Giovanni Cardone Gennaio 2025
 
Fino al 30 Marzo 2025 si potrà ammirare al Palazzo Ducale di Genova la mostra dedicata a Lisetta Carmi - Molto vicino, incredibilmente lontano a cura di Giovanni Battista Martini e Ilaria Bonacossa.  L’ esposizione è promossa e organizzata da Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura Genova e Civita Mostre e Musei. Per celebrare Cento anni dalla nascita di Lisetta Carmi di una grande artista e fotografa genovese, che nel corso della sua vita ha avuto il coraggio di percorrere vie diverse dando sempre voce agli ultimi. Un viaggio che parte da Genova e dall’Italia per raccontare con il suo sguardo acuto e lucido realtà lontane e mondi in trasformazione, con inedite immagini a colori che affiancano le serie più famose in bianco e nero.  A Genova, nei primi anni Sessanta, la fotografia diventa per Carmi professione quotidiana, come fotografa di scena al Teatro Stabile, e per fornire le immagini ai quotidiani, dopo gli spettacoli, sviluppava e stampava per imbucare gli scatti all’alba. Da Genova parte per i suoi lunghi viaggi, nei vent’anni che ha dedicato alla pratica fotografica, con reportages in Venezuela, India, Afghanistan, il suo obiettivo strumento per capire il mondo e la condizione umana, attraverso scatti in bianco e nero o utilizzando la potenza del colore per far emergere la verità, suprema linea guida di tutta la sua pratica fotografica.
E Genova emerge nelle sue sfaccettature inaspettate, col racconto del mondo del lavoro nelle famose immagini di Genova - porto e dell’Italsiderma anche quelle, in parte inedite, dell’Anagrafe e degli aspetti della vita culturale e sociale della città. In mostra non potrebbero mancare le immagini in bianco e nero della serie I travestiti degli anni Sessanta, pubblicate nel 1972 in un libro che fece scandalo allora, ma che oggi è una pietra miliare nella storia della fotografia. Immagini ormai iconiche che saranno messe a confronto con le loro declinazioni a colori riscoperte solo nel 2017, così come la versione inedita, sempre a colori, di Erotismo e autoritarismoa Staglienoin cui il famoso cimitero genovese diventa, attraverso l’obiettivo della fotografa, ritratto della società borghese ottocentesca, con le sue contraddizioni, tra ritrattistica celebrativa e sensualità inaspettatamente in dialogo nei monumenti funebri. Genova sua città natale, dopo le recenti grandi mostre di Torino, Firenze e Londra sceglie di omaggiare attraverso una nuova lettura, questa figura dirompente di fotografa e artista, centrale nella storia della fotografia del dopoguerra. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Liesetta Carmi apro il mio saggio dicendo: Posso affermare che  fin dalla sua nascita, nella seconda metà dell’Ottocento, la fotografia si è prestata a molteplici utilizzi. Inizialmente ci fu molta diffidenza poiché si credeva che questa nuova arte potesse sostituire la pittura, in realtà così non fu e anzi per molti pittori fu di supporto per evitare ai modelli numerose ore di posa. Con l’avanzare del progresso e quindi con nuovi tipi di macchine fotografiche, più leggere e compatte la fotografia diventò anche un mezzo per documentare eventi di importanza storica. Una delle prime indagini, datata intorno agli anni ’30 del Novecento, eseguite grazie alla fotografia fu il reportage richiesto dalla FSA a un gruppo di fotografi selezionati come Dorothea Lange , Margaret Bourke-White e Walker Evans ; la ricerca si  proponeva di documentare le condizioni degli agricoltori nel Sud degli USA. Gli scatti non solo forniscono delle informazioni ma hanno, grazie al loro linguaggio, la capacità di scatenare nello spettatore empatia e tristezza per le condizioni di vita delle persone povere. Tra le fotografie passate alla storia vi è quella realizzata da Dorothea Lange dal titolo Migrant Mother (1936), la fotografa parlando dello scatto ha affermato che l’immagine non era frutto di una scelta intenzionale ma che è stata attratta da questa donna, dal suo dolore e dalla sua disperazione, nonostante avesse finito di raccogliere il materiale richiestole per quella giornata. Il modo di fotografare della Lange si inscrive nella tradizione della fotografia documentaria degli anni ’30, la madre è usata come soggetto, raffigura un simbolo grazie alla posa, la donna è infatti da sola con i suoi figli; quello che qui risalta rispetto agli altri scatti realizzati per la campagna è il maggior coinvolgimento emotivo e l’assenza di informazioni quali la storia ed il nome del soggetto. Successivamente, con lo scoppio della Seconda Guerra mondiale, gli scatti diventano testimonianza e arma: sarà proprio grazie alle fotografie e ai video girati dai soldati americani che il mondo verrà a conoscenza dell’orrore dei campi di concentramento nazisti. Tra i fotografi professionisti che immortalarono i campi di concentramento abbiamo George Rodger, Margaret Bourke-White e Lee Miller Penrose : sebbene i tre  fotografi hanno immortalato l’orrore universale provocato dal Nazismo, i loro approcci sono differenti. In particolare modo Lee Miller crea shock nel mostrare i corpi ammassati e la violenza perpetrata nei loro confronti, Rodger ha un approccio meno sensazionalistico, quasi a voler rispettare il dolore provato dalle vittime. Tra gli scatti di Rodger, che fanno parte della raccolta Bergen-Belsen Concentration Camp, April 1945, Bergen-Belsen, Germany, uno ritrae un bambino che passa accanto ai corpi emaciati e privi di vita ed è proprio lui la chiave di lettura dell’immagine, facendo comprendere quanto la morte fosse la quotidianità a BergenBelsen; le emozioni negative che lo spettatore prova di fronte a questa immagine accrescono ogni volta che l’attenzione si posa su un dettaglio che prima era sfuggito lasciando che la fotografia parli da sola e che lo spettatore rimanga senza parole. L’importanza dell’immagine verrà compresa proprio in quelle situazioni in cui la sofferenza non può essere espressa a parole e per questo continuerà ad essere fondamentale nella comunicazione. Negli anni ’60 e ’70 la fotografia documentaria non fu più esclusiva di fotoreporter o di grandi agenzie come Magnum ma divenne accessibile a tutti; tra le esperienze che sconvolsero maggiormente l’opinione pubblica vi furono l’intervento americano in Vietnam (1963-1965) e i moti studenteschi del ’68. All’inizio del conflitto in Vietnam i fotoreporter erano ben accolti dalle truppe americane, lo scopo era quello di offrire un’immagine perfetta dell’esercito e dell’intervento USA ma ben presto, anche a causa delle incursioni di alcuni hippie che erano contrari alla guerra, i fotografi furono mal visti. La tragicità di certi scatti, l’orrore della guerra che colpisce principalmente civili, in particolare bambini, colpisce non solo gli americani ma anche il resto del mondo. Tra gli scatti che meritano di essere menzionati, in quanto hanno avuto la capacità di scuotere le coscienze dell’opinione pubblica, abbiamo il famigerato Accidental Napalm Attack (1972) di Nick Ut : i soggetti sono bambini che urlano, spaventati,  dopo essere stati protagonisti di un attacco al napalm; la fotografia oltre a far riflettere sulle conseguenze di una guerra, che colpisce sopratutto la popolazione indifesa, crea nello spettatore uno shock visivo poiché riesce a far scaturire l’angoscia e l’agonia provata dai protagonisti. La fotografia però non documenta solo scenari di guerra in luoghi lontani ma anche la società occidentale, i suoi usi e costumi e spesso, grazie alla progressiva accessibilità delle persone comuni ai mezzi fotografici, momenti di vita di privata. Tra gli eventi immortalati vi sono le proteste studentesche del ’68, il concerto di Woodstock e le grandi manifestazioni per i diritti civili tra cui i cortei femministi, quelli contro la guerra in Vietnam, la prima parata per i diritti LGBTQ+ e degli afroamericani. La necessità di documentare gli eventi, che non sempre mantenevano connotazioni pacifiche dato che frequenti erano gli scontri con la polizia ma anche con i manifestanti dei contro cortei, non era solo esclusiva di fotoreporter ma anche dei protagonisti stessi come ad esempio Danny Nicoletta che fotografò l’attivista per i diritti LGBTQ+ Harvey Milk . La capacità del fotografo doveva essere quella di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, concetto che l’agenzia Magnum ha fatto proprio, e per raggiungere questo obiettivo spesso si ricorreva a stratagemmi come il travestimento o il possesso di finte concessioni da parte delle autorità. Più il fotografo scattava in condizioni estreme più la fotografia colpiva lo spettatore, generando sentimenti forti e suscitando scalpore. La linea di confine tra fotografia documentaria e intimista si fa sempre più sottile: entrambe presentano difetti tecnici, sono scattate in condizioni non sempre ottimali e possono ritrarre aspetti della società. Negli anni a seguire la fotografia verrà impiegata per documentare minoranze come la comunità LGBTQ+ e le varie comunità di giovani, accomunati dalla condivisione di valori, idee politiche o gusti musicali. Spesso negli scatti privati possiamo trovare il desiderio di documentare momenti familiari o tra amici, come nel caso di Nan Goldin. Ciò che accomuna Nan Goldin a un qualsiasi fotoreporter è la ricerca della verità, anche cruda e senza censure anche se, nel caso della Goldin però la motivazione alla base è dettata da ragioni personali mentre nei fotoreporter, ma anche nei manifestanti e negli hippies, è riconducibile a motivazioni politiche o sociali. Va sottolineato che il concetto di indagine non deve essere ristretto al campo dello studio e della ricerca di soggetti che possono attirare l’attenzione del fotografo o del fruitore ma può essere inteso anche come indagine di sé stessi e di come, ad esempio, ci si avvicina alla fotografia. L’indagine di sé stessi attraverso la fotografia è presente nel lavoro della fotografa genovese Lisetta Carmi, l’aver fotografato la comunità transessuale ha permesso a Carmi di comprendere meglio sé stessa e la propria presenza nel mondo. Anche per la già citata Nan Goldin il lavoro svolto sulle drag queens, con cui stringerà un duraturo rapporto d’amicizia, sarà un modo per comprendere meglio la propria sessualità. Spesso l’approccio a questa tecnica e la volontà di raccontare determinate realtà è dettato da una curiosità, come per esempio nel caso di Derek Ridgers e Antonio Amato: il fatto di ritrarre soggetti completamente diversi da loro è sintomo di voglia di capire e comprendere la motivazione di alcune loro scelte personali o come sarebbe potuta essere la loro vita. La fotografia quindi spesso si pone non solo come capacità di indagare e interrogarsi sul mondo esterno ma anche su sé stessi: il confronto con ciò che è altro da noi, o con ciò a cui aspiriamo di diventare, ci pone obbligatoriamente a una riflessione. Anche lo spettatore può essere invitato in questa riflessione, magari in virtù del fatto che ha vissuto simili esperienze o perché incuriosito da ciò che ritiene opposto al suo modo di vivere e di essere. Uno dei problemi della fotografia documentaria però risiede nella veridicità dell’immagine: molti scatti sembrano studiati e non frutto della casualità degli eventi. La vera essenza e la grande efficacia delle immagini si ottiene quando il fotografo rimane neutro rispetto al soggetto o alla situazione ritratta ed è questa la differenza principale tra uno scatto intimista e uno documentarista, inoltre nella fotografia documentaria l’immagine è rappresentazione puntuale della realtà, non vi sono concetti nascosti ma è lo spettatore che, con il suo bagaglio di conoscenze, deve giungere a una lettura dell’opera. Oltre alla neutralità, l’altra grande caratteristica che distingue la fotografia documentaria dalle altre tipologie è la discrezione: per il fotoreporter è fondamentale lavorare in modo non invadente, specialmente in quelle situazioni in cui si potrebbe rischiare la vita e proprio per questo, a livello tecnico, durante i primi reportage le fotografie risultano molte scure a causa della mancanza del flash; successivamente grazie ai progressi della tecnica la qualità migliora anche se la discrezione rimane sempre fondamentale. Nello scatto del fotoreporter o del fotografo impegnato in un’indagine sociale la didascalia non aggiunge nulla in più a ciò che già è espresso nello scatto ed evitare quindi un probabile malinteso. In una fotografia intimista, pur rappresentando un momento reale, vi è spesso la necessità di una spiegazione sui protagonisti dello scatto o sulla situazione perché lo spettatore, nonostante abbia conoscenze base non riuscirà a comprendere appieno lo scatto. La crisi che ci sarà dagli anni ’70 intorno alla figura del fotoreporter e del fotogiornalismo sarà fondamentale nel definire la nozione di neutralità nella fotografia. Uno dei motivi di questa crisi fu la volontà dei fotoreporter di volersi staccare dal mondo dei mezzi di comunicazione, giudicato troppo influenzato da politica ed economia soprattutto alla luce delle critiche mosse dagli artisti contemporanei. Negli anni ’70, grazie anche all’avvento della televisione, il fotogiornalismo entrerà in una profonda crisi che verrà accentuata dall’urgenza di salvaguardare la figura del grande reporter, nata negli anni ’30 del Novecento. Oltre a queste motivazioni vanno segnalate anche la necessità dei fotografi di percepire uno stipendio e l’istituzionalizzazione del concetto di autorialità, cominciato con la fondazione dell’agenzia Magnum e che si è sviluppato nel tempo con le agenzie Gamma , Sygma e Sipa . Un cenno su Magnum va fatto in quanto è stata ed è tuttora la più importante agenzia fotografica europea. Fondata nel 1947, ha due sedi: una a Parigi ed una a New York; il suo approccio però rimane prettamente europeo, tra i fondatori vi sono Robert Capa , Henri Cartier- Bresson e David Seymour . La più grande capacità di Magnum sta nella pluralità, ogni fotografo che fa parte dell’agenzia è libero di poter lavorare seguendo il proprio approccio. Altra caratteristica che rende Magnum importante è che nonostante i reportage siano principalmente orientati su Europa e Stati Uniti non tralasciano però aree del mondo in cui vi è necessità di porre l’attenzione del pubblico. Lo studio di culture diverse come quelle dell’Asia, Africa ed America Latina viene fatto senza farsi influenzare dai cliché precedenti, mantenendo comunque la giusta distanza per fa sì che vengano messi in evidenza le credenze ed i miti delle culture prese in esame. Magnum si rende così internazionale ed allo stesso tempo, grazie alla varietà di fotografi che accoglie insegna anche il pubblico a riconoscere ciascuno dei suoi componenti, grazie ad uno stile che li contraddistingue. Il concetto di autorialità, che come detto in precedenza è ben presente nelle agenzie e soprattutto in Magnum, entrerà spesso in conflitto con quello di veridicità, questo perché quando si parla di autore si tende ad associarvi un’immagine con uno stile ben preciso: che si tratti di un particolare tipo di inquadratura, di una pellicola o di un soggetto ritratto nel tempo questi elementi contribuiscono a formare lo stile di un fotografo; molti fotoreporter infatti pur ricercando la veridicità per i loro scatti saranno vincolati dalla loro stessa cifra stilistica che li renderà riconoscibili. Va sottolineato che anche la fotografia documentaria è comunque considerabile come uno stile preciso, che ha i suoi principi e che affronta tematiche sociali; sino agli anni ’70 la figura del fotoreporter era intoccabile, il suo lavoro era visto come avventuroso e rischioso, i principi su cui si fondava erano la capacità di cogliere il momento, creando lo scatto perfetto, e di immortalare momenti drammatici facendo sì che lo spettatore potesse empatizzare coi soggetti e consegnarli alla storia. La prima sfida che si trovarono ad affrontare i fotoreporter degli anni ’70 fu quella di dover trovare una nuova soluzione per rendere le immagini ancora così esplicative, arrivando così a creare delle immagini di storia: esattamente come i dipinti storici nell’età classica, l’idea era quella di creare immagini che sapessero cambiare il corso della storia e quindi rimanere fedeli a uno dei principi del fotogiornalismo ma al contempo che potessero suscitare negli spettatori delle reazioni. Il risultato doveva essere un’immagine che diventava iconica grazie alla fusione dei principi fotografici, come istantaneità ed inquadratura e dei principi propri del teatro e della pittura riguardo alla posa. Molti scatti furono concepiti seguendo questi nuovi principi e si creò la cosiddetta fotografia monumento, che consiste nel presentare un’immagine che immortala un momento storico e che ha anche una valenza simbolica. Rispetto al principio di immediatezza tipico del primo fotogiornalismo gli scatti risultano impostati, le pose plastiche proprie della pittura e della scultura fanno sì che si ricreino dei modelli prestabiliti che però rischiano di togliere autenticità all’immagine. Rappresentare il dolore diventa uno dei principali obiettivi, suscitare la compassione dell’osservatore è fondamentale per la buona riuscita dello scatto ma questa retorica incentrata sul mostrare il dolore al mondo rischia di annullare i veri motivi per cui viene scattata la foto. La fotografia diventa, negli anni Novanta, un mezzo per denunciare le condizioni di vita precarie di popolazione meno fortunate e questo fa sì che diventi un supporto a servizio delle ONG che si occupano di diritti umani. Molti fotoreporter collaborano con le ONG e fanno di alcune battaglie la propria cifra stilistica, secondo il fotografo Gilles Saussier il concetto di fotografia  umanitaria si è sostituito all’eroismo del reporter di guerra portando con sé con un principio di soddisfazione del proprio ego: un bravo fotografo non sarà più colui che scatterà la foto al momento perfetto, perché non ci sarà più la necessità di scattare con rapidità. L’ego del fotografo aumenta poiché si ricerca una forma di riconoscimento nel lavoro e proprio per questo ogni autore cerca di distinguersi adottando uno stile, identificandosi quindi più nel concetto di autorialità che in quello di ricerca della verità. Il fotografo non è più colui che documenta perché vi è una reale necessità di rappresentare situazioni critiche ma colui che registra delle esperienze di vita; il punto di contatto tra questa nuova concezione della fotografia documentaria e quella degli anni Trenta è l’idea di lavorare per un pubblico del futuro. Immortalare esperienze di vita significa non solo concentrarsi sull’attualità, con i grandi eventi come guerre o proteste, ma anche riuscire a coglierne gli aspetti che possono contrassegnare l’epoca: per questo la fotografia non è più considerabile a scopo informativo ma come esperienza. Secondo la saggista americana Susan Sontag quando lo spettatore esprime un sentimento di sconcerto verso il dolore immortalato nelle foto lo fa non perché ritiene lo scatto un’estetizzazione del dolore ma perché incapace di immaginarlo. Partendo proprio da questa tesi si giunge alla conclusione che il compito del fotografo non è più quello di immortalare il momento e di farlo con uno stile riconoscibile ma di saper cogliere la giusta distanza per mettere in discussione le modalità in cui vengono ritratti certi istanti e l’iconografia che fino a quel momento vi era associata. Parallelamente si sviluppa anche la questione dell’avvenimento, considerando che questo si basa sul rapporto tra ciò che succede e come lo si rappresenta si può fare leva sulla rappresentazione per modificare la conoscenza dei fatti. Su questo si basa la nuova idea di rappresentazione che non deve più solo essere testimonianza di ciò che accade ma anche evidenziare le tracce di quegli avvenimenti nel presente. Il richiamo alla memoria può essere svolto anche dal recupero di vecchie immagini, come nel caso del lavoro di Luc Delahaye , Mémo (1997) , dove le fototessere delle  vittime della guerra in Bosnia sono recuperate e riunite; in questo caso il fotografo diventa al pari di un collezionista senza però perdere la capacità di farci riflettere e ricordare. La capacità delle immagini di restituire alla memoria una dimensione più umana, vicina allo spettatore che viene coinvolto emotivamente, viene spesso accentuata dall’utilizzo di grossi formati per la stampa che però spostano l’attenzione più su ciò che viene direttamente osservato che sulle vicende storiche. Proprio la funzione di testimonianza e di memoria è quella sottolineata dal fotografo Gilles Peress :  La foto ha una funzione mnemonica. In mancanza di giustizia, che almeno ci sia un po’ di memoria. Questo concetto si può legare alla fotografia di Nan Goldin ed alla sua ricerca quasi ossessiva del conservare una memoria delle persone a lei care, allo stesso tempo è anche alla base della fotografia familiare e uno dei motivi principali per cui la fotografia è così diffusa oggigiorno. Non sempre chi scatta lo fa per denunciare una condizione sociale o politica, soprattutto chi non è un professionista lo fa per fissare un momento nel tempo. Fotografando un momento intimo, come un compleanno o una vacanza, involontariamente consegnamo alla storia un momento specifico su cui si può svolgere un lavoro di ricerca. Sfogliando un album di famiglia possiamo osservare cambiamenti a livello di costumi e mode, possiamo affermare che anche uno scatto considerato privato può rivelarsi utile in un’indagine sociale. Memoria privata e memoria condivisa si fondono, il familiare che si occupa di scattare fotografie diventa quasi un reporter ma invece che registrare un’evento con importanza mondiale si occupa solo del suo ambiente. Il concetto di memoria si lega a quello di veridicità, solitamente si tende a registrare un momento che è effettivamente accaduto e che, nel caso della fotografia familiare, ci sta a cuore ricordare: l’obiettivo è quello di consegnare alle generazioni future un pezzo del passato che non hanno vissuto. L’utilizzo della fotografia digitale però ha contribuito ad alimentare la critica secondo cui l’immagine, anche quella scattata da fotoreporter, possa essere oggetto di manipolazioni e quindi non più veritiera. Per quel che concerne la fotografia d’informazione e il fotogiornalismo questa critica era già stata mossa da prima che la fotografia digitale potesse dare la possibilità di alterare la realtà grazie ai programmi di fotoritocco, pratica che viene effettuata in post-produzione. Già agli inizi degli anni Novanta, complice una forte critica da parte degli artisti contemporanei, si è sviluppato un sentimento di diffidenza nei confronti dell’immagine presentata da giornali e media; il ruolo che gli artisti si attribuiscono è quello di smentire i media stessi con le loro opere. Il problema è che spesso nel condannare un sistema assoggettato al potere l’artista finisce per esserne parte integrante, non è più sufficiente appropriarsi di un simbolo come nella Pop Art per lanciare un messaggio sovversivo. La critica diventa essa stessa un genere e la fotografia, ancora una volta diventa un mezzo per esprimere un concetto.
Dalla ricerca della verità immortalando il momento esattamente per come ci si presenta davanti si passa alla ricerca di una verità ottenuta manipolando le immagini per creare una denuncia nei confronti della società. Gli esempi più conosciuti di manipolazione fotografica per denunciare la società ed i suoi stereotipi sono rappresentati dalle fotografe Cindy Sherman e Barbara  Kruger , che lavorano in modo differente.  Sherman utilizza sé stessa come soggetto dei suoi scatti che hanno lo scopo di indagare e porre lo spettatore di fronte agli stereotipi della società; il suo modo di utilizzare la fotografia, manipolando non l’immagine in post produzione ma sé stessa, è simile a quegli artisti che con le loro opere pittoriche volevano denunciare la società. Nel suo lavoro più famoso Untitled film stills (1976-1980) Cindy Sherman compie un’indagine sullo stereotipo femminile nel mondo pubblicitario e cinematografico dagli anni ’40 agli anni ’60, riuscendo a risultare perfettamente credibile e al contempo denunciando la stereotipizzazione delle donne. Barbara Kruger invece denuncia la società avvalendosi di immagini già trovate e che, modificate in seguito da lei stessa ricalcando la grafica dei poster commerciali, costituiscono lo stereotipo contro cui Kruger vuole lanciare il messaggio. Esempi concreti di lotta contro gli stereotipi e denuncia sociale, frutto di indagini, sono ad esempio le opere Your body is a battleground (1989) contro gli stereotipi femminili e I shop therefore I am (1987) che denuncia il consumismo dilagante nella società americana. La manipolazione dell’immagine non è però solo pertinenza di riviste che ricercano lo scatto sensazionalistico, riviste di moda che ricercano la perfezione estetica ed artisti che la utilizzano come indagine verso la società ma è presente anche negli scatti familiari. Complice la grande diffusione della fotografia digitale e la capacità di accedere ad applicazioni gratuite, il fotoritocco è diventata pratica comune anche per chi non è un professionista. In questo modo anche le immagini private, solitamente associate al concetto di genuinità e veridicità, subiscono una manipolazione e diventano artefatte; con l’avvento dei social network questa pratica si è diffusa sempre più. La manipolazione rende così dubbia la testimonianza della fotografia, da sempre considerata come unica tecnica che non può mentire, e di conseguenza si perde la concezione dello scatto come documento. Tra le fotografie che hanno subito manipolazione, o meglio sono state studiate in modo da suscitare un sentimento, troviamo la famosa Marines Raising Flag: Mount Suribachi, Iwo Jima (1945) scattata da Joe Rosenthal ; da sempre considerata come  una testimonianza dell’occupazione dell’isola di Iwo Jima da parte dei soldati statunitensi non fu frutto di una casualità ma l’azione venne replicata poiché Rosenthal, nel momento in cui i marines stavano piantando la bandiera americana per la prima volta, non godeva di una buona visuale. Arrivato in cima ed agevolato dal fatto che i generali volevano la prima bandiera come ricordo, riuscì ad assistere al secondo innalzamento e a catturarlo: per questo scatto Rosenthal vinse il premio Pulitzer. Chiaramente essendo frutto di una manipolazione, pur essendo un documento in quanto attesta un avvenimento storico, perde di veridicità e di quel concetto di saper cogliere il momento che da sempre fa parte della fotografia documentaria. Il concetto di documento ha subito negli anni diversi cambiamenti, fino a divenire un’alternativa all’autorità in campo artistico; la crisi nel campo dell’arte e dell’informazione ha fatto si che si cercasse sempre più nella nozione stessa di documento un modo di uscire dalla problematica stessa. Originariamente veniva associato con la parola prova, in quanto il documento costitutiva un qualcosa di incontestabile: deriva infatti dalla parola medievale documentum che indicava uno scritto ufficiale e quindi redatto secondo la legge e le autorità. Successivamente, alla luce della crisi che la fotografia ed il fotogiornalismo hanno attraversato, il documento non rimane solo semplice attestazione della realtà ma diventa un modo per opporsi alla progressiva spettacolarizzazione delle immagini, come se fosse l’ultimo passo prima di una rivoluzione. La potenza e la capacità di un documento è data dalla sua neutralità, che però è anche ciò che la definisce come utopica. Con il concetto di utopia documentaria si vuole intendere che l’immagine non è al servizio della comunicazione ma serve a costruire una storia che non presenta la classica relazione forma-contenuto.
La capacità di rimanere neutrale non è da considerarsi come stile ma più come un modo di lasciare spazio allo spettatore, il significato infatti è deciso dal pubblico. Lo scatto non è più una semplice descrizione dell’immagine ma invita alla riflessione, rendendo lo spettatore non più un semplice lettore ma come un soggetto che si deve interrogare su ciò che vede e che autonomamente deve trarre le proprie conclusioni. Il documento, in questo caso la fotografia, può avere una funzione di critica alla società e la capacità di riportare in voga l’indagine sociale: quest’ultima era stata oscurata dall’istituzione del reportage nei media e dall’idea di documentarismo come corrente artistica. Se negli anni precedenti alla crisi della fotografia documentaria, le fotografie di conflitti e carestie erano riuscite a far riflettere la società ora l’eccessiva presenza di queste immagini testimoni del dolore e dell’abuso del reportage nei media avevano desensibilizzato il pubblico, oltre a questo si aggiungeva il fatto che la fotografia non era più sufficiente a sensibilizzare e risvegliare la coscienza dei politici. Per questi motivi alcuni fotografi si concentrano su soggetti più vicini e svolgono indagini sociali, in particolare si comincia ad indagare sulla società operaia e sul mondo marittimo, due realtà molto distanti da quelli che solitamente leggono giornali e hanno conoscenze in ambito culturale ed economico. Il documentarismo diventa corrente artistica quando da mera rappresentazione del mondo si fonde con l’arte creando una commistione di impegno sociale e ricerca estetica che però comprometterà l’attendibilità come attestazione della realtà: l’uso di colori sgargianti, formati panoramici e lo studio di pose e momenti rendono le fotografie più simili a quadri che a testimonianze della realtà. Anche Lisetta Carmi, come altri colleghi italiani e stranieri, svolgerà un lavoro sul mondo marittimo ed in particolare sui portuali genovesi, anche nel suo caso non sarà una richiesta da parte di un giornale ma una sua curiosità; mossa dalla volontà di denunciare le loro difficili condizioni Carmi decide di usare la sua macchina fotografica come strumento di denuncia e di lotta. La capacità della fotografia documentaria sta nel rifiuto della visione della cultura popolare come qualcosa di kitsch, come era presentata dalla Pop Art: i ceti medi o bassi non vengono ridicolizzati, semplicemente vengono mostrati. La neutralità tipica della fotografia documento permette allo spettatore di sviluppare un proprio pensiero critico, sia perché non presenta l’elaborazione tipica di alcune immagini d’autore sia perché non presenta quel naturalismo che vuole a tutti i costi suscitare una reazione. La fotografia documentaria si caratterizza così di una connotazione politica in grado di mettere in discussione la società ma anche la stessa tecnica. Come ogni ricerca il documento è parte integrante, un supporto a un testo scritto o a una testimonianza orale e ci aiuta a comprendere meglio le informazioni che ci vengo fornite, per questo spesso le fotografie sono accompagnate da didascalie che aiutano la comprensione, fornendo dati circa i soggetti dello scatto. Oltre ai dati, spesso le didascalie possono contenere le affermazioni dei soggetti rendendo quindi possibile non solo conoscere la loro opinione ma anche per affermare il ruolo del fotografo come mediatore. La capacità di affrontare temi difficili quali la guerra, la violenza, i conflitti sociali, la politica e la sofferenza è ciò che caratterizza la fotografia documentaria, la quale è al tempo stesso una delle forme più intime di questa tecnica e al contempo quella che meglio si relaziona al mondo esterno. Per questi motivi spesso il confine tra fotografia intimista e documentaria è molto labile, spesso i fotoreporter, pur mantenendo distacco e neutralità, ritraggono situazioni che possono essere intime e private. È necessario sottolineare che, in base anche alle riflessioni esposte in precedenza, in molti contesti l’idea che la fotografia documentaria sia testimone della realtà è meramente un’illusione, spesso perché la necessità di neutralità faceva si che si tralasciasse il contesto culturale e sociale, a causa di un’ambivalenza che rischia di intaccarne la veridicità: se da un lato l’utilizzo della fotografia è stato di gran supporto in situazioni come sulle scene del crimine, è altrettanto vero che spesso è servita come strumento di denuncia delle classi più povere. Storicamente la fotografia documentaria espone il soggetto al giudizio dell’opinione pubblica, che accetta le conseguenze morali del farsi ritrarre; si può quindi affermare che la vita e l’intimità del soggetto venivano mostrati al mondo.
Anche la fotografia intimista sottopone il soggetto davanti ad un pubblico, in particolare nel caso di Nan Goldin e di Lisetta Carmi possiamo trovare soggetti ritratti in situazioni intime come in una camera da letto o in bagno: i soggetti quindi vengono colti nella loro quotidianità e questo conferisce una maggiore veridicità agli scatti oltre a suscitare emozioni nello spettatore, che può avere reazioni empatiche ma anche di sdegno e disprezzo. Nel caso della fotografia intimista l’emozione è direttamente scaturita dal soggetto dello scatto, più che dal contesto che vi è dietro, mentre nella fotografia documentaria, soprattutto se legata a tematiche di attualità, l’emozione viene sia dallo scatto, che spesso segue l’idea di spettacolarizzazione, sia dalle conoscenze pregresse del pubblico. Tra i fotografi americani che, come Lisetta Carmi e Nan Goldin, richiamano lo stile intimista pur svolgendo un lavoro d’indagine abbiamo Larry Clark e Eugene  Richards .  Larry Clark ha fotografo a lungo il mondo degli adolescenti, concentrandosi in particolare modo sulla loro sessualità; tra i primi lavori vi è Tulsa (1971), una raccolta di immagini scattate in tre periodi diversi, 1963, 1968, 1971, che illustrano la vita dei giovani tossicodipendenti di Tulsa, in Oklahoma. Gli scatti sono tutti in bianco e nero, risultano molto crudi in quanto ritraggono atti di violenza, rapporti sessuali espliciti ed uso di droghe, in particolare eroina; il modo di lavorare di Clark è simile a quello di Nan Goldin: i soggetti ritratti nelle foto sono tutte persone che conosce e che frequenta nella sua vita quotidiana, nel momento dello scatto però l’approccio rimane distaccato, senza interferire con la scena. Tra le fotografie ne spicca una in cui un ragazzo ed una ragazza, dopo aver consumato un rapporto sessuale, consumano eroina: è il ragazzo ad iniettare la sostanza alla ragazza tramite una siringa; lo scatto non presenta titoli ed è stato realizzato nel 1972. Simile a Clark per le tematiche affrontate è Eugene Richards, fotoreporter statunitense che nelle sue indagini ha ritratto i tossicodipendenti nel volume Cocaine True, Cocaine Blue (1994). Rimanendo distaccato, Richards indaga il tema della tossicodipendenza nelle zone di East New York, North Philadelphia e The Red Hook Housing Project a Brooklyn (NY), i soggetti sono prevalentemente sudamericani ed afroamericani. Tra gli scatti che hanno colpito il pubblico vi è Mariella (1992), il soggetto è appunto una donna di nome Mariella immortalata mentre stringe tra i pochi denti rimasti una siringa. Nell’immagine si può comprendere che Mariella stia attendendo impaziente il suo spacciatore e che nell’attesa si stia preparando per l’iniezione; questa indagine di Richards, come quella di Clark, restituisce al pubblico la disperazione ed il senso di autodistruzione che avvolge il mondo della tossicodipendenza. Un’indagine più personale di Eugene Richards è quella raccolta nel libro Exploding into Life (1986), il soggetto infatti è la moglie del fotografo Dorothea Lynch che nel 1978 scoprirà di essere ammalata di cancro al seno. Tra gli scatti che più colpiscono l’attenzione vi è Final treatment (1979), Dorothea è stesa su una barella, oramai ha pochi capelli a causa dei trattamenti chemioterapici e guarda fisso nella fotocamera, nonostante lo sguardo sia oramai stanco; l’unico elemento che rompe con il distacco tenuto generalmente da Richards nelle sue indagini è proprio la mano del fotografo che stringe quella della moglie. L’intero volume è una sorta di testamento di una donna che, pur essendo malata, non perde la speranza: è insieme un’indagine ma anche un modo di documentare la vita di Dorothea, raccogliendo momenti intimi come la difficoltà nel sopportare le cure e le visite mediche a cui la donna si sottopone. Questi due esempi ci testimoniano che da quando l’attenzione dei fotoreporter si è spostata verso la società e verso altre cause, come quella dei lavoratori ma anche di coloro che vivono in condizioni precarie, gli scatti hanno trovato una dimensione più intima dove l’immagine si presenta per ciò che è e il soggetto non viene caricato di significati come poteva succedere in passato. La fotografia documentaria quindi si ritrova ad essere definizione sia di scatti che ritraggono situazioni come guerre e proteste ma anche attimi di vita quotidiana. Fanno parte della fotografia documentaria anche gli scatti realizzati durante l’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001; tra le fotografie che più rimarranno nella memoria vi è il famoso The Falling Man scattata da Richard Drew .  L’immagine ritrae un uomo, la cui identità è sconosciuta, nell’atto di gettarsi dalla torre Sud colpita dal secondo aereo dirottato dai terroristi; l’uomo non era l’unico a compiere il tragico gesto infatti altre persone si buttarono dalle torri in fiamme per sfuggire al tragico destino. In occasione del primo anniversario della strage USA Today parlava di circa 200 morti, circa l’8% delle vittime dell’attentato, per essersi lanciati nel vuoto. I primi a gettarsi lo fecero a pochi minuti dallo schianto nella torre Nord, mentre dalla torre Sud saltarono meno persone poiché, essendo stata colpita dopo, molti riuscirono a fuggire dall’edificio. Quel che distingue la fotografia, da altre scattate sempre dallo stesso Drew, è la posa che assume lo sconosciuto: l’uomo era in verticale, capovolto, con le braccia allineate al corpo e una gamba costantemente piegata come durante l’esecuzione di un tuffo. Lo scatto venne diffuso da ogni testa giornalistica internazionale ma per il mondo dell’informazione americana e per la stessa opinione pubblica l’argomento divenne un tabù: per molti familiari era inaccettabile che i loro cari si fossero buttati dalle torri. Questa immagine oltre a creare una lunga discussione su chi fosse il soggetto della foto, ci furono molte ricerche in merito all’identificazione che coinvolsero parenti ed amici delle vittime del crollo, creò anche un dibattito su quanti avevano perso la vita in quell’ultimo disperato tentavo di salvarsi. Esattamente come le fotografie di guerra, queste immagini hanno avuto la capacità di far interrogare l’opinione pubblica sulla morte ma anche provocare una reazione, in questo caso specifico di rifiuto verso i fatti successi. La drammaticità delle fotografie che ritraggono donne, bambini ed anziani indifesi di fronte alle atrocità della guerra segnano le coscienze di tutti, rivelando anche che in realtà coloro che fino a quel momento erano considerati eroi, ovvero, nel caso del Vietnam, i militari americani, si erano rivelati in realtà anche aguzzini delle donne vietnamite ed assassini. In generale si può affermare che le fotografie che indagano scenari di guerra hanno la duplice funzione sia di informare gli spettatori, che godono del privilegio di vivere nella propria casa senza la paura di dover scappare dalle bombe, sia di creare dibattito e denunciare gli orrori scatenati dai conflitti. La veridicità degli scatti aumenta se i fotografi sono persone comuni, come spesso oggigiorno accade; la modernità ha reso la fotografia una tecnica democratica accessibile a tutti e non solo a chi ne ha studiato le tecniche. Spesso, grazie alla spontaneità propria degli autodidatti, gli scatti risultano più reali rispetto alle fotografie scattate da reporter: difetti d’inquadratura, cattiva luce, sfocature e bassa qualità caratterizzano spesso gli scatti realizzati da non professionisti ma sono anche le caratteristiche che contraddistinguono Nan Goldin. Capita infatti che fotografi professionisti per una scelta stilistica o per problematiche esterne, come ad esempio un budget limitato o condizioni di lavoro non ottimali, scattino foto con errori tecnici tipici di chi non ha una formazione tecnico-teorica. L’avvento dei social network ha contribuito ad amplificare il fenomeno del fotoreporter didatta, arrivando al punto che nei momenti di pericolo, come ad esempio una calamità naturale o un evento come una rissa, prevale il bisogno di documentare e pubblicare sulle piattaforme social sull’istinto di sopravvivenza. Chiaramente questo bisogno estremo di riprendere ed immortalare noncuranti della propria incolumità è una problematica da non trascurare, poiché rischia di creare delle situazioni potenzialmente pericolose anche per chi si trova nelle vicinanze. Elogiare il coraggio dei grandi fotoreporter di guerra, come ad esempio Robert Capa, che morì svolgendo il suo lavoro sul fronte indocinese, non deve essere visto come un atto di esaltazione verso l’incoscienza di reporter improvvisati ma anzi deve essere uno spunto di riflessione: la ricerca della verità ad ogni costo non deve prevalere sulla vita, lo scatto realizzato a fini sensazionalistici per diventare popolare sui social network non può essere motivo di disgrazie o giustificazione per non aver agito in situazioni come risse o furti, che richiedono un intervento tempestivo. La forte diffusione della fotografia come mezzo utilizzato anche dalle persone comuni ha sollevato il problema della manipolazione dello scatto, pratica conosciuta in precedenza solo nell’ambiente dei professionisti e degli artisti interessati a denunciare la società attraverso collage o fotomontaggi. Cindy Sherman, come è stato detto, ha usato il suo corpo e i suoi travestimenti per compiere un’indagine e una denuncia di stereotipi sociali, specialmente sul femminismo. Come Sherman anche attivisti ed attiviste odierne si fotografano, modificando il proprio corpo, per denunciare una situazione sociale o per lanciare un messaggio; l’alterazione fa parte di un gioco che coinvolge arte e fotografia: la prima da sempre ritenuta in grado di essere portatrice di messaggi, la seconda considerata rappresentazione fedele della realtà. La manipolazione però ha fatto sì che spesso la veridicità e la credibilità dei fotoreporter venisse meno agli occhi del pubblico, a volte già scettico verso gli eventi rappresentati. La progressiva credenza che i media mentano ha fatto sì che questo pensiero riguardasse anche le fotografie, giudicate come fotomontaggi o testimonianza di situazioni ricreate appositamente per essere immortalate e diffuse come veritiere. Il fenomeno, definito complottismo, ha riaperto il dibattito che si era innescato con la crisi del fotoreportage negli anni ’70 sulla veridicità degli scatti e sulla capacità delle immagini di testimoniare un avvenimento. Altro concetto che l’accessibilità della fotografia riporta in discussione è l’autorialità: già con l’avvento delle agenzie fotografiche si era lungo dibattuto su questo concetto, alcuni critici avevano puntualizzato come l’autorialità, intesa come cifra stilistica che caratterizza un fotografo, potesse essere un ostacolo ai principi del fotogiornalismo e della fotografia documentaria in generale. Oggigiorno la questione dell’autorialità è incentrata maggiormente sulla difficile attribuzione della paternità degli scatti, in quanto non sempre le persone comuni hanno piacere nell’essere conosciute o pubblicano sotto pseudonimi rendendo quindi difficile il lavoro di riconoscimento dell’autore, trattandosi anche di foto amatoriali scattate spesso senza seguire uno stile ben preciso. Oltre a ciò si aggiunge che molto spesso i fotoreporter e i giornalisti rientrano in agenzie, una su tutte ANSA, interessate più al fornire un servizio di informazione che al fare la storia della fotografia. Le piattaforme social però si prestano a diventare al pari di archivi fotografici ed hanno un grosso potenziale se ben utilizzati, questo perché i dati immessi in rete saranno sempre rintracciabili rendendo quindi fruibile alle generazioni future le immagini, ricalcando quindi quel principio della fotografia documentaria e dei grandi fotoreporter secondo cui le immagini venivano scattate per essere consegnate ai posteri, in modo che avessero una prova tangibile del passato. Molti fotografi, come ad esempio Derek Ridgers, Eugene Richards e Nan Goldin, utilizzano i social network come un archivio ma anche come un mezzo per diffondere i loro scatti, riuscendo anche a raggiungere le generazioni più giovani che trovano più semplice ed immediato consultare il web rispetto allo sfogliare un catalogo. Anche l’agenzia Magnum, una delle poche grandi agenzie sopravvissute negli anni della crisi del fotogiornalismo, è presente sulle piattaforme social e gli scatti dei suoi fotografi vengono condivisi: in occasioni di alcune celebrazioni internazionali , per esempio, vengono caricate immagini di diversi autori che hanno in comune la stessa tematica. Oltre ai profili ufficiali anche pagine curate da semplici appassionati propongono immagini che hanno fatto la storia, raccontando nella descrizione dell’immagine l’aneddoto ad essa collegato, svolgendo quindi una funzione simile a quella dei libri specializzati in materia. Nonostante questa nuova svolta verso il digitale, non solo nei mezzi impiegati per la realizzazione ma anche in quelli adoperati nella diffusione degli scatti, i cataloghi e i libri sono ancora fortemente utilizzati. Spesso vengono stampate monografie a cura di critici d’arte o degli autori stessi che sentono l’esigenza del cartaceo per consegnare al pubblico gli scatti più importanti, sfruttando anche il fatto che un libro non ha un limite di parole da scrivere come invece alcuni social network hanno. Quale sia il mezzo di diffusione delle fotografie, qualsiasi tecnica, analogica o digitale, venga utilizzata per produrre immagini la sua importanza rimane fondamentale nello sviluppo di indagini socioculturali e di denuncia; ovviamente la capacità del fotografo nel saper cogliere gli aspetti fondamentali di uno specifico argomento gioca un ruolo importante nella buona riuscita e nella perfetta comprensione degli intenti da parte dello spettatore, a cui però viene affidato spesso il compito di risvegliare la propria curiosità e di indagare egli stesso riguardo al tema trattato. La fotografia documentaria non smetterà mai di affascinare ed attrarre il pubblico, di aprire dibattiti in grado di poter cambiare il mondo. L’efficacia dell’immagine ancora una volta, nonostante le varie crisi, è fondamentale e l’indagine si rafforza grazie ad essa.
 
Tra le fotografe che meglio hanno saputo cogliere con discrezione e delicatezza la realtà della comunità transessuale genovese c’è Lisetta Carmi. Lisetta nacque a Genova nel 1924, da una famiglia ebrea di condizione agiata; studiò pianoforte e divenne una concertista ma decise di cambiare professione. Dal 1960 al 1978 si occupò di fotografia, in particolare modo volle fotografare Genova, la sua città. Scattare fotografie divenne per lei un modo per capire e trovare la propria strada; l’evento principale fu la sua partecipazione alle proteste degli operai, che la fece litigare con il suo maestro di pianoforte, il quale temeva per le sue mani, decidendo quindi di chiudere con la sua attività di concertista. Nel 1964, anche sotto suggerimento dell’amica Erica Basevi, al tempo dirigente della Società di Cultura di Genova, Lisetta realizza un servizio fotografico sui lavoratori del porto per denunciarne lo sfruttamento. In questa occasione la fotografa si comporta come un fotoreporter di guerra e si infiltra nel Porto di Genova fingendosi la cugina di uno dei portuali. Le fotografie che ne derivano vengono raccolte in una mostra che verrà allestita in tutta Italia ed arriverà anche in URSS. L’eco delle proteste internazionali, contro la guerra in Vietnam e contro le armi atomiche, che caratterizzano gli anni Sessanta e Settanta, influenzano il lavoro della Carmi che documenta con precisione gli aspetti socioculturali. Frutto di quel periodo è anche la foto che ritrae Bernhard De Vries, leader dei Provos , per esempio: le code negli uffici comunali, i mercati rionali, le balere e il centro storico. Tra i reportage che realizza per il Comune di Genova è celebre quello sugli ospedali, grazie alle immagini del parto dall’Ospedale Galliera; Carmi documenta anche la situazione delle fogne, delle strade e del traffico cittadino senza però rinunciare al ritratto, che farà parte dell’inchiesta sui giovani genovesi con il sociologo Giorgio Chiari. Oltre ai progetti comunali, Lisetta si dedicò anche alla fotografia in teatro, venendo a contatto con tante personalità importanti e con le innovazioni ad esempio lo spettacolo del Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck. Nell’ambito teatrale collabora con Giuliano Scabia, Emanuele Luzzati, Aldo Trionfo e Carlo Quartucci, quest’ultimo regista di Aspettando Godot di Samuel Beckett, spettacolo di cui vengono ricordate le straordinarie fotografie di Lisetta Carmi. Il 1962 è l’anno cruciale per la sua carriera di fotografa poiché inizia la sua collaborazione con il Teatro Duse, dove si occupa di scattare fotografie durante le prove; questo tipo di lavoro deve essere svolto con la massima rapidità poiché le immagini devono essere distribuite ai quotidiani. Sempre in quell’anno decide di unire le sue due arti, ovvero la fotografia e la musica, creando il Quaderno musicale di Annalibera di Luigi Dallapiccola; fonde la musica del maestro Dallapiccola con il segno fotografico esponendo alla luce un negativo, sviluppandolo e riproducendo sulla pellicola dei segni che giudica in sintonia con i pezzi musicali. Una lunga indagine viene invece dedicata al cimitero di Staglieno, che intitolerà Erotismo ed autoritarismo a Staglieno: Lisetta catturerà con la sua macchina fotografica le statue che raccontano la storia delle antiche famiglie genovesi appartenenti alla borghesia, che avevano arricchito la città e che in vita avevano già progettato la loro ultima destinazione terrena. Nel 1965 partecipa alla produzione teatrale Cartoteca, organizzata dal Centro Universitario Teatrale di Genova, con una proiezioni di immagini. Tutti gli impegni, ai quali si aggiunge nel 1963 l’attività della Galleria del Deposito, non le impediscono di dedicare del tempo alla musica: ritrasse molti musicisti famosi dell’epoca come, ad esempio, Gino Paoli, Charles Aznavour ed Ivan Della Mea. Per la Galleria del Deposito, situata a Boccadasse, realizza numerosi ritratti di artisti come Max Bill, Lucio Fontana mentre dipinge Ambiente Spaziale in galleria, César mentre realizza una Espansione. Il 1965 è anche l’anno in cui Lisetta Carmi da’ inizio a un progetto che la renderà la prima fotografa italiana a trattare il tema ovvero la transessualità. L’inizio di questo suo progetto è la sera di Capodanno, quando, insieme al suo amico Mauro Gasperini, partecipa ad una festa ed inizia a scattare fotografie, come precisa lei stessa: La prima volta sono stata una sera di un capodanno del 1965 con un amico che li conosceva. Li ho cominciato a fare un sacco di fotografie e gliele ho regalate. Non le ho mai vendute ai giornali. Per sei anni Lisetta fotograferà con estrema delicatezza un mondo che lei non conosce, dal quale comunque si sente ben accolta; nel frattempo viaggerà visitando prima l’America Latina poi dal 1970 cominciò a viaggiare in Oriente: Turchia, Afghanistan, India, Pakistan e Nepal. Si stabilisce in Puglia nel 1971 e si divide tra Cisternino, Genova ed i vari viaggi che la portano a scoprire il mondo fino all’incontro che le cambierà la vita, nel 1976, con il guru Babaji, Mahavatar dell’Himalaya, che le da il compito di creare ashram in Puglia e facendo sì che abbandoni definitivamente la fotografia. Il lavoro svolto con i transessuali diventerà un libro, pubblicato nel 1972, dal titolo I travestiti, curato nei testi da Elvio Fachinelli e dalla stessa Lisetta mentre alla parte grafica vede impegnato Giancarlo Iliprandi. Contesa da molti editori, che vorrebbero ripubblicare il volume, Lisetta è stata considerata da Roxana Marcoci. Lisetta Carmi ha sempre affermato di aver iniziato a scattare per capire, nel caso dei transessuali invece affronta l’accettazione di sé stessa: racconta spesso quando da bambina, guardando i suoi fratelli, voleva essere anch’essa un ragazzo. A rafforzare questo suo pensiero il fatto che non voleva assolutamente sposarsi né tantomeno accettare il ruolo dato dalla società alle donne. Per Carmi il contatto con la comunità transessuale è stato fondamentale proprio per l’accettazione della sua identità, le ha fatto pensare a quanto fosse corretto rivendicare la propria identità e proprio in virtù di questo lavorò sempre da sola, senza mai collaborare con altri fotografi. Il suo modo di raffigurare quella realtà non è morboso, non cade nel voyeurismo, ma con delicatezza, quasi in punta di piedi, coglie aspetti molto intimi dei soggetti che fotografa. A quell’epoca il concetto di identità di genere non esiste, o meglio è presente solo nei testi scientifici anche se, in quel periodo, gli studi erano molto arretrati. Nel lavoro di Lisetta però non vi è nemmeno un approccio scientifico, anzi normalizza il vestirsi da donna di questi uomini che vivono un’esistenza difficile e che l’unico lavoro che possono fare è legato al mondo della prostituzione. Spesso Lisetta, per fotografare attimi intimi all’interno dei luoghi dove le transessuali vivevano ed esercitavano la professione, si nascondeva dietro una tenda in attesa che i clienti andassero via per uscire ad immortalare attimi fugaci di una vita non sempre facile, trasmettendoci quindi un senso di quotidianità e spontaneità. Il suo modo di rapportarsi alla comunità e questa sua presenza delicata le permise di scattare foto in cui i soggetti, totalmente a loro agio, venivano immortalati mentre si tiravano su la gonna per mostrare le autoreggenti o mentre si scoprivano il seno; il gioco di luci rendeva impossibile capire se si trattasse di un travestito o di un transessuale. Divenne amica di molte di loro, tra cui Morena che ispirò Fabrizio De André per la canzone Via del Campo e che voleva farsi suora; La Gitana che finì anche sulla copertina del libro I travestiti a petto nudo, senza reggiseno, con il volto leggermente inclinato ed i capelli cotonati; La Novia famosa per aver avuto numerosi flirt con vari artisti e secondo alcune fonti amante del pittore Filippo De Pisis; Pasquale, napoletano, che da uomo vestiva in modo molto elegante mentre quando si vestiva da donna usava abiti poco costosi ed Elena, ex gruista all’Italsider e che si era sposata con una lesbica con l’illusione di una vita familiare tradizionale ma che poi preferì di gran lunga la vita da travestito a quella del focolare. Morena è anche protagonista di un altro scatto in cui è presente una sua foto vestita da uomo, solo il suo naso ci fa capire che si tratta della stessa persona. Stando a contatto con loro potè capire di più di quel mondo, che molti fingevano non esistesse; ad esempio venne a sapere che i fondi dove si esercitava la professione venivano affittati da ricche famiglie genovesi. Le prestazioni avevano un prezzo variabile, dalle 5.000 alle 10.000 lire, e i clienti erano di diversa estrazione sociale: calciatori, sia di serie A che di serie B, manager ma anche preti; alcuni andavano semplicemente per fare due chiacchiere ed evadere dal proprio quotidiano. Come anche sottolineato da Rossella Bianchi, essere travestiti costituiva un motivo valido per essere arrestati e per la Carmi vi era anche il problema della sua simpatia politica per il Comunismo, per cui spesso rischiò di essere arrestata, come lei stessa racconta: La polizia mi avrebbe arrestato con molto piacere, sapevano che ero figlia di una famiglia borghese.
Una volta un poliziotto è andato da un travestito e l’ha interrogato: “Cosa fa Lisetta Carmi con voi, viene a letto?”, “No, non viene a letto, ci fotografa”. Quello che risalta, oltre alla sua tecnica che fa uso di angolature impreviste, tagli particolari e giochi di linee, è la straordinaria capacità di collocarsi a metà tra ricerca ed impegno politico; le immagini comunicano una forte volontà di partire da sé, dal proprio vissuto personale. Per la fotografa quello che conta è l’incontro tra lei e il soggetto che ritrae, esprime vicinanza a chi è emarginato dalla società ben pensante che, però, cade nel paradosso di ricercare di notte confronto da chi disprezza o ignora durante il giorno. Non ha mai voluto che i suoi soggetti si mettessero in posa, ha sempre preferito che fossero loro ad avvicinarsi e a volersi far ritrarre; in un lavoro che sembra più quello di un antropologo che di un fotografo, volendo dar voce a chi non ne ha mai la possibilità. Lisetta non si mette mai davanti alla macchina fotografica, non è mai protagonista, non influenza o altera lo scatto per farsi soggetto ma preferisce raccontare la verità. Non solo vennero immortalate le transessuali ma anche le loro abitazioni, specchio della loro personalità: mobili con vasi pieni di fiori, carta da parati colorata, quadri e cornici dorate che racchiudono fotografie importanti ma anche immagini sacre che alimentano il contrasto tra il conservatorismo religioso e la voglia di esprimere sé stessi. Lisetta Carmi utilizzò due macchine fotografiche: una per le fotografie in bianco e nero, l’altra per quelle a colori. Le prime saranno pubblicate nel libro I transessuali ed evidenziano la melanconia di una vita vissuta prevalentemente di notte ed ai margini della società; le seconde invece saranno più giocose. Emerge l’influenza della Hollywood glamour post Seconda Guerra Mondiale, non solo nella scelta degli pseudonimi ma anche nel modo di vestirsi ed acconciarsi: emblematico è lo scatto di Renée con la sua acconciatura bionda, gli occhi cerchiati da una spessa linea di eye-liner nero ed evidenziati dal mascara, seduta su una poltroncina nera con indosso le calze autoreggenti ed un vestito da sera chiaro, in abbinamento al rossetto. Nel novembre 1972, anno in cui decise di pubblicare il volume I transessuali, Lisetta Carmi si scontrò con il bigottismo dilagante dell’epoca; gli elementi che crearono scandalo furono principalmente i volti androgini, la biancheria intima in bella vista come segno di libertà e conquista , gli occhi truccati in modo pesante e gli sguardi ammiccanti. Nessun editore voleva pubblicare il libro, giudicato troppo scandaloso, e nessuno voleva assumersi la responsabilità di promuoverlo essendo il contesto italiano ultraconservatore. Inizialmente il volume doveva essere pubblicato da un editore comunista, ma a quel tempo anche quel partito era influenzato dal moralismo bigotto; venne infine pubblicato a spese di un amico di Lisetta, Sergio Donnabella, dopo essere stato contattato da Luciano D’Alessandro nel 1969.  Le librerie milanesi si rifiutarono di esporlo sui propri scaffali, Cesare Musatti si rifiutò di presentarlo perché giudicò i protagonisti dei matti. Alla fine il libro fu presentato a Milano da Mario Mieli mentre a Roma, grazie all’intervento della libreria Remo Croce che acquistò un centinaio di volumi, venne presentato da Dacia Maraini ma le copie invendute rischiarono di essere mandate al macero se non fosse stato per l’intervento tempestivo di Barbara Alberti che si mobilitò per salvarli, come riporta la stessa Lisetta Carmi in un’intervista de Il manifesto del 2016: Sentendo questo Barbara Alberti, una donna straordinaria con cui ero molto amica, mandò un camion e le prese tutte. Ci si è ammobiliata la casa con tutti i miei libri! Faceva dei ricevimenti con intellettuali africani, francesi, americani, tedeschi… e li regalava. Li ha regalati tutti!” Alcuni di questi scatti vengono inclusi nel volume di Humboldt Books, pubblicato nel 2019, Genova 1960/1970 con testi di Giuliano Scabia, Giovanni Battista Marini e Giovanna Calvenzi. Una copia del volume del 1972 è stata esposta nel museo viadelcampo29rosso in occasione della mostra a Palazzo Ducale a Genova nel 2015. Oltre a essere oggetto di varie mostre, come ad esempio Lisetta Carmi. Il senso della vita. Ho fotografato per capire che si è svolta nel 2015 a Palazzo Ducale a Genova o Lisetta Carmi. La bellezza della verità al Museo di Roma in Trastevere nel 2018, le immagini dei travestiti sono molto ricercate sia da enti pubblici quali, ad esempio, il Nouveau Musée de Montecarlo e il Musée d’Art Moderne et Contemporain Saint Ètienne Mètropole, sia da collezionisti privati come ad esempio lo storico dell’arte Giuseppe Garrera. Nel febbraio 2022 il Museo d’Arte Moderna di Bologna, conosciuto come MAMbo, grazie al sostegno di Trust per l’Arte Contemporanea, ha potuto rinnovare la propria collezione permanente introducendo quattro scatti della serie I travestiti di Lisetta Carmi .  Nonostante tutte le difficoltà riscontrate, Lisetta Carmi è riuscita comunque nel suo intento ovvero quello di fotografare persone, senza distinzioni, secondo quello che è effettivamente il suo pensiero: Non esistono gli uomini e le donne, esistono gli esseri umani. Di quel periodo dirà spesso: Io ho lavorato coi travestiti dal ’65 al ’71, li ho protetti e difesi. In totale amicizia. È proprio questo rapporto quello che emerge dagli scatti della fotografa genovese, un’amicizia che in alcuni casi è durata per anni, come quella con Morena; inoltre traspare anche un forte senso di comunità tra le stesse transessuali che condividono momenti come il vestirsi, il truccarsi ma anche il cenare o pranzare insieme. Lisetta è tornata, qualche anno fa, a Genova a trovare quella sua seconda famiglia ma è rimasta molto delusa in quanto oramai, nel Ghetto, sono poche le transessuali rimaste e quelle poche si sono imborghesite .Attualmente la fotografa novantottenne vive in Puglia, a Cisternino, e non si occupa più di fotografia dal 1984. Le mostre che le vengono dedicate sono in maggior parte curate da Giovanni Battista Martini, legato alla fotografa genovese da un rapporto di amicizia che risale al 1967 anno in cui Martini, con la nipote di Lisetta, Francesca, si recava spesso nel suo studio in piazza Fossatello a Genova. Le prime stampe che vide Martini furono appunto quelle dei travestiti, di cui sottolinea lo sguardo benevolo e amichevole con cui Lisetta si è approcciata alla comunità del Ghetto; uno sguardo che sfidava le convenzioni ed il benpensare borghese. Nel 2010 Daniele Segre registra un documentario sulla sua vita e sulla sua attività di fotografa, dopo un primo incontro avvenuto nel 2009 a Ravenna in occasione di una mostra Lisetta scrive a Segre e lo invita in Puglia, dal titolo Lisetta Carmi, Un’anima in cammino. Nel 2015 invece il fotografo Jacopo Benassi, già famoso per aver rappresentato il mondo della prostituzione e dell’omosessualità, ha deciso di ripercorrere il cammino intrapreso da Carmi ed è andato alla ricerca di quei transessuali protagonisti del libro del 1972. Ne ha ritrovate solo due, ovvero Rossella ed Ursula, con le quali ha trascorso un giorno e mezzo tra risate e la percezione che il tempo si fosse fermato ai mitici anni ’60. Il risultato di questa ricerca è stato esposto, insieme alle fotografie di Lisetta Carmi, alla Pomo galerie di Milano nei primi mesi del 2015 nella mostra Princese . Nel 2016 un altro fotografo genovese, Alberto Terrile, ha esposto un lavoro simile a quello della Carmi. La mostra Ma che occhi grandi che hai… Parte I 2012 Una ricerca poetica sulla comunità transgender genovese e svoltasi al Museo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti a Genova è una raccolta di fotografie con protagoniste le Princese del Ghetto raccolte tra il 2011 ed il 2012. Tutto nasce da una prima collaborazione di Terrile con Sara H., Miss Trans Liguria, per la realizzazione di uno scatto della serie Angeli: in quell’occasione il fotografo genovese ne sancì il sesso raggruppando maschile e femminile in un unico essere. Successivamente, nel 2012, grazie all’incontro con Maddalena Bartolini ed Ilaria Caprifoglio, Terrile comincia a fotografare le Princese trovando, a suo dire, un’umanità mai trovata altrove. Inizialmente partito come un progetto editoriale, successivamente, per volontà dello stesso fotografo, gli scatti non vengono raccolti in un libro né vengono diffusi online. Terrile ha immortalato le Princese durante l’apertura e la chiusura dei loro bassi, scandendo il ritmo della loro vita e cogliendone gli sguardi: alzati verso il cielo quando erano perse mentre se fissavano il vuoto erano pensierose. Dopo aver raccolto tutto il materiale possibile, rigorosamente scattato in digitale e su grandi formati a differenza del suo consueto modo di lavorare , nel 2015 Terrile,  Bartolini e Caprifoglio decidono di riprenderlo e selezionarlo arrivando poi alla mostra nel 2016 che viene divisa in due parti: la prima raccoglie la vita lavorativa delle trans del Ghetto mentre la seconda è incentrata sulla loro quotidianità, aspetto che per il fotografo è presente in ognuno di noi. Lo stesso Terrile, in un’intervista al quotidiano genovese Secolo XIX, racconta che si era prefissato di essere un collegamento tra il lavoro di Lisetta Carmi e la contemporaneità del Ghetto Ebraico; nel 2010 infatti contatta Don Gallo con questo intento.
Il fotografo, alla domanda della giornalista, ha affermato che Genova sembra più sensibile alla tematica ed alla comunità LGBTQ+ rispetto ad anni fa e che la sua mostra venne visitata da moltissimi genovesi. L’influenza della Carmi è presente sia nel soggetto trattato sia nell’approccio rispettoso del fotografo nei confronti delle Princese. Terrile e Benassi ci fanno comprendere quanto Lisetta Carmi abbia influenzato il lavoro di tanti fotografi italiani, interessati al tema e soprattutto rispettosi dei soggetti ritratti. L’allestimento è realizzato dallo studio Drama Y Comedias che ha trasformato lo spazio del Sottoporticato ideando un percorso che non è una semplice mostra fotografica, ma una vera e propria esposizione di arte contemporanea. Il design dell'esposizione si concentra sul concetto di muro, sia come struttura fisica che come spazio metaforico. Ogni stanza invita gli spettatori a considerare i muri come dispositivi di divisione e connessione, interfacce pubbliche costantemente soggette a riscritture sociali, inevitabilmente politiche. Muri innocenti e promiscui. Una prestigiosa pubblicazione a cura di Silvana Editoriale accompagna la mostra.
Biografia di Lisetta Carmi
Nasce a Genova il 15 febbraio 1924, in un’agiata famiglia ebrea della media borghesia. A causa delle leggi razziali è costretta nel 1938 ad abbandonare la scuola e a rifugiarsi con la famiglia in Svizzera. Nel 1945, al termine della guerra, torna in Italia e si diploma al conservatorio di Milano. Negli anni seguenti tiene una serie di concerti in Germania, Svizzera, Italia e Israele. Nel 1960 interrompe la carriera concertistica e si avvicina in modo casuale alla fotografia trasformandola in una vera e propria professione. Per tre anni lavora come fotografa al Teatro Duse di Genova. Accetta diversi incarichi dal Comune di Genova realizzando una serie di reportage in cui descrive le diverse realtà e problematiche sociali della città come, ad esempio, gli ospedali, l’anagrafe, il centro storico e le fogne cittadine. Dopo aver realizzato nel 1964 un’ampia indagine nel porto di Genova, diventata poi una mostra itinerante, continua un reportage sulla Sardegna iniziato nel 1962 e che terminerà negli anni Settanta. Successivamente si reca a Parigi e da questo soggiorno nasce il volume Métropolitain, libro d’artista contenente una serie di scatti realizzati nella metropolitana parigina. Nel 1965 prende corpo il suo progetto più noto, che nel 1972 diventerà un libro, dedicato ai travestiti genovesi. Nel 1969 viaggia per tre mesi in America Latina e l’anno successivo in Afghanistan e Nepal. Nel 1971 compra un trullo in Puglia, a Cisternino. Il 12 marzo 1976 conosce a Jaipur, in India, BabajiHerakhan Baba, il Mahavatar dell’Himalaya, incontro che trasformerà radicalmente la sua vita. Lo stesso anno è in Sicilia per incarico della Dalmine per il volume Acque di Sicilia, dove sono raccolte immagini del paesaggio e della realtà sociale della regione, accompagnate da un testo di Leonardo Sciascia. Negli anni realizza una serie di ritratti di artisti e personalità del mondo della cultura del tempo, tra cui Judith Malina, Joris Ivens, Charles Aznavour, Edoardo Sanguineti, Leonardo Sciascia, Lucio Fontana, César, Carmelo Bene, Luigi Nono, Luigi Dallapiccola, Claudio Abbado, Jacques Lacan e Ezra Pound, di cui si ricordano i celebri scatti realizzati nel 1966 presso l’abitazione del poeta sulle alture di Zoagli in Liguria. Negli anni successivi Lisetta Carmi si dedicherà completamente alla costruzione dell’ashram Bhole Baba, a Cisternino, e quindi alla diffusione degli insegnamenti del suo maestro. Nel 1995 incontra, dopo trentacinque anni, il suo ex allievo di pianoforte Paolo Ferrari e inizia con lui una collaborazione di studio filosofico-musicale. Lisetta Carmi muore, o come avrebbe detto lei, abbandona il suo corpo terreno, il 5 luglio 2022 a Cisternino.
 
 
 
Palazzo Ducale di Genova
Lisetta Carmi. Molto vicino, incredibilmente lontano
dal 23 Ottobre 2024 al 30 Marzo 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso 
 
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