Giovanni Cardone Giugno 2023
Fino al 29 Ottobre si potrà ammirare alle Gallerie d’Italia Napoli la mostra dedicata Mario Schifano: il nuovo immaginario. 1960-1990 uno dei più importanti artisti italiani della scena nazionale e internazionale del XX Secolo l’esposizione è curata da Luca Massimo Barbero, presenta oltre 50 lavori della produzione dell’artista dagli anni Sessanta agli anni Novanta, provenienti dalla Collezione di Intesa Sanpaolo, da importanti istituzioni culturali come il Museo del Novecento di Milano e la Galleria Internazionale d'Arte Moderna Cà Pesaro di Venezia, oltre che da gallerie d’arte e collezioni private nazionali ed internazionali e si avvarrà della collaborazione dell’Archivio Mario Schifano.  In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Mario Schifano apro il mio saggio dicendo : Di certo non sono il primo a parlare di Duchamp e tv assieme, tra le avvertenze della terza edizione del testo “forme estetiche e società di massa”, Abruzzese parla di come fosse stato fondamentale scegliere un collage di Duchamp da mettere in copertina. Parlare di televisione indagando tra gli aspetti tecnici non è la giusta soluzione per spiegare l’interazione che ha avuto l’arte, nel mezzo. Capire invece chi ci ha insegnato a guardarla, aprendo le menti a nuove soluzioni del “vederla”, è invece fondamentale nel momento in cui si decide di indagare sull’ impatto che ha avuto l’evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione. Jean Clair1 , affrontando l’opera “il grande vetro” conclude con il dare dell’ illusionista a Duchamp, che ha saputo creare immagini su immagini, illudendo il grande pubblico con un’opera che si è modificata nel tempo, sia nel contenuto sia nei significati. Questo tipo di visione risulta illuminante quando si parla di cambiamento delle ottiche visive, e di approccio diverso nei confronti di un mondo sempre più subordinato al rapporto teconologia-uomo. Vale la pena ricordare il secondo titolo, o denominazione che Duchamp dà a quest’opera: “La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche”; su questa frase molti critici si sono interrogati, incentivando altrettante nuove critiche e nuove visioni, ed aggiungerei, inconsapevolmente nuove dimensioni nel tempo, mettendo in moto una macchina che forse nemmeno Duchamp immaginava di accendere. Gli aspetti critici del tempo dedicavano il gesto artistico ad un’interpretazione tecnologica dove, appunto la sposa-macchina, diventava funzione biiettiva dello scapolo. Surclassando le critiche più o meno sbagliate incentrate sulla seconda definizione dell’opera e ponendosi di fronte a quest’opera con uno sguardo per quanto possibile “ingenuo”, il “grande vetro” diventa un elemento costituente necessario per affrontare e comprendere la futura “visione” televisiva. Le esperienze risulteranno similari dal momento in cui si elegge una sinestesia tra le due esperienze, continuazione, mutazione, stupore, illusione, emozioni create in momenti diversi, ma fruibili solo in un determinato spazio, riconducibile all’ istante in cui lo spettatore ha un confronto diretto con il “vetro”, esso sia opera o televisione. Rispondendo alla domanda chi ci ha insegnato a guardare la televisione? Si può rispondere Duchamp; lui di fatto ha saputo dare vita all’ottica del futuro contenuto televisivo, che modifica nel tempo, lo riempie di carica allusiva, terminandolo con la rottura in una tanto effimera quanto fondamentale esistenza della stessa. Probabilmente Duchamp non ha mai avuto un’idea precisa di ciò che stava realizzando con “il grande vetro”, ma quasi divertito dalla critica, ha saputo creare all’interno della stessa un tempo che andando oltre a quello produttivo (otto anni di lavoro), si dilatava in un discorso critico-allusivo, non appartenente al canale semantico iniziale, ma in grado di generare delle immagini. Queste immagini critico-allusive troveranno delle corrispondenze analoghe alle immagine affrontate dall’ingenuità di un pubblico televisivo negli anni sessanta. L’immagine televisiva infatti tende ad estendersi e modificarsi in continuazione, relazionandosi dall’approccio dello spettatore televisivo che modifica “passivamente” la propria visione, dipendente e funzionale alla sua cultura. Le analogie continuano pensando a come lo spettatore agisce tra le programmazioni tv, di certo si potrebbe pensare alle opzioni offerte dal telecomando, ma in quanto al caso va ricordato che stiamo parlando del primo spettatore televisivo, che come in relazione al “grande vetro” rotto, ha continuato a relazionarsi con l’opera mantenendo nel suo immaginario un contenuto mutato nella forma, e di conseguenza cambiandone la visione interpretativa nel significato. Questo processo viene giustificato dallo stesso Duchamp che spiega l’immagine come un contenitore di altre immagini che a loro volta creano più visioni dell’oggetto contenuto nel vetro; per dirla alla Clair, introducendo successive allusioni ad allucinazioni che verranno impachettate poi da una critica incapace di rispondere all’atto non “programmatico” dell’artista, di un messaggio mutante. La direzione utilizzata da Duchamp, nella ricerca dimensionale, sta proprio nello stravolgimento del significato dell’immagine, si pensi all’operazione svolta staccando un orinatoio dal muro, messo in un contesto espositivo chiamandolo “fontana”. Un operazione tanto semplice quanto diretta, che tra le provocazioni, “precipita” nell’ approccio visuale, e si “semplifica” quarta dimensione. La decontestualizzazione dell’oggetto ne incentiva la trasmigrazione di significato che muta, non nella visione, ma nell’allusione intrinseca del ricevente. Guardando un orinatoio il ricevente viene portato a considerarlo fontana, dove, il fenomeno in una differente visione, (processo utilizzato poi nell’arte concettuale), accende nel ricevente l’allusività dei pensieri associativi, che appartenendo al subconscio riflettono sulle analogie esistenti e coesistenti tra i due oggetti in questione, nello specifico: un orinatoio e una fontana. Gli stampi contenuti tra le lastre di vetro, mutano nel significato del discorso, grazie alla critica, divenendo linguaggio scrittorio, quindi provocando un’ estensione e una separazione del senso più neutro della visione come l’ intende Panofsky , in una ricerca dimensionale. Nel 1954, “il grande vetro” viene destinato al Philadelphia Museum of Art , (qui la denominazione dell’opera comincia a mutare), Duchamp infatti, ordina di non denominare l’opera come "quadro", ma "macchina agricola", "mondo in giallo" o "ritardo in vetro". Nelle raccolte di appunti la “scatola verde” e nel la “scatola bianca” Duchamp, (anche se in forma disorganica, oscura e allusiva) tenta di risolvere la questione con il solo incentivo nella critica ad erronee interpretazioni. La prima visione critica arriva da Andrè Breton 1935 che, con estrema lucidità, definiva “trofeo di caccia favolosa, terre vergini, ai confini dell’erotismo, della speculazione filosofica, dello spirito di competizione sportiva, degli ultimi dati delle scienze de lirismo e dell’umor” riconducendo il tutto ad una interpretazione dalla connotazione surrealista, forse la più vicina rispetto a quella che ne è seguirà con Robert Label del “mito dell’amore sterile” , o a tutte quelle che destinavano l’interpretazione dell’opera nella “macchina”, creandone a sua volta altre immagini collocabili in un simbolismo che va all’infuori dell’intenzione “duchampiana”, e che appartenendo esclusivamente alla fetta di critica più o meno contemporanea non risolve la questione. Se si affronta la polemica in termini di cultura visiva ci troviamo davanti ad un momento formativo-culturale che nella realizzazione ha mutato il proprio spazio. Se contrapponiamo quest’ottica ad una relazione sociale-culturale con l’avvento del mezzo televisivo, comprendiamo come il fenomeno abbia potuto pianificare la strada ad un approccio visivo-dimensionale trasmigrato all’esperienza del magma mediatico e consumistico che avverrà con la successiva analisi della visione televisiva. La vista dunque, nella critica, diventa “visione”, con la risultante identica a quella che sopporterà il futuro spettatore televisivo, che in maniera cosciente naturalizzerà l’atto visivo in un linguaggio inconscio che parte da un mutamento proposto da una scrittura critica e programmata, dove il messaggio apparentemente personale ricadrà in una dimensione globale opposta alla materia. Il riflesso posteriore a questo fenomeno “educativo”  è indubbiamente identificabile nell’ italiano Manzoni. L’artista ha saputo vivere con maturità il processo creativo iniziato con Duchamp. La produzione “manzoniana” infatti non ne trae solo spunto, ma ne fortifica in modo particolare l’approccio visuale dell’opera. L’esigenza di una nuova dimensione, che dall’ informale guarda verso lo spazio, sottolineata maggiormente da Fontana, cerca comunque nelle idee, forme sognatrici ed immaginarie, con la ricerca di nuove superfici e spazialità che partono dalla pittura per estendersi nella scultura. La sperimentazione è un processo fondamentale dell’approccio alla nuova pittura proposta da Manzoni, componente madre dell’educazione visiva. Innegabilmente il sapore di sperimentazione si sente anche quando si guardano i brevi filmati nei quali si immortalava tra le sue performance con espressioni televisive più che cinematografiche. Esattamente Manzoni, non sottraendo ironia alla propria operazione artistica nemmeno di fronte alla cinepresa, investiga tendendo (probabilmente volutamente) a far vivere momenti di realtà nella performance. L’ideologia televisiva -pertanto- è già presente, l’approccio che Piero Manzoni ha con l’obbiettivo infatti non è un approccio cinematografico, ma prettamente televisivo, la voglia di realizzare il filmato infatti parte dalla volontà di filmare l’attimo, un momento reale con la risultante più di “reality” che documentaria. Ma in questo caso in che senso l’azione di Manzoni può chiarire l’approccio artistico al mezzo televisivo? In che senso cioè una performance, un oggetto, un quadro, una scultura, che si pone come “messaggio” nel quadro comunicativo, può consentire una descrizione più totalizzante senza effettivamente piegare il fattore visuale ad un semplice discorso, generalmente riservato a comunicazioni verbali? Umberto Eco in un articolo della rivista La Biennale  di Venezia n 60 afferma che chi si occupava di arti visive o visuali come si usava chiamarle negli anni sessanta, tendeva nell’approccio ad un’inflazione terminologica e tematica mutuata da una ricerca linguistica con un abuso del termine “semantica”, la sottolineatura ricade appunto nell’uso del sostantivo semantica. Quando il termine semantica si insedia nei significati di un segno, non rimanderà ad alcun significato catalogabile, dal momento in cui impiegato come tale da chi analizza il linguaggio televisivo, molto spesso, ricadere in una concezione soggettiva dei segni con attribuzioni diverse in “vocabolari” soggettivi. L’equivoco potrebbe sparire se si intende affrontare una ricerca di tipo semiologico: il che significa l’affrontare i fenomeni di carattere diverso intendendoli come sistemi di segni, con particolare riguardo alla scrittura dei “ significati”, senza necessariamente pronunciarsi con giudizi definitivi sui “significati”. Ad esempio, sempre nell’articolo preso in esame, Umberto Eco proponendo alcuni esempi di analisi semiologica, spiega il perché una macchina o una sequenza sonora possono connotare facilmente determinati significati: e ciò non toglie che essi non ne “denotino” alcuno. Esistono quindi sistemi di significati dotati di capacità connotative e sforniti in partenza di capacità denotative sulle quali si esercita più facilmente una ricerca semantica. Coscientemente dall’antichità un enunciato può essere visto sotto un aspetto “programmatico”, “sintattico” o “ semantico”. E’ dunque possibile esaminare una forma, o un fenomeno, come “ messaggio” e studiarne le strutture comunicative, senza individuare in partenza una ricerca comunicativa o uno studio sulle denotazioni. Forse per questa via sarà possibile chiarire il problema affrontato in precedenza con l’introduzione di Duchamp e successivamente in Manzoni dell’evoluzione delle arti visive in relazione all’avvento del mezzo televisivo. Il fatto artistico nell’operazione visuale esercitata da Manzoni sta infatti nella consapevolezza intuitiva, del gesto. Consumato il gesto, resta l’opera che è il “documento dell’avvenimento di un fatto artistico”; viene esercitata quindi, la volontà di indagare nelle zone “vergini ed autentiche dell’arte”, come lui stesso affermava; l’arte è infine “ scoperta (inventio) in continuo divenire storico di zone autentiche vergini”, scoperta da cui “nasce la chiara coscienza dello sviluppo storico dell’opera d’ arte” e creazione di un’opera che “ è la nostra libertà”. Di quelle libertà dunque si sta parlando? Quella dell’invenzione di “immagini vergini” e giustificate, solo da se stesse; la cui validità è determinata esclusivamente dalla “quantità di gioia di vita che contengono”, cardini questi dell’opera di Manzoni. Quindi esisteva veramente la consapevolezza di voler imporre una ricerca di nuove immagini, immagini “vergini”, immagini virtuali che possono risultare reali solo con una “novità” di produzione, incentivata dalla scoperta di nuove possibilità visive.
 La proposta di Duchamp si incarna ed evolve in quella di Manzoni, indubbiamente influenzato dalla prima esposizione di Yves Klein in Italia, nella quale l’artista francese proponeva, alla galleria Appolinarie di Guido le Noci, a Milano, undici monocromi con lo stesso colore e lo stesso formato ma con prezzi diversi perché intrisi di diversa “sensibilità pittorica”. La critica è concorde nell’affermare che questi gesti hanno influito per la creazione del “nuovo” immaginario manzoniano, incentivandone la virtualità dell’opera visiva. Il guardare quindi si fa diverso, diventa concreata l’idea di poter applicare ad immagini uguali significati diversi, e valenze di diversi livelli di significante. L’analisi del messaggio proposto dagli artisti del periodo, non presuppone più un semplice codice comune all’emettitore e al ricettore; invero un “ricettore” comune di questo periodo, si trova di fronte alle opere di Duchamp, Manzoni, Klein e non ne può comprendere fino in fondo il significato. Rispetto al codice fondato su precise convenzioni sociali, il messaggio lanciato poteva assomigliare ad un significato ambiguo; ma in questo caso altamente informativo nella misura in cui si oppone alle regole del codice imposto dall’artista. Infatti, con Klein la dimensione del dipinto è il termine unico per quantificarne la maggiore o minore “sensibilità artistica”. Con Manzoni non ci si limita semplicemente ad un canale univoco dell’istruzione all’opera. Il codice infatti non stabilisce solo la corrispondenza tra i significanti e significati, ma anche regole si combinazione delle varie tracce. Un messaggio che comunque, per essere compreso, esige che gli elementi costruttivi si pongano come un sistema di differenze sullo sfondo di una base di comparazione. Il termine di paragone per una assimilazione di questo processo evolutivo nell’approccio al significato si può estrapolare facendo riferimento alla musica, affermando che la coerenza anteriore a Manzoni esiste nella musica tonale. Nella musica atonale, e meglio ancora nella musica elettronica, questo non avviene. Non esiste più, in altre parole, un codice di riferimento. Si può parlare ancora di comunicazione quindi? Nell’articolo preso in esame, Umberto Eco sottolineava come fosse di fondamentale importanza l’esistenza di un vocabolario, se non esiste un vocabolario non c’è comunicazione. Spiega poi la natura del messaggio con l’esempio della considerazione di Levi-Strauss in merito alla pittura astratta, egli rispondeva: essa è “natura” “non cultura”, perché in essa non sussiste alcun rapporto tra i segni ed il mondo originario, afferma che la pittura astratta non può essere “letta” in riferimento ad un codice, quindi, per questo, non può essere un fenomeno di ordine linguistico tantomeno visuale; semplificando: non comunica, ma riesce a dare solo sensazioni più o meno gradevoli, ritenendo che un atto comunicativo debba avere le caratteristiche di una comunicazione linguistica, e che questa sia in simbiosi con la trasmissione di significati, cioè alla funzione semantica del discorso. Ostacolando, quindi, l’idea che il codice a cui riferire il messaggio visuale non possa essere polivalente ma univoco e destinato agli oggetti naturali. C’è da dire che Levi- Strauss tiene presente il caso della musica, e se da un lato afferma che la musica seriale ha un suo codice, per un altro ricorda che si tratta di codice prosodico, privo di opposizione di significati, e quindi un codice “espressivo” e non”semantico” Non si capisce però il perché un codice semantico debba essere solo espressivo (categoria soppressa dalla teoria della comunicazione) e non possa prevedere opposizioni di qualche altro tipo. Sempre Unberto Eco afferma in merito all’analisi sulla comunicazione di Levi-Strauss quest’antitesi: può essere un codice sintattico come quello di architettura: che coordina secondo leggi precise elementi di un edificio, fa nascere il ritmo rigoroso del medesimo da opposizione tra elementi, e dalla loro articolazione reciproca fa scaturire una scrittura, che ci comunica molte cose rispetto all’edificio stesso, alla sua funzione; e ci apre un sistema di connotazioni, di significati accessori legati alle strutture sintattiche dell’opera. L’approccio di Manzoni alla ribellione di un vocabolario ben preciso si evince già nel 1951 con l’adesione al primo manifesto nucleare, nel voler combattere ogni adesione a qualunque sorta di accademismo. Si può dunque affiancare l’accademismo al vocabolario finito, con la volontà di non appartenenza “all’ingranaggio della forma geometrica”.
Vale la pena citare testualmente alcune parole del manifesto contro lo stile del 1957: “Da allora abbiamo proseguito nella sperimentazione di ogni possibile risorsa tecnica, dall’automatismo “tachiste” o oggettivo a quello soggettivo, al grafismo, all’action painting, al gesso, al calligrafismo, alle emulsioni, flottages, polimaterismo, sino alle acque pesanti di Baj e bertini  del 1957.  Alle sperimentazioni tecniche si accompagnarono, per vicendevoli suggestioni, nuovi linguaggi: dagli spazi immaginari”. Per la creazione di nuove espressività visive nel linguaggio comunicativo diviene fondamento il rapporto con lo spazio, e la spazialità. La dimensione abbandona sempre più il vocabolario artistico appartenente ad una liturgia critica nella semantica delle opere cercando nuove estensioni acquisibili nell’adozione di mezzi nuovi, finalizzati alla creazione di nuovi “spazi immaginari”. Parlando di contributi dati da Duchamp e da Manzoni alla cultura visiva non si può rinunciare all’ incastonarli del discorso a cui fa riferimento Mcluhan ossia, all’era elettrica dell’ottocento. Affermando che l’intero mondo delle arti si indirizzava verso le qualità iconiche del rapporto tra tatto e sensazione (o sinestesia come si diceva all’ora), ecco come prima Duchamp, e poi Manzoni risultano i figli di questo rapporto, e genitori della relazione sensazione ed evoluzione tecnologica. Tutti e due infatti si realizzarono nella sperimentazione focalizzando la ricerca nella ricerca dimensionale, approfondita da Fontana che comunque farà spesso riferimento alla poetica e alla filosofia manzoniana, tra le celebri citazioni di Lucio Fontana come non citare “la linea di Manzoni è filosofia pura oggi non c’è filosofo che abbia un’idea così perfetta” dove si evince un concentrato filosofico intriso di ricerca spaziale. Con la nuova “istruzione” visuale sorgevano nella concezione dell’arte coeva, problemi forse ancora presenti oggi: il primo dei quali era che quasi tutte le opere d’arte contemporanea cercavano un codice individuale nell’opera. Lo stesso la precedeva, ne sostituiva il riferimento esterno, ma era anche contenuto nell’opera. Questo codice non poteva essere individuabile senza un aiuto esterno e quindi un’enunciazione di poetica, facendo passare il codice originale, (padrone nell’astrattismo), in secondo piano rispetto ad un’esigenza ancora evidente di codice che favorisce un'esperienza rivolta a sostenere ed a potenziare tutte le capacità e le attitudini individuali. Umberto Eco spiega: “ in un quadro informale, in una composizione seriale, in certi tipi di poesia “nuovissima”, l’opera instaura un codice è anzi una discussione su questo codice, è la poetica di se stessa perché è la fondazione delle regole inedite su cui si regge; ma di trasformato non può comunicare se a chi conosca già queste regole. Di qui l’abbondanza di esplicazioni preliminari che l’artista è costretto a dare nella sua opera presentazioni di catalogo, spiegazioni sulla serie musicale impiegata e dei principi matematici su cui si regge, note a piè di pagina nella poesia. L’opera aspira a tal punto alla propria  di convenzioni vigenti, che fonda un proprio sistema di comunicazione: ma che non comunica a pieno se non appoggiandosi a sistemi complementari di comunicazione linguistica. (L’enunciazione della poetica), usati come metalinguaggio rispetto alla lingua-codice instaurata nell’opera”.  Con Duchamp e dopo Manzoni le varie tendenze del post informale, dalla nuova figurazione all’assemblage, la pop art e sue espressioni affine, lavorano di nuovo sullo sfondo di codici precisi e convenzionali evolvendo però nella concezione visiva, con uno stimolo al nuovo sguardo nella ricerca verginale dell’immagine. Già in Duchamp e, come spiegato prima, con l’intervento critico riferito all’opera “il grande vetro”, è la provocazione a fare da padrona nella inchiesta della ricostruzione della struttura artistica, dando luogo alle basi di strutture comunicative che l’artista trova già preformate: la ruota di bicicletta, il cesso, diventeranno poi, l’insegna della coca-cola e la moda femminile. Si tratta di un linguaggio che, solo ai fruitori abituati a quei segni “parla”. Ribadisce Umberto Eco “…gli occhiali di Arman , le bottiglie di Rauschenberg, la bandiera di Johns, sono segni che nell’ambito di codici specifici acquistano significati precisi. Anche qui l’artista che li utilizza li fa divenire segni di un altro linguaggio, li riferisce a un sistema di riferimenti diversi e in fin dei conti istituisce nell’opera, un nuovo codice che l’interprete dovrà scoprire, l’invenzione di un codice inedito opera per opera al massimo serie di opere per serie dello stesso autore rimane una delle costanti dell’opera contemporanea ma l’istituzione di questo nuovo codice si attua dialetticamente nei confronti di un sistema di codici preesistenti e riconoscibile. Il fumetto di Lichtenstein è segno perciso in riferimento al sistema di convenzioni linguistiche del fumetto, in rapporto ai codici emotivi, etici, ideologici del pubblico dei fumetti; poi (ma solo poi) il pittore lo preleva dal contesto originario e lo immette in un nuovo contesto; gli conferisce un’altra rete di significati, lo riferisce ad altre intenzioni (Calvesi ha visto nel fumetto ingrandito la proposta di una nuova spazialità). Il pittore, insomma, opera quella che Levi Strauss, a proposito di “ready made”, chiamava una “fissione semantica”. Ma l’operazione che l’artista fa , acquista senso solo se si commisura ai codici di partenza, offesi e richiamati alla mente, contestati e riconfermati. E questo vale per molte operazioni delle ultime correnti, in modi diversi, dagli alberi di Schifano alle finestre di Festa, dai divani di Tacchi ai compensati di Ceroli, dalle strips si Perilli ai collages di Guerreschi, dagli ectoplasmi di Vacchi alle foro di Pistoletto, dalle architetture di del Pezzo al quotidiano “autre” di Cremonini, dagli alfabeti di Carmi agli schemi cinematografici di Mauri, citando alla rinfusa, per abbozzare una tipologia a titolo esemplificativo.”  Si capisce quindi, come il post Duchamp sia in termini artistici, che in termini comunicativi, abbia saputo insediare nell’immaginario sociale nuovi concetti ideologici talmente forti da influenzarne non solo gli artisti, ma l’intera società contemporanea. In termini comunicazionali si traduce un contesto che proprio su tali termini deve essere approfondito, dove l’atmosfera deve essere di maggiore aderenza alle condizioni base della comunicazione non solo critica, dove le scuola delle esperienze apportata da Duchamp raggiunge i limiti estremi della rarefazione e della sfida, ma educa in termini visivi, ed è capace di creare illusioni e nuove immagini. Mario Schifano inizia la sua carriera tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. La sua ricerca è inizialmente caratterizzata da una pittura monocroma, densa, con evidenti riferimenti al suo lavoro di restauratore di opere antiche nel museo d'arte etrusca e archeologica, dove il padre lo aveva indirizzato. È la densità dei neri dei vasi antichi che ispira il giovane artista per alcune delle sue più significative pitture di questo periodo nelle quali, fin da subito, affiorano l’interesse per l’inquadratura, lo schermo, il particolare. La sua prima mostra importante alla “Salita” con Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio e Giuseppe Uncini, nel 1958 non funzionerà da incipit per un duraturo percorso vicino ai gruppi artistici di quella Roma cinematografica che lo accolse. Il destino, e forse anche la predisposizione al lavoro in solitudine di Mario, gli fecero abbandonare rapidamente l’ottica monocroma, tanto amata dal suo primo contatto interessante, Ileana Sonnabend. La Sonnabend, un contatto bruciato precocemente da Mario per via di una necessità espressiva che stava mutando e che sentiva il monocromo sempre più stretto, Mario rispetto agli altri artisti incanalava sempre più il suo guardare ad una società che mutava, utilizzando uno “sguardo pop” per vedere quella romanità tanto amata quanto odiata. L’introduzione allo “ sguardo pop romano” ci viene data da Unicini che dice: “la Pop Art arrivò a Roma quando un giorno finì dentro al bar Rosati una rivista con le immagini di Rauschenberg, di Jasper Johons, un giornale mai visto, con le fotografie a tutta pagina, colorate. Era un incanto, uno sbalordimento. Ce la passavamo tra di noi come un tesoro”.  Facendo il lupo solitario, Schifano, esaurirà velocemente la stagione dei Monocromi (1960-1962); in un’intervista Arturo Quintavalle alla domanda sul perché Mario avesse rotto con Ileana e di conseguenza con l’ondata monocroma, risponde: Ileana ruppe con Schifano perché lui stava tentando di uscire dal monocromo e Ileana invece pensava che dovesse restare in quella ricerca quasi sospesa; in quel momento in cui la pittura era pittura di attesa. 79 Tra queste parole colpisce la frase “momento in cui la pittura fosse pittura di attesa” con questa frase Quintavalle centra in pieno il momento che Mario stava affrontando, un momento di attesa, lo stesso momento che stavano vivendo tutti gli italiani nel ‘60, in particolare Roma, quasi una fase di preparazione ad un processo di complessi cambiamenti. Cambiamento delle visioni, cambiamento propositivo ad un nuovo guardare; la visione monocroma non bastava più, dopo le proposte enucleate in primis da Manzoni con gli strascichi di Kelin, si assiste ad un’evoluzione visiva che quasi per inerzia seguiva il rapido cambiamento tecnologico. Tra l’eco di una Roma dove le mostre della Galleria d’arte moderna con la Bucarelli, avevano mostrato Pollock e Rothko, ci si preparava ad essere diversi, tra gli odori di un fascismo ancora troppo presente e tra una presenza americana in crescita. Nuovi turbamenti ottici si scontrano anche con il pittore Mario, che in una professionalità artistica rispecchiante gli insegnamenti paterni, trovano nell’artigianalità pittorica le fughe che per anni avevano insidiato un immaginario a tinta unita. Continuando ad utilizzare un media antichissimo, come la pittura, Mario inizia ad adottare un nuovo schema visivo, facendo emergere sempre più frequentemente quel riquadro a forma di schermo, tra le tele. Il pop a Roma si faceva già sentire da anni, come accennato in precedenza, c’era già negli ultimi anni ’50 con un Uncini che parlava di riviste patinate piene di pop art che circolavano nei bar, e soprattutto al bar Rosati. Dell’America gli artisti sapevano già tutto. Incredibilmente molti erano i parallelismi che si potevano notare tra la Roma di quel periodo e l’America, le immagini che giungevano erano le stesse con le fasi che ripercorrevano il momento delle innovazioni. I cartelloni pubblicitari si uniformavano, la scritta Coca-Cola appariva ovunque e diventava sempre più una costante reale oltre che nell’immaginario comune in un’ idea di società che, per assurdo in un capitalismo diffuso amava sempre più l’idea marxista. Andy Wharrol in “a e b e viceversa” introduce ancor di più l’argomento, parlando di un insediamento antiborghese nella borghesia di questa bevanda: sia il presidente che il comune operaio se volevano bere una Coca-Cola dovevano spendere la stessa cifra, non c’era distinzione di ceto sociale, era un chiaro segnale che la società si stava uniformando diventando sempre più massa. Le prospettive visive stavano cambiando, delegate ad una comunicazione sempre più filtrata da uno schermo. Mcluhan analizzava come il monocolo della macchina fotografia tenda a trasformare le persone in cose e la fotografia estenda la visione a molteplici immagini, dove ad esempio la figura umana fotografata diventa una sorta di merce prodotta in serie. Mario lo fa, capisce che quadrare un quadrante è il fondamento della nuova visione prospettica. La squadratura introduce la dimensione, (quando guardo vedo schermato), il mio filtro è l’ occhio, la mia mente è lo schermo riflettente, il quadro è l’esito della proiezione del subconscio. Si quadra per tradurre il quadro esistenziale. Giuseppe Uncini nel libro dedicato a Mario Schifano di Luca Ronchi, parla dell’inizio alla così detta quadratura delle tele. Sembra che la motivazione in quella quadratura dipenda principalmente dal battesimo alla fotografia di Mario. Secondo Uncini la prospettiva di Mario comincia a cambiare nel momento in cui lui decide di vedere il mondo dal mirino fotografico, un’operazione di filtraggio meccanico dovuto ad uno schermo. Con questo processo Schifano inizia ad immortalare la realtà che in quella luce di cambiamento dà motivazione all’ indagine del periodo nel quale si trovava. Si crea dunque una analogia con la costruzione cinematografica e della realtà filmica, si intrappolano immagini che vanno a costituire i fotogrammi della vita non solo di Schifano, ma di una società italiana in continuo mutamento che si relazionava al mondo in maniera completamente subordinata alla tecnologia e all’artificio del mezzo, ormai protesi dell’individuo moderno. IN questo processo non bastava più l’iride, serviva un nuovo filtro ottico (anche meccanico) per dar luce alla mente. Nelle visioni del momento l’uomo ha esteso il suo sistema nervoso centrale attraverso la tecnologia elettrica dove “il campo di battaglia, nella guerra come negli affari è diventato il processo per la creazione e la frantumazione delle immagini”. Arturo Carlo Quintavalle, invece, sostiene che quello schermo, in particolare in Botticelli (1962) vada guardato con deviazioni cinematografiche, rispetto a quanto dichiarato da Uncini. Indubbiamente il processo evolutivo nell’opera pittorica di Mario è partito dallo stesso processo che ha visto la fotografia essere l’avventrice di quello che è stato il fenomeno del cinematografo. Le immagini proposte da Schifano si sono orientate successivamente nella direzione televisiva, più che cinematografica, mediate operazioni avvenute con le polaroid o alla Nikon, sempre più presenti ed utilizzate nell’evoluzione artistica. Per Quintavalle la questione è da indirizzare in una visione spaziale, dove la ricerca di una nuova spazialità induce ad invadere spazzi limitrofi alla visione comune, dove la giustificazione arriva in quelle invasioni pittoriche che vanno oltre lo schermo tra la ricerca informale accantonata. Tra una critica che lo interpretava sempre più in termini psicoanalitici, il caso Botticelli effettivamente presenta, anche nelle proporzioni di uno schermo più cinematografico che televisivo, uno schermo che più che vuoto sembra alludere ad immagini possibili. L’immagine proposta in questi lavori appare come recintata da una specie di schermo dai bordi arrotondati. Bordi che rappresentano un confine tra due dimensioni contenute in una singola spazialità. La peculiarità del lavoro di Schifano è anche insita in una tecnica denudata dalle sue intenzioni: applicare il nastro adesivo per delimitare le aree e poi permettere di intervenire al loro interno, dove tra i colori sfibrati collocherà le immagini che assomiglieranno ad edifici nei paesaggi anemici databili 1963, non riportano a nulla di reale, ma rimangono comunque immagini di una memoria. Tra le pitture del sessantatre come Particolare di paesaggio, Cielo, La strada, H Blast: There may never be another, si possono trovare delle connotazioni comuni che aiutano a comprendere meglio il messaggio che queste tele lasciano. Innanzitutto l’immagine a cui si fa riferimento è contenuta in uno schermo delimitato da un bordo bianco, molto spesso nella zona inferiore si interrompe con del colore facendo terminare il limite tra schermo e supporto, invadendo quest’ultimo. La distinzione netta tra la zona inferiore e superiore viene dunque segnata da un dialogo tra le due parti divise, tra la superiore nei confronti di quella inferiore, ma anche viceversa, confrontandosi con due paesaggi in uno. Le relazioni tra questi paesaggi si interpretano con uno confronto diretto tra immagini speculari del cielo e della terra. Nella parte alta l’azzurro ed il blu si uniscono e scandiscono in maniera precisa lo stereotipo del cielo, aiutandoci ad una rapida identificazione, lasciando costruire agli spazi bianchi architetture fantastiche con il negativo del supporto a vista. La parte inferiore dell’opera vede dominare il bruno ed il giallo, con trapelata rapidità di realizzazione, che sembrano aggirare con rapidità la sagoma rettangolare al centro. Indicando tra le molte cose, una nullità costruttiva, potenziata da un cielo sovrastante che cerca un collegamento alla terra grazie a un supporto in tela. Presumibilmente la consacrazione definitiva di Mario al mondo dell’arte avvenne grazie ad Emilio Villa, il critico e poeta, che forse è stato il primo a comprendere il suo valore. Plinio de Martiss racconta che i due si incontrarono nel casolare di una Roma periferica, in una collettiva che ospitava oltre a Schifano, Tacchi, Mambor  ed un altro artista di cui non si sa il nome. In questo periodo Mario faceva un po’ di tutto, ed in quel tutto qualche monocromo. I punti di vista del momento erano molteplici e lo introducevano a nuove riflessioni, la frequentazione con Uncini lasciava trasparire voglia di cambiamento, non sono solo dal punto di vista visivo e di contenuto ma anche di forma. Leo Castelli era entusiasta di questo ragazzo che sfornava quadri in un terrazzo condiviso con le signore che stendevano i panni. La prima personale, invece, l’ha realizzata nel 1961 con Plinio de Martiis che aveva una galleria in via del Babbuino, vicino a piazza del Popolo. In questa personale vennero esposti tutti monocromi, (Mario assistette anche nella disposizione). Nell’occasione di questa mostra, di fronte a quadri prevalentemente neri grigi, parlò di “mediazioni sullo spazio”. Plinio dichiara di aver venduto tutto il giorno dopo l’inaugurazione e ciò non è riconducibile al solo fattore del basso prezzo delle opere, bensì al fatto certo che la visione di Schifano aveva colpito il pubblico. Nell’ingenuità della sua opera iniziale si concentravano i lavori che altri artisti avevano raggiunto in anni di ricerche, Mario trovava in una spontaneità, dovuta ad un cambio di relazioni visive, la realizzazione di opere che pur essendo monocrome profumavano di un populismo che non era mai stato raggiunto prima d’ora nell’arte contemporanea italiana. Botticelli del ’62 ne è la dimostrazione e la sintesi di questo processo dove la quadratura non sembra contenere una vernice che sta colando fuori da quel reticolo schermato. Quasi non contenga messaggi, quasi quell’immagine voglia simbolizzare la nullità, cercando di voler completare una nuova spazialità, straripante nell’oblio, contaminante lo spazio che la circonda, come quell’ invasione mentale iniziale riesca a stimolare l’immaginario impulsivo di ogni spettatore.
Nelle evoluzioni di Schifano si percepisce una genuina personalità che andava costruendosi attorno alla romanità che condivideva con i vari artisti del famoso bar Rosati. Piazza del Popolo era sempre più pop, ma di un pop diverso da quello che si stava sviluppando negli Stati Uniti, quasi un pop(o)lare. Plinio de Martiis che curò la prima mostra di Schifano ci tiene a ricordare che: eravamo tutti comunisti. Allora c’era togliatti ed eravamo veramente convinti che l’arte e la cultura potessero cambiare il mondo. In una Roma bigotta e democristiana non avevamo altra scelta. Dico sul serio, non c’era altra scelta. Tra queste parole si respirano i profumi di idee politiche, appunto, popolari le stesse idee che stavano contagiando sempre più un Pasolini che trovava nella popolarità la chiave dell’esistenza umana. Piazza del Popolo era questo a Roma, tanto da parlare di derivazioni di una “scuola” di piazza del Popolo. La creazione di questa “scuola” fittizia, idealizzata da una comune appartenenza ad un luogo. Tutto ciò non è da sottovalutare nei confronti di un Schifano che frequentava questi ambienti ricchi di pop-olarità, quanto di galleristi tanto giovani, quanto già famosi a livello internazionale, tra i quali come non citare un Leo Castelli o una Ileana Sonnabend. Da ricordare che Mario ha avuto un rapporto irrequieto con Ileana Sonnabend, stile usa e getta, tipico del suo carattere ma mediato grazie alla una sua impronta culturale di “popolano”. Mario Calvesi racconta: “Mario cominiciò a seccarsi con Ileana. Poi lei aprì la galleria a Parigi e fece un programma che prevedeva una prima mostra di Rauschemberg, la seconda di Jasper Johns e la terza di Schifano. Quando Mario lo venne a sapere mi disse: «Ma guarda questa, mi mette davanti ‘sti du’ stronzi». I due stronzi erano Rauschemberg e Jasper Johns! Bisticciarono anche perché lui vendeva i quadri sottobanco fregandosene del contratto di esclusiva. Avrebbe dovuto dare tutto a lei. La Sonnabend ci teneva molto, ma lui decise di lasciarla, non andò neanche all’apertura della sua mostra nel ’63 Parigi. Fu un atto di coraggio, ma anche una pazzia, perché lui così rinunciò al mercato internazionale. ” Queste parole fanno già capire molte cose, il rapporto indeciso con i galleristi non dettato da una semplice irrequietezza, ma da una “strafottenza” diretta, da una consapevolezza costruita tra i rapporti romani del tempo, in fin dei conti chi non sarebbe stato consapevole di se stesso, se tra gli estimatori del proprio lavoro avesse avuto Moravia e Villa, le personalità che gli giravano attorno crearono in lui un egocentrismo tanto attraente quanto consapevole permettendogli di indagare ingenuamente in nuovi territori delle proiezioni esistenziali, quello che era pop mutava e si inglobava al sociale, quello che era Roma poteva dunque essere pop dopo un processo di filtraggio culturale popolare dai retrogusti europeisti. Va verificato che le opere italiane erano molto più disegnate e dipinte rispetto alle americane; a dichiarazione di De Martiis, Mario come pittore era molto più bravo dei vari Warhol e Jasper Johns. Con questi incipit Schifano seppe proporsi nell’ aprile del ’63 alla famosa mostra alla galleria Odyssia di Roma, presentando per la prima volta l’elaborata svolta da monocromo a pop art; il salto fu tanto rapido quanto intrinseco della simpatia che Mario nutriva da tempo per Andy Warhol, che a detta di Maurizio Calvesi considerava intelligente e contemporaneo. La mostra sorprese molto l’amico Giuseppe Uncini che si sentì rispondere con un «a Pè, svejate!» dopo aver chiesto delucidazioni sul motivo della svolta compiuta da Mario. La trattazione in questo momento guardava alla pop art americana dentro uno schermo, il monocromo iniziava ad includere le prime immagini che riportavano le scritte Coca-Cola, Esso e No, la stilizzazione dell’uomo vitruviano, il sole, gli incidenti e i grandi paesaggi, il monocromo si trasformava quasi pronto ad assorbire il nuovo linguaggio delle nuove immagini sempre più presenti in una quotidianità che stava cambiando. Il monocromo che diventava luogo di proiezione si dilatava e mutava, l’immagine che prima era solo luce straripante ora diventava sintesi di forme corrispondenti all’immaginario italiano. Questa predilezione per un linguaggio che si stava dirigendo verso una concezione cosmopolita del vedere, spinse Mario ad affrontare il viaggio che molti italiani decisero di intraprendere, verso il miracolo americano, in particolare con direzione New York. L’attrazione che questa città esercitava sulla personalità di Mario era analoga a quella che lui nutriva per una bella ed affascinante Anita Pallemberg.
I due si frequentavano da un po’ e l’irruenza di Mario non lo fece tardare nel chiederle di accompagnarlo a New York. Anita aveva i contatti giusti e Mario lo sapeva, fu così che nel dicembre del ‘63 decisero di prendere la nave a Napoli e partire, era da poco stato ucciso Kennedy. In questa nuova città Mario non trovò grandi soddisfazioni, si intercorsero in questo momento le rotture di rapporto dapprima con Ileana Sonnabend e poi con Leo Castelli, oltre all’appoggio del poeta Frank O’Hara non si costruì altro, va comunque ricordato che O’Hara era una persona legata la mondo dell’arte. Tra questa conoscenza si sviluppava la voglia di vivere il mito americano internamente, insomma Mario a New York non vendeva quadri ma faceva solo vita sociale. È qui che Mario inizia anche il suo rapporto con le droghe, tipico dell’ambiente ma anche del periodo. Non si sapeva bene che danni procurassero, ma rispondevano benissimo alle esigenze che dovevano competere con un universo costruito di immagini sovrapposte, in un creando di ambiguità miscelando vita reale ed una virtualità sempre più presente. Nel rientro romano lo spirito pop di Schifano risulta fortificato da una presenza costante di immagini tra le tele che parlano quasi in un linguaggio pubblicitario. Nell’esecuzione di questi lavori si fortifica la presenza di immagini italiane per una Pop Art europea, come dice Luca Ronchi, opere come Leonardo, gli omaggi a Giacomo Balla, i Paesaggi anemici, il Futurismo rivisitato diventano i paradigmi di un “modo italiano” di pensare il nuovo paesaggio urbanizzato, senza rinunciare alla tradizione linguistica volutamente ridotta a stereotipo. Gli anni che vanno dal ’64 al ’71 saranno gli anni in cui Mario cercherà di sintetizzare in modo unico e personale i vari stimoli nelle arti, con una capacità degna di essere affiancata ad un’America non troppo lontana. Accelerando incredibilmente Mario cerca soddisfazioni tra quella dimensione, che la sola pittura non era in grado di dargli. Infatti in questo periodo, in un trend artistico internazionale inizia a fare cinema, costituisce un gruppo pop-rock le così dette stelle di Mario Schifano, e con un lavoro che si unisce ad un’esistenza tanto confusionaria quanto intensa, trasforma la propria vita in una performance, vivendo il proprio personaggio naturalmente con una simbiosi tra personaggio e persona. A testimonianza di questa appartenenza ad una virtualità della realtà sarà un non schierarsi politicamente in nessuna fazione, ma rispondendo semplicemente con ciò che lo aveva reso famoso, ossia con un pittorico “Compagni compagni” o con l’intera parete per la sala da pranzo di Gianni Agnelli con la rappresentazione di una manifestazione dal titolo Festa cinese. Il passaggio del decennio colpirà Schifano in una rivoluzione più semantica che politica, in un lungo periodo di ripensamento sul ruolo della e sulla pittura stessa. (In questa fase transitiva Mario riesce a pensare di buttarsi nel mondo del cinema con una credibilità tale che Carlo Ponti gli commissiona un film di ambiente americano). In tale periodo italiano Schifano affronta un lavoro molto produttivo, suggerito anche da una situazione favorevole che era riuscito a crearsi attorno. A testimonianza di molti Mario era riuscito, pur rimanendo un pittore, a crearsi una così detta “immagine”, era molto apprezzato dai suoi amici che tentavano di emularlo e lo guardavano come un avventore delle mode. Non c’è da sorprendersi se l’arte di Schifano in questo momento sembra sempre di più un arte che emula le tele della Pop Art americana, in fin dei conti il periodo era quello, le cose di cui valeva la pena guardare e rielaborare avevano inevitabilmente un sapore americano. Uno specchio della società sempre più uniforme, ma specchio anche nella voglia di assomigliare sempre più a quella cultura che arrivava da oltre oceano affascinando molto i giovani (e non solo giovani) italiani. Questo era il tempo dove si stava generando il circuito che in seguito verrà chiamato art-system, la fusione semantica tra le immagini patinate e la vita reale. Questo sistema diveniva sempre più la bisettrice tra reale e virtuale della vita di ogni artista, segnando e ritagliando quei connotati, fino ad allora rilegati in un avanguardistico valore di interesse delle arti figurative. Logicamente c’era chi è stato più predisposto nel farsi tagliare da questa bisettrice, a mio avviso Mario Schifano (ingenuamente) porgerà i polsi a tale lama dalla forma simbolica e non sintomatica, rovina e la fortuna della sua esistenza. Abbracciare le droghe in questo momento, significava dimostrare coerenza alla visione contemporanea del mondo. Una generazione che si trovava davanti ad miscuglio di esperienze tecnologiche e comunicative in un arco di tempo molto ristretto, rispondeva con fascino ad una ambiguità tra reale ed dell’immaginario. la realtà, forse, non bastava più e necessitava di essere integrata da una dose costante di “psichedellia” apportata anche dalle droghe. Esse divenivano così ammortizzatori dello sbalzo tra visioni reali e irreali, in una legittimazione giustificata dalla difficoltà di scissione tra dimensioni. La pittura per Schifano stava diventando sempre più uno sfogo diviso tra sensazioni ed immagini che popolavano la mente confusionaria di un ragazzo di Roma. Le idee erano molte ma si susseguivano con impressionante velocità, e il controllo risultava sempre più difficile ed articolato. Per Mario questo continuo stato “limbico” tra queste due fazioni risultava essere vincente sensibilizzandolo sempre più nei confronti di un nuova fenomenologia tecnologica che partendo dalla fotografia e sfiorando il cinema è finita per decretare come miglior mezzo la comunicativo la televisione. Ciò che caratterizzerà la dimensione di ricerca apparterrà sempre più a quella “realtà fittizia” professata da Mcluhan il quale affermava che tutti i media hanno come primo fine quello di mettere nella nostra vita percezioni artificiali e valori arbitrari. La scrittura pittorica accennata in questo percorso risulta una soluzione di ricerca in bilico tra immagine scrittoria comunicativa, ed immagine polisindeto visiva, chiara in particolar modo nelle opere che hanno proposto un percorso interessante nella mostra curata da Quintavalle, nel catalogo di questa mostra si costruisce un percorso molto utile per comprendere l’opera intrapresa da schifano nel 1963. In particolare nella parte di dipinti che precendono queste la costruzione dei paesaggi “anemici” , tentando di raggruppare in esse molte opere che riguardano il paesaggio. La materia pittorica legata sempre ad un espressionismo astratto si lega ad una scrittura che ha come oggetto il paesaggio, proposto in due livelli a due tonalità, il bianco in alto il verde sotto. In questo periodo infatti Schifano dona la chiave di lettura per introdurre i lavori successivi, nei suoi disegni generalmente compresi nelle dimensioni tra 70 x 100 cm, grafite e smalto sopra la carta, disegna uno schema compositivo con particolari di paesaggio e di flora, alternata a dense note di colore, spesso debordate con forme apparentemente prefissate, come in un taglio di pellicola da 35 mm,o in alternativa dall’intreccio di alcuni casi verticali e orizzontali che disegnano delle quadrature. Nei dipinti come Con anima  del 1963 coincide l’idea della bipartizione con una separazione netta della zona inferiore con quella superiore, sempre rimanendo all’interno della famosa quadratura con i bordi arrotondati, quasi caleidoscopiche. L’idea di Schifano sembra dunque essere un’idea precisa nella rappresentazione di possibili paesaggi, già scanditi in sui disegni su carta del ’63. Considerando quindi ciascun riquadro dagli angoli arrotondati come un’immagine di una serie appartenente ad una memoria e non ad una realtà. L’immagine fotografica, tanto amata da Uncini, oppure lo schermo riferito da Quintavalle risulta un limite dello spazio possibile, e come affermando in un’espressione di Arturo Quintivalle  che non si avrà mai un tranche de vie, anzi la tranche de passage, tra la cornice che chiude uno spazio di rappresentazione come fosse una finestra sul mondo, ma con il limite trovato nel quadro dal telaio o dal supporto entro cui viene dipinto uno schermo. La visione di Mario, più o meno consapevole, si propone come una scansione e filtro del rapporto con il mondo a cui apparteneva, come un Jasper Johns, voleva scollare il colore e tenero differenziato come possibile eventualità; delimitandone lo spazio internamente al supporto che ospitava la sua idea, distinguendolo e limitandolo in una quadratura che alludendo ad un fotogramma rimaneva senza immagine, in una grafia continua tratta da un’esperienza ormai appartenente ad una memoria. La pittura offre una sperimentazione eterogenea, dipingere è una possibile scelta tra le molte strade, comunque mediate da immagini ed immaginari già presenti, riprodotti, questo è il senso della brodaglia attorno allo schermo. Successivamente il paesaggio proposto in questi anni abbandonerà l’anemia, mutando, snellendosi e diventando impressione, non certo rappresentazione. I processi di rielaborazione fotografica in Schifano, corrispondono nettamente a quelle esigenze scrittorie comuni a ciò che avveniva in un canovaccio teatrale, la fotografia infatti faceva esistere già un linguaggio, un segno; nella sua rielaborazione pittorica, in fine subiva un processo di riscrittura, una sovrapposizione di linguaggi, che a tra tratti ammutinava l’esistente per regalare un nuovo immaginario ad una soluzione parallela agli eventi della contemporaneità. La pluralità dei materiali utilizzati sembra dunque andare di pari passo a quella scrittura che si riferisce al significato (l'immagine mentale che noi abbiamo di quella parola) non significante (la sequenza di fonemi o grafemi di una parola ) dell’opera, proponendosi semplicemente come una pittura nuova. Nelle evoluzione pittorica di Schifano non si più non partire da lo stravolgimento che è avvenuto nella proposta dell’opera futurismo rivisitato a colori, questo è il titolo di un’opera tra le più note appartenente al periodo tra il 1965 ed 1967. Per comprendere le immagini di questa ricerca bisogna senza dubbio fare riferimento alla fotografia del 1912 dove Marinetti si fa immortalare a Parigi con Russolo, Carrà, Boccioni e Severini, rispettivamente due a sinistra e due a desta rispetto alla figura divisoria del teorico poeta a capo del movimento. La foto è molto nota ed inflazionata nella cultura “popolare artistica” essa però viene utilizzata da Schifano in maniera quasi opposta a questa “popolarità” acquisita. Il processo intrapreso nell’utilizzo e nella rielaborazione di questa foto parte dalla semplice constatazione che le figure di Marinetti, Russolo, Carrà, Boccioni e Severini vengono ridotte a sagoma, diventando dei cartonati dove i volti sono evaporati scomparendo e lasciando solo i pastrani, le bombolette e un bastone. Il processo è quasi di pulitura di ogni dettaglio, con una eliminazione e sostituzione completa dello sfondo originario che non esistendoci lascia il ritaglio di cinque personaggi isolati da ogni contesto. Se si prendono in considerazione altre immagini di questa serie che propone la scritta “futurismo riv. a colori”  che fluttuando a mezza altezza vuol dire proporre delle alternative interpretative dell’opera che possono ritrovare diverse soluzioni, come un futirismo rivisitato del ’66 formato da 18 perspex sovrapposti, che spartiscono completamente il sistema e lo trasformano in un grande puzzle compositivo, dove i personaggi, tra le trasparenze acquistano colori che vanno dal rosso al giallo, dal viola al nero; in questo le scritte che si intersecano tra le figure lasciano scomparire l’ultima figura che quasi in maniera mistica si nasconde dietro i pannelli di colore scuro. Sempre nel ‘66  si può collocare un altro futurismo rivisitato, che propone la rappresentazione delle cinque sagome in maniera quasi sdoppiata, da una parte in una soluzione di bianco e nero dall’alta come dipinto colorato. Operando in questa maniera sembra operare in maniera quasi dilatante, con un processo che non va semplicemente interpretato come semplice sdoppiamento, ma come momento di transizione. Mutazione tra mezzo fotografico e mezzo pittorico, oppure mutazione tra bianco e nero a colore? Sembra quasi un avvento tra quello che avverrà nel ‘72 con la prima trasmissione a colori. Molte sono ancora le soluzioni proposte tra i vari “futurismi rivisitati” che finiranno per esaurirsi nel 1967, le sagome sono sempre le stesse, mutano di dimensione e con un’operazione artigiana vengono utilizzate e riutilizzate per realizzare più tele. Il pittore in questo caso diventerà più grafico che pittorico con una ripetizione fotografica continua. Le figure si spostano, ma anche la celebre indicazione scrittoria emigra da una parte all’altra del supporto, un lavoro istintivo che trova il suo apice nella momento in cui decide di lievitare sopra la testa di Marinetti, con un ricordo da insegna pubblicitaria. I ricordi sono quelli pop ma in una dimensione che muta in continuazione e sembra cercare un nuovo linguaggio tra i diversi media. Una composizione che muta non solo nell’operazione pittorica ma anche nella rielaborazione della figura dall’originario bianco e nero, acquista note colorate in un secondo momento con l’applicazione di panelli di perspex. Questa operazione è molto interessante perché riporta sempre a quel linguaggio fotografico adottato inizialmente da Mario. Ricorda molto quelle foto che si fanno utilizzando dei filtri sull’obbiettivo della macchina fotografica, ma allo stesso tempo serve come contributo ulteriore in quella creazione tra spazialità e dimensione che già avveniva inscatolando i dipinti tra riquadri. Su questo molti critici si sono interrogati tralasciando il fatto che quei pannelli in perspex non siano altro che altri schermi. Schermi su schermi generano dubbi sulla condizione di dimensione, dimensioni sopra a dimensioni che si distinguono e finiscono per mutare il contenuto visivo. Che cosa accomuna tutta questa serie di dipinti la serie di dipinti? La rappresentazione del tempo e del movimento credo sia materia comune in tutti, la durata bergsonian che si è palesata nei futuristi, in Mario si vanifica a discapito della costruzione dell’opera. Se esiste un dialogo tra la fotografia di Etienne-Jules Marey e la comprensione dei lavori di ricerca dei futuristi come Boccioni, Balla o Russolo non mi sembra scontato, ma questo termine di indagine non può valere per Schifano. Il movimento che Mario ottiene nella moltiplicazione delle sagome dei futuristi non può essere inteso come penalizzante. L’indagine che si intende perseguire nel suo lavoro gravita attorno a dei personaggi appaiono in un blocco univoco che si sposta in una dimensione immaginata. Schifano con questa rappresentazione decide di affondare le proprie radici in una cultura che gli apparteneva e lo identificava, rappresentando la sola avanguardia italiana che ha auto un ampio consenso internazionale. La scelta del tema del futurismo non risulta di facile comprensione, nei confronti delle scelte che Mario affronterà in seguito, molti le indirizzeranno verso il dada, verso il costruttivismo o verso il surrealismo. Si deve tener conto però delle considerazione che emergevano a quei tempi con un Maurizio Calvesi o di Maurizio Fagiolo e molti altri, sulle origini del primo futurismo come avanguardia rivoluzionari, si pubblicavano anche, a cura di Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori, gli archivi del futurismo, testi molto famosi per che si intendesse occupare di futurismo in relazione ad una storia completa del movimento. Schifano riducendo dunque a sagome le figure, propone una lettura di esse quasi “na?ve” di quella foto futurista parigina, che su indicazione di Arturo Carlo Quintavalle, si collega al dipinto io sono infantile (1965) che fa dell’immagine illustrata di Winnie the Pooh da E. H. Shepard l’impronta di riconoscimento. Il bambino che scende le scale nella medesima opera è stato riconosciuto come il nudo che scende le scale si Marcel Duchamp, proponendo però molti altri elementi, il giocattolo rovesciato in alto a destra, le scansioni nere quadrate, la ringhiera in fondo a sinistra; Mario sembra proporre un linguaggio che in questo dipinto risulta come artefice del tempo che è passato. Qintavalle incanala l’interpretazione di questo dipinto ad una necessità di “gioco” intrapresa da Schifano, che si realizza in queste immagini dilatate in uno spazio memonico proiettato nella tela, definendo questo processo come una regressione infantile che secondo lui aiuta a comprendere anche il processo iniziato con il futurismo rivisitato. A mio avviso, pare che questa soluzione interpretativa sia troppo rapida e scontata ed emani olezzi di una critica didattica e consona. Ritengo sia giusto mettere quest’opera nel filone dei grandi cartonati, come lo sono stati quelli utilizzati nella rivisitazione futurista, ma se inclusi in un filone preferisco delegarlo al filone grafico. Il filone tanto amato da Mario al ritorno da quel viaggio americano che lo aveva segnato. Segnato anche nello stile, uno stile che abbandonata la monocromia iniziale, e che rispecchiava sempre più quel linguaggio intravisto tra i numerosissimi cartelloni pubblicitari. Indubbiamente l’impatto di un infantilismo diffuso in quest’opera è rintracciabile se si pensa al rapporto che avrà in futuro con il figlio, ma deve essere considerato un una soluzione di ludico-esecutiva. La fortuna in queste operazioni si trova anche nelle realtà della vita di Mario e non solo in una memoria. L’immagine dunque è sempre relazionata ad una volontà giocosa in una relazione di mezzi espressivi, ma soprattutto tecniche espressive. La prova diretta di questo rapporto giocoso arriverà con la nascita del figlio Marco Giuseppe, dopo i momenti bui soprattutto nel periodo degli anni 80 tra i vari scandali delle droghe e quant’altro sembra “regredire” in questa dimensione. Ritornando alle opere, Schifano vuole proporre come un gioco, non tanto come regressioni di infanzia, piuttosto attuazione di un’infanzia presente e viva nelle proprie pitture, mai abbastanza mature. Questa pittura si realizza in un’ottica di lettura mutata dai viaggi americani; Mario nel ’65 è già stato a New York varie volte, ha avuto i famosi contatti con le gallerie di Ileana Sonnabend, conosce forse poca letteratura americana di quel periodo, ma allo stesso tempo è impregnato di quelle immagini proposte dalle “fotografie” dal tipico gusto pop. Non so se si possa canalizzare completamente le motivazioni dei vari critici in quello che è stata la “beat generation”, ma dai viaggi statunitensi dove Schifano porta a casa numerose fotografie con soggetti gli stereotipi che ora consideriamo emblemi americani. Il viaggio americano è il simbolo di questi processi, di sicuro quello emerso tra le proposizioni nelle produzione di un film che non verrà mai realizzato. ( Iniziatori nella carriera artistica di Mario, come regista contano comunque un fotografo come Robert Frank e scrittori come Jack Kerauac oppure come William Burroughs o poeti come Allen Ginsberg.) Interessante l’interpretazione che da Quintavalle da questo periodo, interpellando Burroughs che bel suo romanzo Junkey  (che Schifano molto probabilmente non ha mai letto), offre una chiave di lettura per comprendere l’opera a partire dal futurismo rivisitato. Citarla è d’obbligo: agli inizi del capitolo XIII, Burroughs descrive l’abbandono raro all’interno di quella ossessiva ricerca della droga che anima l’intero romanzo. Lo scrittore americano descrive il momento, della regressione mentale del drogato nel momento in cui la droga non fa più effetto; come un dormiveglia eccolo recuperare sensazioni perdute, suoni e profumi e una visione sospesa, distaccata, che descrive come l’incanto della fanciullezza, ma ecco il passo:”una mattina d’aprile mi destai in preda a un po’ di malessere. Giacevo sul letto contemplando le ombre sul soffitto imbiancato a calce; ricordavo giorni lontani, quando stavo a letto accanto a mia madre, contemplando le luci della strada muoversi sul soffitto e giù per le pareti. Provavo una nostalgia acuta dei fischi dei treni, degli accordi di un pianoforte nella via di qualche città, delle fragole secche bruciate. Un blando malessere per assenza di droga mi riconduceva invariabilmente all’incanto della fanciullezza. “non fallisce mai”, mi dissi, proprio come una puntura. Mi domando se tutti gli intossicati si procurino droga per questa sensazione meravigliosa. Il rapporto tra Schifano e la droga non più essere sottovalutato, c’è chi lo definisce importante, chi parla di essenzialità, ma bisogna identificarlo anche in termini di regressione. Forse sono fenomeni paralleli nella vita di Mario, come la riduzione a schema delle tante figure diventate solo forme, forme che fluttuano nello spazio di un immaginario, dai Paesaggi anemici fino ad arrivare al Futurismo rivisitato, dove un intero movimento viene sintetizzato in visioni psichedeliche. Nella Milano del 1968 allo Studio Marconi viene presentata una mostra che prosegue a livello formale anche nei lavori dell’anno successivo. La mostra fu intitolata “compagni compagni”, sicuramente traendo spunto dalle varie scritte che apparivano in alcuni dei disegni, ma non in tutti, poiché le scritte che campeggiavano nelle superfici si potevano leggere anche frasi: “sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno alla società”. Precedentemente ad un’analisi delle opere di questo filone vale proporre una ricostruzione delle pendenze politiche di Schifano, anche per sgombrare un esegesi troppo raffinata in questo campo. Va chiarito che Schifano non è mai stato legato ad un partito politico, però l’ambiente frequentato e gli amici che patteggiavano per i gruppi extraparlamentari di estrema sinistra, lo affascinavano e lo facevano pendere per un trend romano indirizzato verso un accenno di comunismo. Vive gli anni della rivoluzione culturale della Cina di Mao Tse Tung, sono gli anni del così detto Libretto rosso, anni in cui si tendeva ad una certa mitizzazione dell’area politica di Schifano, che decide di uscire dalle serie come Oasi  del 1969 o di Tuttestelle, proponendo un racconto diverso, ma sull’ idea edificante dei lavori precedenti, usando dunque le sagome per le figure e per le scritte, utilizzando oltre al pennello l’aerografo. L’analisi dei disegni, dunque la ricerca per raggiungere questa ricca serie di dipinti, mi sembra molto indicativo in un contesto etnografico Schifano infatti parte da un disegno preparatorio ricco di dettagli, generalmente chiaroscurato, un disegno non ancora ben definito all’inizio, non si capisce quante siano le figure che intende collocare nel futuro dipinto e soprattutto dove voglia collocarle. In alcuni casi si intravede la volontà di ricreare uno spazio interno, un pavimento, le tre sagome nere con inserti rossi, in altri si scorge uno spazio occupato da una strada, due figure di schiena, un altro paio di figure che camminano, il tutto immerso in un bianco e nero come se si fosse davanti ad una fotografia fortemente contrastata e stampata su tela, questo si annulla quando si alza lo sguardo e si vedono le scritte in rosso a “dripping” o dipinte in cui si legge la scritta “compagni”. Proseguendo nel catalogo sembra farci capire come il progetto sia cambiato, avviandosi verso una soluzione che risulterà vincente e prescelta: in due grandi pezzi, uno un disegno a grafite con smalto nero e collage di carta, l’altro un disegno a grafite e ancora smalto rosso su carta. In queste ultime ricerche vediamo come Mario sperimenta un “tentativo” in più direzioni rispetto a quella che risulterà la prescelta nella moltiplicazione delle immagini. Così nel primo pezzo si vedono a sinistra segnature a matita sulle due figure che abiteranno l’ opera, con sagome di una dimensione che raggiungerà anche i tre metri di altezza, che reggeranno chi una falce e chi un martello. Nell’altro dipinto si vedono le forti pennellate rosse e giallo-arancio, al di sotto a matita le sagome di tre forme, due di esse con la falce ed una con il martello, mentre dietro un’altra corporatura e in posizione nascosta di essa ne viene un’altra di cui si intravede solo una gamba; più in su di queste figure coesiste un accenno di palma, che irrobustisce quella ossessione antecedente sule palme e sull’oasi, che caratterizza schifano per un lungo periodo; più in alto ancora in lettere a ricalcatura delle sagome di carta, l’ espressione già riportata “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno alla società”. Se adesso si parla di analisi dell’opera si scopre realmente come operava schifano; per prima cosa tenendo conto del supporto. L’opera di ricerca in questo periodo accomuna figure scure su fondo giallo sovrastate dalla scritta rossa in alto col testo già riportato, tra tocchi di rosso nelle tre figure. Il particolare da notare sono i bordi arrotondati dei lavori, come se si fosse davanti uno schermo di proiezione, non a un’ opera dipinta. Schifano ha apportato diverse varianti a questa “immagine po(p)litica” che per più opere viene anche ripetuta. Vale la pena di citare quanto ha scrive Quintavalle di questa ricerca: “Prima di tutto Schifano, anche in questo caso, utilizza la fotografia che gli servirà per schematizzare le tre figure e, dopo essere stato incerto su di una eventuale resa realistica dei personaggi, decide per l’utilizzo delle sagome, della pittura a spray, con la conseguente eliminazione di ogni dettaglio e l’isolamento sospeso dalle figure in uno spazio non fisico ma mentale. Anche la scritta che sovrasta le sagome è un ovvio riferimento ai modelli di lettura in chiave marxista, ma a ben riflettere queste immagini paiono proporre anche altro. Per schifano la composizione del ciclo è analoga, nella gestazione e nello sviluppo, ad altri, come per esempio quello di “paesaggi anemici” degli anni sessanta, o come quello del “futurismo rivisitato”. Anche in quel caso le figure sono sospese nello spazio, senza più alcun riferimento a una dimensione reale ma, semmai, solo mnemonica. Schifano usa delle immagini che sarebbe sbagliato leggere in termini metonimici, descrittivi e realistici; infatti per giungere a questo livello di distacco introduce uno schema fisso, elimina lo spazio attorno, ripete sempre la scritta, varia il colore utilizzando anche il perspex che sovrappone le singole immagini. L’idea che le figure i quadrati della serie possano essere visti in sequenza distinti solo dalle variazioni di colore, emerge chiaramente, ma si deve cogliere anche un riferimento a manifesti opposti sulle strade. Non devono essere stati manifesti dalle figure di rivoluzionari marxisti con falce e martello a ispirare Schifano ma, probabilmente, manifesti pubblicitari per i quali la ripetizione è funzionale all’impatto del messaggio.” Come primo punto di analisi a queste dichiarazione, mi sembra opportuno soffermarmi sulla derivazione dell’opera di Schifano che Quintavalle da in merito alla fotografia. Parla infatti di un processo di “schematizzazione” della fotografia dei futuristi, dovuto all’incerta resa del dettaglio che Schifano avrebbe ottenuto lavorando sui personaggi. Penso che questo soluzione non sia stata scelta come soluzione ad un problema di definizione del particolare per Mario, credo che lui non abbia tentato una risoluzione minore per evitare una “resa incerta”; sono convinto piuttosto che lui sia fin dal principio influenzato da quello che vedeva offerto dalla grafica pubblicitaria, di tutto quel mondo appartenente alle cartellonistica pubblicitaria, (e non si dimentichino i “cartoni animati” del carosello, non si può far finta che Schifano non gli avesse mai visti). Più che di “resa incerta” si deve considerare quello che vedeva ogni giorno l’artista, il trend delle grafiche era molto minimalista in questo periodo di uscita dagli anni ‘60, si pensi anche il principio dell’arte povera e a tutte le correnti minimaliste che hanno segnato quei momenti, si pensi anche al passato monocromatico di Schifano, il monocromatismo deve essere visto come una sintesi di un’operazione antecedentemente pittorica e figurativa. Questa essenzialità può essere delegata a necessità primaria in quella ricerca di lavoro svolto riguardante sia “compagni compagni” sia “futurismo rivisitato”; partendo da una immediatezza che si trova nella rapidità esecutiva della sagoma, si riconosce un principio funzionale che Schifano intendeva affidargli, le varie sagome prefabbricate infatti verranno duplicate e saranno utili ad una riproduzione seriale. Altro aspetto in contrasto a questa tesi è sicuramente l’aspetto seriale dell’opera di Schifano, quando parlo di po(p)litica faccio anche riferimento a questo oltre che al gioco di parole che sta tra rappresentazione e il momento storico. La po(p)litica di Schifano è un processo di congiunzione tra una pendenza di estrema sinistra, ed un amore per le cose tanto belle quanto costose, due cose che generalmente faticano a stare assieme, ma che in un concetto di po(p)litica possono coesistere. Più dipinti faccio, più guadagno, e di conseguenza più cose posso acquistare: questo è il ragionamento a cui bisogna fare riferimento parlando di Mario; inutile citare il fatto delle Jaguar in questo contesto, ma credo che un rimando può essere d’aiuto. Secondo punto poco chiaro in questa dichiarazione è sempre il rimando non fisico ma mentale a cui fa rifermento Quintavalle, che parla di una memoria, parlando di un’azione appartenente ad un (iper)cosciente che si fa avanti ogni volta che Schifano fa un’opera. Parlando prima di riferimento mentale e poi di ricostruzione spaziale mnemonica forse Quintavalle intendeva altro, ma in questo contesto ritengo sia doveroso definirne meglio i parametri. Non credo che Schifano faccia riferimento ad una memoria tanto lontana quando dipinge queste opere, infatti risultano coerenti a quel tessuto sociale che lo circondava, non credo, inoltre che si possa eleggere la soluzione della memoria ad una motivazione operativa, soprattutto se quello che vediamo nelle tele coincide con ciò che stava accadendo in Italia, il fatto di rivisitare il futurismo, la vedo più come un’operazione semplice di chi vuole prendere una emblema artistico italiano e stravolgerlo con una reminescenza pop. La tecnica, lo stile, è l’emblema che lo caratterizzerà negli anni successivi, il sapore pop è molto forte, quindi più che di memoria credo si debba parlare di abbracciare (più o meno) le correnti artistiche del momento. Schifano non fa altro che prendere in esame delle soluzioni che anche altri artisti adottano, ne modifica il contenuto aggiungendone dei particolari, più o meno tecnici, e con la sua dote di originalità riesce a farne momento caratterizzante per interi cicli. Quando capisce che il risultato gli piace, lo esegue in una ripetizione più o meno indefinita. Il soggetto rimane, si modificano le tecniche di realizzazione. La dimensione cercata è sicuramente una nuova, non esistente ma non finalizzata a delle memorie, piuttosto incentrata in visioni che rispecchiano gli ambienti di romani passando per quelle riviste specializzate che circolavano nel caffè Rosati. Alto punto labile della questione è quello che indica l’utilizzo di uno schema fisso per ovviare alla fine le questione della memoria. Affermando questo Quintavalle sembra contraddirsi ulteriormente, a rimostranza, se prima parlava di ricostruzione di un immaginario per merito della memoria ora sembra ritrarre quello che ha detto delegando la questione a una soluzione di schema fisso idealizzato. A mia interpretazione lo schema fisso esiste in relazione ad una spazialità che non esiste, nel senso che quelle figure che in realtà sono sagome, risultano fluttuare in una collocazione spaziale ideale più che idealizzante. Attirano su di se l’attenzione poiché esse sono il soggetto che farà da canale nella scelta interpretativa che Schifano intende utilizzare nell’opera singola. Semplificando: se Mario decide di rappresentare dei manifestanti o dei futuristi il passo che compie è praticamente lo stesso, a livello di realizzazione, ma non più essere affidato nello stesso carattere semantico. Le parole cambiano e di conseguenza più che di uno schema si può parlare più di stile. Sentendosi padrone del proprio stile, Schifano, decide di riproporlo, e riprodurlo più volte, quasi in maniera ossessiva più che in termini di ricerca estetica dello schema. Incontestabile il fatto che dietro ad un’ opera pittorica corrisponda comunque una necessità compositiva che invita al facile giudizio estetico. Ritornando a parlare di po(p)litica si può incanalare il discorso nelle parole citate prima di Calvesi, dove queste operazioni artistiche seguivano il trend pop, con la voglia di cogliere un momento di particolare subbuglio politico legato ad un’Italia che voleva cambiare a tutti i costi, e che sentiva nell’ondata sessantottina la stessa novità legata alla diffusione delle notizie proiettate dal tubo catodico, “compagno” di vita. L’ottica pop di Schifano incarna quindi tutta l’essenza di quei movimenti che erano appunto movimenti di massa, mentre nel termine popolare si addensava tutta quella riscossa popolare rappresentata da una politica di moda. Nel ‘62 Warhol eleggeva Marilyn Monroe come soggetto perfetto nella sua ottica pop, due anni dopo Schifano utilizzava Marinetti e compagnia bella come emblema dell’italianità, il processo utilizzato dai due è identico, ed ancora Warhol dipingeva Mao Tse Tung e Schifano dipingeva i “compagni”. La seconda fase produttiva di Schifano viene generalmente rilegata ad una sorta di periodo di “crisi” e di disincanto dall’essenzialità dell’arte. In questo momento per Mario sembra prevalere una consapevolezza: il mezzo pittorico non riesce a soddisfare nell’interezza la necessità espressiva e soprattutto un linguaggio chiesto in questo momento. La realtà dei fatti, vista con distacco a distanza di anni rende molto chiara la questione, i mezzi di comunicazione stavano diventando sempre più i protagonisti nella quotidianità non solo di Mario ma della collettività. Facendo riferimento alla riproducibilità tecnica a cui fa riferimento Benjamin ricorrendo a Paul Valéry, si potrebbe dire che in questo caso la pittura per Mario perde l’ordine sacrale, autarchico, dell’opera d’arte. L’ interpretazione “benjaminiana” si muove verso una sorta di “liberazione” da diserzione dagli aspetti più rigidi dello spettacolo. Lo avevano già fatto altri artisti, ma questo è un caso da evidenziare in relazione alla “popolarità” del’ opera di Schifano; sembra, di fatto, essere un artista che da un momento all’atro viene sopraffatto da tutti quei mezzi di comunicazione che prima sembravano coesistere nella sua attività di artista. Per dirla con le parole di Abruzzese, negli anni sessanta era in atto un processo di “liberalizzazione” dell’immagine e del discorso, un forte processo di “spettacolarizzazione” che investe il quotidiano indebolendo i vecchi formati “rigidi” della messa in scena teatrale. E’ proprio in questo principio che sta l’atto di passaggio che va dalla pittura alla multimedialità, dirigendosi da quello che è stato per anni il passo successivo del disegno, la pittura, all’ utilizzo della protesi tecnologica. La fotografia poi il video e poi il cinema sono tutti elementi risultati necessari quanto confusionari nella ricerca artistica di Schifano, entrano in maniera invadente nella quotidianità, distorcendone la visione reale, in un processo che probabilmente nemmeno Mario immaginava quando nel 1954 iniziava a fare le prime opere. Con la stessa tendenza che prima figurativa, poi monocromatica e poi spostatasi verso il “Paesaggio anemico”, con una sorta di azzeramento della superfici in ferro cemento, riassume la sua mutevole e rapida ricerca artistica. Una libertà estrema, quasi anarchica dell’opera seguiva un po’ la pop art americana e se tra le assonanze con Jasper Johns riusciva a rimanere in sintonia con il suo tempo, nella relazione con Warhol c’è l’assonanza sul tema della comunicazione. L’arte contemporanea nella società di massa deve sviluppare comunicazione, entrare nell’immaginario collettivo, agganciare l’attenzione di un pubblico che è sempre più sedotto dalla televisione e dalla “società” dello spettacolo; ecco che l’arte anche in Mario diventa multimediale, si impossessa di strumenti capaci di diffondere la propria immagine, molto di più di quanto possa fare l’unicum, di un prodotto artigianale dell’artista che fino a questo momento era stata la pittura. Achille Bonnito Oliva, in un’ intervista in relazione alla mostra curata da lui stesso alla galleria d’arte moderna di Roma nel 2008, dice: Mario ha sempre lavorato sulla “pelle” della pittura e come si sa la pelle ogni riferimento ai serpenti è puramente ludico, la vitalità di Mario, anche il suo vitalismo, il suo erotismo, il suo attaccamento alla vita, lo portava anche ad essere presente nella conoscenza dei nuovi artisti, nove generazioni che l’hanno molto amato. Queste parole lasciano desumere quanto la pittura pur accantonata a sprazzi risulterà appunto “incarnata” nella pelle di Schifano, in una produzione artistica che mai riuscirà ad abbandonare quel mezzo. La peculiarità di riuscir a far coesistere i numerosi mezzi risulta fatale nel momento in cui quello schermo tanto decantato e blasonato dalla critica dal periodo monocromo prima, poi interrotto dall’insediamento di squarci pubblicitari, non riesce più ad essere amministrato e gestito da Schifano.
Sembra avvenga l’opposto, ossia che lo schermo si impossessi di Mario, quasi cadendogli addosso, facendolo immergere nel mondo cinematografico, dando luce al solo galleggiare di un’esigenza indirizzata ad una produzione cinematografica. A questo processo si è susseguito un oscuramento del riflettore pittorico che pur rimanendo presente sembra non soddisfare a pieno la carriera artistica di Mario. La pluralità del mezzi, prima divisa tra le tele e la fotografia ora sembra in balia di un nuovo connubio di nuovi mezzi, che investono il cinema in primis e coinvolge in seconda battuta anche la musica. I riferimenti sono semplici, la prima commissione del film, tra l’altro coerentemente, mai realizzato, finanziato da Carlo Ponti, per finire con la costituzione del gruppo musicale “le stelle di Mario Schifano” che non riuscì mai a decollare in quello star system a cui tanto voleva appartenere. Nasce in questo clima la nuova ossessione, quella del cinema, del cinema d’artista che già a priori non aveva un’idea ben precisa, ma da relazionare come fase evolutiva rispetto al mezzo fotografico. Dopo il viaggio con Nancy Ruspoli, per girare il film documentario che avrebbe dovuto avere il titolo di “Laboratorio umano”, nato appunto dalla fascinazione per il mezzo cinematografico iniziava a pensare ad una produzione più seria. Anche qui però il dato rilevante fu l’insoddisfazione nel conoscere i tempi lunghi delle dinamiche cinematografiche. Tornato dal viaggio però non riesce realmente a rinunciare alla pittura, inizia i famosi “paesaggi tv” dove trapianta su tela le figurazioni televisive con la preparazione dell’emulsione fotografica. I primi soggetti ad appartenere a questa corrente sono le fotografie fate in America. Esse vengono rielaborate con un insieme di tecniche che comunque richiamano ad una pittura tradizionale, trovano nella rielaborazione fotografica un punto di partenza per rivisitare un lavoro di costruzione grafica antecedente. I lavori a cui si fa riferimento sono quelli presenti nel catalogo America America, come Pentagono, Era Nucleare, Medal of Honor, la Nasa, le sale di trapianto a Huston, Alamo Gordo dall’Archivio di Los Alamos, senza contare all’ingente quantitativo di fotografie che quotidianamente e ininterrottamente trasmettevano i canali televisivi. Da queste immagini sembra dunque trasparire un interesse che prima, Mario, non riusciva a riconoscere ed ad identificare come arte. Non è la programmazione televisiva il centro dell’interesse, ma l’immediatezza dell’immagine che si sviluppa con il mezzo televisivo. Dopo questa produzione americana infatti il rapporto con la macchina fotografica inizierà ad essere più maturo e cosciente, diventando vera e propria protesi nel filtro della vista di Schifano. Volendo affidarci brevemente alla psicanalisi non si può fare a meno di una riconduzione “freudiana”. Il mondo del subconscio per Mario non sembra fare altro che coincidere con un’esigenza di un nuovo vedere collettivo. L’indirizzo adottato da Mario non è altro che uno specchio dell’esposizione immaginaria della società che lo circondava, il nuovo entusiasmo per il mezzo era dovuto ad una fonte di ispirazione del quotidiano. Nelle memorie di Arturo Carlo Quintavalle si rintracciano elementi importanti di questa nuova ricerca; alla risposta sul perché intervenire sulla fotografia con la pittura fino a volte stravolgere l’immagine iniziale si risponde: “il riferimento era a Andy Warhol, “l’incidente” oppure la “Sedia elettrica”, ma Schifano usava le immagini del televisore in modo diverso; fra l’altro erano le opere più recenti, quelle ricavate da scatti fotografici alla TV, Mario prima di tutto usava dialogare con qualche opera d’arte del passato, ma non lavorava sul dipinto ma sullo scatto che aveva fatto sul dipinto ripreso da una trasmissione TV, da un documentario. Così aveva scelto Carrà oppure de Chirico, ma non solo loro; utilizzava come “basi” anche i film d’azione oppure pellicole di anni Trenta magari dei gialli, e questi frammenti della memoria erano come un caleidoscopio di immagini tutte contemporanee, anche quelle che scattava ad opere d’arte del passato. Mario continuamente scomponeva e ricomponeva le immagini che passavano per la Tv perché voleva esprimere una dissociazione, una diversità, la possibilità delle figure di trasformarsi di senso sia modificandone la forma con lo scatto che non sempre era in asse, ma a volte scorciato da lato, da sopra sia intervenendo sul colore.” La sua fortuna nell’opera, pur indirizzata alla fotografia ed al video in questo momento, è stata di mantenere una volontà espressiva attaccata alla pittura mutandola nel linguaggio esecutivo.
Lo schermo ora è emerso, diventa il soggetto, abbandonando definitivamente la “visione” di Schifano che per anni è stata l’esternare di una proiezione mentale. La creatività di Mario sta dunque tra l’immediatezza e l’incoscienza di un processo che riflette il grande cambiamento comunicativo che stava avvenendo. Schifano in questo processo trova nella continua voglia sperimentale la stessa fortuna che ha l’uomo che si trova nel posto giusto al momento giusto, aggiungendoci una controtendenza che non lo legava fino in fondo a nessun movimento artistico. Lo schermo inizialmente vuoto ora veniva dipinto dalle immagini delle trasmissioni televisive, il nuovo mezzo insinuava un nuovo modo di vedere il mondo, Mario procedendo per scomposizioni trovava la giusta distanza dal mezzo, operando in una suddivisione di immagini che reinterpretate servivano a sua volta a ricomposizioni filologiche contemporanee con il suo modo di dipingere. Il genio in Schifano sta nel far ricadere nell’artigianalità del mezzo pittorico la modalità di approccio comunicativo della televisione, che come dice Goffredo Parise ripercorre una intelligenza artistica che riesce a rimanere in bilico tra l’apparenza e l’essenza della pittura. Il percorso espositivo della mostra alle Gallerie d’Italia di Napoli parte proprio da queste prime opere monocrome rarissime, alcune delle quali provenienti dalla Collezione Luigi e Peppino Agrati, oggi parte del patrimonio artistico del Gruppo Intesa Sanpaolo per la prima volta riunite in questa importante occasione. L’opera Grande pittura del 1963 introduce il tema delle insegne, rappresentate in mostra da pitture iconiche dedicate alla Esso, alla Coca Cola ed ai segnali urbani che caratterizzano la ricerca di Schifano nei primi anni Sessanta. La mostra procede attraverso alcuni capolavori affrontando i temi centrali in modo sintetico, ma antologico, e costruendo, sala per sala, momenti di approfondimento sulla sua produzione. Il pubblico può confrontarsi con dipinti dedicati ai grandi paesaggi italiani come Ultimo autunno del 1964, opera fondamentale della Collezione Intesa Sanpaolo e, successivamente, con un piccolo capolavoro come Futurismo rivisitato, sempre conservato nella Collezione di Intesa Sanpaolo e dedicato ai Maestri di quel movimento come Giacomo Balla, Gino Severini e Carlo Carrà le cui opere introducono al tema del movimento della figura umana. A conclusione di questa prima sezione vengono presentate ai visitatori alcune grandi opere come Compagni Compagni e Tableau peint pour raconter l’inquietude amoreuse de Susi che aprono alla sezione dedicata interamente ai Paesaggi TV. Per la prima volta sono esposte al pubblico una serie di opere degli anni Settanta denominate appunto Paesaggi TV: creazioni che, rivedendo la pittura attraverso l’utilizzo della macchina fotografica e l’emulsione del colore sulla tela, ripropongono fatti di cronaca, arte e pubblicità. L’allestimento evoca una sorta di quadreria da cui emergeranno una serie di immagini catturate dall’Artista direttamente dal tubo catodico, come se lo spazio fosse invaso da schermi televisivi da cui emergono immagini fantasmatiche che evocano i suoi maestri: Giorgio De Chirico, Leonardo Da Vinci e Pablo Picasso. Il Salone Toledo, al piano terra, apre con un’opera fondante come Festa Cinese, di oltre sette metri, per poi riunire in modo scenografico gli ultimi tre decenni della produzione artistica di Mario Schifano che vanno dagli anni Settanta agli anni Novanta del Novecento. Tra le opere di grande formato il pubblico può ammirare lavori emblematici come Gaston a cavallo del 1986, due importanti opere Gigli d’acqua e Acerbo e tre grandi teleri contemporanei nei quali Mario Schifano rilegge la sua passione per lo schermo, per i media e per la contemporaneità. Questi impegnativi lavori ben illustrano la felicità creativa di Mario Schifano anche nella sua fase matura, espressa nella forma tanto colossale quanto festosa, di quelli che la critica definisce gli straordinari teleri dell’arte contemporanea internazionale. Il Catalogo della mostra Mario Schifano: il nuovo immaginario. 1960-1990 è realizzato da Edizioni Gallerie d’Italia edito da Skira editore.
 
 
Gallerie d’ Italia – Napoli
Mario Schifano: il nuovo immaginario. 1960-1990
dal 2 Giugno 2023 al 29 Ottobre 2023
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Lunedì Chiuso