Giovanni Cardone Marzo 2025
Fino al 27 Luglio 2025 si potrà ammirare a Palazzo Buontalenti Pistoia la mostra dedicata a Daniel Buren – ‘Daniel Buren. Fare, Disfare, Rifare. Lavori in situe situati 1968-2025’ a cura di Daniel Buren e Monica Preti. L’esposizione è stata realizzata dalla Fondazione Pistoia Musei con il sostegno di Fondazione Caript e in collaborazione con Galleria Continua. Attraverso un percorso che esplora l’opera dell’artista francese nato a Boulogne-Billancourt nel 1938, l’esposizione invita a scoprire dieci sale e la corte interna del palazzo, con una selezione di opere pittoriche eseguite tra il 1965 e il 1967, due Cabane del 1985 e del 2000/2019, alcuni alto-rilievi e opere luminose recenti, una sala dedicata ai disegni progettuali di lavori realizzati in Toscana e lavori appositamente creati-ricreati per Pistoia Musei. La mostra esplora come Buren trasforma gli spazi architettonici attraverso l’uso delle forme, dei colori e dei materiali, creando un dialogo continuo e indissolubile tra arte e ambiente. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Daniel Buren apro il mio saggio dicendo : Ho avuto il piacere di incontrare Daniel Buren quando il maestro ha esposto a Napoli al Museo Madre, egli è un artista che indaga da oltre 35 anni i rapporti fra l’opera d’arte ed il luogo in cui prende corpo e lo spettatore.

Al centro della sua visione dell’arte vi sono quindi tematiche relative alla visibilità dell’opera e alla sua definizione e la volontà di rovesciare i modelli dati mediante la moltiplicazione dei punti di vista, il capovolgimento delle prospettive attraverso interferenze visive, nonché il tentativo, di volta in volta rivisitato e aggiornato, di interagire in osmosi o in modo conflittuale con lo spazio di intervento. Nei suoi lavori realizzati in situ, pittura, tessuto, legno, metallo, specchio, vetro, carta sono abbinati a formare opere a parete oppure complesse strutture ambientali intese a proporre una lettura critica dell’oggetto d’arte, con riferimento alla sua storia e nel contempo alla codificazione del contesto dello spazio e al rapporto con il fruitore. Posso affermare che la ricerca artistica intrapresa da Daniel Buren nel periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta e il decennio successivo costituisce un contributo estremamente significativo al dibattito in atto all’epoca sul ruolo della presentazione dell’opera d’arte in relazione alla questione autoriale. Buren, tramite una pratica artistica costantemente accompagnata da una controparte teorica costituita dai suoi numerosi scritti, mira infatti ad indagare e mettere in dubbio i presupposti sulla definizione dell’arte in relazione al suo contesto espositivo, che non è mai un luogo neutro ed esente da implicazioni politiche ed economiche che influiscono sulla percezione delle opere. L’artista si interroga dunque sul suo ruolo in relazione a questa cornice imprescindibile, elaborando delle strategie di intervento attivo e delle forme di resistenza ai tentativi di appropriazione di cui essa è portatrice. In seguito alla formazione presso l’École des métiers d’arts (1958-1960) e l’École des Beaux-Arts di Parigi, Buren opta per una ricerca di oggettività in pittura, rifiutando la centralità di un soggetto narrativo nell’opera a favore di un’analisi del medium pittorico nelle sue componenti essenziali e di una produzione che privilegi il rapporto tra supporto e forma. Dal 1962 si assiste ad una progressiva ma decisa rinuncia all’aspetto figurativo, con spinte verso l’astrazione e la meccanizzazione del gesto pittorico, a cui si accompagna negli anni immediatamente successivi la sperimentazione di varie tecniche, supporti e formati. Nel 1964 l?artista utilizza la tecnica del papier collé, producendo dei lavori in cui la superficie viene dipinta per ottenere un monocromo bianco e poi strappata per rivelare gli strati sottostanti e originare delle combinazioni aleatorie di forme e colori. Successivamente, verso la fine dello stesso anno, Buren realizza dei dipinti astratti di grande formato, in cui le forme allungate e le masse sono nettamente scandite dall’alternanza dei colori, mostrando l’influenza di Matisse e una certa vicinanza ad alcune opere di Ellsworth Kelly. L’anno successivo vede una maggiore influenza minimalista e l?introduzione di materiali di tipo industriale, come le vernici a smalto e i fogli di alluminio, che innescano una dialettica interna alle opere tra la pittura tradizionale e la “non-pittura”. È in questo contesto che Buren introduce il motivo più celebre e identificativo della sua pratica artistica: le righe di colori alternati. Queste sono inizialmente ricavate tramite l’applicazione di maschere di nastro adesivo che permettono di ottenere, una volta rimosse, delle zone risparmiate dal colore in cui è visibile la trama del materiale del supporto, costituito principalmente da tessuti monocromi ricavati da lenzuola colorate o tele di juta grezze. I motivi realizzati con l’ausilio di questa tecnica sono vari e includono delle righe alternate con diversi accostamenti di colori, spessori e orientamenti; spesso la pittura non arriva a coprire il supporto fino ai margini, lasciando visibile un bordo continuo del materiale non modificato dall’intervento dell’artista. L’utilizzo delle maschere adesive, che in alcuni casi si concretizza in opere che mostrano secondo Christian Besson una vicinanza all’estetica della contemporanea pittura Hard edge americana, viene adottato da Buren nel contesto di una tensione verso una meccanizzazione della traccia pittorica e della neutralizzazione del gesto dell’artista. Una spinta fondamentale nella direzione di ricerca di un “grado zero della pittura” è costituita dall’incontro con del comune tessuto a righe bianche e colorate di produzione industriale, facilmente reperibile in quanto estremamente diffuso per il rivestimento di vari componenti d’arredo: Nell’autunno del 1965, acquistando delle forniture per il mio lavoro al celebre mercato Saint-Pierre a Parigi, ho trovato del lino a righe che era generalmente usato per i cuscini e i materassi. Era sottile, di cotone molto leggero e assomigliava alle tende parasole utilizzate per coprire le terrazze dei caffè e dei ristoranti di Parigi e di tutto il mondo. Questo materiale assomigliava esattamente a quello che avevo cercato di fare dal punto di vista formale tramite la pittura da più di un anno sebbene in modo meno efficace. Ne ho comprati diversi metri e ho subito iniziato a lavorarci. Il tessuto a righe di colore alternato, oggetto banale e privo di interesse intrinseco, è assunto da Buren come strumento principale all’interno di un discorso sulle proprietà che costituiscono i fondamenti del linguaggio pittorico. Guy Lelong nota infatti come alla tela striata si possano applicare i concetti di contorno, inteso come la linea che separa due strisce, colore, determinato dalla differenza tra una striscia e quella successiva, e l’opposizione di forma- sfondo che fa sì che le bande si possano percepire sia come colorate su uno sfondo bianco sia, viceversa, come bianche su una base colorata. Il tessuto, in questa fase, è quindi rilevante in quanto possiede la capacità di evocare la pittura tramite il richiamo alle sue componenti più basilari. L’artista rafforza questo rimando già presente nella stoffa dipingendoci sopra, intervenendo dapprima con delle forme che coprono parzialmente il motivo striato per concentrare successivamente l’applicazione della pittura alle strisce colorate più esterne, stendendo talvolta del pigmento bianco sia sulle righe colorate che bianche. Quest’ultima modifica ha la doppia funzione di attivare un confronto diretto tra l’evocazione della pittura e la sua attuazione concreta e di evidenziare la relazione tra forma e sfondo, abolendo l’effetto di una cornice (cromatica) contenitiva per suggerire invece un’espansione potenzialmente indefinita del campo pittorico.

Allo stesso tempo, l’alternanza ritmica e regolare delle bande bianche e colorate di identica larghezza introduce le questioni della neutralità nei confronti di ogni possibile riferimento illusionistico o narrativo e della ripetizione di un motivo. La pratica di una pittura basata su riduzione all’essenziale e ripetizione, già da tempo condivisa con il collega Michel Parmentier, è alla base dell’avvicinamento ad altri due pittori attivi in Francia e orientati verso i medesimi obiettivi, Niele Toroni e Olivier Mosset; ne nasce il gruppo BMPT, attivo dal dicembre 1966 al settembre-ottobre 1967. Il minimo comun denominatore dell’attività collettiva è inizialmente costituito da una strategia di ripetizione di alcuni motivi essenziali, unita ad una vocazione alla neutralità del gesto pittorico, accentuata dalla pratica di realizzare e firmare indifferentemente i lavori degli altri componenti. Nell’arco della sua esistenza il gruppo promuove tre eventi espositivi in cui la presentazione, l’allestimento e talvolta l’esecuzione in pubblico delle opere sono accompagnati da slogan fortemente polemici, come la dichiarazione del gennaio 1967 di non essere pittori, in quanto “dipingere significa attribuire un valore estetico a fiori, donne, erotismo, ambiente quotidiano, arte, Dadaismo, psicoanalisi e alla guerra in Vietnam”, coerente alla scelta di rifiutare la componente narrativa nelle loro opere, o da azioni provocatorie come la rimozione delle loro tele già appese in mostra sostituendole con la scritta “Buren, Mosset, Parmentier e Toroni non espongono”. Lo scioglimento del gruppo nel 1967 è causato dalla consapevolezza che la ricerca della riduzione della pittura ai minimi termini ha inevitabilmente dei limiti che non possono essere oltrepassati, a meno di non optare per un abbandono definitivo della pratica pittorica (strada effettivamente perseguita da Parmentier, almeno fino alla ripresa dell’attività artistica negli anni Ottanta). Buren giunge quindi a realizzare che la sua pittura è arrivata ad uno stadio per cui non ha più alcuna valenza in sé, deducendo che il valore del tessuto a righe è derivato esclusivamente dal rapporto con il contesto in cui esso è collocato. Questo sviluppo porta ad una trasformazione radicale del significato delle strisce alternate nell’attività di Buren: dall’utilizzo pittorico che le vede come un fine diventano ora un mezzo che ha la funzione di rivelare le particolari caratteristiche del luogo, non più esclusivamente adibito all’arte, in cui esse sono posizionate. In questa sua accezione di segno catalizzatore il motivo delle righe bianche e colorate viene definito da Buren come “outil visuel”, cioè uno strumento visivo in moto privo di un significato in sé ma capace di attivare connessioni concettuali con ciò che lo circonda grazie alla sua presenza visibile. Nel 1967 l’outil visuel viene quindi fissato nelle sue caratteristiche fondamentali, che da questo momento in poi diverranno una costante per Buren , devono necessariamente presentare l’alternanza tra il bianco e un altro colore un’ulteriore caratteristica ricorrente è l’orientamento verticale delle strisce, poiché per l’artista la verticalità è concepita come il rapporto spaziale più elementare. Il supporto su cui sono riprodotte le righe non è invece particolarmente rilevante, in quanto il materiale (che spazia tra carta tessuto, legno, vetro, marmo) può e deve essere adeguato al contesto, istituzionale o urbano, in cui l’outil visuel è inserito. Stabilendo delle caratteristiche fisse, Buren rende il suo outil visuel una sorta di unità di misura standard o un alfabeto, semplice nella sua esistenza a priori ma dalle complesse implicazioni a posteriori in base alla sua relazione col contesto ambientale. In quanto “unità di misura visiva”, lo schema a strisce è inoltre percepito come parte di un insieme virtuale preesistente, di cui l’artista separa dei frammenti di dimensioni e forme variabili in funzione del loro inserimento all’interno della logica di un luogo: Il segno è, in realtà, sempre un frammento di una massa illimitata e molteplice per materiale, da cui io attingo, dal cui interno ed esterno io possa incessantemente tagliare in ogni direzione a seconda di quello che mi sembra necessario affinché questa “colla visiva” mi consenta di connettere tra di loro oggetti, colori, materiali e luoghi, fino a che questi assumano un significato che non avevano prima di questa unione. A questo scopo, il segno non deve avere nessun significato intrinseco. Un’altra nozione fondamentale nell’attività artistica di Buren è quella di lavoro in situ, strettamente connessa all’utilizzo dell’outil visuel. Essa si riferisce al rapporto tra l’intervento artistico e il suo contesto, inteso non come semplice inserimento di un lavoro in un ambiente ma come scambio attivo e reciproco tra tutte le rispettive componenti coinvolte. Nelle parole di Buren, la locuzione di “lavoro in situ” può essere tradotta come “trasformazione del luogo di accoglienza”: Questa trasformazione può essere realizzata per questo luogo, contro questo luogo o in osmosi con esso, proprio come il camaleonte sopra una foglia diventa verde, o grigio su un muro di pietre. Anche in questo caso si ha una trasformazione dell’ambiente, anche se è l’agente trasformatore a trovarsi maggiormente cambiato. Ci sono dunque sempre due trasformatori all’opera, l’outil sul luogo e il luogo sull’outil, che esercitano un’influenza reciproca maggiore o minore a seconda dei casi. Il risultato è sempre la trasformazione dello spazio ad opera dell’outil e l’accesso al significato di quest’ultimo grazie al suo utilizzo nel e da parte del luogo in questione. “In situ” per me vuol dire inoltre che c’è un legame accettato volontariamente tra il luogo di accoglienza e il “lavoro” che vi si realizza, vi si presenta, vi si espone. La relazione non è solo tra l’outil visuel e il luogo in senso spaziale o architettonico, ma prende in considerazione tutti riferimenti temporali, sociali e storici ad esso inerenti e che lo caratterizzano nella sua identità specifica. La concezione del lavoro come operazione dialettica che evidenzia e mette in relazioni tutte le componenti sociologiche, economiche e politiche proprie di ogni luogo si inserisce nella più ampia questione dell’autonomia dell’opera d?arte in relazione al contesto in cui è presentata al pubblico. Buren si interroga al riguardo fin da quando si rende conto dei limiti insiti nella ricerca della riduzione pittorica fino al suo grado zero, attuabile solo nel contesto “protetto” del museo o della galleria: D’un tratto mi sono accorto che con la pittura di grado zero si operava una frattura fondamentale, che quasi nessuno aveva colto e di cui io stesso non mi ero reso conto subito. A poco a poco questa nuova lettura ha rafforzato l’idea che la mia pittura, realizzata all’interno di una galleria, era pervenuta al grado zero grazie alla galleria stessa, dunque aveva senso solo in quel luogo, ma non aveva nulla di proprio da dire, e questo mi infastidiva. Ho pensato che si potesse sempre ritornare al dipinto nel museo, sostenendo che è un limite possibile della pittura. Sennonché mi sono reso conto che quell’oggetto così neutro non era autonomo poiché si poteva leggere soltanto lì, quindi dipendeva da un luogo o da un ambiente molto preciso. Partendo da questa considerazione, la successiva produzione di Buren mira a rendere evidente il fatto che nulla possa esistere in condizioni di totale autonomia e indipendenza da ciò che lo circonda, tanto meno l’opera d’arte. Essa è infatti fortemente influenzata e modificata dall’insieme delle condizioni spaziali, culturali, politiche ed economiche che ne determinano la presentazione e la fruizione da parte del pubblico nel contesto della mostra. L’artista, in seguito al riconoscimento di una cornice imprescindibile apposta all’opera d’arte nei tradizionali contesti espositivi, si prefigge di analizzarla e intervenirvi ai fini di riflettere sui confini e le limitazioni imposte dal sistema dell’arte e dalle istituzioni che ne fanno parte. Lo spazio espositivo non può dunque più essere percepito come un contesto neutro; è anzi un luogo in cui viene proposta un?idea di autonomia dell’opera d’arte che è di fatto creata artificialmente, grazie all’isolamento in cui sono posti i singoli lavori esposti. Questa azione illusoria dello spazio espositivo è tanto più efficace quanto meno sono espliciti e percepibili i discorsi e le dinamiche che ne determinano inevitabilmente il funzionamento l’obiettivo dell’artista è innanzitutto di rendere nota la presenza di queste influenze esterne all’opera d’arte tramite un’azione analitica e, conseguentemente, di elaborare delle strategie consapevoli che permettano alle opere di non dover più subire passivamente il contesto in cui sono inserite. Tutto ciò si traduce concretamente nell’allontanamento dagli spazi istituzionali e dalle loro tendenze manipolatrici nei confronti dei lavori che espongono, per confrontarsi invece con lo spazio urbano, in cui ogni pretesa di autonomia delle opere è eliminata, abolendo il loro isolamento forzato in favore di un confronto alla pari con l?eterogeneità di un ambiente complesso: Non importa che aspetto abbia in sé l’opera d’arte, ora è parte di un insieme; non è più al di sopra di tutto com’era nel museo. Inoltre, lo studio di questo ambiente e lo stato in cui si trova ci spinge a prendere nuovamente in considerazione e questa volta in modo totalmente consapevole e non a posteriori la questione e il significato del concetto di bellezza, oggi, negli spazi pubblici. A partire dal 1966 Buren si dedica dunque ad un’attività artistica che utilizza l’outil visuel secondo il concetto di lavoro in situ in relazione al contesto urbano, rivelando le varie componenti architettoniche, politiche, economiche, estetiche e sociali che caratterizzano ogni situazione specifica ed interagendo con esse. La modalità di intervento scelta dall’artista si basa sulla presentazione del contesto generale in cui inserisce l’opera, rendendone evidente la mancanza di neutralità attraverso la decodificazione delle strategie in atto al suo interno. Questa operazione di rendere visibile ciò che rimane tendenzialmente nascosto tramite la decostruzione delle componenti del luogo, pur caratterizzata da un certa tensione rivoluzionaria e polemica (propria del particolare periodo storico), non ha tuttavia solo delle componenti negative o aggressive fini a loro stesse, ma ha anzi una vocazione utopica: Decostruire non è distruggere, ma tentare di offrire un altro tipo di costruzione si decostruisce per conoscere la situazione decostruire è uno sforzo, a livello intuitivo oppure cosciente, di ricerca, di intelligenza, un?indagine. Il posizionamento dell’outil visuel in un determinato luogo ha la doppia funzione di trasformare attivamente il contesto attirando l?attenzione sullo spazio in cui è collocato, integrandosi in esso e diventando, allo stesso tempo, parte del sito. Le strisce verticali introdotte dall’artista evidenziano e dialogano con le caratteristiche specifiche del luogo in cui e per cui sono concepite, stimolando la possibilità di un diverso approccio percettivo ed esperienziale nei confronti di un luogo noto. Gli interventi, effimeri in quanto la loro esistenza è temporalmente limitata alla permanenza nel luogo in cui e per cui sono stati realizzati, sono fortemente caratterizzati a livello visivo, ponendo la dimensione estetica a servizio dell’efficacia del lavoro. Nell’opera di Buren l’utilizzo della componente cromatica è sempre stato fondamentale, in controtendenza rispetto alle tendenze concettuali dell’epoca e in accordo con lo sviluppo di un linguaggio basato sul “pensiero visivo”. La componente decorativa suggerita dallo schema delle strisce e dall’utilizzo del colore è consapevolmente accettata come caratteristica propria del linguaggio artistico “in un certo senso, l’arte non ha mai smesso di essere decorativa” e valorizzata nella sua ambiguità funzionale in rapporto all’architettura circostante, sostenendo che essa possa essere uno spunto e uno stimolo per la comprensione dell’opera. Lo scambio attivato tra l’opera e il suo contesto architettonico è portato avanti tramite una dialettica tra il processo di ripetizione, costituito dalla strategia di installare uno strumento come l’outil visuel, dall’aspetto visivo costante ma sempre diverso perché concepito specificamente per ogni nuovo intervento, e la differenza che esso genera grazie alla sua azione sul contesto. Un’ulteriore caratteristica di questa pratica di lavoro in situ è costituita dalla scelta di operare in direzione dell’anonimato dell’artista, rimuovendo dall’opera realizzata tramite l’outil visuel la componente dell’apporto soggettivo e interpretativo dell’artista a favore di un intervento che sia un semplice segno visivo. Presentando un lavoro anonimo e privo di significato intrinseco, l?artista fa un passo indietro e valorizza il ruolo attivo dello spettatore nell’approccio all’opera attraverso il suo interrogarsi sul rapporto tra quest’ultima e il luogo di riferimento. Lavorare per la strada vuol dire sfidare più di cento anni di produzione di arte destinata al museo. Significa anche che l’artista scenda dal suo piedistallo. Per l’artista, significa osare prendersi questo rischio e accettare di essere umile. Vuol dire imparare completamente da capo come pensare e lavorare. L’interesse di Buren per il lavoro in situ negli spazi urbani fa riferimento alle componenti storiche, politiche, sociali e architettoniche, ma privilegia soprattutto la dimensione sociologica delle relazioni umane inserite al loro interno. Gli interventi dell’artista sono mirati a coinvolgere lo spettatore, aumentando la sua consapevolezza sul luogo e sulle dinamiche che lo animano. L’outil visuel si caratterizza come lo strumento più idoneo, ponendo la componente estetica a servizio di un’operazione concettuale più complessa. Le sue caratteristiche si presentano infatti come ideali per la fruizione: l’orientamento verticale, oltre ad accordarsi alla generale direzione dello sviluppo architettonico e urbanistico, risponde inoltre alla postura eretta dell’uomo, ponendosi in relazione con la sua condizione di essere bipede e offrendogli la migliore lettura possibile del lavoro, pur non costituendo un punto di vista privilegiato e univoco e non escludendo l’opera dalla realtà circostante. Anche la larghezza standard di 8.7 cm delle strisce rappresenta un elemento ideale nel rapporto visivo con lo spettatore: essa fa sì che l’alternanza dei colori non generi mai illusioni ottiche e viene identificata da Buren come la distanza approssimativa tra gli occhi di una persona. Particolarmente interessante per quanto riguarda il lavoro in situ nello spazio urbano è la serie delle Affichages Sauvages, realizzata da Buren tra il 1967 e il 1969. Privo all’epoca di un atelier o di una galleria, l’artista decide di operare al di fuori dell’abituale cornice istituzionale per confrontarsi con il contesto della quotidianità urbana e riflettere su metodi alternativi di realizzare ed esporre l’arte. Le bande alternate sono stampate questa volta su della carta e incollate come poster nelle strade, sui tabelloni pubblicitari o sopra a dei manifesti preesistenti, su muri di edifici e vetrine di negozi. Queste “affissioni selvagge” sono condotte in modo abusivo e seriale, con modalità da guerriglia urbana, imponendosi sul contesto grazie alla loro assenza di significato intrinseco, in contrasto con i numerosi slogan pubblicitari e politici che caratterizzano l’ambiente cittadino. Gli interventi di Buren, effimeri, anonimi, non supportati economicamente da gallerie o musei e documentati solo da alcuni photo-souvenir raccolti dallo stesso artista, sono dapprima realizzati nelle strade di Parigi, per poi essere riproposti in numerose altre città. Nel marzo del 1969 Buren decide di realizzare alcune affissioni a Berna, in occasione della mostra When Attitudes Become Form, curata da Harald Szeemann presso la Kunsthalle cittadina. Pur non essendo stato formalmente invitato dal curatore, l’artista intende parteciparvi in accordo alla sua riflessione sull?ideologia espositiva istituzionale, operando all’esterno della mostra ma rivendicando comunque la sua partecipazione all’evento. Buren non interviene sull’edificio ospitante la mostra, rifiutando così implicitamente l’idea di inserire la sua opera all’interno di una cornice architettonica ed espositiva tradizionale, e rigetta l’assunto che debba essere l’organizzatore della mostra a scegliere chi debba parteciparvi, secondo criteri di valore arbitrari. L’iniziativa riscuote il consenso di alcuni artisti inclusi nella mostra, tra cui Lawrence Weiner, Mario Merz e Joseph Beuys, e alcuni di essi si offrono di condividere una parte del loro spazio all’interno della Kunsthalle con Buren; l’artista francese rifiuta e pianifica per la notte precedente l’inaugurazione l’affissione di oltre un centinaio dei suoi manifesti a righe bianche e rosa sopra ai cartelloni pubblicitari preesistenti. L’operazione è condotta secondo la consueta clandestinità programmatica, che non aveva, fino a quel momento, causato all?artista alcun problema in nessuna delle numerose location in cui era intervenuto. A Berna, Buren viene invece arrestato dalla polizia cittadina in quanto non in possesso di un permesso di affissione rilasciato dal comune e costretto ad abbandonare il paese, suggerendo che forse il contesto in grado di garantire una maggiore libertà all’artista potesse ancora essere il museo. Nonostante l?intervento dell’artista e la notizia del suo conseguente arresto ricadano inevitabilmente nell’orbita mediatica negativa di When Attitudes Become Form, all’epoca Szeemann non considera l’azione di Buren come correlata o affine alla sua mostra, pur avendo tuttavia visionato l’opera dell’artista nel corso dei viaggi preparatori all’esposizione. In un’intervista del 2001 Buren sottolinea tuttavia come, per una pubblicazione inerente alla mostra realizzata molti anni dopo, Szeemann abbia scelto di includere un’immagine del lavoro di Buren nella copertina del volume, sancendo a posteriori l’inclusione dell’artista nell’evento. In seguito a When Attitudes Become Form l’artista e il curatore hanno, nel corso degli anni, lavorato insieme più volte, avendo nuovamente l’occasione di incontrarsi e scontrarsi nel contesto problematico della mostra. Nell’ambito della sua pratica in situ, applicata a una grande varietà di luoghi e ambienti per mettere in risalto le dinamiche in essi attive, Buren torna talvolta ad operare nel contesto del museo o della galleria. Gli spazi istituzionali tradizionalmente adibiti all’esposizione delle opere d’arte si prestano ad essere un terreno d’indagine ideale in cui testare l’efficacia dell’outil visuel nel decostruire e rivelare le componenti nascoste tramite la relazione con l?architettura. Lungi dall’essere un luogo neutro per la presentazione dell’arte, il museo è lo spazio per eccellenza in cui gli interessi ideologici, estetici, politici ed economici non sono manifestati in modo immediatamente evidente ma influiscono pesantemente sulle opere, manipolandole e modificandole. Attraverso le operazioni di selezione, decontestualizzazione tramite l’isolamento dalla realtà, giustapposizione forzata e presentazione più o meno arbitraria, i lavori esposti subiscono delle variazioni in base alle specifiche esigenze dell’istituzione in questione. La decostruzione di queste dinamiche non si traduce in uno sterile rifiuto totale del museo, ma mira a renderne noto il funzionamento e le implicazioni tramite un’attività che non può che avere luogo al suo interno. L’obiettivo dell’artista non è la soppressione del museo, ma il suo cambiamento, propugnato tramite un’azione che per essere efficace deve necessariamente avvenire al suo interno. L’invito a partecipare alla Sixth Guggenheim International Exhibition, una rassegna dedicata alle tendenze più recenti della scena contemporanea internazionale e ospitata presso l’omonimo museo newyorkese dall’11 febbraio all’11 aprile 1971, offre a Buren la possibilità di cimentarsi con una delle più importanti e rinomate istituzioni nel campo dell’arte.

Il confronto con il Solomon R. Guggenheim Museum di New York rappresenta tuttavia un caso particolare, in quanto l’edificio progettato da Frank Lloyd Wright nel 1943 ha un’architettura peculiare e invasiva, ben lontana dalla presunta neutralità a cui aspirano gli spazi espositivi sul modello “white cube”. Il museo è caratterizzato da una struttura basata su una lunga rampa elicoidale gradualmente inclinata che copre senza interruzioni l’edificio lungo tutta la sua altezza, suddividendolo in verticale in sette livelli corrispondenti alle rotazioni intorno al suo asse. Al centro della spirale vi è un ampio spazio vuoto, una sorta di pozzo a cui corrisponde una cupola di vetro sulla sommità dell’edificio. Nel lato interno della rampa, verso la cavità centrale, si trova una balaustra che raddoppia e rinforza l’effetto visivo della spirale, mentre le opere vengono ospitate lungo le pareti del lato esterno. L’intento di Lloyd Wright nel concepire una struttura così singolare era quello di rendere possibile una doppia visione delle opere: da vicino, quando lo spettatore sulla rampa si trova davanti alle opere poste al suo stesso livello, e da lontano, quando percorrendo la rampa si gira verso l’interno e vede i lavori collocati di fronte a lui oltre al grande vuoto centrale. In realtà, la concezione dell’architetto non è efficace poiché la struttura presenta delle difficoltà a livello pratico, tra cui l’eccessiva distanza tra i lati esterni della spirale che non permette di vedere bene i lavori da punti opposti della rampa, gli spazi concepiti per la pittura e non per opere dalle dimensioni ingombranti o ancora l?inclinazione delle pareti che rende difficile l’affissione di opere. La disposizione dei lavori lungo il perimetro esterno viene interpretata come esempio significativo di un’architettura che, con l’imposizione della sua pregnanza visiva, esclude ciò che dovrebbe essere al centro dell’attenzione. Alexander Alberro nota come la continuità della rampa e, di conseguenza, degli spazi espositivi, non permetta una distinzione spaziale tra i singoli lavori, con esiti particolarmente problematici e caotici nelle mostre collettive. Secondo Alberro, inoltre, la struttura architettonica dell’edificio è intrinsecamente autoritaria, in quanto stabilisce tramite l’unica rampa un percorso fisso, una sequenza visiva a cui difficilmente lo spettatore può sottrarsi, essendo limitato nella scelta di come vedere i lavori esposti; questa organizzazione spaziale rafforza inoltre la capacità di curatori e organizzatori di costruire una narrazione, tendenzialmente univoca in quanto lineare e consequenziale, tramite la disposizione delle opere in mostra. L’ostacolo principale alla fruizione è comunque costituito dal fatto che la grandiosità architettonica della struttura è tale da competere con le opere d’arte, riuscendo spesso a metterle in secondo piano. L’intervento ideato da Buren punta a riconoscere e sovvertire questa relazione gerarchica imposta dal Guggenheim Museum sulle opere che esso presenta. A tale scopo l’artista intende proporre due lavori, rispettivamente all’interno e all’esterno dell’edificio. All’interno, una tela alta 20 metri e larga 10 viene appesa in sospensione nello spazio centrale, sorretta da un cavo d’acciaio. Il dipinto è costituito dall’abituale tessuto a bande alternate, in questo caso blu e bianche, le cui strisce bianche più esterne sono ricoperte da uno strato di pittura bianca. La tela, che si estende dall’altezza della cupola fino alla prima rampa a partire dal basso, è visibile da entrambi i lati e divide lo spazio centrale in due sezioni uguali. All’esterno, una seconda tela, sempre a strisce bianche e blu con le bande bianche più esterne dipinte con colore bianco su entrambi i lati ma alta 1,5 metri e larga 10, è affissa al centro dell’88th Street all’incrocio tra la Madison e la 5th Avenue. L’invito ad esporre in occasione della Sixth Guggenheim International Exhibition permette a Buren di applicare ancora una volta la metodologia operativa in situ, basata sull’attivazione e sulla modificazione specifica tra un’opera e un determinato luogo, permettendogli di testarne l’efficacia su una scala mai affrontata prima. Le dimensioni imponenti consentono finalmente un confronto alla pari tra contenuto e contenitore museale, rendendo evidente per contrasto l’enorme potere che l’architettura del Guggenheim esercita abitualmente sulle opere poste al suo interno. Nell’analisi dello spazio compiuta dall’artista e inclusa nel resoconto sull’intervento al Guggenheim pubblicato su «Studio International», Buren sottolinea l?intenzione di rivelare le caratteristiche che fanno sì che l’architettura del museo “renda ciò che è esposto obsoleto e periferico”45; tra queste figurano la spettacolarità dello spazio in sé, che distoglie l’attenzione dalla zona esterna della rampa in cui sono posizionati i lavori, e la continuità dello spazio che non permette un’adeguata separazione delle opere e contribuisce a rafforzare lo sviluppo di un discorso autoritario tramite la loro successione predeterminata. L’edificio subisce inoltre l’effetto di due peculiari fenomeni, dovuti alla sua struttura spiraliforme: da una parte un effetto centripeto attira costantemente lo sguardo del visitatore verso lo spazio centrale, mentre dall’altra una spinta centrifuga relega alla periferia visiva ciò che è esibito ai lati della rampa. Da questa analisi Buren giunge a due conclusioni. La prima è che il museo, ben lungi dall’essere un luogo neutro che punti ad una valorizzazione ideale dell’arte, è invece un luogo che la maschera, la sminuisce e la elimina allo scopo di mettere in mostra se stesso. La seconda rileva come l’arte tenda ad essere prodotta in funzione di uno spazio asettico e ideale che ne enfatizzi un valore il quale, in altre condizioni di fruizione, non riuscirebbe ad emergere; essa è quindi essenzialmente retrograda, illusoria e truffaldina. La tela di Buren si prefigge dunque di rendere evidente a livello visivo l’enorme potere costrittivo del museo, ribaltando allo stesso tempo il consueto rapporto di subordinazione che le opere hanno nei confronti dello spazio. Il dipinto riempie con le sue vaste dimensioni lo spazio centrale solitamente vuoto, che presenta dunque per la prima volta qualcosa di estraneo all’architettura su cui concentrare lo sguardo. In questo modo l’opera non offre altro che la sua stessa immagine e, grazie alla sua componente visiva, pone la questione della sua presenza. Se da una parte il posizionamento centrale rivela l’effetto centripeto sfruttandone al massimo gli effetti, esso rappresenta d’altro canto l’unico modo in cui un’opera possa essere veramente visibile all’interno del museo senza subirne il processo di marginalizzazione. La presenza inusuale di un elemento di simile grandezza e aspetto interrompe bruscamente la funzione narcisistica e autoreferenziale dell’edificio-scultura, appropriandosene per smascherarne il meccanismo e tuttavia reiterandolo a discapito delle altre opere in mostra, relegate comunque nell’ombra di ciò che si trova al centro dell’attenzione. Il secondo dipinto, collocato all’esterno ma in prossimità del museo e in posizione perpendicolare ad esso, può essere interpretato come un frammento della tela più grande all’interno del Guggenheim che ne esplora il posizionamento in due contesti diversi e le conseguenti modifiche sulla percezione, a seconda dell’inserimento in un contesto museale o meno. Le due opere instaurano dunque una serie di dialoghi reciproci, con i rispettivi contesti, con le altre opere in mostra e tra l’interno e l’esterno dello spazio espositivo. Il titolo degli interventi, Peinture-Sculpture, evidenzia l’ambiguità formale delle opere: esse si presentano infatti come degli interventi pittorici su tela, ma subiscono una trasformazione tridimensionale quando vengono appese nello spazio centrale del museo. Per la prima volta il tessuto è sospeso in maniera totalmente indipendente rispetto ad una parete e, grazie alla rampa elicoidale, è possibile girarci attorno per fruirlo da vari punti di vista il lavoro si rivela in ogni suo aspetto in modo progressivo, mentre al contempo non è mai visibile nella sua interezza, ma solo un frammento alla volta. Questo movimento avrebbe implicato un forte coinvolgimento dello spettatore, permettendogli di fruire il lavoro secondo le modalità da lui scelte in quanto non vincolato ad un punto di vista univoco e prefissato. La comprensione del lavoro sarebbe stata inoltre affidata principalmente alla percezione visiva, non richiedendo particolari informazioni o conoscenze pregresse per coglierne l’essenza e il funzionamento. Nozioni come quelle di pittura o scultura sono infatti considerate come accessibili a priori a quasi tutti e l’intento e il meccanismo del lavoro avrebbero dovuto essere deducibili dalla sua fruizione visiva. L’utilizzo del condizionale per quanto riguarda le dinamiche della ricezione dell’opera è voluto, in quanto in realtà l’intervento di Buren è stato rimosso dall’esposizione prima dell’inaugurazione e dunque non è mai stato effettivamente fruibile dal pubblico della Sixth Guggenheim International Exhibition. Nonostante la presentazione del progetto fosse già stata precedentemente sottoposta e approvata dai curatori della mostra, Peinture-Sculpture viene rimossa dal Guggenheim poco dopo essere stata allestita, il 10 febbraio del 1971. Alcuni degli artisti partecipanti presenti durante l’allestimento reagiscono duramente all’opera di Buren, sostenendo (più o meno faziosamente) che la sua presenza ingombrante ostacolasse la visione di alcuni dei lavori presenti in mostra; in seguito alle rimostranze e alle minacce di ritirarsi dall’esposizione, il museo cede alle pressioni di una minoranza degli artisti e, in seguito a dei deboli tentativi di raggiungere un compromesso con l’artista francese, decide di risolvere la crisi interna decretando la rimozione del contributo di Buren alla rassegna. L’artista offre una descrizione dettagliata dei fatti avvenuti in merito alla mostra al Guggenheim, riportando le premesse dei lavori e le conseguenze della censura. Nello stesso numero di «Studio International» al resoconto di Buren sull’incidente al Guggenheim segue la dichiarazione rilasciata da Diane Waldman, curatrice della mostra insieme a Edward J. Fry. Nel testo Waldman premette che la scelta di esporre alcuni lavori significativi per le tendenze artistiche degli ultimi 5 anni all’interno dello spazio del museo costituisse la cornice imprescindibile della mostra; l’opportunità di interagire con la peculiare architettura del museo rappresenta quindi un presupposto fisso, ma anche un’opportunità unica, colta da molti artisti tramite la creazione di lavori concepiti appositamente per il luogo e l’occasione. Waldman afferma che, nel tentativo di garantire ad ogni artista lo spazio e le condizioni migliori per rendere efficace il suo contributo, è necessario che il curatore e gli artisti stessi raggiungano inevitabilmente un compromesso finalizzato al migliore esito possibile dell’evento espositivo. In quest’ottica, procede la curatrice, le responsabilità di artisti e curatori sono diverse: se quelle dell’artista sono legate solamente al suo lavoro, il curatore è responsabile della presentazione di quel lavoro ed ha inoltre l’obbligo di tenere conto delle esigenze e delle restrizioni presenti in ambito museale. La partecipazione ad una mostra collettiva implicherebbe inoltre necessariamente la volontà di raggiungere un accordo tra gli artisti presenti, in modo da ottenere un equilibrio soddisfacente per tutte le parti coinvolte, mentre Buren è stato l’unico a non voler venire incontro alle esigenze altrui. La curatrice rinfaccia inoltre all’artista di non aver fornito dei progetti preliminari adeguati e di non aver tenuto in considerazione le perplessità e gli avvertimenti da lei già sollevati nei confronti dell’intervento. Sostenendo che il contributo di Buren rendesse impossibile la visione delle opere di Long, Merz, Flavin e De Maria e che LeWitt, Darboven, Merz e Long avessero assistito all’installazione asserendo che Peinture-Sculpture compromettesse la fruizione dei loro lavori, Waldman insinua che le firme raccolte da Buren per la petizione in suo favore siano state sollecitate esercitando delle pressioni. Aggiungendo che nessuno, men che meno lei, voleva escludere l’artista dall’esposizione, giunge alla conclusione che, in virtù del rifiuto di Buren di accettare qualsivoglia compromesso, l’unica soluzione possibile per salvaguardare l’unità della mostra e l?identità individuale di ogni lavoro sia stata quella di eliminare il suo contributo. Della stessa opinione è Thomas M. Messer, all’epoca direttore del Guggenheim, secondo cui la crisi determinata dall’opposizione di un’azione individuale alle tacite regole di cooperazione tra artisti e staff curatoriale, alla base del funzionamento delle istituzioni artistiche, non poteva che risolversi attraverso un’accettazione di queste norme implicite oppure tramite l’esclusione dell’opera che le trasgredisce, come nel caso di Buren.
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Nel numero di «Studio International» di luglio-agosto 1971, Buren risponde alle precedenti dichiarazioni di Waldman, ribadendo di aver reso note le sue intenzioni fin dall’ottobre 1970, di aver ricevuto l’approvazione del museo e respingendo le accuse di aver forzato in qualche modo gli altri partecipanti a firmare la petizione in sua difesa. L’artista sottolinea inoltre l’arbitrarietà della dichiarazione della curatrice riguardo ai ruoli dell’artista e del curatore nel contesto della mostra: Non è possibile che chi espone sia responsabile per il suo lavoro e anche per la sua presentazione? Da quando, e con che diritto, il curatore decide come dovrebbe essere presentata l’opera? Certamente lo deve fare quando l’artista è morto; in questo modo può giocare a fare l’artista. Mrs. Waldman non nasconde il fatto che preferisce gli artisti defunti così si è molto più liberi. Ulteriormente problematiche sono le posizioni degli artisti contrari all’intervento di Buren. I più convinti e accaniti oppositori del contributo dell’artista francese, sono i minimalisti Donald Judd e Dan Flavin; anche Michael Heizer e Walter de Maria presentano delle critiche all’intrusività di Peinture- Sculpture, mentre Joseph Kosuth si espone indirettamente sostenendo le argomentazioni degli artisti contrari. Nonostante le loro accuse, riguardanti un possibile intralcio e la compromissione dei propri lavori da parte dell’opera di Buren, siano accettate e sostenute dallo staff del museo, esse nascondono delle motivazioni maggiormente complesse. La pretestuosità di alcune di queste insinuazioni di un danneggiamento nei confronti di determinate opere è evidenziata da Sol LeWitt, in un intervento apparso su «Studio International» nel settembre del 1971. L’artista confuta una delle affermazioni contenute nella dichiarazione di Waldman, in cui la curatrice riporta il fatto che alcuni artisti tra cui Merz, Long e Darboven, oltre a lui stesso, avrebbero detto a Buren che la sua opera comprometteva i loro lavori. LeWitt sostiene che il suo intervento non era in alcun modo intralciato, in quanto comunque non visibile al di là della rampa, e ritiene inoltre assurdo pensare che il lavoro di Buren potesse in qualsiasi modo influire sull’opera di Darboven, trattandosi di una serie di libri da leggere in sequenza. L’artista dichiara inoltre che, nella sua opinione, un museo non debba accettare un’opera in modo condizionale e che, una volta approvata, sia tenuto a mostrarla senza potersi riservare il diritto di censurarla arbitrariamente. Alberro, in The Turn of the Screw: Daniel Buren, Dan Flavin, and the Sixth Guggenheim International Exhibition, nota l’inconsistenza delle argomentazioni e l’infondatezza delle accuse di impedimento visivo anche per i lavori di alcuni degli artisti che si oppongono in modo più deciso all’intervento di Buren, tra cui quelli di De Maria e Kosuth. Nel caso di Michael Heizer l’accusa risulta assurda, in quanto l’installazione Actual Size include una proiezione di fotografie che richiede necessariamente un luogo oscurato per il corretto funzionamento. A questo scopo il lavoro viene allestito nella High Gallery, un ambiente chiuso e isolato rispetto allo spazio occupato dal contributo di Buren. Le motivazioni dell’opposizione a Peinture-Sculpture non possono essere dunque state inerenti ad una eventuale compromissione visiva. L’installazione proposta da Donald Judd consiste in due cerchi di metallo concentrici che riprendono l’architettura del museo instaurando un dialogo con essa; in quest’ottica di profonda connessione con l’edificio, l’altezza dei cilindri è uguale a quella del parapetto, rendendone la fruizione ideale per lo spettatore che la avvicini dalla parte della rampa adiacente all’opera, ma praticamente impossibile per chi si trovasse al di là dallo spazio vuoto. Risulta quindi altamente improbabile che il dipinto sospeso nella zona centrale potesse in qualche modo ostruirne la visuale. Nonostante ciò, la reazione di Judd all’intervento di Buren è particolarmente violenta, arrivando a definire l’artista francese un “tappezziere parigino”. Secondo Lelong, tuttavia, un tale astio è da ascrivere più propriamente a ragioni di gelosia professionale. Dal 1965 Judd realizza infatti i suoi Specific objects, dei parallelepipedi metallici fissati direttamente ai muri degli spazi espositivi, qualificati come “né pittura né scultura” poiché presentano delle caratteristiche ambigue tra cui la tridimensionalità, la vicinanza con la pittura e l’ambizione di sostituirsi ad essa. Queste realizzazioni sono motivate da ragioni teoriche di opposizione alle interpretazioni retrograde della pittura, considerata come essenzialmente caratterizzata da una superficie piatta Judd produce dunque in risposta degli oggetti che sono sia piatti che tridimensionali e li appende al muro come se fossero dei dipinti. Le intenzioni teoriche e didattiche dell’artista sono tuttavia comprensibili allo spettatore solo attraverso delle informazioni esterne che permettano di ricollegare il lavoro con il suo sostrato teorico, ponendolo per esempio in opposizione con le teorie moderniste di Clement Greenberg sulla pittura. L’intervento di Buren, al contrario, pur implicando delle riflessioni su concetti teorici quali le definizioni di pittura e scultura e le ambiguità tra di essi, riesce a trasmetterle principalmente tramite la sua sola presenza visiva. L’artista francese riesce dunque ad esprimere nel modo più semplice possibile un concetto complesso su cui lavorava, con minore efficacia, anche l’americano; Peinture-Sculpture doveva probabilmente costituire un monumentale scacco all’orgoglio di Judd, che lo osteggia dunque con ferocia. Dan Flavin è forse l’unico artista a potersi lamentare a ragione dell’interferenza del lavoro di Buren con la sua installazione; questa è composta da trentadue lampadine bianche o colorate disposte strategicamente lungo tutto il sesto livello della rampa a creare delle sculture luminose che si adattino esplicitamente ai dettagli architettonici dell’edificio e producano un grande riflesso multicolore sui muri bianchi, trasformando così lo spazio del museo di Wright. Vista la notevole estensione dell’intervento di Flavin, è estremamente plausibile che la grande tela sospesa nello spazio centrale ne oscurasse una parte, impedendo allo spettatore di cogliere un effetto di insieme; bisogna tuttavia notare che l’opera dell’artista americano, distribuendo in uno spazio abbastanza ampio le sue luci colorate, probabilmente influiva anch’essa in modo potenzialmente invasivo sui lavori adiacenti. Ma le ragioni dell’attrito tra gli artisti si spingono oltre, e riguardano una concezione sostanzialmente diversa della mostra e della sua cornice ideologica. Anche l’opera di Flavin, come quella di Buren, evidenzia la relazione tra l’opera d’arte e il suo contesto espositivo, tramite l’intervento estetico sull’architettura prodotto dall’utilizzo delle luci. Attraverso il trasferimento di oggetti quotidiani e banali come delle lampade industriali all’interno di un museo, l’artista si orienta tuttavia verso un approccio maggiormente concettuale che relativizza la componente stilistica e formale del suo lavoro. Alberro sottolinea come tra le opere di Flavin e Buren possano essere rintracciate delle somiglianze metodologiche e concettuali: entrambi gli artisti utilizzano in modo costante degli oggetti di produzione industriale (rispettivamente le lampade fluorescenti e il tessuto a bande alternate), mirano all’eliminazione dei principi compositivi, enfatizzano la durata effimera dei loro lavori, relativizzano il ruolo dell’artista nella produzione di oggetti unici e distruggono il concetto dell’opera-oggetto dotata di implicazioni auratiche. L’elaborazione di Flavin di una sintesi ibrida tra oggetti scultorei e pittorici e l’enfasi posta nella collocazione in relazione al luogo sono inoltre delle conquiste concettuali di cui anche Buren fa ampio uso. Ciò che tuttavia diversifica, e rende incompatibili, le opere dei due artisti nel contesto espositivo del Guggenheim è il rapporto che le opere instaurano con il loro contesto. Pur essendo site-specific, l’installazione di Flavin è caratterizzata da un legame relativo con lo spazio, testimoniato dal fatto che, a tre giorni dall’inaugurazione, l’artista accetta senza problemi la richiesta del museo di modificare il suo progetto di esporre nella High Gallery in modo da lasciare lo spazio a disposizione dell’installazione di Heizer. L’unica necessità della site-specificity del suo lavoro è costituita dalla condizione di non appendere le lampade al soffitto, in modo da non far loro assumere la normale funzione utilitaristica e un’estetica eccessivamente ordinaria. L’opera di Flavin, più che indagare lo spazio in cui è inserita o gli oggetti di cui è composta, sembra incentrata a celebrare l’inventiva dell’artista, il suo “genio creativo”. Inoltre, per poter funzionare in modo efficace, l’opera sembra necessitare di un contesto neutrale in cui inserirsi. Al contrario, la nozione di lavoro in situ di Buren implica, come noto, una relazione imprescindibile con il suo contesto, basata sullo scambio reciproco e necessaria all’attivazione dell’opera. Con il suo intervento volto a rendere evidente l’impossibilità dell’autonomia dell’arte dal suo contesto e a smascherare la presunta neutralità di un luogo come il museo, il cui funzionamento è regolato da influenze politiche, ideologiche ed economiche, Buren attacca anche la pratica di quegli artisti che, come Flavin e i Minimalisti, perpetrano l’idea dell’unicità e dell’originalità del loro lavoro nell’ambiente “protetto” del museo o della galleria. È proprio questa tendenza estremamente critica e potenzialmente sovversiva dello status quo ad essere percepita come eccessivamente radicale e politicizzata e rifiutata nelle sue modalità e implicazioni ideologiche da artisti come Flavin che, in una lettera a Buren del febbraio 1971, liquida il lavoro dell’artista francese come una “tenda invadente e importuna” e riduce il suo comportamento ad una bellicosa strategia di auto-affermazione: Non asseconderò le tue tattiche sgarbate contro l’arte, gli artisti e il curatore coinvolti collettivamente nella mostra per onorare una bizzarra e dubbia democrazia espositiva che proponi di perpetrare paradossalmente in modo controverso tra i singoli artisti. Il tutto, in fin dei conti, è rigorosamente calcolato egoisticamente per cercare di minacciare ed attaccare a livello professionale e personale un curatore conciliante, la cui decisione, ponderata e apparentemente giusta in direzione di un compromesso necessario e adeguato, ti ostacola in un gesto negativo e spietato per far avanzare la tua marginale carriera nelle controversie pseudo-artistiche. Non ho mai sentito delle sciocchezze squallide quanto le tue. Le implicazioni politiche radicali dell’attività artistica di Buren (influenzate da teorie neo-marxiste e dal Situazionismo nella consapevolezza delle conseguenze causate della legittimazione dell’arte da parte dalle strutture culturali dominanti a livello di ricezione e produzione delle opere e nella volontà di sviluppare una critica della cultura capitalistica) hanno costituito, secondo Alberro, un fattore determinante per l’esclusione dell’intervento dell’artista dalla Sixth Guggenheim International Exhibition. Nel contesto di una nuova tendenza conservatrice, dominante nell’America del periodo a livello politico, sociale e culturale, il concetto di avanguardia è sentito come particolarmente problematico per le implicazioni politiche potenzialmente sovversive. In quest’ottica, la rassegna internazionale del Guggenheim può presentare le nuove tendenze artistiche e le idee capaci di sconvolgere le precedenti concezioni estetiche purché queste siano slegate da implicazioni parallele in ambito politico. È quindi inevitabile che a livello museale la preferenza sia accordata ad artisti che, come Dan Flavin, si pongono in contrasto con la tradizione estetica a loro precedente mantenendo tuttavia le loro opere autonome rispetto alla politica, mentre vengano guardati con sospetto artisti più radicali, critici e “politicizzati” come Buren o Hans Haacke, la cui mostra prevista per l’aprile 1971 al Guggenheim viene improvvisamente cancellata mentre la preparazione è in fase conclusiva. Un ulteriore fattore che penalizza Buren nel suo conflitto con alcuni degli artisti in mostra può essere inoltre rappresentato dalla precedenza accordata in quell’edizione agli artisti americani. Essi infatti non solo costituiscono la maggioranza degli invitati alla rassegna internazionale (tredici artisti su ventuno), ma la loro presenza massiccia è giustificata dagli organizzatori sostenendo che le tendenze originatesi in America verso la fine degli anni Sessanta siano state di cruciale importanza per gli sviluppi dell’arte più recente e innovativa. In quest’ottica, ad esempio, Il Minimalismo, un movimento principalmente attivo a New York, viene posto come fondamentale per la nascita di correnti quali Land Art, Process Art, Arte concettuale e su di esso viene incentrata l’attenzione, a discapito dell’affermazione di nuove tendenze internazionali che tendono a marginalizzare progressivamente la centralità dell’oggetto nell’arte. Nonostante il sostanziale fallimento a livello espositivo del progetto di Buren, lo scandalo e il dibattito suscitati dalla censura dell’opera hanno fornito una possibilità per l’artista di proseguire e approfondire la sua indagine sulle dinamiche, più o meno evidenti, che determinano la cornice in cui l’arte è prodotta, presentata e fruita. Il fatto interessante è che la censura sia stata rafforzata dalla reazione di un certo numero di artisti, e non di quello che è spesso chiamato il Sistema (cioè il museo). Questo rafforza la tesi da me precedentemente sviluppata, ovvero che all’interno del mondo dell’arte il sistema sia l’artista. In parole povere, il potere è detenuto da una certa avanguardia artistica, alleata con certi potenti gruppi – gallerie commerciali d’avanguardia che insieme applicano ai musei, alle riviste, ecc. una vera e propria censura. Questo potere può essere rintracciato nelle informazioni che essi distorcono, nella storia che scrivono e possono permettersi di diffondere. Nel testo del 1971 Fonction de l’atelier, l’artista argomenta la sua decisione di abbandonare l’atelier in quanto esso alimenta il sistema dell’arte, di cui è parte ed espressione allo stesso livello di musei e gallerie. Pur essendo principalmente concepito come luogo privato ad uso dell’artista, esso si presta comunque ad operare delle manipolazioni nei confronti delle opere, essendo lo spazio in cui i critici, i curatori e i direttori dei musei possono comodamente scegliere quali opere utilizzare per i loro scopi espositivi o di presentazione. Il luogo in cui l’arte è prodotta e di cui costituisce il primo contesto si presta anche ambiguamente alla sua selezione, compiuta prima dall’artista in virtù di uno sguardo esterno e successivamente dai mercanti d’arte e dagli organizzatori di mostre in vista di una presentazione pubblica. Nell’ottica di mettere in questione il sistema dell’arte, l’artista punta a rifiutare le concezioni tradizionali e date per acquisite, confutando i presupposti che l’atelier sia l’unico luogo in cui un lavoro possa essere realizzato e che il museo costituisca l’unico ambiente in cui esso debba essere visto. Il controllo sulla propria opera e sul discorso che la riguarda, sebbene rappresentato in modo esemplare per qualità, quantità, continuità e livello di approfondimento dai testi dell’artista, si estende a molti altri aspetti inerenti alla presentazione, alla circolazione e alla fruizione dell’opera d’arte. Buren, infatti, molto spesso partecipa attivamente alla redazione dei cataloghi includenti il suo lavoro realizzando dei contributi autorizzati, come la riproduzione delle canoniche righe alternate di 8.7 cm, la bibliografia compilata personalmente e la stesura delle didascalie accompagnanti i photo-souvenir che illustrano i suoi interventi. Anche la biografia, elemento tra i più convenzionali e istituzionali del discorso periferico all’opera, è fissata dall’artista nella formula ufficiale di “vit et travaille in situ” vive e lavora in situ, essenziale e non travisabile. Il rifiuto di delegare la responsabilità della presentazione del lavoro è esteso anche alle pubblicazioni riguardanti l?attività artistica e teorica, cui Buren contribuisce attivamente tramite la produzione di contenuti e la supervisione del progetto editoriale. Un caso esemplare in questo senso, oltre alla già citata raccolta Les écrits (1965-1990), è costituito dal catalogo ragionato dell’opera di Buren, un contributo biografico autorizzato e coordinato da Annick Boisnard, suddiviso in tomi riferiti ai vari periodi della produzione artistica e pubblicati alternativamente in versione cartacea oppure digitale sul sito dell’artista. Un’affermazione decisa dell’autorità di Buren sul proprio lavoro anche dopo la sua eventuale vendita è rappresentata dall’Avertissement, un contratto che viene fatto sottoscrivere all’acquirente. Esso si compone di una descrizione formale del lavoro e di alcune clausole riguardati questioni come diritti di riproduzione dell’opera, necessità dell’autorizzazione dell’artista per ogni successiva esposizione, regolazioni sulla cessione e sul trasferimento per garantire la tracciabilità del lavoro. L’esposizione si concentra, in particolare, sul legame di Daniel Buren con l’Italia e la Toscana, presentando opere realizzate nel nostro Paese che l’artista ha rivisitato e ricreato in un processo continuo di
Fare, Disfare, Rifare. Con quest’idea, Buren mette in discussione e rielabora il proprio lavoro, investendo di nuovi significati progetti realizzati in Italia dal 1968 a oggi e invitando lo spettatore a riflettere sulla trasformazione dell’arte nel tempo e nei diversi contesti. La cifra distintiva dell’arte di Daniel Buren è il motivo a strisce verticali alternate, bianche e colorate, sempre larghe 8,7 centimetri, provenienti dal tessuto industriale utilizzato dal 1965 per i suoi dipinti e ripresodall’artista dopo il 1967 in opere realizzate in contesti urbani, in luoghi istituzionalie non dell’arte e della cultura. Questo dispositivo visivo di rigorosa semplicità, è divenuto il suo “outilvisuel” [trad. “strumento visivo”). A partire dagli anni Ottanta, i suoi lavori assumono una dimensione tridimensionale con materiali come tessuti stampati, carta, vetro, specchio, legno, plexiglas, etc.e sono realizzati in funzione del contesto che li ospita. Buren definisce questa pratica “
in situ”, un approccio che rifiuta l’indipendenza delle opere, strettamente legate alle caratteristiche fisiche (spazio, architettura, materiali) e culturali (storia, tradizioni, comunità) deiluogi in cui egli crea e colloca i suoi lavori. Palazzo Buontalenti sarà il fulcro attorno cui ruoterà l’intera esposizione,il percorso si estenderà poi in altre sedi di Pistoia Musei con nuovi lavori appositamente creati e si collegherà idealmente agli interventi che Daniel Buren ha realizzato nel territorio dagli anni Duemila, come la fontana
Muri Fontane a tre colori per un esagono (2005-2011)nel parco di Villa La Magia a Quarratae
La CabaneÉclatéeauxQuatre Salles (2005) nella Collezione Gori-Fattoria di Cellea Santomato di Pistoia. La rassegna sarà accompagnata da un ampio programma di attività collaterali per tutti i pubblicie da un catalogo (Gli Ori editori contemporanei) che includerà anche un’intervista a Daniel Buren realizzata da Monica Preti.
Biografia di Daniel Buren
Daniel Buren, tra i maggiori esponenti dell'Arte Concettuale, vanta una carriera lunga oltre 50 anni. Fin dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso sperimenta il grado zero della pittura iniziando ad utilizzare nella propria pratica artistica un tessuto industriale a righe verticali alternate bianche e colorate larghe 8,7 cm che porta l'osservatore a spostare la propria attenzione dall'opera all'intero ambiente fisico e sociale su cui l'artista interviene. Dal 1967, infatti, Buren abbandona il lavoro in studio per favorire interventi realizzati in situ , come strade, gallerie, musei, paesaggi ed edifici, creando opere che afferiscono allo stesso tempo alla pittura, alla scultura e all'architettura. Giocando con i colori, la luce, i diversi punti di vista e credendo nel connubio tra arte e vita, l'artista trasforma lo spazio circostante stimolando anche il coinvolgimento diretto del pubblico. Daniel Buren (Boulogne-Billancourt, Francia, 1938) vive e lavora in situ . Si è formato presso l'École des Métiers d'Art. I numerosi luoghi dei suoi interventi includono alcune delle maggiori istituzioni parigine quali Fondation Vuitton, Palais de Tokyo, Centre George Pompidou. È anche autore del lavoro permanente in situ “Les Deux Plateaux” (1985-86) situato nella Corte d'Onore del Palais-Royal di Parigi, così come di centinaia di lavori in situ e permanenti concepiti e realizzati per spazi pubblici in tutto il mondo tra cui Giappone, Italia, Spagna, Germania, USA, Canada, Messico, Cina, Corea, ecc… Una breve selezione di mostre personali internazionali include: Städtisches Museum, Mönchengladbach, Germania (1971); Museo Stedelijk, Amsterdam, Olanda (1976); Museo Kröller-Müller, Otterlo, Olanda (1976); Museo Van Abbe, Eindhoven, Olanda (1976); PAC-Padiglione d'Arte Contemporanea, Milano (1979); Museo del Detroit Institute of Arts, Detroit, USA (1981); Brooklyn Art Museum, New York, Stati Uniti (1988); Kunstmuseum Bonn, Germania (1995); Museo d'Arte Moderna di San Francisco, USA (2003); Museo Guggenheim, New York, Stati Uniti (2005). Nel 1965 ha vinto il premio della Biennale di Parigi e nel 1986 ha rappresentato la Francia alla 42° Biennale di Venezia dove è stato insignito del prestigioso Leone d'Oro per il miglior padiglione. Nel 2007 ha ricevuto il Praemium Imperiale per la Pittura dalla Japan Art Association e nel 2024 il Premio Internacional de Mecenazgo conferito dalla Fondazione Callia di Spagna.
Palazzo Buontalenti Pistoia
Daniel Buren. Fare, Disfare, Rifare. Lavori in situe situati 1968-2025
dall’8 Marzo 2025 al 27 Luglio 2025
dal Mercoledì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì e Martedì Chiuso
Photo-souvenir: Daniel Buren, Galleria Continua San Gimignano. Foto Lorenzo Fiaschi
Photo-souvenir: Vista della sala dei Dipinti, 1965, collezione privata, Parigi. Particolari. Courtesy Fondazione Pistoia Musei, foto OKNOstudio, ElaBialkowska © DB - SIAE Roma
Photo-souvenir: Exhibition view,
Daniel Buren. Fare, Disfare, Rifare. Lavori in situ
e situati 1968-2025. Courtesy Fondazione Pistoia Musei, foto OKNOstudio, ElaBialkowska © DB - SIAE Roma
Photo-souvenir:
Triptyquesélectriques, lavori situati, 2014, collezione privata, Parigi. Particolari. Courtesy Fondazione Pistoia Musei, foto OKNOstudio, ElaBialkowska © DB - SIAE Roma
Photo-souvenir: Daniel Buren, foto OKNOstudio, ElaBialkowska © DB - SIAE Roma