Giovanni Cardone Ottobre 2023
Fino al 17 Settembre si potrà ammirare a Palazzo Reale di Milano mentre fino al 5 Novembre al Museo del Novecento Milano questa doppia mostra dedicata a Mario Nigro – Opere dal 1947 -1992, ad un grande protagonista del Novecento. La rassegna è promossa da Comune di Milano - Cultura, prodotta da Palazzo Reale, Museo del Novecento e Eight Art Project, la mostra è realizzata in collaborazione con l’Archivio Mario Nigro e curata da Antonella Soldaini e Elena Tettamanti. Sono esposte oltre centoquaranta opere dal 1947 sino all’ultima del 1992 tra dipinti, lavori tridimensionali, su carta e una vasta selezione di documenti. La mostra comprende opere esposte alle Biennali di Venezia del 1964, 1968, 1978, 1982, 1986 e alla X Quadriennale di Roma del 1973. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Mario Nigro apro il mio saggio dicendo : L’Italia uscì duramente sconfitta dal secondo conflitto mondiale, lacerata dalla guerra che aveva procurato lutti, rovine e miseria e dilaniata dall’interno da anni di lotta armata civile. L’orrore e la tragedia di quanto vissuto restò vivo negli animi dei supersiti.

Nel campo dell’arte avvenne una profonda presa di coscienza da parte degli artisti che si fecero interpreti di quel profondo dolore. I gruppi che avevano animato il dibattito artistico negli anni precedenti il conflitto si erano ormai sciolti, e molti di quei protagonisti si unirono a nuovi schieramenti, con nuovi programmi, che animarono un nuovo dibattito nell’Italia del secondo dopoguerra. La polemica che infiammerà le discussioni in quegli anni ruotò attorno la querelle fra realisti e astrattisti, che si fondava sulla divisione netta di due linguaggi teoricamente inconciliabili. Nel febbraio del 1946 sul primo numero della rivista milanese «Il 45», diretta da De Grada, fu pubblicato un saggio di Mario de Micheli intitolato Realismo e poesia, che fu considerato il primo manifesto ufficiale del realismo. Nel marzo dello stesso anno sulla rivista «Numero», sempre a Milano, fu pubblicato il Manifesto del realismo, detto anche Oltre Guernica. Contemporaneamente a quest’ultima pubblicazione, la stessa rivista, organizzò una mostra alla quale parteciparono Giovanni Dova, Ennio Morlotti, Giovanni Testori, Emilio Vedova e altri artisti settentrionali. Le istanze teoriche espresse nel saggio di De Micheli furono già precedentemente manifestate in un documento redatto nel 1943, a firma di De Micheli stesso, di Emilio Morosini, di Raffaele De Grada, di Ennio Morlotti, di Emilio Vedova e di Ernesto Treccani, dove si condannava la metafisica, il surrealismo, l’espressionismo, il novecentismo e si affermava marxisticamente la necessità di un’arte dal carattere nazionale e popolare. Col termine “realismo” non solo si ricusava l’accademismo novecentista ma anche l’espressionismo di “Corrente”, considerato intimista e sentimentale e in netta opposizione al “formalismo”, termine che includeva tutte le avanguardie storiche. Per i realisti il modello di riferimento fu Guernica di Picasso, considerata una sorta di realismo moderno derivato dal cubismo. Col termine di “neocubismo” vennero poi indicate le opere di Renato Guttuso, Armando Pizzinato e degli scultori Pericle Fazzini e Leoncillo Leonardi. Ricordiamo, inoltre, che nel 1945 a Roma venne fondato l’Art Club, che iniziò un’intensa attività di mostre e dibattiti sull’arte contemporanea, la cui direzione venne affidata a Enrico Prampoli. Nodo centrale del dibattito fu la questione dell’astrattismo in opposizione al discorso sul realismo, che vedrà l’affermarsi di due diverse posizioni: da una parte Leonello Venturi e dall’altra Max Bill. Nell’articolo pubblicato da Leonello Venturi sulla rivista «Domus» nel gennaio 1946, il critico utilizza il termine “astratto-concreto” per indicare una certa produzione figurativa di stampo neocubista-astratto, una sorta di astrattismo di derivazione cubista. Max Bill di contro, nell’articolo pubblicato sulla stessa rivista nel febbraio del ’46, chiarisce la sua posizione che prevede il riesame di tutta la produzione astratto-geometrica di ascendenza kandiskiana, neoplasticista e neocostruttivista. Pittore e architetto, Bill si era formato al Bauhaus di Dessau al tempo di Walter Gropius e concepiva la ricerca artistica quale processo di un pensiero orientato matematicamente. Quel fervido clima di discussione e confronti diede notevole impulso alla creazione di nuovi gruppi artistici che si fecero interpreti e mediatori delle diverse istanze critiche. Nel 1946 fu pubblicato il Manifesto del Fronte Nuovo delle Arti dove sfociarono in direzione neocubista le idee espresse nel Manifesto del realismo, detto anche Oltre Guernica. Le sculture prodotte in quest’ambito manifestarono una chiara derivazione dalla produzione di Picasso da Guernica in poi. Le opere di Fazzini e Leoncillo presentavano, infatti, una costruzione delle forme ottenuta attraverso l’intersecarsi di linee oblique, creando nelle figure diverse spigolosità e angolature, come in Profeta (1947) e Studio di Sibilla (1947) di Fazzini; Cariatide (1946), I lottatori (1947) e Ritratto di Elisa (1948) di Leoncillo. In Leoncillo il ricorso al colore, utilizzato in maniera antinaturalista, evidenzia non solo i diversi tasselli che compongono la figura ma ne accentua la drammaticità dei gesti e l’espressione dei volti. Partecipe alle esposizioni del Fronte Nuovo delle Arti fu anche Alberto Viani, la cui posizione all’interno del gruppo fu sicuramente singolare. I suoi Nudi realizzati alla metà degli Quaranta si caratterizzarono per un certo biomorfismo che riecheggiava la produzione surrealista di Picasso; un richiamo a quei dipinti e a quelle sculture che lo spagnolo realizzò dal 1929 al 1939 e che Viani conobbe attraverso la pubblicazione su “Cahiers d’Art”. Viani quindi, contrariamente agli altri componenti del Fronte, non si ispira al Picasso di Guernica ma venne comunque invitato a esporre con loro. Le novità del suo linguaggio unito alla predilezione per Picasso sono aspetti di ammirazione da parte degli artisti del Fronte. Ritornando al dibatto ricordiamo che nel 1947 venne pubblicato il Manifesto del gruppo Forma, in cui i firmatari si dichiararono “formalisti-marxisti”, sposando quindi le idee di Leonello Venturi, mentre nel 1948 venne costituito a Milano il MAC, Movimento Arte Concreta, in linea con le istanze di Max Bill. Nel programma di MAC il termine “concreto” fu utilizzato in senso antinaturalistico e in opposizione all’accezione venturiana di “astratto-concreto”. Nell’ambito di Forma 1 interessante risulta la produzione plastica di Pietro Consagra, riconoscibile per l’originalità dello stile: la “frontalità” o la “bifrontalità” sono le sue cifre stiliste. Le sculture di Consagra si caratterizzano per la verticalità di sottili elementi astratto-geometrici, realizzati in diversi materiali come il legno, il bronzo, il marmo e il ferro, verniciati a campitura piena con colori naturali o artificiali. La bidimensionalità delle opere non impedisce però l’idea di spazialità che viene suggerita dal sottile spessore della lastra plastica. In questo modo l’autore stravolse il concetto stesso di scultura tridimensionale e il tradizionale modo di fruirla. L’opera venne concepita e realizzata come se fosse una tela dipinta su tutte e due le facce e fruita da un unico punto di vista, cioè quello frontale.

Per Consagra la frontalità della scultura, ottenuta attraverso l’eliminazione del volume, fu una scelta teorica attuata nella volontà di estrapolarla da uno spazio ideale, per liberarla dai valori simbolici, religiosi e sociali, che per secoli la caratterizzava. La frontalità obbliga il fruitore ad un dialogo diretto con l’opera, in un discorso intimo sul fare artistico. La prima mostra di MAC si tenne a Milano nel dicembre del 1948 presso la Libreria Salto, specializzata in pubblicazioni di architettura, di design, di grafica, di fotografia, che pubblicherà, inoltre, i bollettini del movimento, di cui uno, datato 1949, a firma di Gillo Dorfles riportava le idee di Bill: “L’arte concreta rende visibili, con mezzi puramente artistici, pensieri astratti e crea con ciò dei nuovi oggetti. Il fine dell’arte concreta è di sviluppare oggetti psichici ad uso dello spirito, nello stesso modo in cui l’uomo crea degli oggetti per uso materiale. La differenza tra arte astratta e concreta consiste nel fatto che nell’arte astratta il contenuto del quadro è legato ad oggetti naturali, mentre nell’arte concreta è indipendente da essi”. Nell’ambito di MAC interessante risultò la presenza di Osvaldo Licini e di Bruno Munari che attestarono una certa continuità di ricerca con l’astrattismo degli anni Trenta. Munari produsse sculture astratto-geometriche come del resto altri scultori all’interno del movimento, tra i quali ricordiamo: Renato Barisani, Guido Tatafiore, Antonio Venditti, Nino di Salvatore, Mauro Reggiani. Per questi la scultura rientrava nel progetto più ampio di sintesi delle arti con propositi di rinnovamento che comprendevano anche l’architettura, la pittura, la fotografia, la moda e il design, non a caso molti di loro si cimentarono in più forme espressive. Nell’autunno del 1948 si tenne a Bologna la Prima mostra nazionale d’arte contemporanea a cura dell’Alleanza della cultura, filiazione del partito comunista italiano, dove si presentò compatta tutta la compagine del Fronte nuovo delle Arti, nel tentativo di verificare lo stato dell’arte. Il giudizio che venne espresso sulle pagine della rivista «Rinascita», rivista fondata e diretta dal segretario del partito comunista Palmiro Togliatti, fu assolutamente negativo. Le opere furono giudicate orribili e mostruose e venne liquidato definitivamente l’ipotesi del neocubismo come veicolo di un realismo moderno. Con lo scioglimento del Fronte Nuovo delle arti, non restò altra via all’istanza realista, d’obbligo per gli artisti che obbedivano al partito, di indirizzarsi verso una figurazione di tipo ottocentesco o tutt’al più un eclettismo figurativo accademico, con caratteri didattici, devozionali e illustravi, di cui Guttuso con Occupazione delle terre in Sicilia divenne chiaro esempio e modello iconografico di riferimento. Negli stessi anni in cui prendeva corpo il dibattito fra realisti e astrattisti si registrarono, sia a Roma che a Milano, scintille per un rinnovamento dell’arte che avrà profonde ripercussioni nelle future generazioni di artisti. Protagonisti di tale cambiamento furono Alberto Burri e Lucio Fontana le cui produzioni vennero fatte rientrare nell’ambito di quello che la critica definì a posteriori col termine di Informale; un’etichetta che gli stessi artisti non riconobbero mai e che più che contraddistinguere un movimento rappresentava una tendenza dai molteplici aspetti, che cominciò a manifestarsi in Italia nei tardi anni Quaranta. Le opere di questi due maestri furono senza dubbio fonte di ispirazione per tutta quella generazione di artisti che operò fra la fine degli anni Quaranta e tutti gli anni Settanta e non è da escludere che riflessi di quelle concezioni dell’arte siano giunti fino ai nostri giorni. Lo sviluppo di questa tendenza coincise in Italia con la volontà di affermare un linguaggio visivo alternativo rispetto ai movimenti artistici impegnati nel dibattito tra figurazione e astrazione. In tale ambito maturò una concezione dell’arte priva di qualsiasi contenuto ideologico; un’arte aniconica ma dalla potente carica espressiva. Le novità consistono nell’introduzione di alcuni materiali e di alcune tecniche innovative che modificarono in parte il concetto di arte e il modo di fruirla. Innovativi in Burri furono non solo i materiali, di cui ricordiamo il sacco di juta, il catrame, la plastica, ma soprattutto l’uso del fuoco come strumento di realizzazione per alcune sue opere, fra cui i cellotex. Il fuoco che è elemento di distruzione viene utilizzato da Burri, per la prima volta, come strumento di creazione artistica. Le sue opere caratterizzate da grumi di plastica combusta, da legni applicati alla tela o da centine poste sul retro della tela che la flettono in avanti, come nei Gobbi, sono alcuni esempi in cui l’autore mise in crisi il concetto tradizionale di pittura, quale superficie piana bidimensionale. Sull’esempio di Burri molti artisti di area informale sperimentarono la pittura materica ottenuta dalla miscelazione del colore con gesso, segatura o sabbia marina, conseguendo in questo modo una pasta plastica da utilizzare con la stecca. Di loro ricordiamo Renato Barisani, che dopo un’iniziale fase astratto-geometrica maturata nell’ambito del MAC napoletano, nella seconda metà degli anni Cinquanta, approda all’Informale. Fra le opere materiche di Barisani ricordiamo il ciclo dedicato a Stromboli dove l’autore miscela il colore con la sabbia nera dell’isola siciliana che lavora con la stecca, e inserisce al centro del quadro pietre pomici e laviche. Il risultato finale ricorda più un bassorilievo che non un dipinto, così come la tecnica rimanda ai decoratori di stucchi che non ai pittori. In questo sconfinamento di ambiti fra pittura e scultura, la critica trovò non poche difficoltà a definire correttamente tale genere di opere. Nel 1950 Burri insieme a Giuseppe Capogrossi, a Mario Ballocco ed Ettore Colla fondò a Roma il gruppo Origine, menzionati per la prima volta sul numero di novembre del ’50 della rivista “AZ” fondata e diretta dal pittore Ballocco, tornato dall’Argentina dopo la guerra. Nel 1951 il gruppo si trasformò in Fondazione Origine e svolse, fino al suo scioglimento avvenuto nel ’58, il ruolo di centro di raccolta delle opere e di valorizzazione di idee. Attorno alla Fondazione si raccolsero alcune fra le più interessanti figure dell’arte, e tra le attività che essa svolse ricordiamo quella di galleria d’arte e di casa editrice della rivista “Arte Visiva”, diretta da Colla, indirizzata verso l’approfondimento dei dibattiti artistici internazionali, soprattutto dedicati all’arte astratta. Nell’ambito di Origine Colla maturò una concezione della scultura libera dagli schemi dell’astrazione o della figurazione impegnata, nell’affermazione di una regressione all’originario attraverso l’utilizzo di materiali di ‘scarto’ industriale.

La sua prima scultura intitolata Il Re del 1951 si caratterizza per l’assemblaggio di ingranaggi meccanici trovati in una discarica, applicando quell’idea di decontestualizzazione dell’oggetto del quotidiano già praticata da Burri. Anche le opere di Fontana mostrano soluzioni linguistiche davvero innovative e clamorose per l’epoca, realizzate nell’ambito del movimento spazialista da egli stetto fondato tra il 1949 e il 1950. Partendo dal rifiuto della superficie bidimensionale del quadro Fontana giunse ad elaborare una nuova concezione dello spazio, ottenuta attraverso la foratura della tela, mettendo così in collegamento lo spazio antistante e retrostante la superficie stessa. La rappresentazione del vuoto, al di là della superficie pittorica rimandava la mente al vuoto interno delle sculture di Wildt, suo maestro all’Accademia di Brera a Milano. Alle sperimentazioni pittoriche Fontana passo poi a quelle plastiche, come attestano Ambiente spaziale con forme spaziali ed illuminate a luce nera, realizzato alla Galleria del Naviglio di Milano nel febbraio 1949 e Struttura al neon per lo Scalone d’onore alla IX Triennale di Milano del 1951. Le due opere sono fra le più straordinarie nel panorama della scultura italiana della seconda metà del XX secolo e destinate nei decenni successivi a molteplici e imprevedibili sviluppi. Prodotte con un materiale così immateriale come la luce di Wood, le sue due sculture luminose misero in discussione non solo il concetto di scultura tradizionale, intesa come un solido pieno e pesante, ma anche il luogo ad essa deputato, non posizionate a terra ma pendenti dal soffitto. Posso dire con certezza che Mario Nigro fu protagonista indiscusso dell’arte italiana e della sua rinascita civile a partire dall’immediato secondo dopoguerra, seppe dar vita a un astrattismo fortemente personale, nel quale coniugò struttura e colore, rigore e inventiva. La sua lunga parabola creativa ha conosciuto una grande ricchezza di esiti, che a ogni nuovo ciclo di opere emerge in inedite soluzioni compositive, cromatiche e spaziali; ma anche un’assoluta coerenza che permette di individuare – pur nel variare dell’espressione – un’idea fondante e una poetica che restano sottese a tutto il suo operare artistico. Questa continuità nella diversità e quest’unico obiettivo perseguito nel mutare dei risultati formali sono consistiti per Nigro nella scelta di responsabilità attiva del proprio lavoro nella storia: l’esigenza di restare continuamente aderente a ciò che accadeva intorno a lui nel mondo, attraverso la traduzione in immagini di quella che, in un’intervista del 1969, egli stesso definì «una ricerca estetica come struttura intima dell’uomo». La rilevanza internazionale della produzione di Mario Nigro ha suscitato, per l’attualità della sua visione creativa, un crescente interesse da parte del sistema dell’arte nelle sue varie componenti, dalle istituzioni al collezionismo, in particolare nel corso dell’ultimo decennio. Le sue esplorazioni e sperimentazioni astrattiste, rappresentate da un singolare nucleo di opere su carta, realizzate tra il 1948 e il 1950 e ispirate chiaramente a Kandinskij e a Mondrian. Si passa poi ai celebri “spazi totali”, dipinti tra il 1952-1953 e la seconda metà degli anni Sessanta, che definiscono l’inconfondibile “marchio” di Mario Nigro, riconoscibile per le caratteristiche textures, fatte di reticoli, griglie e fughe prospettiche movimentate da piani di colore di diversa intensità cromatica. In mostra ci sono anche i “collage vibratili”, ciclo esposto alla Biennale di Venezia del 1964, ma anche i primi lavori tridimensionali “componibili” (“spazi totali” assemblati in progressione e variazioni per così dire musicali) e poi i veri interventi ambientali, come le 4 colonne prismatiche del 1966 e la Passeggiata ritmica del 1967-1968. Troviamo dunque l’evoluzione concettuale dell’opera di Nigro, dallo “spazio totale” al “tempo totale”, dalle opere a carattere installativo e ambientale, presentate alla Biennale di Venezia del 1968, alla “metafisica del colore”, come lui stesso la definisce negli anni Settanta, sino ai lavori in cui operò una progressiva sottrazione dell’elemento cromatico per giungere al ciclo dei “terremoti”, del 1980, suscitato dal sisma in Irpinia e ispirato alla Tempesta di Giorgione. È un nuovo Mario Nigro, che attribuisce alle sue opere indifferentemente titoli descrittivo-formali, oppure di carattere politico, personale, psicologico, sentimentale, emozionale, mitico-archetipo, musicale e persino naturalistico. Non mancano i riferimenti alla Toscana, amata terra natale, con L’orma dell’etrusco (1980), mentre in Rivoluzione (1981) gli equilibri compositivi e cromatici sono sconvolti in linee spezzate che corrono da una parte all’altra della tela, a simboleggiare il fluire della storia. Dagli anni Ottanta in poi si assiste a un nuovo passaggio nella pittura di Nigro, che diventa più introspettiva. Nel ciclo degli “orizzonti” la linea spezzata si trasforma in una sequenza di punti, ognuno di diverso colore: è il periodo che l’artista chiama “della solitudine”. Sono opere che rappresentano una sorta di principio generatore della sua ultima produzione, dal 1987 al 1989, dove riprende prepotentemente campo il colore, con cromie vigorose e stesure gestuali, spesso accostate a certi esiti del Neoespressionismo. Ne sono testimonianza emblematica, alcuni dei “ritratti” e dei “dipinti satanici”, nati, quest’ultimi, come moto di ribellione contro l’oscurantismo fanatico di cui era frutto la fatwa di Khomeyni contro Salman Rushdie e il suo romanzo Versetti satanici. La produzione di Mario Nigro si chiude con due cicli uno dedicato alle “meditazioni”, mentre l’altro dedicato alle “strutture” che danno una maggiore pacatezza e una riflessione sul colore che assume caratteri di rarefazione e sospensione. Sono gli inizi degli anni Novanta; l’artista morirà nell’estate del 1992.
Palazzo Reale
Il percorso segna i diversi momenti stilistici dell’artista. Si sviluppa attraverso otto sale del piano nobile di Palazzo Reale che ripercorrono l’attività di Nigro con dipinti e lavori tridimensionali realizzati a partire dalla seconda metà degli anni quaranta: opere testimoni di un linguaggio artistico sperimentale e di un deciso orientamento verso le strutture compositive astratte e geometriche. Dalle prime opere che suggeriscono già un orizzonte tematico segnato dai concetti di “ritmo”, “forme” e “spazio”, ricorrenti nella ricerca dell’artista, frutto dei suoi studi scientifici e della sua conoscenza delle strutture compositive musicali fino al ciclo più originale dello “spazio totale” dove, a partire dal 1952, si avverte la necessità di andare oltre le questioni di tipo formale e di lasciare spazio a tematiche più espressamente esistenziali. Con l’introduzione tra il 1962 e il 1964 di una nuova dinamica percettiva attraverso la tecnica del
collage, così da attenuare la struttura a griglia che aveva fino ad allora connotato la sua produzione, prende avvio la nuova serie dei “collage vibratili” presentati alla XXXII Biennale di Venezia del 1964 a cui partecipa su invito di Lucio Fontana. A partire dalla metà degli anni sessanta, Nigro coniuga la libertà cromatica con l’esigenza di ottenere una maggiore strutturazione geometrica, instaurando così un dialogo vitale con l’architettura. Alla tipologia di opere a carattere ambientale appartiene
Dallo spazio totale: componibile in 7 pezzi in contrasto simultaneo di progressioni ritmiche, 1965, che racchiude un valore simbolico particolare nella sua storia: l’opera è simile a
Dallo spazio totale Totem,
1954-1956, 1965, lavoro andato distrutto durante l’attentato terroristico-mafioso del 27 luglio 1993 al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. Con il ciclo “tempo totale” si sviluppa l’attività pittorica che va dal 1966 al 1979 dove la linea diventa protagonista del linguaggio. Le opere definite dallo stesso artista “strutture fisse con licenza cromatica”, sono caratterizzate dal dialogo tra il “segno-colore” e lo sfondo a campitura monocromatica e trattano anche il tema dell’amore, vissuto sia come pulsione sessuale sia come desiderio romantico. Alla fine degli anni settanta risalgono le opere di impronta metafisica in cui una sola linea suddivide asimmetricamente i pannelli e il cui fondo è connotato da un colore nei toni del verde, lilla, azzurro-blu, rosso come Dalla metafisica del colore: i concetti strutturali elementari geometrici, Ettore e Andromaca, 1978 esposta alla Biennale di Venezia dello stesso anno. L’assoluta centralità della linea prosegue nelle nuove ricerche dei “terremoti” e degli “orizzonti”. In questo ultimo caso il tracciato non tocca le estremità della tela, ma si interrompe prima ad enfatizzare un forte senso di solitudine. Abbandonata la logica precisa e rigorosa, la sua pittura si fa sempre più introspettiva fino a segmentare la linea nella sua unità più inscindibile, il punto. Dal 1987 fino al 1992, anno della sua scomparsa, si assiste ad un infittirsi di cicli pittorici. Dai “ritratti” basati sulla riflessione sull’azione del dipingere ai “dipinti satanici” in cui la pennellata si impone come una solida colonna che riempie quasi completamente il campo e dove il colore si fa più drammatico per approdare negli ultimi anni della sua vita, riattivando l’interesse per una tavolozza chiara, alle “strutture”, realizzate tra il 1990 e il 1992 di cui sono presenti in mostra
6 strutture, 1991 e
25 strutture, 1992, l’ultima opera dipinta dall’artista.
Museo del Novecento
Nello Spazio Archivi del Museo del Novecento è possibile approfondire la conoscenza di lavori su carta e una vasta selezione di documenti. Tra i materiali di documentazione sono presenti alcuni mai esposti in precedenza e provenienti dall’Archivio Mario Nigro: appunti, lettere, brochure, cataloghi e inviti, testi dell’artista relativi al ciclo “spazio totale”, alcuni scatti di fotografi tra cui Aurelio Amendola, Nataly Maier, Maria Mulas e Ugo Mulas. L’opera su carta emerge come un luogo centrale e ricorrente del suo percorso multiforme, di cui si puo? considerare laboratorio di pensiero, incubatrice d’idee e officina d’immagine. La sequenza di opere su carta, che si lega idealmente a quanto presentato nella mostra a Palazzo Reale, permette di seguire i diversi cicli pittorici dell’opera dell’artista. In particolare sono esposti esempi della serie denominata “pannelli a scacchi” e preziosi disegni, che sono la genesi da cui Nigro sviluppa il ciclo dello “spazio totale”, tutti concepiti negli anni cinquanta. Al “tempo totale”, iniziato nella seconda metà degli anni sessanta, ai “terremoti”, ideati tra il 1980 e il 1981, fino agli “orizzonti” e alle “orme”, risalenti agli anni ottanta, alle “meditazioni” e alle “strutture”, eseguite negli anni novanta, si riferiscono i lavori realizzati con tempera, pastello e acquarello su carta intelata che hanno permesso all’artista di raggiungere notevoli dimensioni, pur rimanendo nell’ambito dell’opera su carta.
Biografia Mario Nigro
Mario Nigro nasce a Pistoia il 28 giugno 1917, ultimo di quattro figli; il padre è professore di matematica, la madre figlia di un ufficiale garibaldino. In queste origini sono già presenti due aspetti che connoteranno il suo lavoro: l’interesse scientifico e la passione politica. A questi se ne aggiunge un terzo, lo studio della musica; infatti a cinque anni inizia a suonare il violino e il pianoforte. Nel 1929 si trasferisce con la famiglia a Livorno dove nel 1933, a sedici anni, inizia a dipingere da autodidatta nel solco della locale tradizione postmacchiaiola. Echi della parlata novecentista vengono approfonditi ed esacerbati, sviluppando una ricerca di motivi espressionisti e metafisici. Nel frattempo la formazione scientifica si consolida sino a diventare direttiva di vita: nel 1941 si laurea in Chimica presso l’Università di Pisa, dove è assistente incaricato all’Istituto di Mineralogia sino al 1944, nel 1947 consegue la seconda laurea, in Farmacia, e l’anno seguente è nominato farmacista agli Spedali Riuniti di Livorno. La vita a Livorno durante la guerra, pur limitando gli orizzonti artistici a causa del forte attaccamento alla tradizione della cultura locale, fornirà a Nigro un radicamento degli ideali civili e sociali grazie al clima politico che si respira nella città labronica e porterà a considerare la pittura espressione di sentimenti di ribellione e libertà. Il G.A.M. Gruppo artistico moderno, a cui Nigro appartiene, viene infatti considerato dichiaratamente polemico nei confronti dell’ambiente locale ed ansioso di nuove aperture.
Tra il 1946 ed il 1947 la sua pittura arriva istintivamente, come egli sostiene in più occasioni, a una formulazione non-oggettiva; spinto naturalmente dall’esperienza neocubista in atto e dal clima di rinascita culturale che vive in quegli anni, arriva in breve ad un’originale declinazione dell’astrattismo, dinamico e nutrito dalla sua formazione scientifica e musicale. Nel 1948 visita la prima grande Biennale di Venezia del dopoguerra e ha modo di accertare la consonanza di temi ed interessi relativi alla nuova ricerca astratta. Nel 1949 nasce il figlio Gianni. Nel medesimo anno, in dicembre, tiene la sua prima personale alla Libreria Salto di Milano, dove conosce Lucio Fontana e l’ambiente milanese del M.A.C. Movimento Arte Concreta. L’attività di questi anni si lega solo in parte al concretismo sia italiano che internazionale: Nigro infatti propone una linea fortemente individuale, legata alla matrice dinamica futurista della simultaneità e alle iterazioni ottiche a base programmata. Con il ciclo dei “Ritmi continui simultanei” e quello dei “Pannelli a scacchi”, l’artista è consapevole di superare i canoni del concretismo e di una lettura classica e poco chiara delle sperimentazioni suprematiste e neoplastiche. Il lavoro di questi anni trova un immediato consenso internazionale testimoniato dall’invito ai saloni parigini di Réalités Nouvelles del 1951 e del 1952; più incerta la fortuna espositiva in Italia, dove si alternano gli inviti alle più importanti mostre del M.A.C. Movimento Arte Concreta, come quella di Arte astratta e concreta in Italia tenutasi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna Valle Giulia a Roma nel 1951, al rifiuto di importanti rassegne come la Biennale di Venezia o la Quadriennale di Roma. Il suo lavoro in Italia non sfugge comunque ad osservatori attenti come Gillo Dorfles che, nel febbraio 1951, presenta una mostra personale di Nigro alla Libreria Salto e, nel gennaio 1952, include un suo lavoro in un articolo sulla rivista parigina Art d’aujourd’hui. Nel corso del 1952 Nigro aderisce all’associazione romana dell’Art Club, partecipando alla sua attività espositiva per alcuni anni; in qualità di socio corrispondente dalla Toscana ne apre una sezione livornese, presso la Casa della Cultura, organizzando mostre di artisti legati al gruppo, come quelli della Galleria Arnaud di Parigi nel 1953, o presentando egli stesso la rassegna di artisti romani nel 1955. Sempre nel 1952 il primo accenno allo sviluppo ambientale delle sue ricerche: nel gennaio, a Milano, alla Saletta dell’Elicottero, espone un modello per la realizzazione ambientale, con materiale plastico, di immagini dello spazio, e a marzo, a Livorno, alla Casa della Cultura, progetta, per il monodramma Tra le quinte dell’anima di Nikolaj Evreinov, una scenografia con elementi astratti ritmici ambientali. Sono databili alla fine del 1952, con una ricerca che si sviluppa nel corso del decennio, le prime opere appartenenti al ciclo “Spazio totale”, alle quali Nigro conferisce attenta sistematizzazione teorica con l’elaborazione di scritti, pubblicati tra il 1954 ed il 1955. Si intensificano in questi anni i suoi rapporti con l’ambiente fiorentino, attraverso la partecipazione alle attività della Galleria Numero di Fiamma Vigo. Proseguono inoltre i rapporti con l’ambiente milanese: nel maggio del 1955 espone alla Galleria del Fiore alla mostra dedicata alla sintesi delle arti, che vedrà la nascita del gruppo MAC/Espace, fusione tra il M.A.C. Movimento Arte Concreta e il gruppo francese Espace. Nel 1956 si approfondisce nelle sue opere una tensione drammatica di matrice fortemente espressiva, in parte anche legata alle coeve vicende politiche come i fatti d’Ungheria, che genera la serie delle “Tensioni reticolari” e che lo porterà alla fine del decennio ad una stagione di pittura informale. Nel 1957 viene invitato da Michel Seuphor alla Galleria Creuze di Parigi per una grande rassegna dedicata a 50 ans d’Art Abstrait, e il suo nome comparirà nell’ampio volume di documentazione relativo all’argomento. Nel 1958, abbandonata l’attività di farmacista e le ultime battaglie di campanile per la difesa dell’arte moderna, si trasferisce a Milano per dedicarsi definitivamente solo alla pittura; del 1959 sono infatti le tre personali a Losanna alla Galleria Kasper, a Venezia alla Galleria del Cavallino e a Milano alla Galleria Annunciata. Un anno dopo subisce un grave incidente d’auto che lo allontana per un certo periodo dall’attività artistica. Tra il 1965 e il 1975, dopo aver realizzato, nei primi anni Sessanta, contemporaneamente, una rimeditazione del ciclo dello “Spazio totale” e la serie dei “Collages vibratili”, Nigro sviluppa realizzazioni di scala ambientale, presentate anche alla Biennale di Venezia del 1968, dove è invitato con una sala personale al Padiglione Italiano.
Ancorché approdato a questa rassegna internazionale solo nel 1964 grazie all’interessamento di Lucio Fontana, Nigro aderisce alle proteste che caratterizzano questa contestata edizione e copre le proprie opere a poche ore dall’inaugurazione. Nella seconda metà degli anni Sessanta avvia le proiezioni prospettiche progressive minimali del nuovo ciclo, denominato “Tempo totale”, poi “Strutture fisse con licenza cromatica”, accompagnando come di consueto la produzione delle opere a una puntuale riflessione teorica, come dimostrano il catalogo della mostra del 1966 a Milano alla Galleria Rizzato-Withworth e il lavoro critico svolto con Carla Lonzi e Paolo Fossati, che dà i suoi frutti nella prima pubblicazione monografica sull’artista edita nel 1968 a Milano da Scheiwiller.
A partire dalla metà degli anni Settanta iniziano le sue indagini su quelle che definisce i “Concetti elementari geometriche della metafisica del colore”, che presenterà alla Biennale di Venezia del 1978 con l’opera in dieci elementi Ettore e Andromaca. L’anno seguente, in occasione di una grande mostra personale al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, realizza sulle pareti dello spazio espositivo una sequenza di graffiti legati all’analisi posizionale della sezione aurea. Iniziano così le sue ricerche sull’”Analisi della linea”, che nel 1980 assumono la forma drammatica del “Terremoto” mentre nel 1982 l’artista presenta alla Biennale di Venezia l’opera Emarginazione.
L’anno successivo la linea interrotta viene sensibilizzata attraverso la sua metamorfosi in sequenza di punti, dando vita ai cicli successivi dell’”Orizzonte” e delle “Orme”. Nel 1984 il Comune di Pistoia gli dedica una grande mostra antologica, mentre nella seconda metà del decennio, nelle serie dei “Ritratti” e dei “Dipinti satanici”, si ripresenta nel suo lavoro un’espressività sempre più accesa, costantemente in relazione con una visione scientifica tutt’altro che narrativa o descrittiva, esplicitata in direzione più rarefatta nei cicli dei primi anni Novanta, le “Meditazioni” e le “Strutture”. Mario Nigro muore a Livorno l’11 agosto 1992.
Palazzo Reale Milano
Mario Nigro Opere dal 1947- 1992
dal 14 Luglio 2023 al 17 Settembre 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 12.00 alle ore 19.30
Lunedì Chiuso
Museo del Novecento Milano
dal 14 Luglio 2023 al 5 Novembre 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.30
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 22.30
Lunedì Chiuso