Giovanni Cardone Giugno 2023
La mostra Prorogata fino al 2 Luglio 2023 si potrà ammirare fino presso la Fondazione Luigi Rovati Milano la mostra Diego, l’altro Giacometti a cura di Casimiro Di Crescenzo . L’esposizione è organizzata in collaborazione con PLVR Zurigo. Oltre sessanta opere tra sculture, arredi, piccoli animali e maquettes rappresentano le declinazioni del lavoro scultoreo e di design di Diego Giacometti e si inseriscono nell’allestimento permanente del Museo d’arte, nella prospettiva di un dialogo con l’arte etrusca. Prima mostra in Italia interamente dedicata all’artista svizzero, accoglie opere provenienti dagli eredi di Diego Giacometti, dalla Fondation Giacometti di Parigi, dall’Alberto Giacometti Stiftung conservata presso la Kunsthaus di Zurigo, dal Musée Picasso-Paris di Parigi e da collezioni private.  In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla famiglia Giacometti e sulle figure di Diego e Alberto aprendo il mi saggio posso affermare che : Ovviamente tutti conoscono Alberto, ma molti non sanno che egli fa parte di una famiglia creativa, con questo saggio cerco di dare una conoscenza dell’intera famiglia Giacometti nel tentativo di ridare a ciascuno di loro il posto che gli spetta nel contesto artistico e storico del XX secolo. Come molti sanno il padre Giovanni è un affermato pittore post-impressionista che si è ispirato alla luce e ai colori delle montagne della Bregaglia, la sua valle d’origine; al suo fianco la moglie Annetta, un punto di riferimento costante che fa di lei il pilastro della famiglia. Poi i figli: Alberto, il primogenito, l’unico che fin da ragazzo ha seguito le orme paterne ed è diventato uno dei più grandi artisti del XX secolo; Diego, la cui vocazione artistica matura lentamente, ma che dimostra da subito di essere un lavoratore infaticabile dotato di particolare abilità tecnica; Ottilia, la figlia molto amata che muore prematuramente a 32 anni e infine l’ultimo nato, Bruno, affermato architetto al quale si deve il Padiglione della Svizzera alla Biennale di Venezia. Considerato da molti l’altro Giacometti, Diego era fortemente legato ad Alberto i due fratelli vivono in un rapporto simbiotico nei quaranta anni passati insieme a Parigi. Nonostante le assonanze formali tra le loro opere, Diego sviluppa uno stile artistico originale, caratterizzato dall'amore per la natura e gli animali. Quella di Diego è una produzione dallo stile immediatamente riconoscibile, che prende ispirazione dall’archeologia e dalla mitologia, combinate con elementi naturalistici e, anche, surreali. Gli oggetti prendono vita e acquistano una propria personalità. Le opere esaltano l’essenzialità della forma, le proporzioni perfette e il sottile gioco di equilibrio tra le diverse componenti. L’opera di Diego è espressione dell'arte del XX secolo, in cui l'estetica e la funzionalità si fondono in modo armonioso. Le sue sculture in bronzo sono capolavori di elaborazione creativa e tecnica, in cui ogni dettaglio è curato con estrema precisione; i suoi mobili sono progettati per essere utilizzati come sedute o come tavolini, ma allo stesso tempo sono opere d'arte uniche e ricercate. Mentre l'opera di Alberto Giacometti ha risentito dell’influenza dell’Esistenzialismo egli si avvicinò grazie anche all'amicizia che aveva con Jean-Paul Sartre, amicizia nata a Parigi all'inizio della guerra. II nero momento della guerra, espresso chiaramente nelle opere di Sartre e degli altri filosofi esistenzialisti, conducono Giacometti e la sua opera ad una esperienza limite: le sue sculture divengono di volta in volta più piccole e quando non spariscono completamente possono essere contenute in una scatola di fiammiferi. Ma i personaggi di Giacometti non scompaiono mai del tutto: la guerra dilaniava l'umanità e il grumo di materia strappato sull'orlo dell'abisso bastava, per quanto minuscolo che fosse, ad avvertire ancora una presenza umana. Nella figura ridotta anche a dimensioni minime, esilissime, ritroviamo tutto: la sofferenza inconsolabile dell'uomo e la sua ultima decadenza fisica, perfino la nobiltä e la grandezza tragica della statua. II fuggevole e dunque nel nucleo umano che lo spazio riesce ad assorbire, a dissolvere, ad assimilare nel suo vuoto perche la figura di Giacometti, anche ridotta a un grumo, a uno stelo, a un vuoto che urla di angoscia, e una presenza diretta e riflessa di cose vicine e lontane. Giacometti, trasponendo questo insieme di relazioni a un solo dato assoluto che vuol cercare nella figura, cerca di distruggere lo spazio e trova ancora relazioni, benché ridotte ai minimi termini, ovvero alla soglia della fine del nulla. Non e il nulla per Sartre  la condizione necessaria e assoluta del per se.  E un'esperienza di non essere radicale che il soggetto compie nel suo stesso essere e agire concreto. Esso si presenta al soggetto sotto le forme più immediate e improvvise. Già la nostra semplice interrogazione sull'essere ci rivela che siamo circondati dal nulla, in quanto qualsiasi risposta sarà una limitazione, un annullamento rispetto all'indeterminata totalità del reale che e. L'analisi della negazione più elementare ci rivela che la «condizione necessaria perché sia possibile dire no e che il non essere sia una presenza continua in noi e al di fuori di noi, e che il nulla penetri continuamente l'essere». Da Sartre, Giacometti ha imparato che il vuoto e nell'essere stesso. Lo stesso filosofo e alcune sue opere come L'essere e il nulla  hanno incoraggiato Giacometti a far sorgere nella sua pratica artistica quelle categorie  il tutto, binfinito, la materia di cui aveva bisogno per sopravvivere negli anni di vana ricerca. E in questo periodo che appare in «Labyrinthe» bangoscioso racconto autobiografico Lereve, le Sphinx et la mortde T. Ecco una pagina straordinariamente rivelatrice del racconto che vale come un'analisi profonda della situazione spirituale dell'artista, e del suo rapporto con l'essere e con il non essere, fondamentale per intendere la sua arte. E il caso di pensare che il racconto di questa esperienza ha qualche cosa di letterario, perche s'ispirerebbe a qualche autore, per esempio al Sartre della Nausea. Giacometti, soltanto qualche mese dopo la stesura di queste pagine, ha scolpito due o forse tre opere che confermano la loro analisi ed esprimono anche il suo terrore e provano abbondantemente l'intensità con la quale si e manifestato e ancora si manifesta. Queste opere sono Donna seduta, II naso e Testa su stelo; esse esprimono il «terrore» più primitivo, quello dell'essere davanti al nulla, in modo evidentemente sincere e altrettanto intenso. Tuttavia la visione spaventosa legata alla morte, in Giacometti giustifica ancor più l'insondabile bellezza della vita, in quanto si accompagna quasi subito a una esaltante visione compensatrice sorta in circostanze precise e descritta dall'artista con il carattere di una illuminazione. II 1946 e il 1947 hanno visto formarsi nelle sue mani un'arte che, in una certa misura, ha dato atto della sua visione, aiutandolo costa tenerla in mente per meglio lottare contro il «terrore», certamente mai completamente debellato. E ora e necessario cercare nel lavoro dell'artista ciò che in esso e stata la trasposizione e lo sviluppo e quindi il rafforzamento, ma forse anche la messa in pericolo dell'intuizione che alla fine del 1945 si produsse in lui  va messo in rilievo per rendere giustizia di una certa idea della creazione in un'esperienza diretta della presenza del mondo. In questo lavoro ci si trova immediatamente di fronte al disegno. II catalogo delle opere di Giacometti per il 1946 annovera pochissime sculture, ma offre una quantità considerevole di studi, a matita e perfino a pennello, tra cui molti ritratti di Annetta, di Diego, di Pierre Matisse e soprattutto di Sartre. D'apres nature: il principio fondamentale nel 1946 fu la dipendenza dalla natura invece che dall'immaginazione «Quello che mi interessa e la rassomiglianza, quello che mi fa scoprire un po' del mondo esterno» con la continua esplorazione dei modelli. Giacometti ha imparato a esprimere con il disegno, con la libertä del disegno, la non pesantezza, l'essenziale leggerezza che caratterizza ciò che e la vita o si associa alla vita. Ed e questa leggerezza che ha trasposto nella scultura, nel 1947, grazie a quello che si può definire un episodio da atelier, il cambiamento che si e operato nel rapporto tra le sue mani operanti e quel gesso o quella terra che esse lavoravano da tanti anni. Lo scultore ha gli occhi fissi su ciò che le sue mani devono o non devono cercare di iscrivere in quello che per lui non e dapprima che materia inerte, sul trespolo; questa materia che, diceva a Simone de Beauvoir e a Sartre, si divide all'infinito, contraddicendo cosi ogni progetto d'insieme. Ma l'evidenza della materia e ormai troppo forte per essere cosi sovvertita quando, nel 1946, dopo aver disegnato alcune figure in piedi, alcune teste, Giacometti si sente ripreso dal bisogno misterioso di fare scultura, ma teme che le sue figure si riducano di nuovo a un pollice. Pensando forse al Balzac di Rodin, che ha appena ritrovato, studiato, prenderà a piene mani questa materia che e l'esteriorità della vita per racchiuderla  per far sgorgare dalla sua massa, plasmata cosi dal volere dell'uomo, i caratteri di estensione, di infinito inerte, le protuberanze e i pieni che si aggrovigliano per nulla nella luce deserta. E ciò che resta tra le mani dell'artista, possano nascere, essendo caduta ogni materia, quegli occhi che in una persona reale sono la vita soltanto perche questa ha similmente rifiutato nel rapporto con se tutto il suo «resto» di materia indifferente, di morte. Ed e ancora inventare una specie di nuova mimesi: quella che non tende più alla credibilità di una figura liberata dalle apparenze, ma che di primo acchito e significante di ciò che succede nel modello sul piano evidentemente non visibile, metafisico, dove bisogna che ad ogni secondo questo essere si erga in se per continuare a essere. Ecco un'attenzione all'oggetto della rappresentazione che non crede più a nessuna cosa che non debba lottare per essere, che non s'interessa che a questo mistero. E stiramento delle figure, questo modo che hanno ora di portare molto in alto nell'assoluto la loro testa, ridotta a energia vitale, lasciando la materia al di fuori, a costo di catturarla nelle reti di questa energia al lavoro, semplicemente e totalmente la cifra di questo mistero. Straordinarie sono la rapidità e la vastità dell'invenzione nelle opere di Giacometti durante alcuni mesi del 1947. Ma lo straordinario non e l'inspiegabile, ed e facile vedere come questo sviluppo tanto a lungo rimandato sia stato logico. Innanzitutto ö possibile osservare che questa visione dell'atto di essere si mostra nelle nuove opere ed e questo il compito più semplice  senza riferimento ad un essere particolare, la cui apparenza precisa si accorperebbe all'atto che e oggetto di attenzione. Se in alcuni disegni erano Diego e Sartre che portavano la presenza, che le davano rilievo, nelle alte figure di donne immobili o di uomini in movimento riprodotte nel catalogo del 1948 l'apparenza di questa o quell'altra persona non ha richiesto la partecipazione dello scultore e questo abbandono, che sarà solo momentaneo, della preoccupazione di testimoniare un viso, un'esistenza ben finita, libererà il lavoro da un motivo di «invischiamento» di cui in altre epoche Giacometti era stato vittima. D'altra parte l'esclusione, in queste statue, del pensiero della mimesi «esteriore», del compito di essere fedele a un viso che si guarda, permetterà a Giacometti tutto un possibile per lui ancora inesplorato. Ed e allora una varietà d'approccio che per la prima volta permette, nell'opera figurativa di Giacometti, l'esistenza di statue che non sono più da vedere di fronte, ma differenziate dall'interno, caratterizzate da un gesto, un atteggiamento e suscettibili di conseguenza di prendere posto le une accanto alle altre in un insieme che catturerà l'attenzione. La prova di questa genesi dall'interno delle figure del 1947, oltre che un esempio di facilitä con cui Giacometti può allora spingerla fino in fondo, e evidentemente L'uomo che cammina: perche non abbiamo bisogno di cercare molto lontano tra le sue dichiarazioni per trovarvi il rapporto con se stesso che si e proiettato in questa opera. Non vi e nessuno che non conosca oggi questa statua, la più famosa di quelle di Giacometti, questa alta figura dalle gambe che tengono la testa lontano dai grandi piedi rocciosi trattenuti, si direbbe, nell'alta pietra, quella dello zoccolo. E nessuno, neanche, che non abbia visto questa «camminata» leggera e insieme appesantita come un'immagine del suo proprio slancio nella vita, ma questo perche Giacometti per primo ha abitato la sua statua. Egli rappresenta ciò che gli e apparso sul boulevard, all'occasione dell'incidente nel 1938, come «bellezza fantastica, totalmente sconosciuta»: vale a dire che «l'uomo che cammina per la strada, non pesa niente, molto meno in ogni caso dello stesso uomo morto o svanito. Sta in equilibrio sulle gambe. Non sente il proprio peso». L'uomo che cammina e l'opera di un Giacometti che medita il mistero dell'essere, rintracciandolo nel proprio corpo come forse avviene negli esercizi spirituali delle religioni orientali. E ciò che bisogna mettere in risalto e che, ponendosi come oggetto quella sintesi di forze che tende a produrre un equilibrio, egli e riuscito a produrre ciò che fino allora aveva sempre ritenuto impossibile, almeno per lui: l'implicazione in scultura di un movimento del corpo. Dopo la sua lunga crisi, questa era per lui una difficile conquista. Ma nell'avanzare di una gamba in questo uomo che cammina può essere visto come un gesto subito compensato da un altro gesto a vantaggio di una risultante, equilibrio «di un piede sull'altro», che ci chiama sul piano dove essa ha la sua realtà, che e la volontà di essere; fare si che si cammini, che si sia. E un'altra conquista di questa proiezione di se che Giacometti fa nella sua nuova scultura e che ora può riuscire in ciò che fino allora gli era stato negato: esprimere un pensiero, una considerazione sulla vita, all'occorrenza quel «camminare prodigioso, semplicemente prodigioso». A partire dal 1950 l'opera di Giacometti cambierà in modo profondo e definitivo. La pittura predominerà di gran lunga sulla scultura. In realtà Giacometti non ha mai smesso, perfino nell'ardore dei bronzi, di interessarsi di pittura. Molto significativo di questo periodo e l'olio su tela intitolato L'atelier, poiché ci permette di capire sempre meglio il rapporto Sartre-Giacometti. Dal 1946 al 1956 l'artista si preoccupa di definire la relazione della figura con l'ambiente e si mette a una distanza tale dal modello che gli permette di abbracciare con lo sguardo lo spazio in cui esso si trova. Dal 1960 si avvicina molto più al modello, ora che l'esperienza gli ha insegnato che se anche un solo particolare di un volto e pienamente realizzato, da questo si irradia la totalità unitaria del volto, anche se altre parti sono abbozzate spesso con estremo vigore espressivo. Questo avvicinamento dell'artista alla persona che egli vuole ritrarre e la conseguenza soprattutto del suo interesse per la persona umana e ancora per il suo volto che egli vuole indagare. Anche da un particolare di un volto, se e pienamente realizzato, si irradia come si e detto la totalità unitaria della fisionomia e Giacometti si prefigge di dare immagine allo sguardo con una fedeltà assoluta. Egli deve spogliare la percezione visiva di qualsiasi elemento deliberatamente estraneo: onde la visione ritrovi quella purezza e quell'essenzialità che sembravano perdute e non solo nella resa del volto ma del busto o della figura tutta intera. Al momento in cui aveva toccato il grado supremo dell'astrazione, aveva riconosciuto la necessitä di un nuovo confronto con la figura umana e in tal senso aveva ripreso il lavoro. Dell'intera figura umana vi sono due immagini fondamentali in Giacometti: l'una e immobile, le gambe e i piedi riuniti, le braccia aderenti al corpo, adottando la rigidità e la frontalità delle statue arcaiche. E questo procedimento sculturale e particolarmente messo in evidenza quando le figure sono fissate su degli enormi piedistalli che sostengono il loro carattere di immutabilità. Altre figure sono invece viste nell'atto di camminare, attraversanti lo spazio a passo di gigante. Le figure in marcia o immobili possono presentarsi sole o in gruppo. Nelle composizioni, nei ritratti, negli interni, nelle nature morte, cosi come nei paesaggi, la grisaille e il tono dominante: un grigio tinteggiato che non dona la sua profondità, la sua ricchezza se non dopo una osservazione intensa. L'artista si serve di una pittura oggettiva attraverso strutture lineari e relazioni spaziali fra le cose e le persone. Nel gennaio del 1966 Alberto Giacometti muore all'ospedale di Coira e viene sepolto a Stampa, sua villaggio natale. Nello stesso anno la città di Zurigo rende omaggio all'artista inaugurando la Fondazione Alberto Giacometti. Egli è stato un grande artista che ha posto il suo problema in termini estremi di «essere» e «nulla» nella dialettica che e dramma da cui nasce il sentimento tragico e desolato dell' esistenza. C’è un principio della filosofia strutturalista che si chiama “casella vuota”. L’ha chiamato così il filosofo francese Gilles Deleuze in un suo libro del 1969 e in sostanza serve a ribadire una cosa un po’ strana, quasi controintuitiva, cioè che le “assenze” sono importanti tanto quanto le presenze.  Lo strutturalismo è una corrente filosofica secondo cui ciò che conta è la posizione degli elementi del mondo, ma non si tratta di una posizione fisica, nello spazio geografico del mondo, ma nelle strutture invisibili, come le società, i saperi, i linguaggi e così via: non conta tanto ciò che occupa un posto nel mondo, ma conta il posto in sé. Ecco un esempio pratico: potremmo dire che non conta chi fa la guardia carceraria, conta quella posizione, quel ruolo, quella “casella” della società. Da lì, da quella posizione nella struttura sociale, si ottiene l’identità della guardia carceraria cioè una delle professioni in cui si tende a usare violenza con più facilità in assoluto, sia verso gli altri (i carcerati) che su se stessi il tasso di suicidi tra le guardie carcerarie è tra i più alti al mondo. Che la guardia carceraria sia io, Enrico, o un altro non cambia troppo. La casella che occupiamo è ciò che determina i nostri comportamenti .
 
La mostra si sviluppa in quattro temi, approfonditi nel catalogo:
Tra scultura e design.
Si evidenziano propensione, vocazione e talento di Diego per la tecnica scultorea, che apprende lavorando con Alberto influenzato dal clima artistico della Parigi degli anni '20 e '30. Insieme collaborano con il celebre designer francese Jean-Michel Frank, che inaugura la propria boutique nel 1935 in rue Faubourg Saint-Honoré: di quella inaugurazione resta una foto in cui con Frank compaiono Diego e Alberto. Si delinea in questo periodo quella propensione creativa che porterà alla realizzazione di sculture e degli oggetti decorativi dei mobili in bronzo.
Mobili e oggetti.
Sono il fulcro della sua originale e raffinata produzione di design. Il suo lavoro si esprime nella capacità di integrare arte e funzionalità, creando opere che sono anche oggetti d’uso. La tecnica di Diego Giacometti è molto complessa: dallo schizzo su carta realizza una versione dell’oggetto in cera o in gesso, così come in gesso esegue i suoi elementi compositivi, prima del passaggio alla forma definitiva in bronzo, realizzata attraverso il processo di fusione. Provvede personalmente a montaggio, saldatura e fissaggio, per poi terminare con la tecnica di cui è maestro: la patinatura.
Bestiario.
Gli animali sono per l’artista non solo soggetti da rappresentare, ma amici e compagni di vita; non solo creature vive, ma un vero e proprio mondo fantastico di cui si è sempre interessato sin da bambino nei boschi dei Grigioni, così come da adulto a Parigi: dal cucciolo Rigolo, al ragno che tesseva la tela nel suo studio, alla volpe Misrose, alla gatta Fofa. Insieme a Rembrandt Bugatti, Diego Giacometti è uno tra i maggiori interpreti della rappresentazione artistica degli animali, un importante filone di ispirazione per molti scultori nella Parigi degli anni '30.
Diego come modello.
Lo Spazio Bianco raccoglie una serie di ritratti di Diego: Diego, nourrisson, dipinto dal padre Giovanni nel 1902, Tête d’homme (III). Diego eseguito nel 1965 dal fratello Alberto. La Tête de Diego del 1914-15, in gesso, è la prima scultura realizzata da Alberto ed è contrapposta al bronzo Tête de Diego del 1937. Buste mince sur socle (Aménhofis), del 1954, è tra le prime opere in cui Alberto, attraverso la forte compressione della larghezza del volto di Diego, presenta allo spettatore due diverse e opposte visioni del modello, lati che non sono visibili nello stesso momento e che portano quindi ad una visione pluridimensionale.
Tra le opere più significative in mostra: Lionne del 1931, prima scultura di Diego; Testa di leone del 1934, possente lavoro in pietra, che per anni fu visibile all’ingresso della casa di famiglia a Maloja, prestito dall’Alberto Giacometti-Stiftung; Table basse “Carcasse” modèle à la chauve-souris del 1975 e Console “La promenade des amis” del 1976, tra le opere più rappresentative del lavoro artistico di Diego; Torchère, maquette demi-grandeur del 1983-84, un modello utilizzato per il Musée Picasso-Paris di Parigi. Nell’ingresso del piano nobile Lanterne à quatre lumières del 1983, creata per la filantropa e collezionista americana Rachel (Bunny) Lambert Mellon. Infine, per la prima volta vengono esposti i tre Oiseaux creati nel 1942 per il salotto dell'appartamento di Francis Gruber, lo Specchio del 1942, nato da una fantasia barocca, la Mano del 1942-1944, e l’Applique aux panthères, un tempo collocata nella casa dell’artista in rue du Moulin-Vert a Parigi. La mostra è accompagnata dal catalogo “Diego, l’altro Giacometti” a cura di Casimiro Di Crescenzo e pubblicato da Fondazione Luigi Rovati.
 
Fondazione Luigi Rovati Milano
dal 15  Marzo 2023 al 18 Giugno 2023
Prorogata Fino al 2 Luglio 2023
Diego, l’altro Giacometti
dal  Mercoledì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
 
Foto Allestimento mostra Diego, l’altro Giacometti credit © Daniele Portanome per la Fondazione Luigi Rovati Milano