presso il Museo del Prado di Madrid per il tipo di composizione (olio su tela, cm 207 x 265, inv. n. Pooo22)
(fig. 3).
[14] olio su rame, cm 23 x 18. Il dipinto, che è ad oggi l’unica
Maddalena su rame che si conosce del Saraceni, è stato acquistato sul mercato antiquario romano nel 1980 ma non se ne conosce la provenienza prima di questa data; M. MARINI,
Gli esordi di Caravaggio e il concetto di «natura » nei primi decenni del Seicento a Roma. Equivoci del caravagismo in «Artbus et Historia», 4 (1981), p. 48; A. OTTANI CAVINA,
Saraceni: tre dipinti, qualche dato in
Scritti in onore di Giuliano Briganti, Milano 1990, p. 166; MARIN, 2013, pp. 323-324, n. 54 (con bibliografia); M. PUPILLO in
Carlo Saraceni 1579-1620. Un veneziano tra Roma e l'Europa, catalogo della mostra a cura di M. G. Aurigemma, Roma, Palazzo Venezia, 29 novembre 2013- 2 marzo 2014, Roma 2013, pp. 270-276.
[15] Olio su rame, cm 24,2 x 18,5. Di questo dipinto, reso noto da Maria Giulia Aurigemma nel 1992, quando si trovava già presso la collezione Lemme, non è nota la provenienza. M. PUPILLO, 2013, p. 310 (con bibliografia). Si ricorda però che un «S. Pietro Piangente [?] in rame Pittura di Carlo Saraceno» viene ricordato nell'inventario del 16 luglio 1652 dei beni posseduti da Onorio Longhi e sua moglie Margherita Campana a Roma e passati in eredità al figlio Martino (ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 12, Carolus Novus, vol. 7, Testamenti, cc. 40-78; Trenta Notai Capitolini, Uff. 14, Francesco Egidio, 1652; J. CURZIETTI,
Le opere di Michelangelo Merisi Caravaggio nel collezionismo tra XVII e XIX secolo. Gli inventari in S. MACIOCE
Michelangelo Merisi da Caravaggio Documenti, fonti e inventari 1513-1875, Roma 2010, p. 401); MARIN, 2013, pp. 509-510 (con bibliografia).
[16] olio su tela, cm 175 x 123; A. OTTANI CAVINA,
Carlo Saraceni, Vicenza 1968, p. 116, n. 64 (con bibliografia); MARIN, 2013, pp. 201-202, n. 3; M. COSTANTINI, in
Carlo Saraceni 1579-1620. Un veneziano tra Roma e l'Europa, catalogo della mostra a cura di M. G. Aurigemma, Roma, Palazzo Venezia, 29 novembre 2013- 2 marzo 2014, Roma 2013, pp. 174-176
[17] COSTANTINI, 2013, pp. 174-176. Le versioni sono conservate nella Pinacoteca Diocesana di Senigallia (olio su tela, cm 176 x 116, con attribuzione a «scuola emiliana ?» nel catalogo del museo;
Senigallia Museo Pio IX e Museo Diocesano, catalogo a cura di G. Flamini e A. Mariotti, Bologna 1991, n. 667, p. 175; il dipinto è attualmente attribuito in museo a Avanzino Nucci, si ringrazia Alessandro Berluti dell’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici per la gentile comunicazione), nella chiesa di San Cristoforo di Ficulle (la pala è sull’altare maggiore e, sebbene di minore qualità rispetto alle altre testimonianze pittoriche citate, è interessante che come la versione di Senigallia e quella della Gallerie Porcini sulla fastosa dalmatica della Vergine presenti una rappresentazione topografica dei territori dello Stato di Ferrara e a sinistra il cardinale Pietro Aldobrandini inginocchiato mentre sul bordo della vesta della Madonna campeggia lo stemma degli Aldobrandini) mentre la terza, che era stata presentata nel 2007 a The European Fine Art Fair di Maastricht con attribuzione di Francesca Baldassarri a Vincenzo Conti (F. Baldassarri in E. Schleier,
Un importante dipinto giovanile del Lanfranco e altre acquisizioni, a cura di G. Porzio, Milano 2007, pp. 35-36), è attualmente ascritta al cavalier D’Arpino, per questa nuova attribuzione si veda la nota 18.
[18] olio su tela, cm 175 x 118. Iscrizione inferiore sul bordo della dalmatica entro due cartigli: «PETRUS CARD. ALDOBRANDINUS S. ROMAE ECCLESIAE. RECUPERATAM// OB FERRARIAM GRATIAS AGIT». L’opera, infatti, è un ex voto offerto dal cardinale Pietro Aldobrandini alla Madonna di Loreto come ringraziamento per la riconquista della città di Ferrara ai territori pontifici (per uno studio più approfondito della vicenda del viaggio di Pietro Aldobrandini del 1598 e per l’analisi del dipinto del d’Arpino si rinvia a H. Röttgen, scheda tecnica, 4/9/2015 e C. Terzaghi, scheda tecnica del dipinto esposto dalla Galleria Porcini di Napoli in occasione della Biennale Internazionale d’Antiquariato di Firenze del 2015).
[19] La versione di Saraceni è l’unica fra quelle citate dove sulla dalmatica non è raffigurata la rappresentazione topografica dei territori dello Stato di Ferrara e il cardinale Pietro Aldobrandini inginocchiato.
[20] Per questo tipo di soggetto si ricorda la versione su tela della
Madonna con il Bambino della chiesa di San Lorenzo in Fonte a Roma, fra le realizzazioni giovanili di Saraceni (MARIN, 2013, pp. 221- 222, n. 13 con bibliografia), di cui esiste una copia di bottega presso il Museo Civico di Pistoia (inv. 551, MARIN, 2013, pp. 420-421, n. A47 con bibliografia) e la citazione di una «una Madonna con bambino Giesù imbraccio quale è fasciato di mano di Carlo Venetiano» su rame, in un inventario Aldobrandini (Archivio Doria Pamphilj (ADP), Roma, Fondo Aldobrandini, b. 30; L. TESTA,
Novità su Carlo Saraceni: la committenza Aldobrandini e la prima attività romana, in «Dialoghi di Storia dell’Arte», 7 (1998), pp. 132-135, nota 36, per esteso in Appedice, p. 136).
[21] MARIN, 2013, pp. 495-520.
[22] Si ricorda poi che Saraceni fu padrino delle figlie dei pittori Marzio Ganassini (11 dicembre 1612) e Antonio Andreini (7 aprile 1614); cfr.
Regesto e
Appendice Documentaria in MARIN, 2013, pp. 15-28, 173-193 e
Regesto di documenti e di fonti letterarie secentesche a cura di M.G. AURIGEMMA-F. PETRICCA-F. SPINA in
Carlo Saraceni 1579-1620. Un veneziano tra Roma e l'Europa, catalogo della mostra a cura di M. G. Aurigemma, Roma, Palazzo Venezia, 29 novembre 2013- 2 marzo 2014, Roma 2013, pp. 392-402.
[23] M. POMPONI,
Gli artisti presenti a Roma durante il primo trentennio del Seicento nei documenti dell’Archivio Storico del Vicariato, in
Alla ricerca di 'Ghiongrat'. Studi sui libri parrocchiali romani (1600- 1630) a cura di R. Vodret, Roma 2011, p. 131.
[24] Nel compianto dedicato all’artista nel 1620, anno della sua morte, padre Maurizio Moro infatti scrisse: «L'opre illustri, che fai, le chiamo oggetto,/ Che inganna i lumi, ed innamora il petto./ Sono vive l'imagini, che fai/ Scorgo, ch'ognuna spira,/ Ma poi s'avien, che tace,/ Muta il valor del tuo pennello ammira./ O illustre mano audace,/ Tu di Deucalion quella simigli,/ Che lanciò sassi, e partorì figli./ Così verghi le tele, opri colori,/ Col tuo pennello per produr stupori»; M. Moro, M. Moro,
Dogliose lagrime nella morte del celebre Pittore il Sig. Carlo Saraceni Venetiano, et lodi all’illustrissimo Sig. Giorgio Contarini da’ Scrigni, dedicate. Dal padre D. Mauritio Moro. In Venetia, appresso Iseppo Imberti, MDCXX, Madrigal VII-VIII (Biblioteca Marciana di Venezia, D. 034D 246.3). Vista la provenienza di questo esemplare del componimento del Moro dal legato di Alvise II Girolamo Contarini alla Biblioteca Marciana nel 1843, è presupponibile che sia la versione che lo stesso Moro consegnò a Giorgio Contarini.