Fino al 7 Gennaio 2024 si potrà ammirare a Palazzo Tè di Mantova la mostra dedicata a Rubens a Palazzo Te. Pittura, trasformazione e libertà a cura di Raffaella Morselli in collaborazione con Cecilia Paolin. Promossa dal Comune di Mantova, prodotta e organizzata da Palazzo Te, con il contributo di Fondazione Banca Agricola Mantovana, in collaborazione con Factum Foundation e Phoebus Foundation, con il supporto di Amici di Palazzo Te e dei Musei Mantovani, con il supporto tecnico di Aermec e in sinergia con Mantova città d’arte e di cultura, la mostra è l’evento conclusivo della stagione espositiva 2023 di Fondazione Palazzo Te Mantova: l’Europa delle città dedicata al tema dell’Europa come patria culturale e artistica capace di custodire il valore della libertà. L’esposizione è frutto della prestigiosa collaborazione tra il Palazzo Ducale di Mantova e Galleria Borghese di Roma, la suddetta mostra indaga l’opera del Maestro, protagonista e archetipo assoluto del Barocco, che, mescolando Rinascimento e Mito, riesce a elaborare un nuovo linguaggio figurativo né fiammingo né italiano ma, come afferma la curatrice, potentemente “fiammingaliano” o “italianingo”.
L’immaginifica popolazione di divinità e di testi antichi inventati e citati da Giulio Romano a Palazzo Te sono la palestra ideale per il colto Pieter Paul Rubens , intellettuale rinascimentale formatosi nelle Fiandre su testi e immagini dai classici latini e greci, che a Mantova trova il luogo perfetto per immergersi nei sogni antichi. Sotto il tetto di Palazzo Te, infatti, si consuma la conversione di Rubens da fiammingo a italiano, e il suo mondo si trasforma in quello di un linguaggio universale con cui parla a tutte le corti d’Europa. Appropriazione e interpretazioni fameliche, trasfigurate volgendo lo sguardo alla statuaria antica, assimilando le modalità di Giulio Romano fino ad approdare a quella pittura sontuosa e colta inconfondibile.
Un percorso che proprio in queste sale trovò il metodo, l’ispirazione e la direzione. Le opere in mostra – complessivamente 52, di cui 17 del solo Rubens, divise in dodici sezioni, in prestito da musei internazionali come il Museo del Louvre, il Museo del Prado, il Museo Boijmans di Rotterdam, la Galleria Nazionale di Danimarca, i Musei Capitolini di Roma e i Musei Reali di Torino – sono state scelte in funzione del dialogo che riallacciano con i miti e con l’interpretazione che ne diede Giulio Romano nelle varie stanze, con l’obiettivo di creare una rispondenza tra le opere di Rubens e i motivi decorativi e iconografici che distinguono il palazzo. Un percorso paradigmatico che dimostra quanto le suggestioni rinascimentali elaborate negli anni mantovani e italiani siano continuate, evolvendosi, nella pittura della maturità, fino a trasmettersi nell’eredità intellettuale e artistica lasciata agli allievi. L’ammirazione che Rubens ebbe per la straordinaria creatività di Giulio Romano risiede nel progressivo gigantismo che la sua arte assume dopo lo studio delle decorazioni nei palazzi mantovani.
Pare infatti che il Maestro fosse solito appropriarsi di disegni giulieschi, o copie dei suoi assistenti, per utilizzarli come modelli, poi ritoccandoli secondo il suo metodo di studio: è il caso di alcuni disegni tratti dalla serie del Trionfo di un imperatore romano prestato dal Louvre, in cui all’invenzione disegnativa di Giulio Romano a Palazzo Te nella Camera degli Stucchi si innesta l’intervento del Maestro. Un gigantismo tipico anche delle invenzioni di Jacob Jordaens, sodale di Rubens – che non essendo mai stato in Italia conobbe proprio dai disegni “giulieschi” del collega la ricchezza immaginifica mantovana –, in cui si rintraccia un diretto riferimento a Giulio Romano accostando il Satiro che suona il flauto proveniente da Bilbao con il Polifemo della parete est. Una grande suggestione viene all’artista dalla conoscenza della cultura romana, che Rubens considera una lezione morale prodromica all’avvento del Cattolicesimo.
La virtù morale così come la “fermezza”, ossia l’imperturbabilità di fronte agli eventi storici, caratterizzano, nelle opere del Maestro, le figure più ispirate alle decorazioni parietali mantovane. A questo proposito, si inserisce bene nel percorso espositivo una serie di opere in cui Rubens interpreta la figura di Achille emblema dell’eroismo dell’essere umano, capace di scrivere la storia pur nella sua finitezza mortale, come l’Achille scoperto da Ulisse tra le figlie di Licomede del Prado, in cui emerge chiaramente il riferimento a quanto visto a Palazzo Te nella la posa della fanciulla seduta di spalle in primo piano, che è la stessa di una presente nel Banchetto rustico della Sala di Psiche. Un aspetto inedito illustrato in mostra è poi l’introspezione psicologica del ritratto: il raffronto tra il Ritratto di Bartolomeo Cesi e la Dama delle Licnidi permette al pubblico di avvicinarsi e comprendere approfonditamente il modo di intendere il cosiddetto “ritratto parlante” di Rubens. Dopo questa immersione nella pittura italiana vista con gli occhi del Maestro, il suo personale manuale di storia dell’arte, torna l’annosa domanda se Rubens sia da considerarsi fiammingo o italiano: una domanda ormai superata perché Rubens è l’uomo nuovo universale che oltrepassa i confini religiosi, geografici e politici, per inventare un nuovo linguaggio che è, a tutti gli effetti, internazionale. Una lingua figurativa europea, la prima della Storia dell’Arte. Come afferma nel suo testo Stefano Baia Curioni Direttore Fondazione Palazzo Te : La stagione 2023 di Palazzo Te si è concentra su un progetto espositivo e di ricerca dedicato a Rubens – Rubens! – condiviso con il Museo Nazionale di Galleria Borghese di Roma e il Museo di Palazzo Ducale di Mantova. Il percorso di Palazzo Te, curato da Raffaella Morselli in collaborazione Cecilia Paolini, è dedicato a un segmento particolare di questa avventura, ovvero al rapporto specifico tra Rubens e Giulio Romano, un rapporto mediato appunto dalla visita che Rubens effettua a palazzo negli anni del suo servizio presso la corte di Vincenzo Gonzaga. Non ci sono testimonianze dirette o letterarie della visita del pittore fiammingo a Palazzo Te, ma sono troppo numerosi ed evidenti i riferimenti pittorici ai cicli progettati da Giulio Romano per non vedere come l’incontro tra i due maestri sia stato fecondo e per molti aspetti determinante. Ciò che ha sollecitato l’attenzione del gruppo di ricerca è stata in particolare la vis trasformativa con cui Rubens rielabora le proposte di Giulio, dispiegando un rapporto intenso, non distratto, con la tradizione e al tempo stesso una evidente capacità di distacco e reinvenzione della stessa. Una pratica per molti aspetti simile, non tanto sul piano formale quanto su quello proprio della conoscenza, a quella che Giulio Romano aveva applicato sessant’anni prima ai modelli antichi, che erano stati inequivocabilmente ripresi con grande partecipazione emotiva, ma anche profondamente cambiati. La forma complessiva di questa preziosa catena di risonanze che si riverbera dall’antico si presenta come un oggetto di riflessione autonomo e per alcuni aspetti caratteristico della pratica pittorica, architettonica e più largamente culturale europea. La lezione di Pavel Florenskij sull’icona è utile per ricordare come – per citare un esempio – nella tradizione cristiana orientale è la fedele ripetizione, non la trasformazione, ciò che rappresenta la cifra fondamentale della pratica pittorica in ragione del riconoscimento della legittimità gnoseologica dell’arte visiva come diretta e frontale relazione al divino. Diversa invece nella tradizione rinascimentale occidentale l’intenzione e la capacità che promuovono la continua rinegoziazione della tradizione; una pratica che sembra nutrita dalla varietà di orientamenti in merito alla diretta rappresentabilità del divino e quindi disponibile al contributo individuale dell’artista . Questa attitudine, al di là dei risultati più o meno felici che di volta in volta ha saputo raggiungere, definisce una cifra della traiettoria culturale europea che può essere definita con il termine «libertà»: una pratica umanistica e universalistica della libertà il cui nucleo si attesta propriamente sulla capacità di consentire il nuovo, il cambiamento, il rilancio di nuove forme e nuovi saperi . Questa direzione di lavoro non sembra essersi riprodotta nelle arti europee in modo casuale, ma pare piuttosto la conseguenza di scontri e antitesi che hanno trovato assetti istituzionali determinanti negli istituti di riproduzione del sapere, dalle accademie alle raccolte, dalle commissioni aristocratiche ed ecclesiastiche a quelle più mercantili. In altri termini si può ipotizzare che la pratica della libertà e il suo progressivo venire a coscienza nei campi intellettuali, sia il risultato di un’avventura cognitiva, emotiva e istituzionale, per alcuni aspetti ancora da raccontare pienamente , che certamente non ha esaurito la propria traiettoria culturale e soprattutto politica.
Per questo motivo Fondazione Palazzo Te ha inteso, in relazione alla mostra dedicata allo sguardo di Rubens su Palazzo Te, anche proporre una riflessione sul comune sentire europeo in campo culturale ovvero sui fondamenti di una Europa della cultura e sul rapporto tra politiche culturali, pratica della libertà e consolidamento dell’Unione Europea. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Peter Paul Rubens apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che l’affetto che legava i due giovani fratelli si può ben comprendere dalla lettera che Philip spedì a Peter Paul il 21 maggio 1601: il pittore era partito per l’Italia circa un anno prima e il letterato si rammarica della lontananza che li separa. In realtà, pochi mesi più tardi, anche Philip lasciò la patria per recarsi in Italia poiché doveva accompagnare il suo pupillo Willelm nel consueto viaggio di istruzione. Pochi mesi dopo il suo arrivo, Rubens incontrò un ambasciatore del duca di Mantova a Venezia, presumibilmente Annibale Iberti, che gli offrì di diventare ritrattista di corte.
Questo fu un evento molto importante nella vita del maestro d’Anversa, poiché sancì non solo l’opportunità di avere un patrono potente durante tutti gli anni di soggiorno in Italia, sebbene Rubens si lamentò sovente della paga poco generosa del duca, ma anche perché è la testimonianza di un altro fondamentale punto di contatto con Alberto VII. Vincenzo I Gonzaga e l’arciduca d’Austria erano cugini primi, per cui, come ipotizzò Sainsbury, ripreso anche dalla critica contemporanea, la lettera di raccomandazione che Otto van Veen fece ottenere al suo giovane allievo da parte del governatore delle Fiandre aveva lo scopo di indirizzarlo proprio al duca di Mantova; non solo, Baschet, ripreso da Navarrini, e Bodart ipotizzano che il pittore conosciuto dal duca di Mantova durante il suo viaggio a Bruxelles nel 1599 possa essere proprio Peter Paul Rubens, anche se è più probabile si tratti di Frans Pourbus il Giovane, che fu accolto alla corte gonzaghesca tre mesi dopo l’arrivo del conterraneo più giovane, in autunno. In ogni caso, anche presso Vincenzo I Gonzaga vennero accordate a Rubens concessioni molto favorevoli: il permesso di viaggiare per studiare l’arte antica e rinascimentale italiana e la possibilità di ricevere committenze da altri mecenati, oltre allo stipendio e ai compensi per le opere ordinate dal duca. In un primo tempo, dunque, la permanenza di Peter Paul presso la corte mantovana fu breve: l’otto luglio 1601 Vincenzo Gonzaga scrisse una lettera di raccomandazione per inviare il suo giovane ritrattista al cardinal Alessandro Damasceni Peretti di Montalto, vicecancelliere pontificio, affinché potesse copiare e studiare alcune famose pitture conservate nella città del papa; la risposta del potente cardinal Montalto fu scritta il 15 agosto, a conferma che Peter Paul era già stato accolto. Nel frattempo, si trovava a Roma anche Jean Richardot il Giovane (figlio dell’omonimo presidente del consiglio di Fiandra), avviato alla carriera ecclesiastica e mandato presso la Santa Sede come ambasciatore delle Fiandre dal re Filippo II di Spagna, che l’aveva voluto, nonostante la sua giovinezza, come membro del suo consiglio privato. Questa coincidenza è fondamentale, poiché la presenza di Jean Richardot a Roma fu importantissima sia per Peter Paul che per Philip. L’otto giugno 1601, infatti, Alberto VII scrisse al giovane delegato per affidargli l’incarico di trovare un pittore che fosse degno, ma che si accontentasse di duecento scudi al massimo, per decorare la cappella di Sant’Elena presso Santa Croce in Gerusalemme a Roma, di cui lo stesso arciduca fu cardinale titolare prima di rinunciare alla porpora per sposare sua cugina l’Infanta di Spagna.
Benché, come detto, la corte di Bruxelles dovette conoscere Peter Paul Rubens già prima della sua partenza per l’Italia, fu direttamente Jean Richardot ad affidare tale compito al giovane connazionale. Nello svolgimento dei lavori dovette essere coinvolto in qualche modo anche il padre consigliere, giacché viene espressamente menzionato nella suddetta lettera dell’arciduca e, in una missiva del 30 giugno, è lo stesso Jean Richardot che ragguaglia il genitore sullo stato dei lavori richiesti per la chiesa di Santa Croce. Evidentemente, a causa di questa prestigiosa committenza, il soggiorno di Peter Paul nella città pontificia si prolungò per un tempo più lungo rispetto a quanto era stato previsto da Vincenzo Gonzaga, poiché il 12 gennaio 1602 Lelio Arrigoni, ambasciatore a Roma della corte gonzaghesca, scrisse ad Annibale Chieppio, segretario di Stato di Mantova, per ottenere il permesso di far rimanere a Roma il suo giovane ritrattista per altri quindici o venti giorni al fine completare la pala d’altare raffigurante il Trionfo di Sant’Elena.
Nemmeno questa proroga, però, fu sufficiente, anche perché, contrariamente al progetto originario, furono aggiunte alla pala centrale altri due dipinti, l’Incoronazione di Cristo e l’Innalzamento della Croce , non si sa se per volontà di Peter Paul oppure di Richardot ma sicuramente per compiacere l’arciduca Alberto. Questa volta il permesso al duca di Mantova fu richiesto direttamente da Jean Richardot il 26 gennaio 1602 e di fatto l’ulteriore dilazione fu accordata, sicuramente in virtù della parentela con il cugino d’Asburgo, poiché Peter Paul non fece ritorno a Mantova prima del mese di aprile. Appena tornato, nel 1603, Vincenzo Gonzaga spedì il giovane pittore di corte presso il re di Spagna Filippo III, per una missione diplomatica, al posto del più anziano Frans Pourbus il Giovane, richiamato in patria. Per questo motivo, Peter Paul non assistette a due importantissimi eventi che investirono la vita del fratello, entrambi determinati dalla presenza di Jean Richardot a Roma. Il 20 marzo 1603, Philip Rubens iniziò la sua carriera ecclesiastica ottenendo la “prima tonsura” presso il palazzo del cardinal Girolamo Rusticucci, vicario di Roma: il documento comprovante questo avvenimento si trova presso l’archivio del Vicariato, nell’ottavo volume del Liber Ordinationes Sacerdoti, editato per la prima volta dall’autore della presente pubblicazione e riprodotto in appendice. Questo documento costituisce la spiegazione di una menzione che Peter Paul stesso scrive all’amico Johan Faber, una volta tornato in patria, a proposito del matrimonio del fratello con Maria de Moy: “In buon hora egli si spogliò la tonica et si dedicò alla servitù di Cupidine”. A tal proposito, Magurn interpreta la parola “tonica” con “abito da studente” (“scholar’s grown”), ma è chiaro dalla documentazione archivistica ritrovata che il riferimento ha un’attinenza letterale con la carriera ecclesiastica. Anche nell’atto di procura editato da Bertolotti, dal quale sappiamo che durante il secondo soggiorno romano i due fratelli abitarono insieme in via della Croce, Philip è nominato con l’appellativo di “revedendo”. Il 13 giugno 1603, Philip ottenne a Roma il dottorato in utroque iure: al certificato conservato nelle carte private del barone Henry van Havre, ultimo erede della famiglia Rubens, pubblicato da Genard, si aggiunge la segnatura dell’atto ufficiale registrato presso l’Università di Roma. In realtà, le scelte di intraprendere la carriera ecclesiastica, almeno in un primo momento giacché in patria convolò a nozze, e di ottenere il dottorato presso l’Avvocatura concistoriale dell’Università di Roma, furono probabilmente dettate dall’opportunità che si presentò proprio in quei mesi e che coinvolse l’amico Jean Richardot: il figlio del consigliere di Fiandra, infatti, era stato nominato vescovo di Arras dall’arciduca Alberto VII nel 1602, subito dopo la morte del predecessore Jean du Ploich, ricevendo la ratifica da parte del concistoro vaticano il 20 aprile 1603; è da considerare che fino a quel momento Jean Richardot non aveva ricevuto gli ordini minori e che ebbe accesso al sacro diaconato e presbiterato a Roma, dopo essere stato nominato vescovo. Questa coincidenza è importante perché il nuovo vescovo attrebatense concesse una pensione all’amico chierico, verosimilmente prima del rientro in patria di Richardot e Philip Rubens (Jean prese possesso pubblicamente del titolo vescovile della cattedrale di Arras l’otto febbraio 1604, stesso anno in cui Philip fece ritorno a Lovanio). È da puntualizzare che, a seguito del Concilio di Trento, non venivano più concesse prebende a coloro i quali, nella carriera ecclesiastica, non avevano avuto accesso almeno agli ordini minori (la “prima tonsura” costituiva di fatto solo l’accettazione del candidato nella Curia romana da parte della Chiesa); il dottorato in utroque iure, e la conseguente ammissione all’avvocatura concistoriale di Roma, però, permetteva anche ai laici di ottenere un beneficio ecclesiastico, in base a una specifica regola contenuta nello “Statuto del Collegio degli Avvocati Concistoriali” (rubrica 25), poiché si presupponeva che la formazione in diritto canonico e civile dell’Università di Roma preparasse specificatamente alla divulgazione della dottrina cattolica. Il documento comprovante la pensione accordata a Philip Rubens, analizzato approfonditamente più avanti, è stato editato per la prima volta dall’autore di questo studio. La rete di contatti che i due fratelli riuscirono a stabilire a Roma fruttò anche in favore della loro famiglia, cui furono sempre affettuosamente legati: il 30 marzo 1602 fu concessa da papa Clemente VIII la licenza di mangiare cibi proibiti in periodi di divieto a Maria Pipelynckx, vedova di Jan Rubens, poiché malata, e a sua figlia Blandina Rubens, poiché incinta; tale licenza era concessa raramente per diretto privilegio pontificio a persone non di rango nobile. Inoltre, questi due documenti, riportati in “Appendice documentaria”, suggeriscono lo stato sociale della famiglia Rubens: anche se non di rango nobile (Jan Rubens nell’intestazione del Breve pontificio viene definito “patrizio”), la famiglia di Peter Paul e Philip era economicamente molto solida, giacché la dispensa di mangiare alimenti di natura animale sarebbe stata di fatto inutile per la maggior parte della popolazione, che raramente (se non mai) poteva inserire la carne nella dieta quotidiana; è da notare che fu proprio Blandina Rubens ad accedere per prima al rango nobiliare: come si evince dall’intestazione del Breve pontificio, la donna era andata in sposa a Simone de Parq, definito “nobile”. Come noto, dopo più di un anno di assenza da Roma, tra il 1605 e il 1607 i due fratelli Rubens tornarono nella città papale e andarono ad abitare insieme presso via della Croce, vicino piazza di Spagna: fu l’occasione per frequentare l’ambiente dotto di Johan Faber, medico di papa Paolo V e membro della neonata Accademia dei Lincei, e di studiare insieme le antichità classiche, attraverso una proficua collaborazione che portò alla pubblicazione del testo Electorum Libri II, scritto da Philip e illustrato da Peter Paul. In quel tempo le carriere di entrambi si stavano arricchendo di due esperienze considerevoli: grazie all’aiuto di Justus Lipsius, Philip era stato nominato bibliotecario del cardinal Ascanio Colonna, mentre Peter Paul, il 25 settembre 1606, firmò la sua seconda, importantissima committenza pubblica romana: la decorazione per l’altare maggiore di Santa Maria della Vallicella per i padri filippini. Come è noto, il prestigioso incarico costituì anche l’unico fallimento che il maestro fiammingo ricevette nella propria carriera: la prima versione, oggi nel Museo di Belle Arti di Grenoble, non venne messo in opera, ufficialmente perché non convinse gli Oratoriani, forse anche per un problema di scarsa illuminazione (come lo stesso Rubens scrisse ad Annibale Chieppio, segretario del duca di Mantova), ma probabilmente perché l’iconografia non dava abbastanza importanza all’icona della Vallicella; una nuova prospettiva della vicenda viene data da Ruth S. Noyes che imputa l’insuccesso alla troppa somiglianza tra San Gregorio in primo piano e le sembianze di Filippo Neri: sarebbe stata, da parte dei padri filippini, una sorta di autocensura in quanto sarebbe stato venerato come santo, seppur “mascherato” da San Gregorio, il loro fondatore che, però, all’epoca non era ancora stato canonizzato, quindi, secondo i dettami della Controriforma, non avrebbe potuto essere oggetto di culto. A mio parere, laddove la somiglianza tra San Gregorio e Filippo Neri sembra convincente, soprattutto in relazione al disegno rubensiano raffigurante il fondatore degli Oratoriani conservato al Louvre, la decisione della non messa in opera ebbe motivazioni iconografiche più profonde da un punto di vista teologico: per quanto vivo fosse il ricordo fisico di Filippo Neri, di fatto labile sarebbe stata la traslazione tra San Gregorio e il padre fondatore. Come accennato, in quegli anni Philip godeva di una pensione annua, esente da qualsiasi tipo di tassazione, di cento ducati d’oro della camera apostolica dalle prebende della diocesi di Arras, dove era ancora vescovo il suo amico Jean Richardot il Giovane: lo sappiamo perché in un documento datato 24 marzo 1607, Philip rinuncia a questo beneficio ecclesiastico nominando suo procuratore universale il fratello Peter Paul. Per capire i motivi di tale rinuncia, bisogna necessariamente fare riferimento di nuovo ai rapporti che nel frattempo entrambi i fratelli erano riusciti ad avviare con l’arciduca Alberto VII: mentre ancora si trovavano a Roma, si aprì per Philip la possibilità di una carriera politica nella città di Anversa, probabilmente, anche in questo caso, grazie ai buoni uffici di Justus Lipsius presso il governatore delle Fiandre la rinuncia alla carriera ecclesiastica, dunque, era un atto dovuto.

La questione non era semplice in quanto né Philip né Peter Paul avevano il requisito fondamentale per accedere alle cariche pubbliche nelle Fiandre meridionali: erano nati a Siegen, quindi di fatto erano tedeschi, non fiamminghi! Per superare questo ostacolo, il 15 novembre 1606 Alberto VII ratificò a Philip l’atto di “brabantizzazione”, una sorta di permesso di soggiorno permanente, in virtù della nascita ad Anversa del padre, Jan Rubens in questo documento è ancora una volta Justus Lipsius che si rende garante del buon reddito e delle qualità civili e morali del suo pupillo. Il quattro agosto 1607, Alberto VII scrisse a suo cugino Vincenzo Gonzaga per chiedere il permesso di far rientrare Peter Paul Rubens in patria, avanzando la supplica della sua famiglia che lo voleva ad Anversa: di fatto, però, apparve evidente anche al duca di Mantova che l’interesse del principe delle Fiandre presupponeva l’opportunità per il pittore fiammingo di servire la corte di Bruxelles, tanto che il Gonzaga, nella risposta del 13 settembre, ribadita da un’altra missiva del 16, espresse il rammarico di perdere un così valido artista ma il piacere di sapere che avrebbe servito il suo illustre cugino. Effettivamente ci fu una ragione per cui Philip fu costretto a lasciare l’amata Roma abbastanza frettolosamente: la madre, Maria Pipelynckx, sola dopo la morte dell’ultima figlia rimasta in patria, Blandina, si stava ammalando sempre di più, per cui Philip partì a luglio del 1607, lasciando al fratello, nominato suo procuratore universale, l’incombenza di concludere le conseguenze amministrative della rinuncia al suo beneficio ecclesiastico. Peter Paul, avendo saputo del peggioramento delle condizioni di salute della madre, partì nell’ottobre dell’anno successivo, appena finita la committenza della Vallicella, senza neppure aspettare di prendere l’ultima parte del denaro a saldo del suo compenso.
Percorso Espositivo
Il colto umanista Pieter Paul Rubens, con la testa in fermento per le letture greche e latine apprese in patria, arrivò nella città ducale dei Gonzaga nella calda e umida estate dell’agosto del 1600. Il pittore non possedeva né conosceva disegni di Giulio Romano, ma solo le incisioni che circolavano nel nord Europa. Fin da subito l’allievo di Raffaello dovette essere una specie di daimon per il fiammingo: scomparso da non più di cinquant’anni dalla città ducale, la sua scia e le sue invenzioni si affermavano con visibilità giocosa per la città, tanto da sollecitare Rubens al confronto continuo. Il pittore se ne appropriò subito e le utilizzò come modelli, ritoccando anche i disegni di Giulio e dei suoi allievi per entrare nella struttura logica dell’invenzione. Quando arrivò a Palazzo Te dalla Porta della Posterla, l’edificio dovette sembrargli un miraggio. A quei tempi non era più il luogo delle delizie e dell’otium: una parte era stata concessa agli artisti Giorgio Ghisi e al fratello Teodoro per istallare la loro bottega d’arte e una collezione di naturalia, mentre il duca Vincenzo Gonzaga ne aveva adibito un’ala a laboratori alchemici. È questo il palazzo in cui Rubens entra, alla ricerca delle metamorfosi di Giulio: ci penetra pensando alle Georgiche del poeta latino Virgilio, ma anche alla favola di Amore e Psiche di Apuleio, alle divinità che si fanno umane, alle decorazioni mitologiche che trasformano la statuaria classica in pittura parlante, agli exempla virtutis che sono la radice della sua cultura neostoica. L’immaginifica popolazione di divinità e di testi antichi, inventati e citati da Giulio Romano a Palazzo Te, vennero incontro a Rubens e gli parlarono. Il pittore trovò qui il luogo perfetto per creare, a partire da Giulio, un nuovo idioma fortissimo da tramandare ai posteri. Si tratta di un linguaggio figurativo europeo, il primo della Storia dell’arte. «… J’estime tout le monde pour ma patrie», scriveva Rubens, e mai affermazione fu più profetica per un uomo che si spese per riconciliare i conflitti ed evitare ulteriori frammentazioni geografiche. Un artista che aveva coltivato la fantasia di un’Europa equiparata al Giardino dell’Eden: tollerante, pluralista, prudente e permeata di concordia civile.
Il dipinto che non arrivò a Mantova Camera Del Sole e Della Luna
Il 25 settembre 1606, i padri della Congregazione di San Filippo Neri di Roma affidarono a Pieter Paul Rubens l’esecuzione della pala centrale per Santa Maria della Vallicella. Nonostante la prima versione (1608, Musée des Beaux-Arts, Grenoble) corrispondesse ai bozzetti approvati dai committenti, l’opera fu ritirata. Probabilmente, l’immagine fu giudicata sconveniente perché la Madonna è poco visibile rispetto al resto dei personaggi. Ma in tutt’altro modo Rubens spiegò l’accaduto: in una lettera indirizzata ad Annibale Chieppio (2 febbraio 1608), segretario di Stato di Mantova, si parla delle cattive condizioni di luce della chiesa. Il pittore propose a Vincenzo Gonzaga di acquistare l’opera descrivendo i santi come nobili cortigiani dalle vesti preziose. Il duca di Mantova non diede seguito alla proposta e Rubens pose il dipinto sulla tomba della madre ad Anversa. La pala, che non arrivò mai a Mantova, troppo grande e fragile per viaggiare, ma fondamentale per i debiti che manifesta con la cultura rinascimentale, è stata digitalmente riprodotta da Factum Arte.
2. Giulio tradotto prima di Rubens Sala Dei Cavalli
La prolifica attività di Giulio Romano come disegnatore e inventore di nuove idee e di iconografie per Palazzo Te generò un fortissimo stimolo per la riproduzione incisoria dei suoi modelli. I primi traduttori delle sue opere furono un gruppo di incisori mantovani: Giorgio Ghisi e i membri della famiglia Scultori, Giovanni Battista e i due figli Adamo e Diana. Nel corso del XVI secolo questi si dedicarono a incidere gran parte dei dettagli del palazzo, talvolta con alcune rielaborazioni: Adamo Scultori riprodusse l’episodio di Ercole che strangola il leone di Nemea da questa sala; Diana Scultori realizzò una brillante sintesi su tre lastre con il Simposio degli dei e il Bagno di Venere e Marte dalla camera di Amore e Psiche; Giorgio Ghisi, negli anni in cui lavorò ad Anversa, continuò a incidere i soggetti di Giulio contribuendo alla fama imperitura delle sue soluzioni, come l’elegante Figura allegorica con sfera, riconoscibile in uno dei tondi a stucco della Loggia dell’Appartamento Segreto. Le incisioni di traduzione tratte dagli affreschi di Palazzo Te circolarono a lungo in Italia, e anche in Europa, nel corso del XVI secolo: Rubens fu in grado di studiare, già nelle Fiandre, le opere di Giulio Romano attraverso le stampe, lasciandosi ispirare, fin dalle sue prime opere giovanili, dal vastissimo vocabolario iconografico lasciato dall’allievo di Raffaello all’interno delle mura di questo palazzo.
3. Travolti dal mito Camera di Amore e Psiche
La Camera di Amore e Psiche di Giulio Romano, ispirata alla celebre favola di Apuleio, fu per Rubens un abecedario pictografico. Giulio aveva tradotto in pittura le grandi sculture dell’antichità, trasformandole in divinità ed eroi. Seguendo lo stesso metodo, Rubens riprodusse la statuaria greco-romana per rappresentare altre storie e altri personaggi che condividevano con le raffigurazioni originali un significato etico. Nella Dejanira tentata dalla Furia, la protagonista femminile è la moglie di Ercole, esempio di amore casto e lecito, ed è ritratta nella posizione della Afrodite Velata (II a.C., Palazzo Ducale di Mantova), in equilibrio tra castità e sensualità, dipinta e trasformata da Giulio Romano anche nella Venere marina della Sala dei Cavalli e di Psiche nel Banchetto Rustico della Camera di Amore e Psiche. La stessa Psiche qui dipinta da Giulio Romano è citata da Rubens nella fanciulla di spalle de Le Tre Grazie. Le suggestioni del mito antico, rielaborate attraverso le esperienze pittoriche di Giulio Romano, sono un patrimonio condiviso con la cerchia dei colleghi, dei collaboratori e degli allievi di Rubens: nelle Nozze di Peleo e Teti di Jan Brueghel il Vecchio, la tavola imbandita, simbolo di prosperità, è simile alla composizione centrale del Banchetto degli dèi nella parete sud di questa sala.
Anche il gigantismo tipico delle invenzioni di Jacob Jordaens ha un diretto riferimento a Giulio Romano, evidente nel confronto del Satiro che suona il flauto con il Polifemo della parete est.
4. L’idillio della natura Camera dei Venti
Le scene ideate da Giulio Romano per la Camera dei Venti sono tratte da un trattato di astrologia tardo-imperiale, il Matheseos Libri VIII di Firmico Materno. Negli episodi affrescati compaiono divinità, segni zodiacali, rituali antichi, battute di caccia e lotte contro bestie feroci, che mostrano l’influsso degli astri sulle vite umane. La decorazione, ricca di citazioni antiquarie e di rimandi a Giovenale, Michelangelo e Raffaello, fu studiata con attenzione da Rubens già prima del suo arrivo in Italia. Il Romolo e Remo allattati dalla Lupa è uno dei migliori esempi per comprendere la sua visione dell’antico, in grado di accogliere suggestioni artistiche e letterarie: dalla classicità al Rinascimento, da Virgilio a Plutarco. Alle scene di caccia e di lotta contro animali raffigurate nella Camera dei Venti, è legato il dipinto Caccia alla tigre, leone e leopardo. Rubens trae spunto da fonti sia nordiche che italiane e la dinamicità degli animali dimostra la sua conoscenza diretta di specie simili, avvenuta a Mantova nel serraglio dei Gonzaga. Dalle Metamorfosi di Ovidio – a cui si ispira Giulio Romano per una camera di Palazzo Te – è tratto l’episodio di Pan e Siringa di Jacob Jordaens, rappresentato anche da Rubens in un celebre dipinto che ritrae lo stesso soggetto (Museumslandschaft Hessen Kassel, 1617). La fonte iconografica diretta è un sarcofago con il mito di Adone conservato nel Palazzo Ducale di Mantova.
5. Sfida al potere Camere delle Aquile
Il mito di Fetonte, eseguito da Giulio Romano sul soffitto della camera, è fonte di ispirazione per Rubens nel suo San Michele espelle Lucifero e gli Angeli ribelli. I protagonisti delle opere – il primo di natura mitologica e il secondo di natura religiosa – sono accumunati dalla medesima sorte: precipitano a causa della loro orgogliosa protervia che li spinge a voler contrastare l’ordine costituito del mondo. La stessa superbia emerge anche nel mito del Ratto d’Europa narrato da Ovidio e abbozzato da Rubens nel 1636 per la Torre de la Parada, il padiglione di caccia di Filippo IV a Madrid. Rubens la dipinge con grande fedeltà al testo, volgendo lo sguardo a Giulio Romano e alla sua Dejanira dipinta assieme a Nesso, in una delle lunette di questa camera. La soluzione anatomica adottata da entrambi i pittori è un chiaro rimando alla statuaria antica, in particolare alla Ninfa seduta (copia romana da un originale greco, 150-100 a.C., Galleria degli Uffizi, Firenze), un tipo scultoreo ampiamente conosciuto grazie alla sua grande diffusione.
6. A lezione da Giulio Camera degli Stucchi
La Camera degli Stucchi fu ammiratissima fin dal Cinquecento. Secondo Giorgio Vasari, che lodava il doppio fregio, l’invenzione di Giulio Romano fu tradotta in rilievo da Giovanni Battista Scultori e dal giovane Francesco Primaticcio. Per gli eruditi del XVI secolo questa processione di fanti e cavalieri non si riferiva a un episodio storico, ma piuttosto restituiva, con scrupolo filologico, il modo in cui gli antichi romani andavano in guerra. Il pensiero doveva correre alla Colonna Traiana, la più famosa narrazione continua di storia militare dell’antica Roma. Del fregio, “modernamente antico e anticamente moderno”, ben presto presero a circolare stampe e copie, ricercatissime dagli artisti. Rubens riuscì ad acquisire una serie di disegni di grande formato, attualmente composta da ventuno fogli. Il pittore dovette ottenerla tra il 1600 e il 1608, quando era «fameglio» del duca Vincenzo Gonzaga. I disegni presentano lievi differenze compositive rispetto agli stucchi, perché sembrano derivare dai perduti cartoni di Giulio, anziché dai rilievi della camera. Rubens ritoccò queste copie cinquecentesche, accentuando le ombre sotto i cavalli, correggendo la posa delle zampe degli animali oppure rialzando con un pigmento color crema le parti colpite dalla luce. Sono proprio questi ritocchi, inconfondibilmente di Rubens, a confermare che i fogli erano un tempo di sua proprietà. Le figlie di Cecrope scoprono Erittonio infante di Jacob Jordaens fa riferimento a un episodio della mitologia greca: alle tre figlie di Cecrope, primo re dell’Attica, Atena aveva affidato suo figlio Erittonio, mostruoso bimbo con due serpi al posto delle gambe. Nonostante Jordaens non riuscì mai a compiere mai il tanto agognato viaggio di formazione in Italia, la stretta collaborazione con Rubens gli fece conoscere le invenzioni di Giulio Romano. Le figure che si trovano in questa tela, infatti, richiamano alcuni personaggi femminili dipinti nella Camera di Amore e Psiche: Aglauro, la fanciulla al centro della composizione, richiama Venere nella lunetta del soffitto; la loro posizione accovacciata è tratta dalla scultura antica detta Lely Venus (copia romana di un originale ellenistico, British Museum, Londra) che Rubens vide nelle collezioni Gonzaga e che Jordaens conobbe così attraverso il Maestro. Pandroso, la fanciulla bionda seduta a destra, è tratta da Leda e il cigno di Michelangelo, dipinto perduto, ma conosciuto e copiato da Rubens, che Giulio Romano conosceva: ne Il bagno di Venere e Marte, nella parete nord della Camera di Amore e Psiche, la figura femminile riproduce la stessa posizione di Leda in piedi invece che distesa.
7. La storia attraverso la virtù romana Camera degli Imperatori
Sulla volta della Camera degli Imperatori sono affrescate le effigi e le nobili gesta di alcuni grandi imperatori dell’antichità, come Filippo il Macedone, Alessandro Magno, Giulio Cesare e Augusto, rappresentato da Giulio Romano con un ramo d’ulivo in mano, simbolo della pace. Frutto della pace è l’abbondanza, raffigurata da Rubens nell’Incoronazione dell’Abbondanza, in cui la protagonista del dipinto è seduta al centro della scena con la cornucopia nella mano sinistra – uno dei suoi attributi principali –, mentre due figure femminili e un gruppo di putti in festa le ruotano attorno. Lo stretto rapporto fra pace e abbondanza è inoltre simboleggiato nell’Allegoria del ritorno della pace di Theodor van Thulden, dove la personificazione della Giustizia, a sinistra con la spada, abbraccia l’Abbondanza, a destra con il caduceo e la cornucopia. In primo piano due putti fondono le armi, mentre in secondo piano compare l’erma del dio Giano: secondo la religione romana, le porte del suo tempio venivano chiuse durante i periodi di pace. La pace è raggiunta dopo la guerra anche grazie alle bontà del vincitore, come si può vedere nel quadro di Jan Ykens Alessandro ed Efestione con la famiglia di Dario. Alessandro Magno infatti confermò lo stato di principessa reale a Statira, moglie del re di Persia Dario, sconfitto nella battaglia di Isso.
8. Natura e mito Camerino delle Grottesche
Il Camerino delle Grottesche venne affrescato da Luca da Faenza intorno al 1533 e Giulio Romano, nel progettarne la decorazione, si ispirò alle grottesche decorate nelle Logge Vaticane da Raffaello, di cui fu allievo dal 1514 al 1520. Rubens, invece, più che allievo di Raffaello si ritiene allievo di Giulio Romano e a Mantova acquista un album di disegni appartenuti alla sua bottega, che rimane una fonte di ispirazione costante anche dopo il ritorno ad Anversa. Uno dei fogli più importanti della raccolta è Ila trasportato dalle Ninfe della Collezione Frits Lugt, ritoccato da Rubens nella parte centrale, in particolare nell’elaborazione delle ninfe e dell'amorino con la fiaccola. Secondo le Argonautiche di Apollonio Rodio, Ila era il giovane e nobile scudiero di Ercole (che nel disegno dorme sulla sinistra), con cui si imbarca insieme a Giasone alla ricerca del vello d’oro. Durante una sosta in Misia, Ila si allontanò per andare alla ricerca di una fonte d’acqua, dove un gruppo di ninfe, innamorandosi di lui, lo trascinò sul fondo non appena si avvicinò alla sorgente. All’interno della Collezione Frits Lugt è inoltre conservato un disegno interamente realizzato dalla mano di Rubens: le Cinque ninfe, tratto da un’omonima invenzione di Giulio Romano. In precedenza attribuito a van Dyck, il disegno è stato poi assegnato al periodo italiano di Rubens (1600-1608).
9. La filosofia genera civiltà Camera dei Candelabri
Gli stucchi e le scene pittoriche che scandiscono il fregio della Camera dei Candelabri furono realizzati nel 1527 su disegno di Giulio Romano. Le decorazioni sulle pareti e il soffitto, invece, non sono le originali, ma si devono a un intervento del XIX secolo. Lungo il fregio sono rappresentati episodi tratti dalla storia biblica e greco-romana, come David con la testa di Golia; Giuditta e Oloferne; Tarquinio e Lucrezia; Ercole al Bivio, eroe che compare anche nella Camera dei Giganti fra la cerchia degli dèi. È a questi modelli che guarda Rubens prima di arrivare a Roma, dove studierà a lungo la scultura dell’Ercole Farnese (III secolo d.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli), fonte di ispirazione – insieme a Giulio Romano – per l’Ercole nel giardino delle Esperidi. Il protagonista di questo dipinto tiene in mano le mele d’oro nate nel giardino e ai suoi piedi giace il drago Ladone, loro custode. Agli esempi morali raffigurati lungo il fregio è legato l’Eraclito e Democrito che rivela, oltre alla passione di Rubens per la filosofia stoica, il suo profondo interesse per Seneca. Fu infatti il filosofo di Cordoba nel De tranquillitate animi e nel De ira a inaugurare il topos letterario del pianto di Eraclito e del riso di Democrito. Nel Cristo sulla croce invece Rubens dimostra di conoscere anche altri capolavori conservati a Mantova, come l’affresco con la Crocifissione realizzato da Rinaldo Mantovano, su disegno di Giulio Romano, per la Cappella di San Longino nella Basilica di Sant’Andrea
10. La forza dell’identità Camerino delle Cariatidi
Rubens trasferì alla generazione di artisti più giovane il ricordo di Mantova e dell’architettura rinascimentale italiana attraverso esempi non solo pittorici: il giardino della casa di Rubens ad Anversa è ispirato al grande loggiato interno di Palazzo Te, simile agli archi sullo sfondo della tela Alessandro ed Efestione con la famiglia di Dario di Jan Ykens. Mentre nel Giardino italiano con galleria e figure di Sebastian Vraencx il modello architettonico rinascimentale è a sua volta ispirato al parco retrostante la grande dimora di Rubens (oggi Rubenshuis, Anversa). Nelle collezioni Gonzaga a Mantova, Rubens studiò molti ritratti: da quelli di Tiziano e Giulio Romano fino a quelli del conterraneo Pourbus. La Dama delle Licnidi e il Ritratto del Cardinale Bartolomeo Cesi sono per la prima volta identificati con due personalità che segnarono la vita di Rubens e di Vincenzo Gonzaga: Isabella di Spagna, governatrice delle Fiandre meridionali (patrona di Rubens al suo ritorno in patria) e il cardinale che celebrò le sue nozze con l’arciduca Alberto VII. Bartolomeo Cesi fu amico di Pieter Paul e di suo fratello Philip, entrambi studiosi di antichità, e mise loro a disposizione la propria collezione di sculture greco-romane.
11. Jordaens e la trasmissione dei modelli di Giulio Romano Camera dei Capitani
Nel 1652 Jacob Jordaens dipinse, sul soffitto della sala di ricevimento nella sua casa di Anversa, nove scene con la storia di Amore e Psiche. Oltre all’impressionante uso della prospettiva sottinsù per gli episodi della volta, a sorprendere ancora di più i suoi ospiti dovevano essere le porte trompe-l’oeil dipinte sulle pareti. Jordaens si era già cimentato con la vicenda di Amore e Psiche fra il 1639 e il 1641, quando l’Abate Alessandro Cesare Scaglia gli commissionò un ciclo rimasto incompiuto. Nella sua casa di Anversa Jordaens, grazie alla stretta collaborazione con Rubens degli anni precedenti e all’accesso al patrimonio grafico del Maestro, si ispira agli episodi di Amore e Psiche realizzati da Giulio Romano a Palazzo Te, pur senza averli mai visti direttamente: fu uno dei pochi pittori della stretta cerchia di Rubens a non aver mai affrontato il viaggio in Italia. Eppure la scena in cui Psiche riceve la coppa dell'immortalità sul Monte Olimpo al centro del soffitto di Jordaens è desunta dal Matrimonio di Cupido e Psiche di Giulio Romano, così altrettanto centrale sulla volta della Camera di Amore e Psiche; mentre nella tela Sei Putti con una ghirlanda di fiori guardano al putto con cembali sulle vele della stessa camera. Invece, nell’adattare La curiosità di Psiche rispetto al modello di Giulio Romano, Jordaens non solo rappresenta l’eroina armata di forbici e non di rasoio – come nel racconto di Apuleio – ma trasforma Amore da ragazzo avvenente a bambino. Per le scene del ciclo di Amore e Psiche, Jordaens non fa riferimento solo a Giulio Romano, ma anche a Rubens: la mano che sorregge la lampada con il mignolo alzato ne La curiosità di Psiche è tratta dall’omonimo soggetto di Rubens oggi in collezione privata (1609-1615), mentre l’episodio con Mercurio trasporta Psiche sull'Olimpo – così diverso dal quello dipinto da Raffaello nella Villa Farnesina nel 1519 – è forse desunto da La Prudenza (Minerva) vince la Sedizione, eseguita dal fiammingo per Carlo I d’Inghilterra fra il 1633 e il 1634.
12. Il guerriero Achille, Eroe mortale Camera dei Capitani
Intorno al 1630 Rubens eseguì otto bozzetti con Storie di Achille poi tradotti in arazzi per un’impresa forse finanziata dal suocero Daniël Fourment, il quale ereditò anche i modelli pittorici e i cartoni per i tessitori. Il pittore fu il primo a dipingere un intero ciclo dedicato all’eroe greco e per la sua realizzazione non esitò a ricorrere, anche a distanza di anni, alla lezione appresa dalle pitture di Giulio Romano a Mantova. Rubens non solo inserì due episodi del tema tratti da quelli dipinti da Giulio un secolo prima a Palazzo Ducale (Sala di Troia), ma arricchì il suo linguaggio rielaborandolo in un vocabolario del tutto nuovo. Nell’Achille scoperto da Ulisse tra le figlie di Licomede la posa della fanciulla seduta di spalle in primo piano è la stessa di una presente nel Banchetto rustico della Camera di Amore e Psiche. Le citazioni da Giulio Romano per Rubens sono frequenti nei bozzetti. L’intenzione del pittore non era rappresentare Achille così come appare nell’Iliade, ma offrire la sua interpretazione del mito scegliendo episodi che mettessero in luce il lato eroico e soprattutto quello umano del personaggio. Ed ecco che Achille non è più succube della volontà divina, ma è libero di mostrare i propri sentimenti e debolezze. La serie godette di una certa fortuna nel Seicento, ne sono esempio sia la versione dipinta da Erasmus Quellinus nel 1640, dove il mito classico è attualizzato al presente secentesco con i magnifici abiti indossati dai personaggi, sia l’arazzo genovese, databile alla seconda metà del XVII secolo, che ripete fedelmente la composizione di Rubens, pur omettendo piccoli dettagli.
Camere delle Vittorie
Nell’Achille educato da Chirone l’eroe greco è un personaggio galante piuttosto che un guerriero, interprete di valori aristocratici vicini agli uomini del primo Seicento. Rubens riesce ad attualizzare il mito e Achille appare come un giovane eroe che riceve un’educazione raffinata. Nel XVII secolo l’abilità di montare a cavallo veniva accomunata con la dote di comando e di autorità ed era parte essenziale della formazione di ogni nobiluomo. Chirone, la più nobile tra le creature metà uomo e metà cavallo, insegna ad Achille le arti della pace: la caccia, la musica, la medicina. L’arazzo dei Musei Reali di Torino, con lo stesso soggetto, è firmato dall’arazziere François Raes, che si servì dei cartoni di Jacob Jordaens, collaboratore di Rubens, per portare sul telaio le Storie di Achille. Databile tra il 1655 e il 1669, l’opera testimonia un’evoluzione del gusto evidenziata attraverso l’abbandono delle elaborate cornici intorno alle scene così come le aveva concepite Rubens e la loro sostituzione con cornucopie di fiori e frutta, amorini e uccelli. L'ira di Achille davanti ad Agamennone è ancora una volta l’occasione, per il pittore, di esibire i sentimenti dell’eroe, la sua forza, la straordinaria sensibilità, ma anche la violenza della collera. L’antico filtrato attraverso la pittura di Giulio Romano resta per Rubens una fonte di ispirazione continua, ancora a distanza di tempo. Il progetto di allestimento, illuminazione e grafica in mostra è stato affidato a Paolo Bertoncini Sabatini, mentre il progetto grafico a Francesca Pavese. Catalogo edito da Marsilio Arte.
Palazzo Tè di Mantova
Rubens a Palazzo Te. Pittura, trasformazione
dal 7 Ottobre 2023 al 7 Gennaio 2024
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.30
INSTALLATION VIEW Ph. Gian Maria Pontiroli © Fondazione Palazzo Te.