Giovanni Cardone Aprile 2024
Fino al 21 Luglio 2024 si potrà ammirare a Palazzo dei Diamanti Ferrara la mostra dedicata a Escher a cura di Federico Giudiceandrea e Mark Veldhuysen. Con il Patrocinio della Regione Emilia-Romagna, la mostra Escher è organizzata da Arthemisia, Fondazione Ferrara Arte e Servizio Musei d'Arte del Comune di Ferrara, in collaborazione con la M.C. Escher Foundation e Maurits. Escher artista geniale e visionario da sempre amato dai matematici e ri-scoperto dal grande pubblico in tempi relativamente recenti. Nato nel 1898 a Leeuwarden in Olanda, Maurits Cornelis Escher ha conquistato l’apprezzamento di milioni di visitatori grazie alla sua straordinaria capacità di trasportarli all’interno di mondi immaginifici e apparentemente impossibili. Nelle creazioni del grande maestro olandese, che ha vissuto in Italia fra le due guerre, confluiscono innumerevoli temi e suggestioni: dai teoremi geometrici alle intuizioni matematiche, dalle riflessioni filosofiche ai paradossi della logica. Le sue inconfondibili opere, che hanno influenzato anche il mondo del design e della pubblicità, sono una sfida alla percezione e rappresentano un unicum nel panorama della storia dell’arte di tutti i tempi. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla controversa figura di Escher che è divenuta convegno interdisciplinare e modulo monografico universitario.  Aprendo il Saggio ho detto : La storia della logica può venire suddivisa, con un certo grado di semplificazione, in tre stadi: l) la logica greca, 2) la logica scolastica, 3) la logica matematica. Nel primo stadio, le formule logiche consistevano di parole del linguaggio comune, soggette alle normali regole sintattiche. Nel secondo stadio, la logica faceva astrazione dal linguaggio ordinario ed era caratterizzata da speciali regole sintattiche e da specifiche funzioni semantiche. Nel terzo stadio, la logica é contrassegnata dall’uso di un linguaggio artificiale in cui parole e simboli hanno funzioni semantiche rigidamente delimitate. Mentre nei primi due stadi i teoremi logici erano derivati dal linguaggio comune, la logica del terzo stadio procede in maniera contraria: ossia essa dapprima costruisce un sistema puramente formale, e soltanto successivamente ne cerca un’interpretazione nel linguaggio comune. Nello schema tradizionale aristotelico, la logica non rappresentava una vera e propria scienza, ma solo la forma che doveva avere qualsiasi tipo di discorso che pretendesse di dimostrare qualcosa. La logica, secondo Aristotele, doveva mostrare quale fosse la struttura del ragionamento corretto, ed è per questo motivo che il complesso dei suoi scritti vennero indicati con il termine organon, cioè “strumento”. Aristotele chiamava la logica con il termine “analitica” e Analitici sono intitolati gli scritti fondamentali dell’Organon.  L’analitica dal greco analysis, che vuol dire “risoluzione” spiega il metodo con cui noi, partendo da una data conclusione, espressa da una proposizione, la scomponiamo nei suoi termini costitutivi e la risolviamo negli elementi da cui deriva, cioè nelle premesse da cui scaturisce e quindi la fondiamo e giustifichiamo. Per secoli 1’Organon è stato considerato un indiscutibile punto di riferimento; in esso Aristotele ha definito il ragionamento perfetto nella forma del sillogismo, un processo sostanzialmente deduttivo in cui la conclusione cui si perviene è la conseguenza che scaturisce, di “necessità”, dall’antecedente. Tra le premesse Aristotele aveva individuato alcune proposizioni la cui verità era autoevidente e che egli aveva chiamato “assiomi”. Tra gli assiomi ve ne sono alcuni che sono comuni a tutte le scienze, come il principio di non contraddizione non si può affermare e negare dello stesso soggetto e nello stesso tempo due predicati contraddittori, e quello del terzo escluso non é possibile che ci sia un termine medio tra due contraddittori. L’indiscussa supremazia del concetto aristotelico di logica era stato avvalorato da due grandi teorie scientifiche: la geometria di Euclide e la Meccanica di Newton. Euclide con i suoi Elementi dette una forma sistematica al sapere scientifico dei Greci ed ebbe il merito di riunire proposizioni e dimostrazioni prese dalle fonti più disparate e di presentarle in un assetto deduttivo seguendo la lezione aristotelica. Nel primo libro degli Elementi Euclide fissa ventitré definizioni, cinque postulati e alcune nozioni comuni o assiomi; successivamente passa, in base a quanto stabilito, alla dimostrazione (deduzione) delle proposizioni (teoremi) della geometria. Le definizioni intendono esplicitare i concetti della geometria. I postulati rappresentano verità indubitabili tipiche del sapere geometrico. Infine gli assiomi sono, per Euclide, verità che valgono non solo in geometria ma universalmente. La geometria euclidea è stata per secoli un modello insuperabile di sapere deduttivo: i termini della teoria vengono introdotti dopo essere stati definiti, le proposizioni sono asserite solo se vengono dimostrate. Al vertice di questo schema deduttivo piramidale Euclide pose i suoi famosi cinque postulati, scegliendoli in modo tale che riguardo alla loro verità non vi fossero dubbi. In sostanza Euclide espresse l’ideale aristotelico di una organizzazione assiomatica di una disciplina, ideale riducibile grosso modo, nella scelta di un piccolo numero di proposizioni “evidenti” e alla successiva deduzione logica da queste di tutte le altre proposizioni vere della teoria. Allo stesso modo Isaac Newton ha sistemato e organizzato in maniera assiomatica e deduttiva la dinamica classica nei suoi Principia. Alla maniera di Euclide, tutta la teoria viene fatta discendere da pochi principi generali: le tre leggi del moto. In questo modo tutte le novità prodotte dalla rivoluzione scientifica del 1500-1600 contro la visione aristotelica del cosmo confluirono paradossalmente proprio nello schema logico e fondazionale aristotelico della sintesi newtoniana. Grazie al contributo decisivo del metodo delle flussioni, cioè del calcolo infinitesimale, la dinamica acquisì 1’assetto teorico di scienza esatta, così come era stata intesa da Aristotele quasi due millenni prima. Ma, come notato da molti e in particolare da Mach, il modello cosmologico sottostante la fisica matematica di Newton si fondava su assiomi e definizioni solo in parte verificabili. La supposta autoevidenza dei tre principi assiomatici sostenuta da Newton era una ingenua pretesa. Non erano verificabili, ad esempio, le asserzioni fondamentali concernenti il principio di inerzia e i suoi parametri: tempo assoluto e spazio assoluto. Lo stesso concetto di forza affondava le radici in concezioni metafisiche e animistiche della natura che andavano al di là della verifica sperimentale. Nonostante però la problematicità dei suoi fondamenti, il modello newtoniano ha dominato per tutto il Settecento e l’Ottocento. Il problema della evidenza dei principi-assiomi si presenterà ancora più drammatico con l’altra grande teoria deduttiva aristotelica, la geometria euclidea. Intorno alla metà dell’Ottocento, i logici inglesi George Boole e Augustus de Morgan andarono molto più avanti di Aristotele nel codificare le forme del ragionamento rigorosamente deduttivo. George Boole con il suo libro Analisi matematica della logica mostrava che era possibile un trattamento algebrico non solo delle grandezze matematiche ma anche di enti come proposizioni. In questo modo Boole riesce a tradurre in una teoria di equazioni la logica tradizionale dei termini, in particolar modo la sillogistica, e abbozza anche una teoria algebrica della logica delle proposizioni. Gottlob Frege a Jena e Giuseppe Peano a Torino lavoravano per abbinare il ragionamento formale allo studio degli insiemi e dei numeri. Negli anni ’80 Georg Cantor elaborò una teoria di vari tipi di infinito, nota come teoria degli insiemi. La teoria contrastava con l’intuizione. In breve tempo vennero alla luce tutta una serie di paradossi insiemistici. Il più famoso è il paradosso di Russell. Si tratta di un'antinomia più che di un paradosso: un paradosso è una conclusione logica e non contraddittoria che si scontra con il nostro modo abituale di vedere le cose, l'antinomia è invece una contraddizione. Questo “paradosso” può essere espresso, non formalmente, nei termini seguenti: “In un villaggio c'è un unico barbiere. Il barbiere rade tutti (e solo) gli uomini che non si radono da sé. Chi rade il barbiere?”. Si possono fare due ipotesi:  il barbiere rade sé stesso, ma ciò non è possibile in quanto, secondo la definizione, il barbiere rade solo coloro che non si radono da sé;  il barbiere non rade sé stesso, ma anche ciò è contrario alla definizione, dato che questa vuole che il barbiere rada tutti e solo quelli che non si radono da sé, quindi in questa ipotesi il barbiere deve radere anche sé stesso. In entrambi i casi si giunge ad una contraddizione.
Il paradosso fu scoperto da Bertrand Russell nel 1901 mentre si dedicava allo studio della teoria degli insiemi di Cantor su cui contemporaneamente Frege stava realizzando la riduzione della matematica alla logica. Russell si rese subito conto delle conseguenze che la sua scoperta avrebbe avuto per il programma logicista e non esitò a mettersi immediatamente in contatto col logico di Jena. Il caso volle che la lettera di Russell fosse recapitata a Frege nell'estate del 1902 poco prima della pubblicazione del secondo e ultimo volume dei Principi di aritmetica. Frege prese atto delle conseguenze distruttive per il sistema che aveva costruito in quegli anni e decise di scrivere un’appendice ai suoi Principi in cui confessava il fallimento della sua opera. Le contraddizioni messe in luce dal paradosso di Russell sono insolubili nell’ambito della teoria di Cantor e Frege, se non generando altri paradossi; per superare questo scoglio fu necessario elaborare la cosiddetta teoria assiomatica degli insiemi, formulata inizialmente da Ernst Zermelo e modificata da Abraham Fraenkel che, con le successive estensioni, fornisce tuttora la base teorica per la maggior parte delle costruzioni matematiche. La vecchia teoria degli insiemi peraltro tuttora largamente utilizzata a livello scolastico e divulgativo viene chiamata teoria intuitiva degli insiemi in contrapposizione alla teoria assiomatica degli insiemi. Al Congresso di Parigi del 1900, dove Hilbert presentò i suoi famosi problemi, Poincaré lesse una relazione nella quale metteva a confronto i ruoli rispettivi della logica e dell’intuizione nel campo della matematica. Boyer nella “Storia della matematica” sostiene che da allora si é soliti raggruppare i matematici in due o tre scuole di pensiero, a seconda delle loro concezioni circa i fondamenti della loro disciplina. Questo non rende la complessità del dibattito e delle posizioni sviluppatesi nel tempo su questi temi ma è utile come sguardo d’insieme. Quelli che adottarono concezioni affini alle idee di Poincaré formarono un gruppo dai contorni indefiniti, caratterizzato dalla predilezione per l’intuizione. Hilbert venne considerato il massimo esponente di una scuola di pensiero formalista. Alcuni dei suoi seguaci svilupparono tale posizione fino alle sue estreme conseguenze, giungendo alla conclusione che la matematica non é altro che un gioco privo di significato in cui si gioca con contrassegni privi di significato secondo certe regole formali concordate in partenza. Al gruppo formalista si ricollegavano, senza però identificarsi con esso, numerosi matematici che esitavano ad ammettere la natura interamente arbitraria delle regole del gioco. Seguendo l’esempio di Bertrand Russell, costoro, spesso descritti come appartenenti alla scuola logicista, vorrebbero identificare la matematica con la logica, in opposizione a C. S. Peirce, ma in accordo con Frege. Fu L. E. J. Brouwer dell’Università di Amsterdam colui che promosse un movimento di pensiero che accomunava gli oppositori del formalismo hilbertiano e i seguaci del logicismo di Russell. Egli rivendicava agli elementi e agli assiomi della matematica un carattere considerevolmente meno arbitrario di quello che sembrerebbe. Nella sua dissertazione di dottorato del 1907 e in articoli successivi, Brouwer sferrò un duro attacco contro la fondazione logica dell’aritmetica e dell’analisi, e diventò conosciuto come il fondatore di una scuola intuizionista che ancora oggi é chiaramente riconoscibile. Secondo Brouwer, il linguaggio e la logica non sono i presupposti della matematica, ma questa ha la sua fonte nell’intuizione che ci rende immediatamente evidenti i suoi concetti e le sue deduzioni; 1’affermazione che esiste un certo oggetto dotato di una certa proprietà significa che vi é un metodo riconosciuto che permette di trovare o di costruire l’oggetto mediante un numero finito di passi. In particolare, egli sosteneva che il metodo della dimostrazione indiretta, cui ricorreva spesso l’aritmetica dei numeri transfiniti, era privo di validità. Fin dai tempi di Aristotele erano state considerate come sacrosante e intoccabili le tre leggi fondamentali della logica 1) la legge di identità, A é A; 2) la legge di non contraddizione, A non può essere simultaneamente B e non B; 3) la legge del terzo escluso, A è B oppure non B, e non vi è altra alternativa. Brouwer negava l’ultima di queste leggi e rifiutava di accettare i risultati basati su di essa. Per esempio, chiedeva ai formalisti se fosse vero o falso che “la successione delle cifre 123456789 compare in qualche punto della rappresentazione decimale di π”. Poiché non esiste nessun metodo per decidere in merito, non è possibile affermare che tale proposizione è vera o falsa. L’aver distinto tre indirizzi principali nelle concezioni circa la natura della matematica non deve indurci a trarre la conclusione che ogni matematico appartenga all’uno o all’altro dei tre campi. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità, e persino all’interno di ciascun indirizzo di pensiero vi è una grande varietà di opinioni. Si potrebbe quasi affermare che non esistono oggi nemmeno due matematici che siano d’accordo circa la natura della loro disciplina. Certo, il termine stesso “matematica” ha significato per l’umanità cose diverse in diversi momenti storici, e sarebbe irrealistico aspettarci una vasta unanimità di opinione in un campo di studi che è diventato così vasto. Nella prima metà del XX secolo il conflitto fra vari indirizzi é stato a volte molto aspro; più recentemente, però, si é diffuso il convincimento, che ricorda un po’ quello espresso da d’Alembert duecento anni fa, che dovremmo piuttosto darci da fare per sviluppare la conoscenza matematica, sia in termini di studio dei fondamenti sia per quanto riguarda la sovrastruttura, senza preoccuparci eccessivamente di questo o di quel particolare credo filosofico. Maurits Cornelis Escher nacque il 17 giugno del 1898 a Leeuwarden, in Olanda. Dal 1912 al 1918 frequent`o il liceo e, forse anche a causa degli scarsi risultati ottenuti, fu proprio questo il periodo in cui nacque la sua passione per il disegno e a cui risalgono alcune incisioni su linoleum. Come molti artisti del tempo, compì un viaggio in Italia, cosa che gli diede modo di osservare e di rimanere profondamente affascinato dai massimi capolavori del passato che ebbe modo di ammirare. Qui ebbe l’ispirazione per numerosi schizzi paesaggistici. Pochissimo portato per gli studi, fu costretto a iscriversi alla facoltà di architettura per compiacere il padre, ma ben presto la passione per il disegno prese il sopravvento. Resistette solo pochi mesi prima di abbandonare l’università per iscriversi ai corsi di disegno di S. Jesserun de Mesquita, il quale ebbe un notevole influsso sul suo futuro sviluppo di artista grafico. Successivamente si recò anche in Spagna, dove rimase profondamente colpito dall’Alhambra, che trovò particolarmente interessante per la sua “ricchezza ornamentale” e per “la prodigiosa complessità, nonchè per la concezione matematica”, riferendosi in particolare alla decorazione dei mosaici moreschi. In queste sue affermazioni si avvertono alcune delle caratteristiche che faranno poi da base e da sfondo teorico a molte sue produzioni, in considerazione anche del fatto che fu proprio in Spagna che scoprì la tecnica dei “disegni periodici”, caratterizzati da una divisione regolare della superficie, una costante di certe sue illustrazioni che lo renderanno celebre ed inconfondibile, nonchè simbolo di un’arte contaminata dal pensiero scientifico. Da quel momento in poi Escher si concentrò sempre di più sulle immagini interiori tralasciando a poco a poco la rappresentazione della natura. In seguito, definì l’anno in cui si trasferì in Svizzera come quello in cui maturò la svolta della sua vita: “In Svizzera e in Belgio ho trovato molto meno interessanti sia i paesaggi che l’architettura rispetto a ci`o che avevo visto nel Sud Italia. Mi sono cos`? sentito spinto ad allontanarmi sempre di più dall’illustrazione pi`u o meno diretta e realistica della realtà circostante. Non vi `e dubbio che queste particolari circostanze sono state responsabili di aver portato alla luce le mie visioni interiori”. Le sue opere grafiche sono infatti celebri per l’uso fantasmagorico degli effetti ottici. Il campionario sviluppato da Escher contempla le sorprese pi`u spettacolari che vanno da illusionistici paesaggi, prospettive invertite, costruzioni geometriche minuziosamente disegnate e altro ancora, frutto della sua inesauribile vena fantastica, che incantano e sconcertano. Nelle opere di Escher, insomma, l’ambiguità visiva diventa ambiguità di significato, con la conseguenza che i concetti di positivo e negativo, corretto e scorretto sono intercambiabili. Traspaiono dall’opera e dalle invenzioni di questo artista i suoi molteplici interessi e le variegate fonti di ispirazione, che vanno dalla psicologia alla matematica, dalla poesia alla fantascienza. Nel 1954 stabilì un primo contatto con il mondo scientifico grazie alla sua esposizione al Museo Stedelijk di Amsterdam, che coincise con il Congresso internazionale dei matematici. Dopo tre anni venne pubblicato Divisione regolare delle superfici e, sempre nel 1958, Escher realizzò la sua prima litografia dedicata alle sue celeberrime costruzioni impossibili, Belvedere. Il 27 marzo del 1972 morì nella casa delle diaconesse di Hilversum.
Nel 1958 Escher realizzò la prima delle tante litografie dedicate alle costruzioni impossibili, la celebre Belvedere. Sebbene l’edificio che occupa la scena somigli molto alla proiezione di una struttura architettonica, osservando meglio la composizione si nota che essa mostra piuttosto qualcosa di soprannaturale: sembra infatti che la parte superiore di Belvedere giaccia ad angolo retto rispetto a quella inferiore. L’asse longitudinale del piano superiore giace nella direzione dello sguardo della donna che si sporge dalla balaustra, mentre l’asse del piano inferiore in quella del ricco mercante che guarda nella valle. Nella parte centrale, vediamo il bizzarro risultato di questa costruzione: al centro appare una robusta scala a pioli, apparentemente diritta, solo che, mentre la sua parte pi`u alta poggia contro la parte esterna del Belvedere, la sua parte inferiore si trova all’interno dell’edificio. Chi si trova a metà, sulla scala, non è in grado di dire se sia dentro o fuori dall’edificio. Visto dal basso, egli si troverebbe senza dubbio al suo interno ma, visto dall’alto, altrettanto chiaramente all’esterno. Se tagliassimo la composizione orizzontalmente, al centro, troveremmo che entrambe le sezioni sono del tutto normali. Solo la combinazione delle due dà vita a qualcosa di impossibile. Anche il giovane seduto sulla panca a sinistra sembra accorgersi che qualcosa non funziona, anche grazie al modellino semplificato che tiene in mano. Somiglia molto alla struttura di un cubo, ma la parte superiore `e collegata a quella inferiore in un modo impossibile. Forse è addirittura impossibile tenere in mano un cuboide del genere - semplicemente perchè una tale immagine non potrebbe nemmeno esistere nello spazio. L’unico modo per comprendere questa struttura impossibile diventa allora studiare con attenzione il disegno che si trova per terra davanti a lui. Escher infatti, nel suo primo libro, scriver`a a proposito di quest’opera: “In basso a sinistra giace un pezzo di carta su cui sono disegnati gli spigoli di un cubo. Due piccoli cerchi marcano le posizioni ove gli spigoli si intersecano. Quale spigolo è verso di noi e quale sullo sfondo? E’ un mondo tridimensionale allo stesso tempo vicino e lontano, è una cosa impossibile e quindi non può essere illustrato. Tuttavia è del tutto possibile disegnare un oggetto che ci mostra una diversa realtà quando lo guardiamo dal di sopra o dal di sotto.” Il cubo cui Escher si riferisce in questo estratto `e lo stesso che tiene in mano il ragazzo, noto con il nome di cubo di Necker . Nel febbraio dello stesso anno, Roger Penrose pubblicò sul British Journal of Psychology il suo “triangolo impossibile” . Penrose lo definì una costruzione tridimensionale, rettangolare, pur non essendo di certo la proiezione di una intatta struttura spaziale. Il suo triangolo (o tribarra) - come disegno - sta insieme solo per mezzo di collegamenti inesatti tra elementi del tutto regolari.  I tre angoli retti sono normalissimi, ma sono legati fra loro in modo errato, un modo che non potrebbe sussistere nello spazio, tanto da costruire una specie di triangolo la cui somma degli angoli `e di 270? . Escher vide il disegno di Penrose nel 1961, quando si stava dedicando completamente alla costruzione di mondi impossibili, e il“triangolo impossibile” fu l’occasione per lui di realizzare la litografia Cascata. Gli schizzi preparatori evidenziano che, all’inizio, egli aveva in mente di disegnare tre colossali complessi architettonici. Poi, ad un tratto, gli venne l’idea che una cascata potesse illustrare l’assurdità del “triangolo”. Nell’illustrazione un flusso d’acqua, cadendo dall’alto, mette in funzione un mulino il quale, a sua volta, spinge il flusso in un canale che, zigzagando, torna all’inizio della cascata. Questo è chiaramente impossibile nel mondo ordinario cui siamo abituati, poiché l’acqua ritorna in continuazione alla ruota del mulino in un movimento perpetuo che viola la legge di conservazione. L’ambiente circostante a questo corso d’acqua impossibile ha una duplice funzione: rafforzare il bizzarro effetto per mezzo del muschio molto ingrandito presente nel piccolo giardino e dei solidi poligonali posti in cima alle torri, e al tempo stesso diminuirlo per mezzo della casa attigua e del paesaggio terrazzato dello sfondo. L’affinità tra Belvedere e Cascata `e lampante: anche il cuboide che sta alla base di Belvedere deve la sua esistenza ai collegamenti volontariamente rovesciati istituiti tra i vertici del cubo . Un’altra litografia appartenente alle cosiddette stampe impossibili `e Salita e discesa, del 1960. Essa rappresenta un complesso di case i cui abitanti, che paiono monaci, camminano in un percorso circolare fatto di scalini. Apparentemente tutto sembra svolgersi normalmente ci si accorge che, pur essendo la scala circolare, i monaci compiono continuamente un percorso sempre in discesa o sempre in salita, lungo una scala impossibile: impossibile perchè, dopo un giro, pur essendo saliti (o scesi), i monaci si ritroveranno esattamente al punto di partenza, senza essersi innalzati (o abbassati) di un centimetro. Potrebbero venirci dubbi sulla raffigurazione degli scalini ma se seguiamo uno dei piccoli monaci passo passo, senza il minimo dubbio potremo affermare che egli sale sempre pi`u in alto di un gradino. In ciò consiste anche l’affinità con Cascata. Anche in questo caso, Escher ritrovò l’idea della quasi salita all’infinito o della discesa in un articolo di Penrose. Ma come `e possibile questo fenomeno? L’inganno si chiarisce se cerchiamo di tagliare “a fette” l’edificio: la sezione in alto a sinistra la vediamo ad un livello molto pi`u basso. I settori non giacciono allora su piani orizzontali, ma corrono in forma di spirali verso l’alto o verso il basso. La linea orizzontale `e, in realtà, un movimento in forma di spirale verso l’alto e solo la scala giace su un piano orizzontale. Così l’intero fascino dell’idea `e andato perso: saliamo due gradini e ne scendiamo altrettanti e non ci meravigliamo di tornare al punto di partenza. Hofstadter stesso annota che inizialmente era sua intenzione scrivere un saggio al centro del quale si trovasse il teorema di Gödel. Immaginava che sarebbe stato un semplice opuscolo. Ma le idee dell’autore si allargarono a sfera, toccando presto Bach ed Escher. Ecco quindi che Gödel, Escher e Bach erano ombre proiettate in diverse direzioni da una qualche solida essenza centrale. Nel tentativo di ricostruire questo oggetto “centrale” è venuto fuori GEB. E’ notevole come la struttura di GEB sia al tempo stesso un assunto teorico, un esempio dimostrativo, un capitolo ulteriore nella trattazione di tutte le idee presenti in esso. Questo libro è strutturato in modo insolito: come un contrappunto tra dialoghi e capitoli. Lo scopo di questa struttura è permettere di presentare i concetti nuovi due volte. Quasi ogni concetto nuovo viene prima presentato metaforicamente in un dialogo, con una serie di immagini concrete, visive; queste servono poi, durante la lettura del capitolo successivo, come sfondo intuitivo per una presentazione più “seria” e astratta dello stesso concetto. In modo seminale tratto due sole immagini, come motivi: il succedersi a contrappunto dei primi tre capitoli, circolarmente dialogati a tre, due, una voce rispettivamente; la voce nella bibliografia ragionata evidente rimando di autoriferimento, con tanto di paradosso in questo procedimento di auto gemmazione. Fondamentali in GEB sono le idee di Strano Anello e di Gerarchia Aggrovigliata. Il fenomeno dello “Strano Anello” consiste nel fatto di ritrovarsi inaspettatamente, salendo o scendendo lungo i gradini di qualche sistema gerarchico, al punto di partenza. Il termine “Gerarchia Aggrovigliata” indica un sistema nel quale è presente uno Strano Anello. Un primo esempio di Strano Anello si ha nel “Canone per toni” a tre voci di Bach. In questo caso il sistema gerarchico è quello delle tonalità musicali. Imponenti realizzazioni visive di Strano Anello si trovano nell’opera di Escher. Alcuni disegni di Escher hanno la loro ispirazione in paradossi, illusioni o doppi sensi. I matematici furono tra i primi ammiratori dei disegni di Escher, e si capisce perché: spesso essi sono basati su principi matematici di simmetria o di regolarità. Ma in un disegno tipicamente escheriano c’é molto di più di semplici simmetrie e regolarità; spesso c’é un’idea di fondo che viene realizzata in forma artistica. In particolare lo Strano Anello é uno dei temi più frequenti nell’opera di Escher. Veniamo all’interessante Mani che disegnano  dove si vedono due mani ognuna delle quali disegna l’altra: uno Strano Anello a due componenti. Ed infine, il più stretto di tutti gli Strani Anelli si trova realizzato in Galleria di stampe un quadro di un quadro che contiene se stesso. Oppure è il quadro di una galleria che contiene se stessa? O di una città che contiene se stessa? Per inciso, l’illusione sulla quale si fondano sia Salita e discesa sia Cascata non è stata inventata da Escher ma da Roger Penrose nel 1958. Il concetto di Strano Anello contiene quello di infinito: un anello, infatti, non è proprio un modo per rappresentare un processo senza fine in un modo finito? In effetti l’infinito interviene ampiamente in molti disegni di Escher. Negli esempi di Strani Anelli che abbiamo visti in Bach e in Escher c’è un conflitto tra finito e infinito, e quindi un forte senso di paradosso. Si percepisce che vi è un sottofondo matematico.
E infatti, nel nostro secolo, è stato scoperto un equivalente matematico di quei fenomeni. E come gli anelli di Bach e di Escher fanno appello ad intuizioni molto semplici e antiche come la scala musicale o la scala di un edificio, così la scoperta ad opera di Kurt Gödel di uno Strano Anello in un sistema matematico trae le sue origini da intuizioni semplici e antiche. La scoperta di Gödel, nella sua forma essenziale, comporta la traduzione in termini matematici di un antico paradosso. Si tratta del cosidetto paradosso di Epimenide o paradosso del mentitore. Epimenide era un cretese che pronunciò questo enunciato immortale: “Tutti i cretesi sono mentitori”. Una versione più incisiva di questo enunciato è semplicemente: “Io sto mentendo” o ancora: “Questo enunciato è falso”. Si tratta di un enunciato che viola brutalmente la consueta assunzione che vuole gli enunciati suddivisi in veri e falsi: se si prova a pensare che sia vero immediatamente esso si rovescia forzandoci a pensare che sia falso. Ma una volta che si sia deciso che è falso, si viene inevitabilmente riportati all’idea che sia vero. Il paradosso di Epimenide è uno Strano Anello con un’unica componente, come Galleria di stampe di Escher. Ma come avviene il collegamento con la matematica? E’ ciò che scoprì Gödel. Egli pensò di utilizzare il ragionamento matematico per esplorare il ragionamento matematico stesso. Questa idea di rendere la matematica “introspettiva” si rivelò estremamente potente, e forse la sua conseguenza più profonda è quella scoperta da Gödel: il Teorema di Incompletezza di Gödel. Il teorema di Gödel compare come la proposizione VI del suo scritto del 1931 Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei “Principia Mathematica” e di sistemi affini. Una enunciazione non formale può essere: Tutte le assiomatizzazioni coerenti dell’aritmetica contengono proposizioni indecidibili. In essa non è facile vedere uno Strano Anello. Ciò è dovuto al fatto che lo Strano Anello è nascosto nella dimostrazione. Il cardine della dimostrazione del Teorema di Incompletezza di Gödel è la scrittura di un enunciato matematico autoreferenziale, allo stesso modo in cui il paradosso di Epimenide è un enunciato autoreferenziale del linguaggio. Ma mentre é molto semplice parlare del linguaggio naturale nel linguaggio naturale, non è altrettanto facile vedere come un enunciato sui numeri possa parlare di se stesso. In effetti, ci voleva genialità anche solo per collegare l’idea di un enunciato autoreferenziale con l’aritmetica. Con 1’intuizione della possibilità di un enunciato del genere, Gödel aveva superato l’ostacolo maggiore: la sua effettiva creazione era il compimento di quella splendida intuizione. Gli enunciati matematici, e in particolare quelli dell’aritmetica, riguardano le proprietà dei numeri interi. I numeri interi non sono enunciati, né lo sono le loro proprietà. Un enunciato dell’aritmetica non parla di un enunciato dell’aritmetica è emplicemente un enunciato dell’aritmetica. Questo è il problema ma Gödel seppe riconoscere che la situazione offre maggiori possibilità di quanto non sembri a prima vista. Escher ebbe l’intuizione che un enunciato dell’aritmetica poteva parlare di un enunciato dell’aritmetica magari addirittura di se stesso, purché fosse possibile rappresentare in qualche modo gli enunciati mediante numeri. In altre parole, alla base della sua costruzione c’è l’idea di un codice. Nella codificazione di Gödel, detta anche “numerazione di Gödel” o gödelizzazione, si assegna un numero ad ogni simbolo o successione di simboli. In questo modo, ogni enunciato dell’aritmetica, in quanto è una successione di simboli specifici, riceve un numero di Gödel: qualcosa di simile a un numero telefonico o a una targa automobilistica, con cui si può fare riferimento ad esso. E questo espediente della codificazione consente di interpretare gli enunciati dell’aritmetica a due diversi livelli: come enunciati dell’aritmetica e come enunciati su enunciati dell’aritmetica. Dopo aver inventato questo schema di codificazione, Gödel dovette elaborare dettagliatamente un modo per trapiantare il paradosso di Epimenide nel formalismo aritmetico. La formulazione ultima del paradosso, dopo il trapianto, non fu: “Questo enunciato dell’aritmetica è falso”, bensì “Questo enunciato dell’aritmetica non ammette alcuna dimostrazione”. Ciò può creare una grande confusione, poiché di solito non si ha un’idea precisa della nozione di “dimostrazione”. In effetti, il lavoro di Gödel costituiva precisamente un contributo al lungo sforzo dei matematici per spiegare a se stessi che cosa sia una dimostrazione. E’ necessario tener presente che una dimostrazione è un’argomentazione che si svolge entro un determinato sistema di proposizioni. Nel caso dell’opera di Gödel, il determinato sistema di ragionamenti aritmetici al quale la parola “dimostrazione” si riferisce è quello dei Principia Mathematica, un’opera gigantesca di Bertrand Russell e Alfred North Whitehead pubblicata tra il 1910 e il 1913. Mentre l'enunciato di Epimenide crea un paradosso poiché non è né vero né falso, l’enunciato G di Gödel é indimostrabile all’interno dei Principia Mathematica ma vero. Che il sistema dei Principia Mathematica è “incompleto” vi sono enunciati veri dell’aritmetica che i metodi di dimostrazione del sistema sono troppo deboli per dimostrare. Ma se i Principia Mathematica sono stati la prima vittima di questo colpo, non furono certo 1’ultima! L’espressione “e sistemi affini” nel titolo del lavoro di Gödel è significativa; se infatti il risultato di Gödel avesse semplicemente individuato un difetto nell’opera di Russell e Whitehead, vi sarebbe stata la possibilità che altri trovassero il modo di migliorare i Principia Mathematica, eludendo così il Teorema di Gödel. Ma ciò non era possibile: la dimostrazione di Gödel riguardava qualsiasi sistema assiomatico che pretendesse di raggiungere gli obiettivi che Whitehead e Russell si erano posti. E per ogni altro sistema, un metodo basilarmente identico portava a risultati analoghi. In breve, Gödel metteva in evidenza che la dimostrabilità è una nozione più debole della verità, indipendentemente dal sistema assiomatico considerato. Perciò il Teorema di Gödel ebbe un effetto elettrizzante sui logici, sui matematici e sui filosofi interessati ai fondamenti della matematica, poiché mostrava che nessun determinato sistema, per quanto complicato esso fosse, poteva rappresentare la complessità dei numeri interi 0, 1, 2, 3, . I lettori di oggi saranno meno sconcertati da questo fatto dei lettori del 1931, poiché nel frattempo la nostra cultura ha assorbito il Teorema di Gödel, insieme con le rivoluzioni concettuali della relatività e della meccanica quantistica, e i loro messaggi sconcertanti a livello filosofico, hanno raggiunto il pubblico, anche se attenuati dai numerosi passaggi del processo di trasmissione che normalmente equivale a offuscamento. Oggi c’è nella gente uno stato d’animo di aspettativa che la rende preparata ad accogliere risultati “limitativi”, ma nel lontano 1931 questa notizia cadde come un fulmine a ciel sereno. Molti altri paradossi, oltre a quelli di Russell e del mentitore qui citati, sono stati studiati all’inizio del Novecento. Questi paradossi sembrano tutti indicare uno stesso colpevole, e cioè l’autoreferenza ovvero la “presenza di Strani Anelli”.  Se quindi lo scopo é quello di scongiurare tutti i paradossi, perché non tentare di mettere al bando l’autoreferenza e tutto ciò che ne favorisce la nascita? Non è facile come può sembrare, perché a volte la difficoltà sta proprio nell’individuare il punto esatto in cui si manifesta l’autoreferenza. Questa può presentarsi diffusa su un intero Strano Anello a varie componenti, come in questa versione “ampliata” di Epimenide che ricorda Mani che disegnano: L’enunciato che segue è falso. L’enunciato precedente è vero. Congiuntamente questi enunciati danno lo stesso risultato del paradosso di Epimenide; eppure separatamente sono enunciati innocui e perfino potenzialmente utili. Non è possibile addossare la “colpa” di questo Strano Anello all’uno o all’altro dei due enunciati, ma solo al modo in cui essi si “riferiscono” l’uno all’altro. Dal momento che ci sono modi sia diretti sia indiretti che conducono all’autoreferenza, occorre trovare il sistema per evitarli entrambi contemporaneamente, sempre che l’autoreferenza sia considerata la fonte di ogni male. Russell e Whitehead erano effettivamente di questo avviso, e quindi i Principia Mathematica costituivano un’impresa gigantesca per estromettere gli Strani Anelli dalla logica, dalla teoria degli insiemi e dall’aritmetica. L’idea del loro sistema era essenzialmente questa: un insieme del “tipo” più basso poteva avere come elementi solo “oggetti”, non insiemi. Un insieme del tipo successivo poteva contenere solo oggetti o insiemi del tipo più basso. In generale, un insieme di un dato tipo poteva contenere solo insiemi di un tipo inferiore oppure oggetti. Ogni insieme doveva appartenere ad un determinato tipo. Chiaramente nessun insieme poteva contenere se stesso, poiché avrebbe dovuto appartenere ad un tipo superiore al proprio. Perciò questa teoria dei tipi ha tutta l’aria di riuscire a sbarazzare dalla teoria degli insiemi i suoi paradossi, ma solo a costo di introdurre una gerarchia alquanto artificiale e di proibire la formazione di insiemi con certe caratteristiche. Non è questo il modo in cui concepiamo gli insiemi da un punto di vista intuitivo. La teoria dei tipi aveva risolto il paradosso di Russell, ma non aveva nessun effetto sul paradosso di Epimenide. Per chi non spingeva il proprio interesse oltre la teoria degli insiemi ciò bastava, ma quanti erano interessati ad eliminare i paradossi in generale avrebbero dovuto procedere ad una qualche analoga “gerarchizzazione” per impedire il sorgere di circoli chiusi all’interno del linguaggio. Alla base di una gerarchia del genere vi sarebbe un linguaggio-oggetto. In esso sarebbe possibile riferirsi soltanto ad un dominio specifico e non ad aspetti del linguaggio-oggetto medesimo, come regole grammaticali o enunciati particolari del linguaggio; per parlare di questi, vi sarebbe un metalinguaggio. Problematiche di questo genere sui fondamenti della matematica hanno determinato all’inizio di questo secolo un grande interesse per la codificazione dei metodi del ragionamento umano. Matematici e filosofi hanno cominciato a nutrire seri dubbi perfino nei confronti della più concreta di tutte le teorie, quella che studia i numeri interi l’aritmetica. E’ basata su fondamenti solidi? Se i paradossi saltano fuori con tanta facilità nella teoria degli insiemi, in una teoria, cioè, che si fonda su un concetto così intuitivo come quello di insieme, non ne potrebbero allora esistere anche in altri rami della matematica? Un altro inquietante interrogativo, collegato al precedente, era se i paradossi della logica, come il paradosso di Epimenide, potessero rivelarsi come qualcosa di interno alla matematica, mettendo così in dubbio l’intera matematica. Questo era particolarmente preoccupante per coloro, ed erano molti, che credevano fermamente che la matematica fosse solo un ramo della logica o viceversa, che la logica fosse solo un ramo della matematica. In effetti, proprio la domanda “La matematica e la logica sono cose distinte, separate?” fu fonte di molte controversie, come già accennato. Questo studio della matematica stessa venne definito metamatematica, o a volte metalogica, dal momento che matematica e logica sono cosi intrecciate. Con priorità assoluta i metamatematici si accinsero a determinare la vera natura del ragionamento matematico. Quali sono i metodi di procedere legittimi, quali quelli illegittimi? Poiché il ragionamento matematico si era sempre svolto in un “linguaggio naturale” ad esempio in francese o in latino o in qualche linguaggio per la normale comunicazione, era sempre rimasto pieno di possibili ambiguità. Le parole avevano significati diversi per persone diverse, evocavano immagini diverse, e via dicendo. Sembrava ragionevole e addirittura importante fissare un’unica notazione uniforme nella quale si potesse svolgere tutto il lavoro matematico, e che permettesse a due matematici qualsiasi di risolvere una controversia circa la validità o meno di una data dimostrazione. Ciò avrebbe richiesto una codificazione completa dei modi di ragionamento universalmente accettabili, o perlomeno di quelli usati in matematica. Tale era l’obiettivo dei Principia Mathematica, in cui si pretendeva di derivare l’intera matematica dalla logica; e ciò, beninteso, senza contraddizioni. L’impresa fu oggetto di grande ammirazione, ma nessuno aveva la certezza che tutta la matematica fosse realmente contenuta nei metodi indicati da Russell e da Whitehead e che, almeno, i metodi esposti fossero coerenti fra di loro. Era veramente sicuro che mai nessun matematico avrebbe potuto ottenere risultati contraddittori seguendo i metodi di Russell e di Whitehead? Questo problema turbava in modo particolare l’insigne matematico e metamatematico Hilbert, il quale lanciò alla comunità mondiale dei matematici e dei metamatematici la seguente sfida: dimostrare rigorosamente, magari seguendo proprio i metodi indicati da Russell e da Whitehead, che il sistema definito nei Principia Mathematica era sia coerente non contraddittorio sia completo tale cioè che ogni enunciato vero dell’aritmetica potesse essere derivato all’interno della struttura predisposta nei Principia Mathematica. Hilbert esprimeva la speranza che fosse possibile trovare una dimostrazione della coerenza o della completezza che dipendesse soltanto da metodi “finitistici” di ragionamento, ossia da un numero ristretto di metodi comunemente accettati da tutti i matematici. Nel trentunesimo anno del secolo, comunque, Gödel pubblicò il suo articolo che, per certi versi, demolì completamente il programma di Hilbert. Quell’articolo non solo rivelò la presenza di “buchi” irreparabili nel sistema assiomatico proposto da Russell e da Whitehead, ma, più in generale, mise in evidenza l’impossibilità che esistesse un qualche sistema assiomatico in grado di produrre tutte le verità aritmetiche, a meno che il sistema in questione non fosse incoerente. Nessuna teoria che contenga la teoria dei numeri interi quindi nessuna teoria che pretenda di fondare la matematica che sia consistente può essere anche completa, nel senso di poter dimostrare tutte le verità matematiche esprimibili nel suo linguaggio, e una delle verità è precisamente la sua consistenza. L'impossibilità di provare la consistenza di una teoria dal suo interno non esclude comunque la possibilità di dimostrazioni “esterne” (metateoria), ma pur sempre convincenti, e dunque non costituisce l'ultima parola sul secondo problema di Hilbert. Per esempio una dimostrazione di consistenza significativa (anche se ovviamente non elementare) è stata data nel 1936 da Gentzen: questa costituisce il punto di partenza della teoria della dimostrazione. Negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso la teoria della computabilità si sviluppò a passi da gigante. Questa teoria aveva stretti legami con la metamatematica. Infatti il Teorema di Gödel ha un equivalente nella teoria della calcolabilità scoperta da Alan Turing, il quale rivela l’esistenza di “buchi” inevitabili perfino nel calcolatore più potente che si possa immaginare. Il programma di Hilbert è fallito. Hilbert stesso scrive in una lettera come “questo studente sconosciuto Turing, spuntato chissà da dove, sancisce il fallimento del programma con una macchina immaginaria più ancora dei Teoremi di Incompletezza”.  Paradossalmente, proprio mentre venivano messi in evidenza questi limiti in un certo senso misteriosi, si cominciarono a costruire calcolatori reali le cui capacità sembravano crescere a dismisura, al di là della stessa capacità profetica dei loro creatori. Babbage, il quale una volta aveva dichiarato che avrebbe allegramente rinunciato al resto della sua vita se solo avesse potuto tornare sulla Terra cinquecento anni dopo per fare una visita guidata di tre giorni alle conquiste scientifiche dell’era nuova, sarebbe probabilmente rimasto stupefatto e senza parole un secolo appena dopo la sua morte sia di fronte alle nuove macchine sia di fronte ai loro limiti inaspettati. A Escher, artista sui generis che amava dire “lo stupore è il sale della terra”, si deve il merito di aver amplificato le possibilità immaginative della grafica e aver donato lo stupore, appunto, a tutti coloro che hanno osservato e osservano la sua opera dove tutto è connesso: scienza, natura, rigore analitico e capacità contemplativa. Partendo dalle opere di impronta Art-Nouveau risalenti al periodo della formazione presso la scuola di Jessurun de Mesquita, la mostra pone l’accento sul periodo del viaggio italiano di Escher. Ispirato e influenzato dall'arte a lui contemporanea e del passato, l’artista declina costruzione geometrica e rigore nel segno visionario della ricerca estetica più pura. Artista poliedrico e contemporaneo al suo tempo, fu però capace di anticipare intere correnti artistiche come quelle del Surrealismo e dell’Optical Art di cui può essere considerato un esponente ante litteram. Infatti, egli non trova solo nel mondo dei numeri, della geometria e della matematica l’unica chiave per dar forma al suo universo creativo. Genio complesso che attinge a piene mani ai vari linguaggi fondendoli in un nuovo intrigante percorso, può, in questo senso, considerarsi un unicum nel panorama della storia dell’arte di tutti i tempi che emoziona sempre il grande pubblico. L’arte di Escher, che le nuove tecnologie digitali sembrano rincorrere facendone propri i risultati, infatti, non accusa i segni del tempo, sebbene siano trascorsi quarantasette anni dalla scomparsa del suo ideatore. La particolarità del percorso di mostra è la presenza, all’interno delle sezioni, di giochi ed esperienze che permettono di entrare nel meraviglioso mondo di Escher da protagonisti, ossia misurandosi attivamente con i paradossi prospettici, geometrici e compositivi che il grande artista pone in essere nelle sue opere.
 
 
 
La mostra è suddivisa in sei sezioni :
Prima sezione – Gli inizi
I primi lavori di M.C. Escher prendono ispirazione dall’Art Nouveau, un celebre movimento artistico sviluppatosi in Europa alla fine del XIX secolo caratterizzato da ornamenti e forme decorative ispirate a soggetti naturali. Questa influenza è dovuta principalmente a Samuel Jessurun de Mesquita, importante esponente dell’Art Nouveau Olandese e insegnante presso la scuola di grafica ed arti decorativa di Harlem in Olanda frequentata da Escher. L’artista ha sempre nutrito un profondo interesse per la natura e ha, anche in seguito, eseguito numerose stampe con raffigurazioni realistiche di fiori e insetti. Durante la sua permanenza in Italia dal 1922 al 1935 egli intraprese molteplici viaggi nel Belpaese, in particolare nel meridione, disegnando monumenti, paesaggi, flora e fauna, che al suo ritorno a Roma, dove si era stabilito, trasformava in opere grafiche: xilografie e litografie. In queste opere per lo più caratterizzate da prospettive insolite, una meticolosa osservazione della natura si fondeva con vedute che spaziavano verso orizzonti lontani.
Seconda sezione – Italia
L’artista olandese aveva visitato l’Italia una prima volta a seguito dei suoi genitori nel 1921. Nel 1922, finiti gli studi, ritornò per stabilirsi poi definitivamente a Roma nel 1923. Questo soggiorno aiutò Escher ad ampliare i suoi orizzonti artistici, portandolo a collaborare con altri artisti che vivevano a Roma come Joseph Haas Triverio, artista grafico di origine svizzere, che oltre ad introdurlo nel giro delle gallerie d’arte fu anche suo fedele compagno nei viaggi che ogni primavera intraprendevano per immortalare paesaggi e villaggi del Belpaese. Escher prendeva la sua ispirazione dalla natura. In una lettera spedita da Ravello scrisse: “...Voglio trovare la felicità nelle cose più piccole, come una pianta di muschio di due centimetri che cresce su una roccia e voglio provare a lavorare a quello che desidero fare da tanto tempo: copiare questi soggetti minuscoli nel modo più minuzioso possibile...” In Italia lo studio dei paesaggi e della natura rigogliosa porta Escher a concentrarsi sulle strutture geometriche alla base di panorami ed elementi della natura. Nel 1935 l’artista si trasferisce in Svizzera per allontanarsi dal fanatismo del regime fascista, da lui considerato inutile e pericoloso.
Escher a Ferrara
Escher annota in un diario gli spostamenti tra le località italiane, riportando l’indicazione dei giorni e orari di partenza dei mezzi che utilizza per muoversi, e in alcuni casi descrive ciò che lo colpisce. Inizia questa pratica fin dal primo viaggio e continua a farlo anche in occasione dei successivi verso l’Italia meridionale. In uno dei primi diari è segnalata una breve sosta a Ferrara nel tragitto da Ravenna a Venezia. È il 5 giugno 1922: “La mattina sono partito da Ravenna alle 8.00 per Ferrara, dove ho dovuto aspettare diverse ore per il treno per Venezia. Ho preso un tram per la città e ho visitato la Cattedrale di San Giorgio che ha un'eccezionale bella facciata antica, decorata con ricchi bassorilievi del XII-XIV secolo, con alcuni animali alati, metà uccelli e metà leoni “probabilmente”, su entrambi i lati dell'ingresso. Ho mangiato bene spendendo poco in un piccolo ristorante e sono ripartito alle 12.30 per Venezia, dove sono arrivato alle 15.00.” Escher è solo all’inizio della sua avventura italiana: nei 13 anni successivi avrebbe infatti attraversato in lungo e in largo il paese che più di ogni altro gli avrebbe regalato momenti felici e ricchi di ispirazione.
 
 
 
Terza sezione – Tassellature
Nel 1936 Escher soggiorna a Granada, in Spagna, dove visita nuovamente l’Alhambra, un complesso fortificato, costruito fra il secolo XIII e il XIV sul colle che domina la città dagli emiri nasridi. Questa visita si rivela determinante: le elaborate decorazioni in stile moresco degli edifici lo affascinano e lo spingono a interessarsi alle tassellature, vale a dire i modi di suddividere il piano con una o più figure geometriche ripetute all’infinito senza sovrapposizioni e senza spazi vuoti. Uno dei temi centrali nella produzione di Escher è la divisione regolare del piano. Questo filone di ricerca si manifesta già a partire dal 1922 quando visita per la prima volta l’Alhambra, un complesso fortificato costruito fra il secolo XIII e il XIV sul colle che domina la città dagli emiri nasridi. Ma è nel corso del secondo soggiorno a Granada, nel 1936, che il fascino per le decorazioni moresche si rivelano determinanti: le elaborate fantasie ornamentali degli edifici lo affascinano e lo spingono a interessarsi alle tassellature, vale a dire i modi di suddividere il piano con una o più figure geometriche ripetute all’infinito senza sovrapposizioni e senza spazi vuoti. Come scrive l’artista stesso “I Mori erano maestri proprio nel riempire completamente le superfici con un motivo sempre uguale. In Spagna, all’Alhambra, hanno decorato pavimenti e pareti mettendo uno vicino all’altro pezzi colorati di maiolica della stessa forma senza lasciare spazi intermedi”. I cosiddetti “tasselli” sono spesso poligoni o figure curvilinee. Con i 17 diversi tipi di tassellazioni del piano che possono essere ottenute mediante altrettanti gruppi di trasformazioni geometriche, Escher costituì un catalogo di 137 acquerelli, numerati e archiviati, da usare come repertorio. L’uso delle tassellature diventerà un tratto distintivo della sua arte, in cui fantasia, geometria e soggetti figurativi vengono sapientemente combinati. Escher si dedica, a parte qualche caso sporadico, alla rappresentazione di composizioni astratte, di ispirazione geometricomatematica, paradossali o illusorie.
Quarta sezione – Metamorfosi
Le tassellature sono alla base dei cicli e delle metamorfosi, che Escher affronta a partire dal 1937. Per l’artista, una metamorfosi, ovvero una trasformazione, in particolare di un essere o di un oggetto in un altro di diversa natura, è generata dalla modificazione e successiva concatenazione di diverse tassellature. Escher crea così un mondo in cui diverse figure danno vita a vortici di trasformazioni di forme astratte in forme animate e viceversa, traslando l’una all’altra senza soluzione di continuità, in una metamorfosi continua. La xilografia Metamorfosi II (1939-1940), uno dei suoi capolavori, è un universo circolare in cui una lucertola può progressivamente diventare la cella di un alveare o un pesce tramutarsi in uccello che a sua volta si trasforma in un cubo e poi in un tetto ecc. A volte nelle metamorfosi interagiscono elementi antitetici ma complementari, come il giorno e la notte o il bene e il male. Lo studio delle tassellature e la realizzazione di cicli e metamorfosi (che per altro possono coesistere nella stessa stampa, come in Ciclo, Giorno e Notte, Rettili o ancora Incontro) portano Escher a indagare la rappresentazione dell’illimitato attraverso la suddivisione infinita del piano. Ci riuscirà formalmente grazie agli spunti forniti dallo studioso di geometria H.S.M. Coxeter, nelle opere Limite del cerchio I-II-III-IV.
Quinta sezione – Struttura dello spazio
Sin dalle sue prime opere Escher dimostra un’attenzione particolare per l’organizzazione della composizione. A partire dalla metà degli anni Trenta, Escher abbandona infatti progressivamente rappresentazione euclidea dello spazio. Il suo crescente interesse per la matematica e la geometria passa attraverso lo studio e il fascino che esercitano su di lui sfere, solidi geometrici superfici riflettenti o topologiche come il nastro di Möbius, un oggetto percepito a due facce che, ad una più attenta analisi, ne dimostra una sola. Lo stesso Escher descrive questo principio in relazione alla sua litografia Mano con sfera riflettente del 1935, una delle opere più celebri, in questo modo: la sfera, riflettendolo, racchiude in sé tutto lo spazio circostante, al cui centro si staglia proprio colui che la guarda; l’uomo è quindi il fulcro di questo universo. Lui stesso qui, a suo modo, ironizza sul ruolo e sui compiti dell’artista. Da tale percezione delle forme scaturirà il suo gusto per i paradossi, le distorsioni prospettiche e le illusioni ottiche.
Sesta sezione – Paradossi geometrici
Le conoscenze matematiche di Escher erano principalmente visive e intuitive. Le sue architetture e composizioni geometriche presentano distorsioni prospettiche che, a prima vista, paiono perfettamente plausibili ma che, ad una più attenta indagine, si rivelano impossibili. Una svolta importante avviene nel 1954, anno in cui vengono esposte alcune stampe di Escher al Congresso Internazionale dei Matematici ad Amsterdam. Da questo momento il suo lavoro viene sempre più apprezzato dalla comunità scientifica e l’artista inizia un dialogo serrato con matematici e cristallografi che si rivela una vasta fonte di ispirazione per la sua ricerca sulle strutture impossibili, le illusioni ottiche e la rappresentazione dell’infinito. Questa sezione analizza come Escher abbia cercato di forzare oltre ogni limite la rappresentazione di situazioni impossibili, ma all’apparenza coerenti, come dimostrano alcune delle sue opere più famose: Salire e Scendere, Belvedere, Cascata, Galleria di stampe, o ancora Relatività. Questi capolavori riflettono un aspetto essenziale dell’arte del grafico olandese: il suo complesso rapporto con la matematica, la geometria e il tema della riproduzione grafica dell’infinito.
Palazzo dei Diamanti Ferrara
Escher
dal 23 Marzo 2024 al 21 Luglio 2024
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