Giovanni Cardone Giugno 2023
Fino al 27 Agosto si potrà ammirare al MANN - Museo Archeologico Nazionale di Napoli la mostra dedicata a Pablo Picasso quarantatré lavori messi a confronto principalmente con le sculture Farnese e i dipinti pompeiani nell’esposizione “Picasso e l’antico”. Il Progetto curato da Clemente Marconi che si inserisce nel programma internazionale “Picasso Celebrazioni 1973 – 2023: 50 mostre ed eventi per celebrare Picasso” nel cinquantenario della morte. L’evento promosso dal MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli con il sostegno della Regione Campania e con l’organizzazione di Electa. La mostra ha l’intento di illustrare la profonda influenza di uno dei più grandi musei di arte classica sull’opera di uno dei più importanti artisti moderni. Allestita nelle sale della collezione Farnese, l’esposizione si divide in due parti: la prima relativa ai soggiorni a Napoli di Picasso, delineando come si presentava il museo al tempo della visita dell’artista, allora non ancora solo “archeologico”, e la seconda relativa al confronto tra le opere del museo e i lavori di Pablo Picasso. Sono presenti 37 delle 100 tavole che compongono la Suite Vollard, eccezionale prestito del British Museum di Londra. Queste incisioni, realizzate tra il 1930 e il 1937, si configurano come un fulcro interpretativo nell’opera dell’artista. A queste si aggiungono i rilevanti prestiti del Musée national Picasso-Paris e del Gagosian New York. L’eco profonda del viaggio in Italia del 1917 sulla produzione artistica di Picasso è stato riconosciuto da tempo e rappresenta ormai un punto fermo in letteratura. Proprio all’impatto delle opere d’arte viste a Roma, Napoli e Firenze si attribuisce un decisivo rafforzamento della tendenza di Picasso verso il naturalismo del cosiddetto “secondo periodo classico”. All’interno di quel viaggio, il soggiorno a Napoli, con la visita sia a Pompei sia al museo che allora esponeva la Collezione Farnese e le opere da Ercolano e Pompei, ha a sua volta una rilevanza particolare: il naturalismo di questa fase picassiana assume forme esplicitamente classicizzanti, ben riconoscibili nella maggioranza dei dipinti e disegni non cubisti degli anni dal 1917 al 1925 e nell’opera grafica degli anni ’30. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Picasso e del suo viaggio in Italia e Napoli apro il mio saggio dicendo : Interessante, a questo punto, per comprendere meglio i rapporti che, lentamente, si stanno consolidando tra Picasso e l’Italia, è soffermarsi brevemente sul primo viaggio compiuto dall’artista spagnolo nel nostro paese nel 1917. L’idea del viaggio in Italia inizia a prendere forma ben due anni prima: Picasso nel 1915 conosce Jean Cocteau, un poeta giovane, ma già affermato, che nel 1912 aveva lavorato con Diaghilev, con il quale progettava un nuovo balletto con musiche di Erik Satie. Sarà proprio il poeta ad invitare il pittore spagnolo a realizzare le scene per l’opera, ottenendo, quasi incredibilmente, una risposta affermativa. A prova di ciò vi è un biglietto trionfale, firmato insieme da Cocteau e Satie, inviato all’artista Valentine Gross, nel quale si legge: «Picasso fa Parade con noi». La risposta affermativa, come dicevamo, era tutt’altro che scontata. Scrive, infatti, lo stesso Cocteau: « Si attraversava il periodo austero del cubismo e  dipingere una scena, soprattutto al Ballet russe, era un delitto. Un Renan fra le quinte non aveva scandalizzato la Sorbona quanto un Picasso scandalizzò la Rotonde accettando la mia proposta. Il peggio fu che dovevamo raggiungere Serge de Diaghilev a Roma, e che il codice cubista interdiceva ogni viaggio». Picasso, quindi, come rappresentante di un’avanguardia così affermata, il cubismo, non poteva rivolgere il suo sguardo al passato, al mondo classico senza creare scandalo. Il pittore spagnolo, come sappiamo, era però incapace di soffermarsi troppo a lungo su un solo linguaggio figurativo e, soprattutto, non si lasciava “rinchiudere” da precetti decisi da altri.
Picasso e Cocteau, quindi, partono il 17 febbraio 1917 alla volta di Roma, dove li attendevano Diaghilev e la troupe dei Balletti russi. I ruoli erano ben ripartiti: Satie si occupava delle musiche, di Cocteau erano i testi, di Massine le coreografie, di Apollinaire il testo di presentazione in sala, di Picasso il sipario, le scene e i costumi. Quest’ultimo, però, non si accontenterà di fornire le scenografie sulla base di un libretto definito in precedenza, ma, al contrario, interverrà modificando profondamente il tema del balletto. L’opera pensata da Cocteau era ambientata a Parigi, durante una fiera, come bene spiega Douglas Cooper: «Il tema del balletto ideato da Cocteau era semplicissimo: davanti a un baraccone da fiera, su un boulevard parigino, un gruppo di saltimbanchi un acrobata, un giocoliere cinese, una ragazzina americana eseguono brani dei loro numeri per tentare di richiamare il pubblico verso lo spettacolo che si svolge nell’interno». E sempre Cooper ci aiuta a comprendere appieno la differente visione di Picasso rispetto a quella di Cocteau. Egli scrive, infatti, «Cocteau parlò in questi termini della prima versione di Parade: “Queste indicazioni non avevano niente di umoristico. Insistevano anzi sull’aspetto occulto, sulla vita interiore dei personaggi, sul lato nascosto della nostra baracca di ambulanti. Ma Picasso, al contrario, immaginava Parade come un balletto della “vita reale”, voleva che fosse uno spettacolo da boulevard, con tutto ciò che comportava di aspetti terra terra, spirituali, satirici e volgari» . La modifica più importante che apporterà il pittore spagnolo al testo di Cocteau è l’inserimento dei Manager, possenti intelaiature cubiste disumanizzate. La scena, quindi, è raffigurata da un tendone da circo concepito nel più puro stile cubista, senza accenni alla prospettiva, dal quale escono i Manager, simboli della modernità dello spettacolo, contrapposti alla gracilità e alla bellezza dei movimenti convenzionali del prestigiatore cinese, della ragazza americana e degli acrobati. La scena, così, diventa un accostamento di reale e immaginario, in cui i danzatori leggeri si muovono affianco a pesanti personaggi inumani, simboli della meccanizzazione e della rumorosità della vita moderna. Le famose parole di Cocteau il quale dice: «Quando Picasso ci mostrò i suoi schizzi, ci rendemmo conto di quanto fosse interessante opporre a tre personaggi reali ridotti quasi a delle cromolitografie incollate su tela, dei personaggi inumani, sovrumani, con una trasfigurazione più profonda che insomma si sarebbe trasformata in una realtà scenica illusoria fino a ridurre i danzatori reali alle dimensioni di pupazzi». Come nota anche Cooper quindi l’idea di Picasso era di realizzare in un altro campo, questa volta a tre dimensioni, l’applicazione pratica di una delle sue grandi trovate pittoriche degli anni eroici del cubismo, giustapponendo elementi reali e immaginari e facendoli agire insieme per produrre un’esperienza più intensa della realtà. Anche il sipario realizzato da Picasso, tuttavia, si discosterà notevolmente dall’idea di Cocteau: artisti e musicisti osservano una ragazzina in equilibrio su una giumenta vestita con delle ali all’interno di un tendone da circo che si apre su un paesaggio naturale e non vi è, quindi, alcun riferimento alla topografia parigina, o più semplicemente, ad una veduta di città.  La scena, quindi, viene ad inserirsi in un ambiente quasi onirico, in cui elementi reali e finzione coesistono. L’opera, tuttavia, è interessante in quanto riesce a combinare in modo provocatorio i principi del cubismo e il ritorno a una pittura figurativa e narrativa. Anche lo stesso fatto di aver modificato l’atmosfera del balletto e il suo stile d’avanguardia con un sipario narrativo era una novità: Picasso introduceva la simultaneità degli stili, attribuendo ad essi uguale valore, proprio come accade nella sua arte in cui linguaggi differenti coesistono negli stessi anni. Per la realizzazione dell’opera aveva tratto ispirazione da una scenetta vesuviana ideata da Achille Vianelli, uno dei pittori della Scuola di Posillipo, autore di alcune vivaci stampe popolaresche pubblicate a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, ribadendo così in modo esplicito la sua predilezione per i petits maîtres. L’opera di Picasso per i Balletti russi non passa di certo inosservata: con Parade, infatti, egli esegue per la prima volta un lavoro su commissione e ciò viene visto come un evento sensazionale. Roland Chavenon scrive, a tal proposito: «Il grande avvenimento artistico di questi ultimi giorni, i Balletti russi, può essere studiato nella rubrica pittorica, poiché questo spettacolo è in gran parte destinato agli occhi; e soprattutto è il primo saggio di cubismo a teatro». La rivista francese “Les Arts”, invece, ironizza scrivendo: «Pablo Picasso è partito per Roma per eseguire le scenografie di un balletto. Coloro che lo introdurranno nel mondo romano sono persone di grande distinzione. Riuscirà Pablo Picasso a convertire il Santo Padre al cubismo?». Anche Giorgio Cortenova scrive: «L’opera in realtà rappresenta una delle poche composizioni “affollate” di Picasso. I precedenti sono Cavalli all’abbeveraggio, in parte la Famiglia di Arlecchino e certo le Demoiselles d’Avignon. Bisognerà attendere la Crocifissione del ’30, e Guernica del ’37 perché Picasso ci dia altre prove del genere». Importante, sempre nell’ambiente culturale formatosi intorno alla figura di Diaghilev e la sua compagnia, fu anche la mostra tenutasi il 10 aprile nel foyer del Teatro Costanzi. Si legge, infatti, nel Notiziario del numero 7 di giovedì 5 aprile de “Il Tirso”: « nella sala dei concerti del Costanzi, avrà luogo un ricevimento, organizzato dalla Società Nazionale della Musica, in onore dei Balli Russi. Durante il ricevimento, a cui interverrà il “tour Rome”, il maestro Igor Strawinsky farà eseguire sotto la sua direzione la sua magnifica opera “Uccello del sic fuoco”, che l'eletto pubblico romano ascolterà per la prima volta. Nella ampia sala del ricevimento, addobbata dalla insegna di guerra degli alleati, vi sarà una esposizione di quadri modernissimi del coreografo Leonida Massine. Fra gli espositori non mancano i nomi autorevoli di Leone Bakst, Pablo Picasso , Giacomo Balla, del giovane Fortunato Depero e di molti altri notissimi, vale a dire di tutti i rappresentanti della pittura di estrema avanguardia. All'esposizione verrà dato libero accesso a tutti i cultori e amatori dell'arte nuova». Anche “Il Piccolo Giornale d’Italia” dedica un’ intera pagina alla mostra: «Promosso dalla Società nazionale di musica sarà fatta domani, martedì, alle ore 16 precise nella sala del Costanzi, in onore dei Balli Russi la Mostra della ricca e svariata collezione di quadri appartenenti al coreografo Leonida Massine», e l’articolo continua con l’elenco completo delle opere esposte. In occasione, quindi, del ricevimento della Società nazionale di musica in onore dei Balletti Russi, venne esposta la collezione di Massine, che, a detta di Alessandro Prampolini, fratello di Enrico: «non mancò di accendere polemiche». Essa, infatti, era composta di opere dei più grandi artisti contemporanei italiani e stranieri, tra i quali figurava anche Picasso. Questa fu, per l’artista spagnolo un’occasione unica per entrare in contatto con gli avanguardisti italiani e gli offrì raffronti e stimoli fondamentali per la sua arte. Ma essa, ancor più, fu un’occasione unica per gli artisti italiani di vedere esposte ben 6 opere del Maestro malagueno: Nature Morte, Aquarelle, Journal, Arlequin, Peinture Pompéienne e Portrait de Léonide Massine.  Riguardo a questa esposizione è interessante la testimonianza di Enrico Prampolini: «Alla mostra d’arte della Collezione Massine coreografo dei Balletti Russi, tenuta nel Ridotto del Teatro Costanzi, Picasso espose i risultati di quelle sue esperienze del viaggio in Italia vedemmo infatti le prime “teste femminili”, di grandi proporzioni, modellate dal colore rosso pompeiano e dagli sfondi azzurri, sintesi plastiche di forma-colore, di un’ampiezza di rapporti e grandiosità veramente scultorea, e soprattutto di una specie quale non poteva svilupparsi che in un clima vesuviano». Il poeta futurista Luciano Folgore, poi, scrive: « Martedì vi è stata l'esposizione dei quadri del coreografo Massine. Ho visto dei Picasso magnifici. Il cubista, negli ultimi lavori eseguiti a Roma, ha un po' trascurato la forma per dedicarsi al colore. Si dice che questo rivolgimento sia dovuto un po' all'influenza dei futuristi un po' alle tinte meravigliose di questa atmosfera romana».46 Anche alcune riviste prestarono attenzione alla mostra e alle sue conseguenze sul pubblico, come si può leggere nel Notiziario di “Avanscoperta”: «L’esposizione della collezione dei quadri del coreografo Massine alla sala Costanzi, ha suscitate vivissime discussioni, tra la folla d'artisti convenuta a visitare l'interessantissimo nucleo di opere d'avanguardia. Dopo il concerto stravinskiano il pubblico à variamente apprezzato lodando, denigrando, esaltando le tele vive di colori italiani di Pablo Picasso, le sintesi plastiche di Carrà, le nature morte di Severini, le strazioni plastiche di Balla e Depero e i quadri di Bracques Leger  De Chirico, Lhote, Gris e Glezeis ». Anche il già citato “Piccolo Giornale d’Italia” dedica un articolo alla critica della mostra, del quale riporto un estratto dedicato a Picasso: « Molto ammirati sono stati i quadri di Pablo Picasso. Egli è nato a Malaga, figlio di distinti artisti. Suo padre fu direttore dell'Accademia di Belle Arti di Barcellona dove in parte egli fece i suoi studi e in parte in quella di Madrid. Sempre avido di nuove sensazioni venne giovanetto a Parigi ove lottò molti anni nella ricerca di nuove forme contro la inerzia umana sempre restia a riconoscere ed ad accettare un innovatore. Circa dieci anni fa in Parigi il mondo artistico si divise in due parti : una seguiva il Picasso nella nuova via da lui creata, l'altra si attardava ancora nella scuola del Matisse. Ora col cubismo del quale egli è unico creatore si inizia una èra nella storia dell'arte. Matisse fu completamente liquidato, ed a Parigi della sua scuola non se ne parla più». Ma mettiamo da parte l’intervento di Picasso nei Balletti russi e concentriamoci sul viaggio: esso è un dato di fatto, testimoniato da scritti e fotografie che ritraggono il pittore spagnolo in compagnia di altri artisti e uomini di cultura italiani e stranieri. Anche le parole di Gerturde Stein ci fanno capire l’importanza di questa esperienza per Picasso: «Jean Cocteau partì per Roma con Picasso.. Era la prima volta che vedevo Cocteau. Vennero da me tutti e due per salutarmi. Picasso era molto gaio.. erano gai tutti e due, lui e Cocteau. A Picasso faceva piacere partire, non aveva mai visto l’Italia». Di questo viaggio, tuttavia, al di là della realizzazione di Parade, conosciamo soltanto pochi fatti: esso dura diverse settimane, durante le quali il pittore visita Roma, Napoli e Firenze, ma vi sono poche tracce del suo passaggio; lo stesso Picasso, sul suo taccuino, non riporta nulla delle sue visite ai musei. Jean Leymarie, che è stato direttore dell’Accademia di Francia a Roma, cerca di ricostruire il percorso seguito da Picasso. Secondo il suo saggio, apparso nel catalogo della Mostra “Picasso in Italia”, tenutasi a Verona nel 1990 , sappiamo che il soggiorno a Roma dell’artista spagnolo è inframmezzato, a marzo e aprile, da due importanti gite a Napoli e Pompei , accompagnato da Stravinskij, alla ricerca di spunti per il balletto Pulcinella , il secondo lavoro che Picasso compie su incarico di Diaghilev. È a Napoli che avviene la sua scoperta dell’antico, attraverso la visione di monumenti e statue, ma anche della strada, dei ballerini, dei paesaggi. Sulla via del ritorno, poi, all’inizio di maggio, Picasso si ferma a Firenze, dove assiste, il 30 aprile, nel Teatro Politeama Fiorentino, all'unica rappresentazione data "a beneficio delle famiglie dei richiamati" dalla compagnia di Diaghilev in quella città». La presenza di Picasso a Firenze è testimoniata anche dal racconto del futurista Primo Conti: « Appena entrato nel palco vidi Picasso che sedeva in fondo, nell'ombra. Aveva un berretto da fantino dal quale usciva il suo caratteristico ciuffo di capelli neri, un paltò leggero col bavero alzato, e nella mano sinistra che teneva in tasca, una piccola mazza di bambù. Con lui e Magnelli c'erano Palazzeschi, Antonio Bruno e Michail Fedrovic Larionov, coreografo  del balletto Il sole della notte che era al centro della serata.  Le altre cose che disse si riferivano quasi tutte agli affreschi di Raffaello che aveva visto in Vaticano». Nonostante questa testimonianza, secondo Giorgio Cortenova non è certo che Picasso si sia recato alla Sistina, né alle Stanze Vaticane e questa sua mancanza potrebbe essere dovuta alla «scomunica degli amici verso la tradizione». I due critici prestano fede alla testimonianza di Kahnweiler che, in una raccolta di appunti sulle conversazioni avute con Picasso, a proposito del suo secondo viaggio in Italia del 1949, scrive: «Picasso parla del suo viaggio in Italia. Ha visto finalmente la Cappella Sistina». Quel “finalmente” induce a pensare che prima di allora non vi si fosse mai recato. Cerco di riportare un passo di una lettera di Cocteau indirizzata alla madre in cui racconta di una «grande promenade ce matindans le jardindu Vatican» insieme a Picasso, osserva come accanto alla descrizione di portici e fiori, non vi sia, invece, alcun accenno alle Stanze, alla Sistina o ai Musei, e deduce, quindi, che egli non vi sia mai stato. Secondo il critico, invece, Picasso si sarebbe recato a Palazzo Barberini e lo deduce dal fatto che, sul retro di uno dei primi ritratti dell’amata Olga, era incollata una cartolina che riproduceva il ritratto di Beatrice Cenci, attribuito a Guido Reni e conservato, appunto, nel palazzo dei principi Barberini. Al contrario, Prampolini scrive: «L’incontro folgorante con Roma Picasso lo ebbe nella primavera del 1917 in Vaticano, quando si trovò a tu per tu con le opere dell’arte classica e rinascimentale: con Raffaello e Michelangelo.
Fu un avvenimento di eccezionale importanza nello spirito del “malagueno”. Ricordo l’estatica commozione dalla quale fu preso l’artista dinnanzi agli affreschi della Sistina, e più ancora davanti a quelli delle Stanze di Raffaello». Francesco Arcangeli, tuttavia, nel suo saggio riprende le parole del pittore futurista rispondendo: «Sarà verissimo, non discutiamo; ma per tenersi al sodo, l’unica pittura romana di Picasso, firmata, datata 1917, e con su scritto “Rome”, e con tanto di cupola michelangiolesca facilmente sagomata insieme col volto d’una ciociara, ricorda soltanto i costumi di Parade », quasi come se, in realtà, Picasso avesse osservato i capolavori italiani, ma poi messi da parte e quasi dimenticati. Del tutto discorde è la testimonianza di Prampolini: «Nella settimana di Pasqua di quell’anno Picasso, che alloggiava in via del Babuino all’Albergo di Russia, mi fece vedere i suoi primi disegni così detti “classici”, che egli aveva creato nel sereno ed imponente clima di Roma», sottolineando come l’arte e l’atmosfera del Bel Paese avessero colpito il Maestro, spingendolo alla ricerca di un nuovo linguaggio figurativo influenzato dal passato italiano. Prampolini, poi, ribadisce: «Io sono un artista e sono un amico di Picasso da lunga data, e voglio considerarlo da amico e da artista, parlare del nostro incontro a Roma e del suo incontro“con Roma”. Il mio primo personale incontro con Picasso risale a trentasei anni or sono quando nella primavera del 1917 egli arrivò a Roma con Strawinsky, Cocteau e Leon Bakst, invitato da Serge Diaghileff, che preparava le rappresentazioni dei suoi Ballets Russes al Teatro Costanzi». A sostegno di queste parole è il fatto che Picasso visitò, proprio nel 1917, lo studio del pittore futurista come testimonia uno scambio di lettere tra gli artisti. Prampolini. Non si hanno testimonianze della risposta del pittore spagnolo, tuttavia Prampolini riferisce a Meriano: «sono venute varie persone a visitare il mio studio. Fra i quali Papini che è da vari giorni a Roma, Picasso e il poeta francese Cocteau, venuti giorni or sono da Parigi. Picasso trovò molto interessanti delle mie innovazioni plastiche e insieme abbiamo discusso sul nuovo orientamento che deve acquistare l'arte d'avanguardia». Picasso e Prampolini, quindi, ebbero sicuramente diversi contatti a Roma e, probabilmente, fu proprio il pittore futurista ad accompagnare il Maestro spagnolo ai Musei Vaticani. A questa testimonianza alcuni grandi storici dell’arte non hanno voluto dar credito, seppur sembri ben dettagliata e puntuale. La testimonianza di Prampolini è importante per confermare l’effettiva visita di Picasso in Italia, ma anche per capirne l’impatto emotivo: egli, infatti, si entusiasmò davanti alle opere di Michelangelo e Raffaello, che fecero nascere in lui i primi impulsi per la sua “conversione” classicista e monumentale del periodo post cubista. Si può dire, quindi, che questo «fu un viaggio che avrebbe avuto conseguenze durevoli per lui», influendo sul suo linguaggio e sulla sua sensibilità artistica. A tutt’oggi non si può dire di aver trovato una conferma o una smentita assoluta di come si svolse questo viaggio, di cosa visitò, di chi incontrò: anche il recente saggio di Maurizio Calvesi, nel quale si trova una puntuale ricostruzione di tutte le testimonianze relative ai viaggi di Picasso, si chiude lasciando una serie di dubbi e supposizioni. È interessante, però, notare la portata straordinaria di questo viaggio sul linguaggio figurativo del pittore spagnolo. Di certo, dal punto di vista artistico, egli subisce molteplici influssi: sente il fascino dei contemporanei italiani, ma, allo stesso tempo, è attento agli affreschi pompeiani, come anche a Raffaello, Pontormo e Masaccio, come anche a Pinelli e alle cartoline di piazza di Spagna. La sua, però, non è la classica rivisitazione del museo: rifiuta le distinzioni tra immagini colte o popolari, ogni linguaggio ha un aspetto di sé che lo affascina che egli cattura. Il suo atteggiamento, insomma, è quello di chi scopre la realtà quotidiana e la concretizza nel linguaggio artistico. Roberto Longhi è il primo, agli inizi degli anni trenta e poi, nuovamente nel 1953, ad aver saputo leggere nel secondo periodo classico di Picasso, conseguente, appunto, a questo viaggio, la componente pompeiana e, allo stesso tempo, la sorgente popolaresca delle “stampe del Pinelli” e di tutti gli autori di quadretti napoletani, dei quali, come ricordò Stravinskij, andavano a caccia lui, Picasso e Cocteau nelle botteghe intorno a piazza di Spagna e a Spaccanapoli. Longhi, però, continua sottolineando come lo sguardo di Picasso agli antichi sia limitato, «ben lungi dall’attingere uno solo dei segreti dell’antichità», secondo il critico, infatti, «Egli imita l’esterno; la ruvidezza dei muri pompeiani, la fretta degli operai di decimo ordine dell’antichità, il rossore dell’influsso delle terrecotte», senza riuscire a coglierne i significati e il valore più profondi. Come abbiamo visto in precedenza Picasso era già stato in Italia nel 1917, in occasione della rappresentazione di Parade, spettacolo di cui aveva realizzato le scenografie. Questo primo viaggio era stato davvero importante per il pittore e anche la sua arte aveva subito l’influenza di questa scoperta dal vivo delle grandi opere del passato. Di quel viaggio se ne è parlato molto e le testimonianze sono numerose, a partire dai suoi “compagni di viaggio” fino agli artisti e critici italiani che egli ha incontrato. Non c’è, invece, alcuna pubblicazione, ad oggi, che tratti in modo approfondito il secondo viaggio italiano del Maestro, quello avvenuto fra il 30 ottobre e il 2 novembre 1949, seppur sia certa la sua presenza in Italia. Il 1949 fu un anno molto importante per l’Europa intera. L’anno precedente gli intellettuali di tutto il mondo si erano raccolti a Wroclaw, in Polonia, per dare vita al Movimento dei Partigiani della Pace, contro la bomba atomica e ogni forma di guerra. Da quel momento, per tutto l’anno successivo, si erano susseguiti congressi in tutte le maggiori città europee, a partire da Parigi dove, il 20 aprile, nasceva ufficialmente il Comitato mondiale dei partigiani della Pace, che aveva lo scopo di stabilire obiettivi da perseguire per ottenere la pacificazione mondiale. Di fianco a questo intento pacifista, tuttavia, vi era anche la volontà, da parte dei vertici sovietici, da cui era nato il movimento, di «estendere l’influenza dei partiti comunisti occidentali su vari strati e gruppi della popolazione non legati al movimento comunista e per indebolire il mondo capitalista» Vi era, quindi, un chiaro intento politico a sostenere questa campagna di lotta per la pace che «diventò il mezzo “di esportazione e di diffusione dell’antiamericanismo in occidente”». Ma è meglio non addentrarsi in questioni politiche e tornare alla figura di Picasso. Anche a Roma, quindi, si tenne una riunione del Consiglio per la Pace, evento a cui Picasso, fautore del simbolo adottato dal congresso, la Colomba della Pace, non poté certo mancare. Il primo a parlare di questa seconda presenza italiana dell’artista è Antonello Trombadori in un articolo apparso sull’Espresso, nel quale racconta l’episodio, sottolineando come proprio in quell’occasione avesse iniziato a prendere forma l’idea di organizzare in Italia una mostra dedicata alla sua arte. I ricordi del critico d’arte, tuttavia, ad un’attenta analisi appaiono piuttosto confusi e, in alcuni casi, proprio inesatti. L’articolo, composto in occasione della morte del Maestro, si apre parlando della mostra romana del 1953 che egli, erroneamente anticipa al 1951, generando equivoci fin dalla prima frase. La continuazione del resoconto di questa esposizione lo vedremo in modo approfondito nel prossimo capitolo, mentre ora mi concentrerò su quanto scrive relativamente al secondo viaggio in Italia. Come dicevamo, quindi, il critico si concentra sull’incontro del 1949, di cui riporto un breve estratto: “Picasso venne a Roma, per la prima volta e l’unica volta nel dopoguerra, per la riunione importante del Consiglio mondiale dei Partigiani della Pace In quell’occasione ero in qualche modo diventato per tramite di Guttuso suo amico”. Che questo sia stato l’unico viaggio in Italia di Picasso nel dopoguerra, è stato smentito da un recente articolo di Maurizio Calvesi, apparso sulla rivista Storia dell’Arte. Secondo quest’ultimo, infatti, Picasso si sarebbe recato in Italia anche nel 1953, in occasione della mostra romana. Il resto dell’articolo è un lungo, interessante resoconto dei luoghi visitati e dei personaggi incontrati. Picasso si sarebbe fermato tre giorni a Roma, durante i quali, insieme a Trombadori, Guttuso ed altri amici, avrebbe visitato i Musei Vaticani, restandone, tuttavia indifferente. Scrive, infatti: «Rimase proverbiale fra di noi il ricordo della sua distratta attenzione a tutto, come se tutto già conoscesse». Effettivamente, stando a quanto visto nel capitolo precedente, era la seconda volta che il pittore spagnolo si recava in questi sacri luoghi dell’arte e, probabilmente, lo stupore della prima volta era già svanito. Trombadori, tuttavia, sembra non esserne sicuro e scrive: « C’è chi dice, anche mio padre mi raccontava così, che nel 1917 era già venuto a Roma per mettere a punto le scene e il sipario di Parade  e che si era avvalso dell’aiuto del pittore Carlo Socrate perché parlava spagnolo ed effettivamente c’è una fotografia che attesta l’avvenimento, ma quando glielo chiesi Picasso rispose di non ricordare affatto». Questo comportamento di Picasso, il suo non ricordare, può essere spiegato soltanto dal fatto che fosse un atteggiamento costruito. Così facendo, infatti, esprime la volontà di “cancellare” la deviante esperienza romana del 1917, matrice della svolta classica che, dopo le persecuzioni naziste contro l’arte “degenerata”, egli rifiuta, vedendo nella classicità e nell’accademismo dei valori politici negativi di schiavitù e limitazione dell’arte. Secondo Trombadori il viaggio poi proseguì per Arezzo fino a giungere a Firenze, «per le vie che portano dal lungarno Acciaioli fino a piazza della Signoria e al Mercato nuovo dove Picasso mise le mani come un bambino sotto l’acqua che schizza dalla bocca del cinghiale di bronzo». E interessante è l’osservazione che riporta in seguito: «Aspirava Firenze con la stessa avidità con cui buttava giù il fumo delle Gauloises, ma era stufo dei musei» e ciò è un aspetto che si ripete nei suoi viaggi: anche nel 1917, nei suoi taccuini non aveva riportato alcun accenno a musei, come se Picasso si lasciasse rapire dal fascino, i colori, le forme delle città e della vita reale e che da esse traesse l’ispirazione per rinnovare sempre il suo linguaggio, piuttosto che dagli esempi d’arte racchiusi in gallerie e musei. Come accennato nel capitolo precedente, anche Kahnweiler riporta una conversazione avuta con Picasso il 17 novembre 1949, nella quale il pittore esprime i pensieri e le emozioni provate davanti ai grandi capolavori italiani: «Picasso parla del suo viaggio in Italia dove è andato ad assistere ad un congresso della Pace, a Roma. Ha visto finalmente la Cappella Sistina. Gli piace, “ma è come un grande schizzo di Daumier”. Non gli piacciono molto le Stanze di Raffaello, che giudica troppo accademiche, ma gli piacciono i suoi quadri a Firenze». E il mercante continua: «Trova molto belle le opere di Piero della Francesca ad Arezzo: “Tuttavia, è come l’opera blu, non meglio”. Ha visto i Masaccio della Cappella Brancacci? Non sembra: non è ben sicuro. L’avrebbero colpito, ne sono certo. Parla bene, ma senza entusiasmo, degli affreschi di Giotto ad Assisi. Parla di sculture caldee ed anche di Apolli greci arcaici come di cose molto più belle: “Là, c’era gente che sapeva. Il resto è sempre solo il talento del pittore”». Tocca poi, ancora a Trombadori, parlare del loro arrivo a Vallauris e del momento in cui vide, per la prima volta, i due grandi pannelli de La Pace e La Guerra.  Queste opere, però, furono realizzate soltanto nel 1951 e ciò ci induce a pensare che il racconto di Trombadori sia da riferirsi ad un terzo viaggio italiano del pittore, successivo alla realizzazione di queste opere e del quale parlerò nel prossimo capitolo. Interessante testimonianza di questo viaggio è l’articolo di Augusto Livi che, a Firenze, intervistò Picasso, per conto del “Nuovo Corriere”. Lo scritto in questione risulta davvero profondo e prezioso se ci si vuole avvicinare al pittore, alle sue idee, alla sua personalità. Esso, infatti, come scrive l’autore stesso, risulta essere: «Un’intervista sui generis  che riguardava assai meno il suo e il mio mestiere che non i fatti Spirituali, le cose viste, le impressioni – diciamo così – messe in comune». È interessante anche perché, a differenza di Antonello Trombadori, che alza dei dubbi sul primo viaggio italiano del pittore nel 1917, l’intervista dà voce proprio a Picasso che afferma: «Conosco l’Italia dal 1917. Venni anche a Firenze». E il Maestro continua, facendo delle riflessioni sull’Italia: «Meraviglioso Paese  dice con forza  vorrei passare qui a Firenze qualche settimana per riposarmi. E l’arte classica italiana? Incalza. Pensate che possa avere influenza su quella moderna? Certamente – risponde- ma non sono queste le cose più importanti». Ed, infatti, poi, guardando le rovine al di là dell’Arno aggiunge: «Pensavo a Michelangelo, ma più di tutto agli altri come lui che sarebbero nati o nasceranno o sono nati e la guerra li ha schiacciati e travolti con queste rovine. Questa è la cosa più importante di tutte oggi, salvare l’uomo e le sue opere, salvare la pace». E l’articolo si conclude con una riflessione dell’autore che, dopo aver lasciato Picasso sulla porta degli Uffizi, scrive: «Ma bisogna dire che l’Europa e il mondo devono molto di più, in ogni senso, a questo vecchio signore, il quale lotta per la pace e la sopravvivenza della specie umana e delle sue opere». Anche Ugo Pirro, nel suo libro “Osteria dei Pittori”, parla della venuta del Maestro in Italia, «che per gli artisti romani era la grande occasione di conoscere Picasso, di parlargli. Di convincerlo a visitare gli studi».
Antonello Trombadori, nel suo articolo sul viaggio del 1949, ha dato vita a numerosi fraintendimenti ed imprecisioni che hanno portato, per lungo tempo, a credere che i viaggi di Picasso in Italia fossero uno o, al meglio, due. Nel suo articolo apparso su L’Espresso alla morte del Maestro, scrive, infatti, riferendosi al 1953: «Ma il giorno dell’inaugurazione si attese invano che Picasso giungesse a Valle Giulia. Egli era rimasto a Vallauris»; e ancora, riferendosi al viaggio del 1949 sentenzia: «Egli venne a Roma, per la prima volta e l’unica volta nel dopoguerra». Certo è che il Maestro non si presentò al vernissage, al quale, invece partecipò il suo segretario Jaime Sabartés, accompagnato da Maurice Jardot e Daniel-Henry Kahnweiler ma giunse in Italia subito dopo, per visitare proprio la sua esposizione. La mancata partecipazione di Picasso, tuttavia, era già stata implicitamente anticipata nella già citata lettera indirizzata a Venturi, in cui il mercante Kahnweiler faceva riferimento alla “sua” partenza per l’inaugurazione, senza menzionare affatto la possibile presenza del maestro spagnolo. È logico pensare che, se Picasso fosse stato intenzionato a recarsi alla vernice della mostra, il fedele amico e mercante ne avrebbe menzionato il nome nella lettera. Per quanto riguarda questo terzo viaggio in Italia fondamentale è la testimonianza di Maurizio Calvesi, che nel suo saggio ricorda: «Era il mese di maggio, la mostra si era aperta il giorno 5. Picasso arrivò in macchina con il figlio Paulo. Era un momento delicato nella vita dell’artista, la sua separazione da Françoise Gilot stava maturando», memoria confermata anche da Achille Perilli ed Enrico Prampolini. Un’ulteriore prova di quanto sostenuto da Calvesi, vi è anche una foto, pubblicata nel catalogo generale dell’opera di Guttuso, che ritrae il pittore, Antonello Trombadori, Giulio Turcato, Saro Mirabella e Pablo Picasso, con la didascalia: «A villa Massimo in occasione della mostra di Picasso a Roma nel 1953». C’è quindi da domandarsi come mai, il critico Trombadori, non ricordi una simile circostanza, avendovi preso parte. Secondo Calvesi si tratta di una serie di imprecisioni: Trombadori, probabilmente, ha confuso in modo più o meno intenzionale gli episodi legati a questo terzo viaggio, con la venuta di Picasso del 1949. La proverbiale indifferenza mostrata da Picasso di fronte ai grandi Michelangelo e Raffaello, riportata dal critico nel suo resoconto del 1949, sarebbe, secondo Calvesi, da riferirsi al 1953. Egli scrive infatti: «Nel secondo dopoguerra, tirava un’aria diversa, di rivalutazione delle avanguardie e dei loro moduli deformanti e compositivi e Picasso intendeva confermare e convalidare la propria immagine di padre delle Avanguardie e del trionfante postcubismo.  poteva giudicare rischioso l’apparire come un amico della tradizione, in presenza di personaggi  quali Trombadori che potevano fare di un suo pronunciamento, un manifesto reazionario». E Calvesi sottolinea anche come tali esempi artistici potevano rimandarlo mentalmente alla sua svolta classicista che ormai era una fase del suo percorso definitivamente superata. Nel 1970 Picasso compie ottantanove anni, si è ritirato a Mougins, nella Provenza, dove dedica tutta la giornata al lavoro : «Renato Guttuso, che lo ha visitato di recente, mi dice che Picasso ha ancora gli occhi di un ragazzo e l’energia dell’uomo maturo che lavora senza sosta». Egli quindi, oltre ad essere il più grande artista contemporaneo, risulta essere anche il più anziano pittore di tutti i tempi, in lizza col caso di Tiziano, vissuto anch’egli 91 anni. Nelle città italiane gli omaggi a lui dedicati continuano senza sosta, anno dopo anno. Il 1970 si apre con una mostra a Milano, nella Galleria Arte Borgogna: tra marzo e aprile vengono qui esposte una ricca serie di ceramiche accompagnate da disegni recenti e da un gruppo di dipinti realizzati tra il 1956 e il 1967. Tra le opere, anche se non numerosissime, spiccano alcuni quadri importanti come L’uomo seduto su una seggiola e Il Pittore e la modella del 1964 e soprattutto il Nudo femminile con flautista del 1967. Ne L’Unità si può leggere un articolo riguardante la mostra: «Ancora una volta, davanti a queste immagini, si resta sorpresi dalla straordinaria evidenza, chiarezza e semplicità di mezzi espressivi. L’immaginazione di Picasso, sempre viva e inesauribile, si traduce sulla tela con una freschezza e spregiudicatezza che sembrano non conoscere né stanchezza né ripiegamenti. Picasso sta ormai marciando verso il traguardo dei 90 anni, ma continua a tenere in mano i pennelli e le matite con indomita energia».
Tra il 4 e il 17 aprile, poi, ad Udine, alla galleria Il Quadrifoglio, viene esposta un’ampia serie di opere recenti: 31 pezzi tra oli, disegni, acqueforti, linoleum e litografie, tutte in vendita. La mostra era stata organizzata e ordinata da Franco Batacchi junior, un artista trevigiano, autore anche del catalogo. Nello stesso mese anche a Brescia nella Galleria Moretto, viene allestita, per la prima volta in questa città, una mostra dedicata all’artista. La raccolta era composta da 7 olii, alcune ceramiche e numerosi disegni, in gran parte degli anni Sessanta, tra i quali risaltavano le numerose variazioni sul tema “Il Pittore e la Modella.” Questi ultimi, seppur ripetitivi nel soggetto, risultano completamente differenti e sempre nuovi: «è come se ogni volta Picasso partisse interamente nuovo sul tema che si è prefisso, sperimentandone le infinite possibilità formali e contenutistiche». Tra Agosto e Settembre, poi, si tiene a Ferrara, al pianterreno del Palazzo dei Diamanti, nella Galleria Civica d’Arte Moderna, un’importante rassegna organizzata dal comune in collaborazione con l’ente provinciale del turismo. La mostra, chiamata “Picasso 347 + 1” permetteva ai visitatori di osservare ben 348 incisioni realizzate tra il 16 marzo e il 5 ottobre del 1968. Le opere erano tutte numerate, ma soltanto una, quella che apriva la rassegna era intitolata Venus et Amor ed era ufficialmente autenticata. L’esposizione documentava 7 mesi di intenso lavoro; si trattava di una sorta di frenetico diario, nel quale erano ben visibili l’invenzione e la maestria tecnica dell’artista. l’importanza delle opere esposte si poteva evincere anche dal fatto che esse erano state esposte nelle più importanti città del mondo: Tokyo, New York, Parigi, Londra, Helsinki e Regensburg. Numerosi sono gli articoli apparsi nel quotidiani che ne parlano. Scrive, ad esempio, Giorgio di Genova, a proposito delle opere: «Si tratta di un corpus prestigioso di acqueforti, acquetinte, punte secche, spesso rafforzate da interventi tecnici di assoluta novità e invenzione tutta “picassiana”. Una summa del pensiero di Picasso anziano che si esplica nei più diversi formati, da quelli francobollo di parecchie incisioni a quelli più grandi, addirittura enormi per tale tecnica espressiva». Allo stesso modo Giorgio Ruggeri elogia la bravura e la forza dell’artista: « Il soggetto è erotico, senza sottintesi, talvolta da mozzare il fiato. La donna, la modella, onora la propria natura al cospetto del pittore che la ritrae, di voyeurs che la scrutano, di baldi giovani che se la godono. Di volta in volta è Picasso che si ritrova pittore, guardone o amante.  Da tempo si dice che Picasso, come artista, abbia già detto quanto doveva dire. Eppure con questa nuova serie di incisioni il vecchio patriarca ha aggiunto qualcosa al suo passato. Sembra quasi che il saggio artista raggiunta l’età canonica fra sottaciute malinconie ammicchi sorrisi e strizzi l’occhio con indulgenza nel considerare la vita, la vecchiaia, il sesso, l’arte e che altro ancora, tutti ai piedi di quel solenne altare che è la donna». L’importanza dell’esposizione, poi, era ribadita anche nell’Avvenire: «Tutto l’eclettismo e le grandi possibilità dell’ancora fertile fantasia del vecchio Picasso balzano evidenti anche all’occhio del non esperto nella rassegna.  La quantità del lavoro prodotto e scelto per questa mostra non è andata certo a scapito della qualità artistica, poiché ogni disegno si presenta del massimo interesse e può essere, di per sé, oggetto di studio su uno dei maggiori pittori del nostro tempo che, pur tanto discusso, non lascia discepoli ma solo più o meno validi imitatori. Questa rassegna dove la gigantesca e composita personalità picassiana avvince, con una ridda di immagini, il visitatore, si presenta come manifestazione unica ed eccezionale in Italia in un particolare periodo creativo di Picasso». La mostra, dopo essersi chiusa a Ferrara, il 29 settembre veniva inaugurata a Stoccolma, sottolineando ancora una volta il notevole successo ottenuto. In ottobre nella galleria La Lanterna di Saluzzo viene realizzata una mostra collettiva di pittori contemporanei, tra i quali spiccano i nomi di Picasso, Guttuso e De Chirico, affiancati da opere di giovani artisti italiani. Il pittore spagnolo, motivo di maggior richiamo per il pubblico, era presente con una serie di disegni. Tra novembre e dicembre, poi, vengono allestite altre due mostre: una a Torino, alla galleria La Bussola e una a Roma, alla Galleria Malborough. Nel primo caso, era possibile ammirare una scelta di 36 disegni a lapis, penna, carboncino o matite colorate, in gran parte realizzati tra il 1966 e il 1970. Le opere, come sottolinea Luigi Carluccio, «rivelano il flusso continuo e la coerenza della visione dell’artista e la sua straordinaria capacità di dare vigore espressivo alle immagini più banali ed alla ripetizione di tali immagini.  Ciascuno di questi fogli, infatti, può apparire, se analizzato formalmente, come un compendio delle avventure di Picasso, cioè delle sue ricerche di stile». A Roma, invece, erano esposti 13 dipinti eseguiti dall’artista tra il 1960 e il 1967, accompagnati da disegni e incisioni. Interessante è l’articolo apparso ne Il Secolo d’Italia, in cui l’autore scrive: «I dipinti esposti alla Malborough non hanno, in fondo, l’aggressività sconvolgente delle più alte creazioni; ma sono pur sempre un segno sicuro della genialità di questo maestro, in cui Goya e l’architettura di Gaudì, Delacroix e l’avanguardia cubista si danno la mano per esasperare fino all’inverosimile la febbre inventiva e l’ansia rivoluzionaria. Ricordiamo di questa mostra romana due soli esempi, atti a definire una indissolubile unità estetica nell’antitesi del congegno formale: una Corrida del ’60, quasi ignuda nella essenzialità del colore e nella rapidissima lineare evocazione che elimina dalle grandi campiture grigie ogni dettaglio e un olio del 1968, Homme et bouquet in cui invece Picasso si compiace di violente accensioni cromatiche e di una pienezza costruttiva sottolineata da improvvise concrezioni di volume». Per quanto limitata, quindi, questa mostra risulta comunque importante per conoscere Picasso, come sottolinea anche Guido Giuffrè: «Picasso, già pietra dello scandalo e simbolo di degenerazione sembra darci oggi un contributo di semplicità e di chiarezza, ribadire i confini , che possono essere amplissimi, della legittima autonomia della pittura, e forse dovremmo davvero riscoprirlo». Sul finire dell’anno, in conclusione, più precisamente dall’11 dicembre, vengono esposte per un mese, alla Galleria del Milione a Milano le prime 55 tirature delle 347gravures eseguite a Mougins (1968). Nel marzo 1971, viene allestita a Firenze, alla Galleria dell’Indiano, la mostra “Picasso Erotique”, presentata nel Catalogo da Antonio Bueno; e dal 15 giugno al 15 luglio dello stesso anno il Milione dedica un’altra esposizione al pittore, mostrando al pubblico una scelta delle già citate 348 gravures. Dal 20 novembre 1971 al 13 gennaio dell’anno successivo viene allestita alla Galleria Annunciata a Milano “Omaggio a Picasso. Mostra d’arte contemporanea”, nella quale era esposto un cospicuo gruppo di opere del Maestro, accompagnate da esemplari realizzati da altri grandi artisti italiani contemporanei, quali Casorati, Tozzi, Carrà, De Chirico, Campigli, Morandi, De Pisis e Paresce. La Sala d’ingresso era allestita con 29 portraits immaginaires di Picasso realizzati nel 1969, mentre nella Sala Grande si potevano ammirare importanti quadri dell’artista, nello specifico tre quadri raffiguranti Il Pittore (1967-1968), un Paesaggio di Antibes (1965), tre esempi di Pittore e Modella (1963-1964), due Testa di Donna (uno del 1943 e uno del 1965), un dipinto raffigurante Donna Nuda e Flautista (1967) e un Profilo e Donna (1964). Nel 1972, poi, vengono allestite altre due importanti mostre dedicate al Maestro: dal 15 al 31 maggio alla Galleria 32 a Milano e dal 9 giugno al 25 luglio a Saciletto, al Centro Internazionale d’Arte Grafica. Nel primo caso si trattava di un’esposizione dedicata gli “Amori segreti di Raffaello e la Fornarina”. Picasso, infatti, a partire dal 29 agosto 1968, per dieci giorni aveva inciso 20 lastre, nelle quali raccontava la storia di eros e amore tra Raffaello e Margherita Luti detta “Fornarina”, ambientata nella Roma papale. Indispensabile al fine di comprendere la mostra era il catalogo, scritto da Giuseppe Selvaggi con alcuni pensieri e poesie di Rafael Alberti dedicati alla storia. Le opere esposte facevano parte di una numerazione da uno a cinquanta per ciascuna lastra ed erano indicate con la loro data; la loro catalogazione era stata eseguita da Louise Leris. L’ingresso alla mostra era vietato ai minori, in quanto le scene di amore passionale erano molto esplicite e spinte, tanto da indurre i giornali a chiedersi «Arte? Erotismo? O Pornografia?» e la risposta più esatta era: «Tutte e tre le cose, ma intese in senso artistico. Perché quella di Picasso è sempre arte. Erotismo perché il tema è ancora incosciente, totale, primitivo, completo. Porno, ma non con segno realistico, per cui la compiacenza dell’artista è stilizzata. Incisioni della libido che sono meglio degli ultimi olii naturalistici di Picasso».
La seconda mostra, invece, era una collettiva di opere grafiche di tre grandi artisti contemporanei: Picasso, Mirò e Vedova. Nel catalogo il Maestro spagnolo era presentato da Paul Eluard: «Tra gli uomini che meglio hanno fatto prova di vivere e di cui nessuno potrà dire che sono passati sulla terra senza pensare per tempo che vi sarebbero restati, Pablo Picasso è uno dei maggiori. Dopo aver sottomesso il mondo, egli ha avuto il coraggio di rivolgerselo contro, sicuro com’era non già di vincere ma di trovarsi a suo agio». Le opere esposte erano 14, tutte incisioni, nelle varie tecniche, realizzate durante tutto l’arco della lunga carriera dell’artista, dal 1921 al 1966. Il 1973 è segnato da una notizia terribile: l’8 aprile, nella sua villa a Notre Dame De Vie a Mougins, si spegne, a 92 anni, Pablo Picasso. È la fine di un’epoca: se ne è andato il grande Maestro, il genio indiscusso dell’arte del Novecento.
Il Percorso della mostra è suddiviso :
Introduzione
Nel 1917 Pablo Picasso soggiornò a Napoli due volte, nel corso del suo viaggio in Italia a seguito dei Ballets Russes: tra il 9 e 13 marzo, assieme a Sergei Djagilev, Jean Cocteau, e Léonide Massine, e per più giorni nel mese di aprile assieme a Djagilev, Massine, Igor Stravinskij, Ernest Ansermet, più il resto della compagnia. I soggiorni napoletani hanno esercitato una grande suggestione sul grande maestro catalano, specialmente per ciò che riguarda l’incontro con l’antico, tramite visite a Pompei e al Museo Nazionale. Queste visite ebbero un particolare impatto sulla produzione artistica di Picasso, come dimostrano i dipinti del “secondo periodo classico” (1917-1925) e l’opera grafica degli anni ’30, a partire dalle stampe che compongono la cosiddetta Suite Vollard (1930-1937). In letteratura ha prevalso a lungo l’interesse per la meglio documentata visita a Pompei: tuttavia, la visita del Museo Nazionale, per la quale disponiamo solo di una serie di indizi, appare avere avuto un ruolo fondamentale nel passaggio di Picasso dal cubismo a un nuovo classicismo, grazie all’influenza della pittura pompeiana e del gigantismo e della monumentalità tridimensionale delle sculture Farnese, a partire dall’Ercole, chiaro alter ego dell’artista. Determinare le fonti di ispirazione per le opere di Picasso non è facile, considerato come una delle caratteristiche dell’opera classicizzante dell’artista sia la tendenza a evitare citazioni, a favore piuttosto di allusioni generiche, e non mancando di associare nella stessa opera riferimenti non coerenti tra loro. Anche per questo, la mostra deve limitarsi a suggerire accostamenti tra possibili fonti di ispirazione, tra le opere del Museo Nazionale, e opere di Picasso, sulla base del confronto visivo. La ricerca di tali modelli non è mai un processo sterile: essa è, al tempo stesso, un contributo fondamentale alla ricostruzione del processo creativo dell’artista, e parte di quell’inevitabile dialogo che le opere di Picasso hanno da sempre sollecitato, e tuttora sollecitano, nell’osservatore.
L’Ercole Farnese e la Suite Vollard
Secondo lo storico dell’arte britannico John Richardson la serie di cento stampe che compongono la cosiddetta Suite Vollard, realizzate tra il 1930 e il 1937, offrirebbe una delle testimonianze principali della particolare importanza dell’Ercole Farnese per Picasso. Il riferimento va in particolare alla serie di incisioni che vanno sotto il titolo di Studio dello scultore (1933-1934), in cui Picasso identifica sé stesso con il protagonista, che più di una volta ha una testa e tratti del volto che richiamano da vicino l’Ercole, incluso talvolta l’atteggiamento pensoso. A queste incisioni va aggiunta un’opera del luglio 1933, Lo scultore e la sua statua (Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Museo Berggruen), nella quale lo scultore, seduto e con un braccio poggiato su una testa colossale, contempla una statua femminile. Non c’è dubbio che lo sguardo e la resa dell’anatomia dello scultore richiamino l’Ercole Farnese anche più delle incisioni della Suite Vollard, confermando ulteriormente l’autoidentificazione di Picasso con la statua. Inoltre, sempre secondo Richardson, nella stessa serie della Suite Vollard l’Ercole Farnese andrebbe riconosciuto nella testa di dimensioni generalmente colossali presente in diverse incisioni, nella funzione sia di opera già realizzata che di modello. Si è proposta, in alternativa, l’identificazione di alcune di queste teste con lo Zeus Olimpio di Fidia, ma l’impressione è che ci si trovi sempre di fronte a versioni più o meno schematiche dello stesso tipo di testa, chiaramente ispirato, date le dimensioni e la fisionomia, dal nostro Ercole in riposo. In conclusione, seguendo tutte queste proposte di Richardson, se ne dovrebbe concludere che la serie dello Studio dello scultore della Suite Vollard, per sé la principale esplorazione della scultura classica da parte di Picasso, rappresenterebbe il principale omaggio dell’artista all’Ercole Farnese.
Picasso e l’Ercole Farnese
Secondo lo storico dell’arte britannico John Richardson, il principale biografo di Picasso, il grande maestro catalano avrebbe provato un’ossessione per l’Ercole Farnese: sia in termini formali, per le sue dimensioni colossali e le variazioni di proporzioni tra le parti del corpo, che diventeranno una caratteristica delle figure del “secondo periodo classico”, sia a livello di contenuto, per l’immagine di Ercole con il volto pensoso e la testa abbassata sotto il peso delle fatiche intraprese, che avrebbe portato Picasso a identificare sé stesso in questa immagine dell’eroe. Tale fascino della statua non sorprende, considerato come fin dalla sua scoperta nel 1546 l’opera fosse una delle statue più celebri dell’antichità classica, ispirando artisti come Michelangelo, Annibale Carracci e Rubens. Anche se a partire dall’epoca neoclassica la fortuna dell’opera si attenuò, Picasso appartiene a una nutrita schiera di artisti affascinati dalla statua. Al riguardo, quello dell’Ercole è un caso esemplare della generale tendenza, da parte di Picasso, a ignorare l’opinione negativa espressa dagli studiosi di arte antica dell’epoca. Per l’Ercole basti citare il giudizio sulla statua di Charles Picard, una delle principali autorità sulla scultura greca del Novecento, che nel 1926, in un suo primo manuale sul tema commentava in maniera sprezzante l’opera, definendola “assai pretenziosa” e presentando Glicone ateniese, autore della statua, come uno scultore che avrebbe preso a esempio Lisippo, “aggiungendo allo stile del maestro di Sicione la peggiore enfasi asiatica”.
Picasso e le sculture Farnese
Oltre all’Ercole e al Toro Farnese, la letteratura su Picasso ha posto l’enfasi su altre sculture della stessa collezione che sarebbero servite da modello per le figure maschili giovanili e femminili del “secondo periodo classico”. Si tratta anzitutto del ritratto di Antinoo e della testa colossale di Artemide tipo Ariccia, nota come Era Farnese. In realtà l’immagine di Antinoo è riconoscibile in maniera lampante solo in una delle incisioni della Suite Vollard, e assai meno in altre opere con figure giovanili del “secondo periodo classico”. Quanto all’Era Farnese, l’opera è stata considerata un modello per le teste femminili classicizzanti realizzate a Fontainebleau nell’estate 1921 e generalmente associate a Tre donne alla fontana dello stesso anno (New York, The Museum of Modern Art). Indubbiamente il taglio dato a queste teste, che include l’indicazione della parte superiore del torso, ricorda da vicino un busto antico; ma diversi particolari del volto e dei capelli si discostano dall’Era Farnese ed è difficile escludere dipinti come l’Arcadia dell’Ercole e Telefo (esposto qui al MANN) come ulteriore fonte di ispirazione, come pure altre sculture classiche, talvolta menzionate in letteratura. Il modello dell’Era Farnese sarebbe però riconoscibile in alcune teste femminili nella Suite Vollard. Altre opere della collezione Farnese che possono aver fornito ispirazione a Picasso sono il gruppo di Pan e Dafni, per il soggetto e le prime fasi del Flauto di Pan; la Flora, per la resa del panneggio di diverse figure femminili del “secondo periodo classico”; l’Amazzone a cavallo (esposta al MANN), per le figure di donne a cavallo o di cavalli rampanti in una serie di incisioni della Suite Vollard; il busto di Sileno, per diverse teste della Suite Vollard; e infine le statue di Afrodite, come il tipo Dresda Capitolino, la cosiddetta Callipige (esposta al MANN), o l’Afrodite accovacciata, variamente associabili alle statue di Afrodite e figure di modelle nella Suite Vollard.
Picasso e il Toro Farnese
Gli studiosi di Picasso sono unanimi nel considerare l’incontro di Picasso con le sculture Farnese come una delle principali rivelazioni artistiche del suo viaggio in Italia nel 1917. Il riferimento più frequente è in particolare alle sculture colossali dalle Terme di Caracalla, a partire dall’Ercole e dal Toro, che avrebbero avuto un impatto sull’opera classicizzante di Picasso ben maggiore rispetto alle collezioni di scultura greca e romana del Louvre. In particolare, la letteratura su Picasso ha insistito sul duplice effetto che il gigantismo e la monumentalità tridimensionale delle sculture Farnese avrebbero avuto sull’opera di Picasso: da un lato, conferire un aspetto scultoreo alle opere pittoriche e alle stesse opere scultoree dell’artista, segnate prima dell’incontro con il Museo Nazionale dalla bidimensionalità dell’approccio cubista; dall’altro, rendere l’artista particolarmente sensibile alla scala, nel senso non tanto di dimensioni ma soprattutto di proporzioni. Una delle testimonianze più significative della sensibilità di Picasso per il senso delle proporzioni e le variazioni di scala è data non a caso dalle stampe della Suite Vollard della serie dello Studio dello scultore, qui in mostra, comprese le incisioni che mostrano lo scultore intento a osservare statue di formato inferiore al naturale e la presenza ossessiva di teste di dimensioni superiori al naturale e colossali. Quanto al Toro Farnese, mancano nell’opera di Picasso riferimenti espliciti al gruppo. È però possibile confrontare la composizione piramidale della scena con una serie di opere del “secondo periodo classico”, a partire dalla Corrida del 1922 (Parigi, Musée national Picasso-Paris) e dal Ratto del 1920 (New York, The Museum of Modern Art). A queste opere si può aggiungere il gruppo scultoreo della tav. 57 della Suite Vollard. In effetti, considerato il particolare interesse di Picasso per i tori e la corrida, è difficile pensare che il colossale gruppo farnesiano non abbia esercitato una sua impressione sull’artista.
Picasso e il Minotauro
Nella mitologia classica, la storia del Minotauro consiste in due parti: la prima riguarda la concezione del mostro, mentre la seconda comincia con il tributo che Minosse esige dagli Ateniesi e si chiude con l’uccisione del mostro da parte di Teseo, che grazie all’aiuto di Arianna riesce a trovare la via di uscita dal Labirinto. Data la particolare rilevanza per Atene di questa seconda parte del mito abbiamo diverse rappresentazioni di questo soggetto su vasi attici a figure nere e figure rosse. Queste immagini si concentrano in genere sull’uccisione del Minotauro, con Teseo che afferra la testa del mostro terrorizzato nell’atto di fuggire o lo trafigge con una spada. L’interesse di Picasso per il Minotauro si concentra su questa seconda parte del mito, a partire dalla copertina del primo numero della rivista Surrealista Minotaure del maggio 1933, per la quale Picasso raffigura il mostro scaraventato a terra da Teseo, ma pronto a combattere fino all’estremo. A questa immagine, che enfatizza la ferocia del Minotauro, vanno affiancate le incisioni coeve per la Suite Vollard, qui in mostra, che evidenziano il lato umano del mostro, ferito e prossimo a essere ucciso da Teseo. La figura di Teseo e gli spettatori che protendono le mani in direzione del Minotauro sono un evidente richiamo al dipinto di Teseo liberatore da Pompei, di cui Picasso aveva una foto Alinari. Tuttavia, l’intero mito è riformulato da Picasso nei termini di una corrida, soggetto particolarmente caro all’artista. Altre immagini del Minotauro nella Suite Vollard sono ancora più distanti dalla tradizione classica, come il Minotauro che brinda e il Minotauro cieco. Queste incisioni fanno da premessa alla Minotauromachia, l’opera di Picasso caratterizzata dal più alto livello di consapevolezza del proprio rapporto creativo con la tradizione classica.
Pasifae
Nella mitologia greca e romana la prima parte della storia del Minotauro riguarda la concezione del mostro, risultato dell’unione di Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, con un toro. Questa parte è raccontata da un certo numero di fonti letterarie antiche e, malgrado alcune variazioni, la storia è abbastanza coerente, a partire dall’ira di un dio verso Minosse o Pasifae. Come punizione divina, Pasifae concepisce una passione per un toro, e per soddisfare il suo piacere sessuale la regina ricorre all’arte di Dedalo. Da questa unione di Pasifae col toro nasce il Minotauro, una creatura che combina il corpo di un toro e quello di un uomo, e che Minosse imprigiona nel Labirinto. Malgrado questa storia fosse messa in scena fin da Euripide, essa è raramente rappresentata nell’arte greca e diviene più popolare nell’arte romana. È probabile che Picasso conoscesse la storia del Minotauro nella sua interezza ed è interessante prendere in esame le parti del mito che, a differenza dei Surrealisti, non ha affrontato, a cominciare dalla figura altamente erotica di Pasifae, personaggio che Picasso può ben aver incontrato in immagine a Pompei e nella visita del Museo Nazionale, e dalla sua storia d’amore con il toro, illustrata in numerose opere di André Masson realizzate tra 1932 e 1945. Questa è una ulteriore testimonianza dell’approccio selettivo di Picasso alla tradizione classica, e della sua relativa libertà dal movimento Surrealista, interessato dagli aspetti più cupi del mito greco. A Picasso, al contrario, interessava il Minotauro per il suo lato umano, anzi troppo umano. Il 2023 segna il cinquantesimo anniversario della morte di Pablo Picasso e pone quindi l’anno sotto il segno della celebrazione della sua opera in Francia, Spagna e a livello internazionale. Celebrare oggi l’eredità di Picasso è un modo per interrogarsi su cosa rappresenti oggi quest’opera fondamentale per la modernità occidentale. È mostrare la sua parte viva, accessibile e attuale. “Picasso Celebration 1973-2023” è promossa dal Musée national Picasso-Paris, coordinatore e principale prestatore dell’evento, e da Bernard Picasso, nipote dell’artista e presidente della FABA - Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso para el arte - e del Museo Picasso di Malaga. L’iniziativa conta una cinquantina di mostre e di eventi che si svolgeranno in rinomate istituzioni culturali europee e nordamericane, che insieme, grazie a nuove interpretazioni e metodi moderni, consentiranno di fare il punto sullo stato degli studi e della comprensione dell’opera di Picasso. Il governo francese e quello spagnolo hanno deciso di collaborare a questo grande evento transnazionale, e la commemorazione sarà scandita da celebrazioni ufficiali in Francia e Spagna e si concluderà con un grande simposio internazionale nell’autunno del 2023, in occasione dell’apertura del Centro Studi Picasso a Parigi. È un «Picasso oggi» che incarna questa Celebrazione e che getta le basi per il Musée national Picasso-Paris di domani. La mostra è accompagnata da un  catalogo edito da Electa che attraverso i saggi  a firma di importanti studiosi di Picasso ripercorrono le tematiche dell’esposizione.
MANN- Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Picasso e l’Antico
dal 5 Aprile 2023 al 27 Agosto 2023
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.30
Martedì Chiuso