Giovanni Cardone Marzo 2023
Fino al 18 Giugno 2023 si potrà ammirare a Palazzo Strozzi Firenze la mostra Reaching for the Stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye a cura di Arturo Galansino. L’esposizione Promossa e organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi e Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Reaching for the Stars esplora le principali ricerche artistiche degli ultimi decenni attraverso una costellazione di opere esposte in tutti gli spazi di Palazzo Strozzi, dal Piano Nobile alla Strozzina, con una speciale nuova installazione per il cortile rinascimentale. La mostra che propone una celebrazione delle stelle dell’arte di oggi attraverso oltre 70 opere dei più importanti artisti contemporanei italiani e internazionali, tra cui Maurizio Cattelan, Cindy Sherman, Damien Hirst, Lara Favaretto, William Kentridge, Berlinde De Bruyckere, Sarah Lucas, Lynette Yiadom-Boakye. Nel celebrare i trent’anni della Collezione Sandretto Re Rebaudengo, una delle più famose e prestigiose raccolte d’arte contemporanea a livello internazionale, restituendone in modo aperto la varietà, l’evoluzione e il suo essere costantemente in progress.
%c2%a9photoElaBialkowskaOKNOstudio%20(1).jpg)
Il progetto a Palazzo Strozzi nasce infatti nella volontà di creare una piattaforma di sperimentazione e partecipazione in cui si uniscono l’esposizione di opere della collezione, nuove produzioni create per la mostra, oltre a un ampio programma di attività e progetti con gli artisti protagonisti di talk e workshop, e a numerose attività per coinvolgere il pubblico. Tra pittura, scultura, installazione, fotografia, video e performance, la mostra esalta il dialogo tra Palazzo Strozzi e l’arte contemporanea proponendo ai visitatori un percorso alla scoperta delle grandi stelle dell’arte globale degli ultimi decenni. L’esposizione propone infatti un viaggio attraverso le opere di artisti che hanno segnato l’evoluzione delle pratiche artistiche tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, in un percorso che affronta tematiche diverse come la sperimentazione dei linguaggi artistici, la figurazione e astrazione, l’identità e il corpo dal punto di vista sociale e politico, il ruolo e l’immagine della donna nella società di oggi, la riflessione sulla storia contemporanea tra collettività e individualità, attraverso riferimenti a eventi storici come l’11 settembre 2001 o le lotte per i diritti civili. Nella mostra sono presenti, ad esempio, opere fondamentali come 1000 Names (1983) di Anish Kapoor o Love Is Great (1994) di Damien Hirst, insieme a un’ampia selezione di lavori di Maurizio Cattelan, artista centrale per un’esplorazione dell’arte italiana tra anni Novanta e Duemila, insieme, tra gli altri, a Paola Pivi o Lara Favaretto. In parallelo si snodano sezioni tematiche come quella dominata dalla celebre serie Untitled Film Still (1978-1980) di Cindy Sherman che propone una riflessione sociale e politica sul tema dell’identità in rapporto a opere di Shirin Neshat, la serigrafia Untitled (Not ugly enough) (1997) di Barbara Kruger o la scultura in materiali organici SelfPortrait (1993) di Pawel Althamer. L’indagine sulla scultura si amplia nei grandi lavori di Andra Ursu?a, Adrián Villar Rojas, Berlinde De Bruyckere, Mark Manders, le cui pratiche investigano il corpo e la figura tra decostruzione e ricomposizione. A questa fa eco la perlustrazione della ricerca pittorica attraverso dipinti di artisti come Lynette Yiadom-Boakye, Sanya Kantarovsky, Michael Armitage, Cecily Brown, Avery Singer, testimoniando la perdurante vitalità di questo medium, tra figurazione e astrazione, soprattutto nelle generazioni più giovani. Completa il percorso un’ampia sezione dedicata alla Video arte con opere manifesto di artisti quali William Kentridge, presente con History of Main Complaint (1996), Douglas Gordon e Philippe Parreno, con la celebre videoinstallazione Zidane. A 21st Century Portrait (2005) e Ragnar Kjartansson con The End – Rocky Mountains (2009).

In una mia ricerca storiografica e scientifica ed in seguito divenuta un convegno universitario dove si è dibattuto sul connubio tra arte e mercato. Negli ultimi anni l’esperienza estetica si è contraddistinta per alcuni aspetti che è possibile ritrovare nel multiforme panorama dell’Arte concettuale, movimento nato intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento con l'intenzione di spostare l’attenzione artistica dalla dimensione sensibile ed emotiva al piano concettuale. Nel fare ciò l’artista assunse un atteggiamento di tipo analitico, spostando in questo modo i procedimenti del fare artistico dal piano espressivo o rappresentativo, a quello riflessivo di ordine metalinguistico. Attraverso questo spostamento, l’artista fu chiamato ad impegnarsi nella costruzione di un discorso sull’arte a partire proprio dal momento stesso in cui iniziava la sua produzione artistica. In aggiunta, l’investigazione concettuale, nello specifico, si servì del linguaggio come strumento indispensabile per risalire dal dato sensibile a quello astratto, dalla fisicità della cosa ai procedimenti mentali che sottendono ad essa, per arrivare a comprendere ciò che sta a monte della formazione dell’arte. All’insieme di questi meticolosi processi si interessò in particolar modo Joseph Kosuth, padre dell’Arte concettuale,che si rivela essere quindi, in questo orizzonte di ricerca, una figura emblematica per comprendere l’evoluzione di tali questioni . L’artista infatti elaborò nella sua poetica un abile intreccio atto non solo a svelare la natura dell’arte, come sottolineò fin dai suoi primi scritti, ma anche a penetrare nelle dinamiche che si celano nella società contemporanea,frutto delle relazioni di potere e mercato, figlie della società capitalista, impegnandosi inoltre nel ridefinire il ruolo dell’artista, non soltanto mero esecutore ma soggetto attivo nella ricerca del significato dell’arte. In aggiunta, Joseph Kosuth elaborò un forte dissenso nei confronti di tutta quella sfera di critici e intermediari dell’arte che professavano valori autentici, a favore di un’arte alta; nonostante ciò, tuttavia, le sue riflessioni presentano nella loro essenza molteplici contraddizioni che sottolineano ambigue aderenze proprio a quel sistema che lui stesso mise in discussione sin dall’inizio della sua carriera. Tali questioni presero voce quindi a partire dai suoi primi scritti, ed in particolar modo nella vivace critica che l’artista mosse contro il formalismo del critico statunitense Clement Greenberg. Nel 1969 Joseph Kosuth scrisse L’arte dopo la filosofia. Il significato dell’arte concettuale, testo fondamentale per comprendere il fare dell’artista fin dai suoi primi albori. All’interno dello scritto emergono alcune questioni molto importanti riguardanti la funzione specifica dell’arte, la sua vitalità e la conoscenza più precisa del termine “Arte concettuale”. Il concetto più importante che emerge da questo scritto e che accompagnerà Kosuth in tutto il suo percorso è l’idea che l’arte sia una tautologia linguistica: in questa prima fase della sua carriera l’opera d’arte quindi non fornisce informazioni di nessun tipo sull’esperienza concreta; essa è soltanto una presentazione dell’intenzione dell’artista, ovvero una proposizione linguistica presentata nel contesto dell’arte a commento sull’arte . Solo in questo modo infatti, secondo il padre del Concettualismo, l’arte si poteva allontanare da errate supposizioni filosofiche, prendendo pertanto le distanze dalla concezione di arte formalista che era stata elaborata dal critico Clement Greenberg per cui l’arte e l’estetica erano la stessa cosa. Infatti, l’arte e la critica formalista accettavano, secondo Kosuth, una definizione di arte fondata unicamente su basi morfologiche; in questo modo l’arte era semplicemente decorazione e puro esercizio estetico.
%c2%a9ElaBialkowskaOKNOstudio%20(1).jpg)
Agli esordi della sua carriera, infatti, l’artista concettuale considerò l’arte e l’estetica così come due categorie separate, poiché secondo il suo punto di vista l’estetica si occupava essenzialmente della percezione; quest’ultima pertanto, secondo Kosuth, rimaneva su un livello estraneo alla funzione o ragion d’essere dell’oggetto di cui invece l’arte si sarebbe dovuta occupare, ovvero l’arte stessa. Si evincere come l’artista non riuscisse a vedere nell’estetica una via per conoscere la funzione dell’arte, a meno che, così come egli sottolineò in un passo successivo, la ricerca non seguisse le orme tracciate da Greenberg, ovvero qualora essa si fosse rivolta soltanto agli aspetti percettivi dell’arte, che Kosuth considerava meramente estrinseci. In quel caso però l’indagine sulla funzione e sulla definizione si sarebbe comunque basata soltanto ed esclusivamente sulla morfologia senza accedere a un significato più profondo. Alla luce di ciò, a parere dell’artista, la critica formalista promossa da Greenberg non era in grado di aggiungere una nuova conoscenza alla comprensione della natura o funzione dell’arte, poiché si distingueva esclusivamente per essere un’analisi accurata degli attributi fisici degli oggetti che casualmente venivano posti in un certo contesto morfologico. Su questa scia quindi l’arte si poteva definire tale solo in virtù della sua rassomiglianza alla forma e a opere d’arte più antiche appartenenti al passato. Quanto sostenuto dal padre del concettualismo giunge a noi in tutta la sua forza e influenza, e proprio per questo risulta necessario osservare con più precisione ciò che venne messo in luce nel testo preso in considerazione. Infatti, tali affermazioni acquistano pienamente senso solo se relazionate in maniera opportuna con quei punti focali attorno a cui l’artista fa ruotare l’evoluzione della sua riflessione, cioè la discussione sulla natura dell’arte e sul ruolo dell’artista. A questo riguardo, fin dai suoi primi scritti, Kosuth affermò che essere un artista significava mettere in discussione la natura dell’arte poiché solo attraverso ciò si poteva arrivare a comprendere la sua funzione. Gli artisti dovrebbero quindi adempiere a questo compito,sebbene i critici e gli artisti formalisti non fossero a suo modo di vedere assolutamente in grado di calarsi in questi aspetti cruciali per la ricerca artistica. Essi infatti, a suo parere, sceglievano quali lavori si potevano considerare arte e quali invece no, soltanto attraverso la forza della loro autorità aderente al sistema. Nella prospettiva concettuale invece l’opera di Marcel Duchamp rappresentava un importante esempio di cambiamento della natura dell’arte, poiché con l’avvento del ready made si passò dalla mera questione morfologica alla questione funzionale portando quindi a compimento quel passaggio essenziale dall’apparenza delle cose alla loro concezione .
%c2%a9ElaBialkowskaOKNOstudio%20(1).jpg)
Inoltre, per comprendere il concetto di tautologia promosso da Joseph Kosuth è necessario osservare alcune questioni importanti che si legano agli intrecci che corrono tra l’arte e l’universo del linguaggio. L’artista, all’inizio della sua carriera, sostenne, esplicitandolo poi chiaramente nelle sue prime opere, che l’arte sarebbe composta da un insieme di proposizioni analitiche nella forma di tautologie in cui l’arte è sia il soggetto che l’oggetto della predicazione, che possono trovare il loro senso solo e unicamente nel contesto dell’arte stessa, lontano dai dati concreti dell’esperienza. Il prodotto artistico poteva essere concepito come una tautologia: l’idea che l’arte consista in una proposizione sull’arte medesima portava con sé l’assunto che si potesse valutare qualcosa come arte senza uscire dal contesto artistico. Secondo questo meccanismo l’arte quindi non avrebbe niente almeno non essenzialmente a che vedere con l’esperienza e le sue infinite sfaccettature, in particolare con l’esperienza percettiva,poiché la validità delle proposizioni costituenti l’arte non deriverebbe da presupposti empirici o fattuali ma linguistici, che possono essere ricondotti a logiche esatte e definite. Tuttavia, affermare ciò significava chiudere l’arte in un sistema vero a priori, evidenziando come la verità dell’oggetto dell’arte fosse astratta e lontana da ogni implicazione ricettiva e di percezione . Tutto ciò, se visto in una prima e sfocata luce,potrebbe apparire chiaro e privo di dubbi; tuttavia,confrontando le prime affermazioni risolute dell’artista con la critica alle tesi promosse da Clement Greenberg insieme al contesto culturale che portò Kosuth all’elaborazione di tali considerazioni, la prima impressione tende a mutare fino ad assumere i toni divergenti di una interpretazione più complessa e sfaccettata. Infatti, affermare che l’arte si possa ridurre soltanto a pure idee e contenuti mentali, nei quali ciò che conta è soltanto il linguaggio che li esprime - e quindi rinunciare ad un’arte che sia anche emozione e partecipazione -, era in verità una scelta precisa per criticare il sistema dell’arte del tempo e i modelli di sviluppo proposti dal consumismo di origine capitalista. Tutto ciò aveva chiari legami con motivazioni sociali e politiche, poiché negando o minimizzando il prodotto consumistico si voleva delegittimare anche la società capitalista che l’aveva concepito. La voce di Kosuth, quindi, deve essere inserita in questo preciso contesto, che si mostra a noi come un quadro drammatico in cui gli artisti concettuali anziché dipingere prospettive nuove e alternative alla realtà cercarono di annullare l’oggetto stesso dell’arte con l’illusione che ogni espressione artistica sarebbe potuta nascere e morire soltanto nella mente di chi l’aveva concepita . Inoltre, il movimento dell’Arte concettuale e quanto sottolineato da Joseph Kosuth, fu determinante per comprendere una questione aperta tutt’oggi sul rapporto tra l’opera d’arte e i contesti istituzionali che accolgono e legittimano la produzione artistica. Il movimento, infatti, nel suo procedere,riuscì a porre un’attenzione specifica sulla modifica dello statuto dell’oggetto artistico, sul rimodellamento delle strategie espositive e sulla ridefinizione del rapporto tra arte, critica e informazione. Fu probabilmente proprio per il fatto che gli artisti toccarono tematiche così delicate che non furono accettati fin da subito dalla critica dominante, proprio come sottolineato da uno scritto di Kosuth comparso nella rivista The Fox nel 1975. Secondo l’artista, infatti, la gang di Greenberg era piuttosto scettica verso i nuovi artisti degli anni Sessanta e inizi Settanta non inquadrabili con la loro produzione nella continuità della storia che era invece tanto cara ai formalisti. La distanza tra Arte concettuale e formalismo fu caratterizzata da svariati fattori, le differenze furono notevoli. Tuttavia, si possono rintracciare connessioni, influenze e relazioni tra quanto sostenuto da Kosuth con la sua idea di arte come tautologia e il formalismo di Greenberg. Infatti, il critico d’arte statunitense, così come l’artista concettuale, si interessò allo statuto epistemologico della natura dell’arte indicando tuttavia un approccio differente da quello concettuale, che doveva essere rivolto alla ricerca sul mezzo artistico piuttosto che sui concetti. Nonostante ciò, anche Greenberg considerò la tendenza all’astrazione un carattere distintivo dell’arte nonché un passaggio necessario per l’evolversi della riflessione sul fare artistico. Alla luce di ciò, la funzionalità dell’arte era connessa alla riflessione sul medium poiché era proprio tramite questo, secondo il critico, che era possibile individuare la specificità e l’identità dell’arte stessa. Tali considerazioni si inserirono in una cornice che dava loro senso poiché orientata verso l’idea che potessero esistere dei valori oggettivi e definitori nel campo artistico, ciò quindi legittimava la volontà di eliminare da ogni disciplina artistica tutti gli effetti che non le appartenevano per essenza.
%c2%a9ElaBialkowskaOKNOstudio%20(1).jpg)
Quindi l’analisi di Greenberg, che fu indirizzata soprattutto a ridefinire il termine modernismo come corrente storica e posizione estetica, fornì una chiave di lettura interessante basata però strettamente sull’importanza della nozione di medium, insieme a quella di astrazione, di piattezza della superficie e di bidimensionalità, termini che, per essere compresi, necessitano di essere letti all’interno di un adeguato contesto di riferimento, ovvero, quello della ricerca e dell’analisi che il critico condusse sul modernismo nell’ampio ventaglio delle sue molteplici sfaccettature. Massimiliano Gioni che è stato il curatore che fin dagli esordi ha sostenuto che Cattelan, in un recente articolo sulle pagine di Flash Art afferma: «Il doppio, il sosia occupano una posizione preminente nel lavoro di Maurizio Cattelan , è un ego frammentato quello ritratto da Maurizio Cattelan, un ego che tuttavia sembra dilettarsi dei suoi sintomi: uno schizofrenico felice se mai ne esistesse uno che accoglie le infinite possibilità offerte dalle sue molteplici personalità» . Questa breve lettura è importante perché il curatore afferma di essere stato lui stesso gemello diverso di Maurizio Cattelan, attraverso una serie d‘operazioni che l‘hanno portato a calarsi nei panni dell‘artista creando quindi il suo doppio. Gioni sottolinea diverse posizioni di altri curatori: «Alcuni critici hanno paragonato questa performance del sé a un‘irriverente mascherata carnevalesca, in cui Cattelan interpreta la parte del buffone. Altri hanno descritto il suo lavoro come una forma sperimentale di sociologia che immagina la vita quotidiana come un teatro in cui impersonare una molteplicità di ruoli» . Questa lettura di Massimilano Gioni è dimostrabile attraverso alcune opere in riferimento a quella che il curatore chiama appunto mascherata carnevalesca ci sono ad esempio lavori come Georgia on my mind del 1997 e Untitled del 1999, senza dimenticare le performance in cui i protagonisti sono proprio i galleristi dell‘artista come Tarzan & Jane del 1993 e Errotin, le vrai lapin del 1995 la tendenza alla teatralità quindi alla messa in scena è evidente in altri lavori come la Nona Ora del 1999, Out of the Blue del 1997, Him del 2001 ma è altresì trattata in modo esplicito nell‘ ultima mostra al Guggenheim di New York. Anche Massimiliano Gioni individua questa sua tendenza nell‘interpretazione di vari ruoli che cercheremo di rilevare nel corso del testo, cercando di analizzare alcune opere che portano l‘artista a questo gioco delle parti. Alla fine Gioni, dà risalto a questa tendenza dell‘artista al molteplice e collettivo, ma allo stesso tempo accenna al ruolo del buffone che verrà anche questo approfondito attraverso le letture di vari critici che come abbiamo già sottolineato si riferiscono a Cattelan attraverso l‘identificazione di plurimi personaggi quali il trickster e il clown. Partendo dall’analisi fatta da Gioni possiamo affermare che Maurizio Cattelan sia l’artista più provicario del momento la domanda che ci dobbiamo porre quando c’è di provocazione ? Oppure Cattelan è divenuto un artista imprenditore ed ha saputo seguire le regole del mercato? Nel formularci queste domande possiamo dire che Maurizio Cattelan si è affermato nel panorama culturale catalizzando con le sue opere iconiche il dibattito dell’arte contemporanea degli ultimi vent’anni. I suoi lavori toccano aspetti scomodi e complessi della società, rivelando profonde contraddizioni attraverso molteplici linguaggi, da quello ironico a quello più drammatico. Negli anni settanta è stata fulcro del movimento di rivolta studentesco e di spinte politiche di sinistra, Cattelan si forma in un contesto attraversato da forti tensioni sociali che influenzeranno la genesi dei suoi primi lavori. Gli anni della formazione sono segnati da un rapporto ostile verso le istituzioni, prima fra tutte quella scolastica, e dal susseguirsi di svariate professioni intraprese per emanciparsi economicamente dalla famiglia. Nella seconda metà degli anni ottanta Cattelan si avvicina da autodidatta al mondo del design e realizza una serie di oggetti dai richiami antropomorfici assemblando materiali esistenti. Questa esperienza lo porta a dedicarsi alla pratica artistica. Risale al 1989 la sua prima opera, Lessico familiare, un autoritratto fotografico in bianco e nero in cui con un gesto delle mani l’artista forma un cuore all’altezza del busto. L’immagine è inserita in una cornice d’argento a sottolineare le contraddizioni di una vita piccolo-borghese. I lavori degli esordi si focalizzano sulla problematizzazione delle funzioni sociali e sulle tensioni psicologiche ed emotive a esse riconducibili, come il senso di fallimento e l’incapacità di creare. Cattelan escogita in più occasioni delle azioni che mettono in discussione il suo stesso ruolo di artista e la sua appartenenza al sistema dell’arte: quando partecipa alla sezione “Aperto” della Biennale di Venezia nel 1993, decide per esempio di affittare a un’agenzia pubblicitaria lo spazio espositivo a lui dedicato. La riflessione sull’autorialità e la sua speculazione nel panorama artistico contraddistingue da sempre la sua pratica, che spesso si concretizza in interventi provocatori. Negli anni novanta Cattelan si trasferisce a New York, dove prosegue la ricerca sull’idea di dissacrazione del sistema dell’arte. In questo periodo, la sua pratica riflette sulla sua stessa identità chiamando a volte in causa la storia italiana più recente e gli eventi che hanno lasciato profonde ferite nella memoria collettiva. Tra questi vi è il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, avvenuto nel 1978, che l’artista rielabora e rappresenta tramite una pagina di quotidiano ingrandita e affissa, come carta da parati, alle pareti della galleria Daniel Buchholz a Colonia nel 1994. Il punto di partenza del suo processo creativo è innanzitutto un’immagine, uno stimolo visivo che attinge alla realtà e che rielabora la dimensione del quotidiano. A cominciare da essa, Cattelan fa confluire temi e riferimenti in un’unica nuova figurazione di forte risonanza. In una commistione di generi diversi – tra tragedia e commedia – realizza opere come l’emblematica Novecento (1997), un cavallo in tassidermia appeso al soffitto che sembra soccombere al suo stesso peso, e gli autoritratti che giocano sull’idea di fallimento, come Charlie Don’t Surf del 1997, che suggerisce un’ipotetica crocifissione di un ragazzino al banco di scuola; e ancora Lullaby del 1994, un’installazione composta da blocchi di macerie provenienti dall’esplosione del PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, causata da un attentato terroristico di stampo mafioso. L’opera, che traspone simbolicamente il sentimento di perdita, estende la riflessione dell’artista sul senso del dolore provocato da una minaccia per la società. Cattelan concepisce come parte integrante della costruzione del significato dei propri lavori il dibattito pubblico che essi generano, rendendo sia lo spettatore sia i media attori fondamentali del processo artistico.
Utilizza simboli culturalmente e socialmente riconosciuti come strumenti di riflessione: «Oggi l’arte significa per me fare vedere le cose da un punto di vista leggermente diverso, da un’altra angolazione. Non sempre quello che fai è interessante o pertinente ma a volte riesci a toccare un nervo scoperto, a prendere qualcosa che è sotto gli occhi di tutti e metterlo in una luce tale da risvegliare la gente, farla pensare o discutere». Nel suo percorso, Cattelan assimila codici linguistici riconducibili all’iconografia della storia dell’arte, mediante l’utilizzo di materiali tradizionali come il marmo o l’evocazione di generi classici i cui elementi simbolici alludono al tema della caducità della vita. Uno dei lavori più noti è La Nona Ora (1999), scultura in cera raffigurante papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, in cui l’artista cristallizza in un’unica immagine sacralità e fragilità. Il ciclo di opere iperrealiste prosegue con Untitled (2004), la controversa installazione di tre manichini raffiguranti bambini appesi ai rami di un albero in piazza XXIV Maggio a Milano. Esposta nello spazio pubblico per meno di due giorni, Untitled ha innescato un dibattito mediatico che ha messo in luce la contraddizione fra la tacita accettazione della violenza nella società contemporanea e lo sdegno causato dalla sua simbolica rappresentazione. I temi trattati nei lavori di Cattelan riguardano, da un lato, aspetti esistenziali e preoccupazioni umane fondamentali come la morte, l’amore, il male, il senso di perdita e di assenza e, dall’altro, mettono in discussione e contestano le istituzioni contemporanee e le figure di autorità e di potere: «Mi interessano le paure e le isterie di massa» afferma l’artista, che è solito lavorare su ciò che è collettivo, su esperienze e sentimenti comuni. Nonostante la sua pratica sia spesso associata a figure come Andy Warhol per l’utilizzo di immagini della cultura di massa, o ad altri artisti italiani tra cui Alighiero Boetti per la capacità di sovvertire ordini predefiniti e destabilizzare lo spettatore, Cattelan si è sempre dichiarato estraneo a qualsiasi movimento artistico o ideologico, mantenendo in oltre trent’anni di carriera un proprio linguaggio. Nel 2011 fa scalpore la mostra “All” al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, in cui l’artista presenta come un unico lavoro tutte le sue opere sospese al soffitto della spirale centrale dell’edificio. Nel tempo ha inoltre affiancato alla pratica espositiva anche attività diverse, tra cui la curatela di mostre e progetti editoriali come “Toilet Paper”, una rivista divenuta cult di cui Cattelan è co-fondatore e che esplora da una prospettiva inedita la cultura visuale. Certamente questi artisti son figli della globalizzazione, questo lo si evince anche dal concetto filosofico di Bauman il quale ha focalizzato tutta la sua attenzione sul passaggio dalla modernità alla postmodernità, e le questioni etiche relative. Ha paragonato il concetto di modernità e postmodernità rispettivamente allo stato solido e liquido della società. Mentre nell’età moderna tutto era dato come una solida costruzione, ai nostri giorni, invece ogni aspetto della vita può venir rimodellato artificialmente. Dunque nulla ha contorni nitidi, definiti e fissati una volta per tutte. Ciò non può che influire sulle relazioni umane, divenute ormai precarie in quanto non ci si vuole sentire ingabbiati. Bauman sostiene che l’incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. L’esclusione sociale elaborata da Bauman non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Secondo Bauman il povero, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi come gli altri, cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. In tal modo, in una società che vive per il consumo, tutto si trasforma in merce, incluso l’essere umano. Tuttavia è importante rilevare che Bauman, a differenza di altri autori, rifiuta il termine “postmoderno” a favore di “modernità liquida”, proprio per indicare la labilità di qualsiasi costruzione in questa nostra epoca. Possiamo dire infine che il linguaggi artistici di queste opere ci fanno riflettere sulla morte, sulla fragilità dell'esistenza, sul progressivo declino di tutto ciò che esiste al mondo.
Palazzo Strozzi Firenze
Reaching for the Stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye
dal 4 Marzo 2023 al 18 Giugno 2023
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 23.00
Foto Allestimento mostra Reaching for the Stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye ©photo Ela Bialkowska OKNOstudio