Giovanni Cardone Agosto 2022
Fino al 29 Settembre 2022 si potrà ammirare presso Palazzo d’Avalos Procida la mostra di Antonio Biasucci Una sola moltitudine a cura di Gianluca Riccio. Procida 2022 è un progetto del Comune di Procida, sostenuto dal MiC e dalla Regione Campania con i fondi a valere sul POC Campania 2014-2020. Main sponsor è Voiello; gold partner Anm, Asl Napoli 2 Nord, Caremar, Eav, Snav e Trenitalia; bronze partner Coldiretti Campania e Marina di Procida. Media partner è Rai.  Dalla penombra degli ambienti di Palazzo d’Avalos trasformato in carcere all’intensa luce del paesaggio mediterraneo, che attraversa orti e giardini e si innalza fino alle nuvole, esaltandone il profilo grazie allo sguardo di uno dei grandi fotografi contemporanei che con il linguaggio tende un immagine diversa di Procida senza dimenticare negli usi e ne le tradizioni. In questi spazi che meravigliosi dove si vede ergere in tutta la sua bellezza il Palazzo della Cultura e nel contempo si può ammirare il famoso borgo di Terra Murata, una selezione di sessanta scatti in bianco e nero, realizzati sull’isola dal fotografo tra l’inverno e la primavera del 2022, accompagna il suo ritorno a Procida a distanza di trent’anni dall’esperienza al fianco di Antonio Neiwiller nel laboratorio che il grande regista e attore napoletano realizzò nella primavera del 1992 nella Casa degli aranci. Le immagini esposte, montate fuori da un ordine cronologico, accompagnano il visitatore insieme ai versi di una poesia di Davide Maria Turoldo in un viaggio immaginifico che attraversa l’interno dell’edificio simbolo di Procida, rigenerato attraverso gli eventi di Procida Capitale, posandosi su una moltitudine di scarpe, di indumenti, matasse e reperti particolarmente significativi e simbolici, che diventano testimoni di una condizione di vita. Dal carcere inteso come luogo di reclusione  Biasiucci si sposta al desiderio di liberta? e di evasione, in una dimensione onirica in cui le immagini suggeriscono visioni legate ai ricordi e ai desideri del detenuto. Come dichiara Agostino Riitano, direttore di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022 : “Con ‘Una sola moltitudine’ continuiamo il processo di sedimentazione di una rinnovata identità culturale per il borgo di Terra Murata, già assurto nei mesi scorsi a polo d’arte contemporanea con le grandi mostre ‘Sprigionarti’, con nomi internazionali come Jan Fabre, William Kentridge e Maria Teresa Alvez, e ‘The tending of the Otherwise’, curata dalla Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo. La mostra inedita di Biasiucci è un'ulteriore tappa dell'articolato e denso programma culturale che ha già abbracciato poetiche e talenti differenti, da Frank Bolter a Roberto Latini, da Leonardo Di Costanzo a Emanuele Trevi, da Michele Bravi a Liberato, e che inaugura ora la stagione delle esposizioni fotografiche, ospitando lo sguardo di un grande artista che si è fatto ispirare da Procida attraverso uno dei suoi luoghi più iconici, Palazzo d’Avalos”. Mentre il curatore Gianluca Riccio afferma:  “Interno ed esterno, ombra e luce, paesaggio naturale e paesaggio umano, fuori da ogni schematismo, sono inquadrati da Biasiucci in una stessa dimensione visionaria, come i termini di un corpo unico dalle molteplici facce. Gli ambienti dell’antico carcere – custodi della solitudine dei suoi passati abitanti e delle ore perdute nel chiuso delle sue celle – si aprono ad accogliere la mobilità delle forme del paesaggio mediterraneo; e il limite, una volta invalicabile, di quel luogo di reclusione e isolamento si trasforma nel punto di partenza per l’apertura verso una moltitudine di racconti”. In una mia ricerca storiografica sull’Isola di Procida oggi Capitale della Cultura Italiana apro il mio saggio dicendo : L'isola di Procida, di origine vulcanica, è situata tra Ischia ed il promontorio di Miseno ed è posta al limite occidentale del golfo di Napoli. Il rilievo più elevato è rappresentato dalla collina di Terra Murata , sovrastata da un borgo fortificato di origine medioevale . L'isola si trova a una distanza minima dalla terraferma ed è collegata da un piccolo ponte alla vicina isola di Vivara. Le sue coste, in alcune zone basse e sabbiose, altrove a picco sul mare, danno vita a diverse baie e promontori che offrono riparo alla piccola navigazione e hanno permesso la nascita di ben tre porticcioli sui versanti settentrionale, orientale e meridionale dell'isola. Dal punto di vista geologico, l'isola è completamente di origine vulcanica, nata dalle eruzioni di almeno quattro diversi vulcani , oggi completamente spenti e in gran parte sommersi. Per modalità di formazione e morfologia, l'isola di Procida si avvicina dunque moltissimo alla zona dei Campi Flegrei, di cui fa geologicamente parte. L'isola è infatti formata principalmente da tufo giallo e per il resto da tufo grigio, con tracce di altri materiali vulcanici quali, ad esempio basalti. Il legame con i vulcani sottomarini è ricordato da Plinio, secondo il quale il nome deriverebbe dal verbo greco prochyo, in latino profundo: l'isola sarebbe stata infatti profusa, messa fuori, sollevata dal fondo del mare o dalle profondità della Terra. In precedenza Dionigi di Alicarnasso, nel suo Archeologia Romana volle far derivare il nome da quello di una nutrice di Enea, da lui qui sepolta quando vi approdò. Secondo il mito greco qui avvenne inoltre la lotta tra i giganti e gli dei , e come Tifeo e Alcioneo finirono rispettivamente sotto il Vesuvio e Ischia, così Mimante fu posto sotto l'isola di Procida Recenti ritrovamenti archeologici sulla vicina isola di Vivara un tempo collegata a Procida fanno ritenere che l'isola fosse già abitata intorno al XVI - XV secolo a.C., probabilmente da coloni Micenei . Sicuramente, intorno al secolo VIII a. C . Procida fu abitata da coloni Calcidesi dell'isola di Eubea; a questi subentrarono in seguito i Greci di Cuma, la cui presenza è confermata sia da rilevamenti archeologici che dalla toponomastica di diversi luoghi dell'isola. Durante la dominazione romana, Procida divenne sede di ville e di insediamenti sparsi sul territorio; sembra comunque che in questa epoca non esistesse un vero e proprio centro abitato: l'isola fu più probabilmente luogo di villeggiatura dei patrizi romani e di coltura della vite. Giovenale, nella terza delle sue Satire , ne parla come di un luogo atto ad un soggiorno solitario e tranquillo. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, l'isola subì le devastazioni dei Vandali e dei Goti; non cadde invece mai in mano longobarda, rimanendo sempre sotto la giurisdizione del duca bizantino (poi autonomo) di Napoli, nel territorio della Contea di Miseno. In quest'epoca l'isola cominciava intanto a mutare radicalmente la sua composizione demografica, divenendo luogo di rifugio per le popolazioni in fuga dalle devastazioni dovute all'invasione longobarda prima e, in seguito, alle scorrerie dei pirati saraceni. In particolare, sembra che l'isola abbia accolto le ultime popolazioni in fuga dal porto di Miseno, distrutto dai Saraceni nell'850. Tuttavia, un documento databile tra il 592 e il 602 riguardante un tributo in vino lascia intuire come già in questa epoca esistesse.  Battaglia tra Giove ed i giganti sull'isola un insediamento stabile. Mutava radicalmente anche l'aspetto dell'isola: al tipico insediamento "diffuso" di epoca romana faceva posto un borgo fortificato tipico dell'età medievale. La popolazione si rifugiò infatti sul promontorio della Terra, naturalmente difeso da pareti a picco sul mare e in seguito più volte fortificato, mutando così il nome prima in Terra Casata e poi in quello odierno di Terra Murata. Con la conquista normanna del meridione d'Italia, Procida sperimentò anche il dominio feudale; l'isola, con annessa una parte di terraferma (il Monte di Miseno, poi detto Monte di Procida), venne assoggettata alla famiglia di origine salernitana dei Da Procida (che dall'isola presero il nome), che controllarono l'isola per oltre due secoli.  Di questa famiglia l'esponente di maggior spicco fu sicuramente Giovanni Da Procida, terzo (III) con questo nome, consigliere di Federico II di Svevia e animatore della rivolta dei Vespri Siciliani.  Durante la guerra del Vespro l'isola fu infatti controllata dalla flotta del re aragonese di Sicilia ben 14 anni, dal 1286 al 1299, pur subendo diversi assedi da parte degli angioini di Napoli, che riuscirono a rientrare a Procida solo quando, dopo la morte di Giovanni da Procida, il suo figlio secondogenito, Tommaso da Procida, passò nel campo angioino. Nel 1339, comunque, l'ultimo discendente dei Da Procida vendette il feudo (con l'isola d'Ischia) alla famiglia napoletana dei Cossa, famiglia di ammiragli fedele alla dinastia francese dei D'Angiò, allora regnante su Napoli. Dei Cossa, esponente di maggior rilievo fu Baldassarre Cossa , eletto antipapa nel 1410 con il nome (poi ignorato nella storiografia vaticana) di Giovanni XXIII.
In quest'epoca l'economia dell'isola rimaneva sempre prevalentemente legata all'agricoltura, con una lenta crescita delle attività legate alla pesca. Durante la dominazione di Carlo V a Napoli l'isola fu confiscata all'ultimo Cossa e concessa in feudo alla famiglia dei d'Avalos d'Aquino d'Aragona (1529) fedele alla casa d'Asburgo. Il primo feudatario fu appunto Alfonso d'Avalos , marchese del Vasto e generale di Carlo V, cugino di Fernando Francesco d'Avalos. Continuavano intanto anche in quest'epoca le scorrerie dei pirati saraceni, accentuate ulteriormente dalla lotta tra gli Ottomani e l'impero spagnolo. Molto documentata e cruenta in particolare fu l'incursione del 1534, ad opera del pirata Khayr al Din, detto il Barbarossa , conclusasi con devastazioni e con un gran numero di Procidani deportati come schiavi, e che volle poi ripetere l'impresa nel 1544. Il suo successore, Dragut , fece sì che l'isola fosse nuovamente devastata nel 1548, nel 1552, nel 1558 e nel 1562. Un'ulteriore incursione barbaresca è documentata nel 1585. Testimonianze di questo periodo sono le torri di avvistamento sul mare , diventate in seguito il simbolo dell'isola , una seconda cinta muraria attorno al borgo della Terra Murata e l'inizio della costruzione nel 1563 del Castello D'Avalos , ad opera degli architetti Giovan Battista Cavagna e Benvenuto Tortelli. Un miglioramento delle condizioni di vita nell'isola si ebbe tuttavia solo dopo la battaglia di Lepanto che ridusse di molto le attività della marina ottomana nel Mediterraneo occidentale, permettendo, finalmente, la nascita nell'isola di un'economia legata alla marineria. Nel XVII secolo l'isola venne occupata dalla flotta francese comandata da Tommaso Francesco di Savoia, sullo sfondo delle vicende legate alla rivolta di Masaniello e della nascita della seguente Repubblica. Con l'avvento dei Borbone nel Regno di Napoli, nel 1734, si aveva intanto un ulteriore miglioramento delle condizioni socio economiche dell'isola, dovuto anche all'estinzione della feudalità nel 1744 per opera di Carlo III, che inserì Procida tra i beni allodiali della corona, facendone una sua riserva di caccia. In questo periodo la marineria procidana si avvia verso il suo periodo di massimo splendore, accostando a questa anche una fiorente attività cantieristica: fino a tutto il secolo successivo, vengono varati nell'isola bastimenti e brigantini che affrontano la navigazione oceanica; verso la metà del XIX secolo circa un terzo di tutti i "legni" di grande cabotaggio del meridione d'Italia proviene da cantieri procidani . La popolazione ascende fino ad un massimo di circa 16000 persone sul finire del XVIII secolo, ovvero circa una volta e mezza la popolazione attuale. Nel 1799 Procida prende parte alle sommosse che portano alla proclamazione della Repubblica Napoletana; con il ritorno dei Borbone, pochi mesi dopo, dodici Procidani, tra i più influenti e in vista dell'isola, vengono impiccati per questo nella stessa piazza dove era stato issato l'albero della libertà. Negli anni successivi (e in particolare nel "decennio francese"), l'isola vede diverse volte la guerra passare sul suo territorio con pesanti scontri e devastazioni, a causa della sua basilare posizione strategica nella guerra sul mare, contesa tra Francesi e Inglesi; le cronache riportano che nel solo 1809 circa 4000 persone abbandonarono l'isola al seguito delle navi inglesi sconfitte al termine della sesta coalizione antifrancese. Anche per questi motivi, nel 1860 la caduta dei Borbone e l'unificazione italiana vengono accolte favorevolmente dalla popolazione. Il XX secolo vede la crisi irreversibile della cantieristica procidana, sotto la concorrenza dei grandi agglomerati industriali: l'ultimo grande brigantino procidano viene varato nel 1891. Nel 1907 inoltre, Procida, a seguito di un referendum, perde il suo territorio di terraferma, che diventa un comune autonomo denominato Monte di Procida. Nel 1957 l'isola viene raggiunta dal primo acquedotto sottomarino d'Europa, mentre negli ultimi decenni, la popolazione, fino agli anni Trenta decrescente, comincia lentamente a risalire. L'economia rimane in gran parte legata alla marineria accanto alla crescita, negli ultimi anni, dell'industria turistica. Il castello  fu costruito nel ‘500 insieme alle mura difensive dalla famiglia D’Avalos, governatori dell’isola fino al ‘700, dagli architetti Cavagna e Tortelli per volere del Cardinale Innico d’Avalos, e fu Palazzo Signorile e successivamente Palazzo Reale dei Borbone che, nel 1815 lo trasformarono in scuola militare e poi in carcere del Regno con successivi ampliamenti.
Ed è merito proprio dei D'Avalos se l'attuale Terra Murata è oggi visitabile, perché il borgo era accessibile solo dalla spiaggia dell’Asino dopo punta Lingua. Grazie a questo collegamento si ebbe lo sviluppo urbano dell’isola, con la nascita dell’insediamento del borgo della Corricella  e la realizzazione del Convento di Santa Margherita Nuova . Il Palazzo Signorile fu dal 1734 confiscato dai regnanti borbonici che istituiscono a Procida il primo sito venatorio reale divenendo sia per Carlo III, ma in particolare per Ferdinando IV, residenza reale per la caccia, prima della realizzazione di Capodimonte e della Reggia di Caserta. Il complesso monumentale, dopo essere stato Palazzo Reale dei Borbone, tra i 22 beni allodiali della Corona, nel 1815 venne trasformato in scuola militare e poi nel 1830 in carcere del Regno con successivi ampliamenti che vennero realizzati dal 1840 per la nuova funzione di bagno penale, fino all’Unità d’Italia, quando divenne carcere di massima sicurezza dello Stato italiano. Tutto ciò fino al 1988, anno in cui il carcere chiuse e rimase abbandonato per alcuni decenni, fino a che l'edificio e gli spazi che lo circondano tutt'ora non vennero acquisiti dal comune nel 2013, che continuò i lavori per la messa in sicurezza del percorso e l'apertura delle visite guidate per turisti e residenti. Il complesso Monumentale è costituito dal Palazzo D’Avalos, il Cortile, la Caserma delle guardie, l’Edificio delle Celle singole, il Padiglione delle Guardie, l’Edificio dei veterani, la Medicheria, la Casa del Direttore, il tenimento agricolo detto la Spianata di circa 18.000 mq.. Un sistema unitario ed inscindibile dalla emergenza monumentale rappresentata dal Palazzo d’Avalos che, travalicando l’interesse artistico e storico particolarmente importante per i suoi caratteri peculiari, che ne sanciscono l’appartenenza alla storia dell’architettura rinascimentale, assume anche il valore di testimonianza della storia politica, militare e urbanistica dell’isola. Il fatto che il Palazzo sia stato voluto dal colto Signore del Rinascimento, improntandolo a canoni di bellezza, e abitato da Carlo III di Borbone, re illuminato, fa contrasto con il luogo di pena che poi divenne: oggi una semplice visita lo rivela come un posto unico, un luogo dell’anima, in cui si avverte una forte tensione emotiva. Infatti nell’ex carcere tutto è ancora lì, tra le celle e gli androni rinascimentali, consunto e fermato dal tempo: le vecchie divise, le scarpe sul pavimento polveroso e poi le brande arrugginite, le balle di cotone un tempo lavorate nell’opificio, e finanche il lettino per gli interventi ambulatoriali. Tutto giace uguale a se stesso, ma in fondo no, sotto la bellezza mai davvero decaduta di ampie volte e capitelli. Nel 1978 venne chiuso il carcere vecchio (Palazzo d’Avalos) e nel 1988 definitivamente abbandonato anche il carcere nuovo.La storia recente dell’isola s’intreccia con quella del “Bagno penale”, nome originale dato da Ferdinando II, il quale alludeva, non certo alla possibilità dei reclusi di godere della contigua spiaggia della Chiaia, bensì perché con la detenzione ci si lavava delle proprie colpe. Ospiti illustri sono stati il duca patriota Sigismondo Castromediano, a cui si deve la lapidaria frase sul penitenziario: “Un centro di orrore in un cerchio di bellezza”, il principe guerriero Junio Valerio Borghese, insignito per le sue ardite imprese di ben 26 medaglie d’oro al valor militare, il maresciallo Rodolfo Graziani, a lungo capo di Stato maggiore dell’Esercito, Giovanni Ansaldo, il mitico direttore de Il Mattino e tanti altri personaggi, da Cesare Rosaroll a Luigi Settembrini, i quali hanno saggiato l’opera di redenzione attraverso l’esercizio di umili lavori artigianali, dalla falegnameria alla tessitura del lino, oltre naturalmente alla coltivazione dei terreni limitrofi al penitenziario. Ebbi l’opportunità di ammirare lo spettacolare panorama  e di visitare il complesso poco prima che venisse chiuso all’improvviso nel 1988, grazie all’amicizia con l’allora direttore Greco e ricordo ancora con commozione la lapide posta all’ingresso del piccolo cimitero: “Qui finisce la legge degli uomini e comincia la legge di Dio”, perché all’epoca, anche dopo la morte, gli ergastolani non potevano allontanarsi dall’isola e la “carogna” doveva riposare nel contiguo cimitero. Dopo la chiusura, il complesso è precipitato in condizioni pietose, nonostante potrebbe rappresentare una cospicua risorsa per l’economia isolana e solo di recente è diventato meta di visite guidate. La memoria narrante è quella di Giacomo Retaggio, che per 25 anni è stato medico del carcere e anche psicologo, ma soprattutto custode di aneddoti e storie, legate alle vite dei 500 detenuti, di cui 50 ergastolani, che hanno abitato queste mura. Tra queste stesse mura, che sono state anche utilizzate come set cinematografico, nel 1971, quando Nanni Loy girò parte del film "Detenuto in attesa di giudizio", con protagonista Alberto Sordi. Camminando tra le enormi stanze della struttura di Terra Murata, sembra che il tempo si sia fermato e non è difficile imbattersi in giacche e scarpe impolverate abbandonate lì dagli ultimi reclusi, che li adoperavano e li trovavano lavati una volta al mese sulle brandine. L'intera visita dura circa due ore, dopo aver ammirato il vetusto edificio dal mare  si varca l’ingresso  si attraversa il cortile , si ammira la facciata rinascimentale del nobile palazzo , la caserma delle guardie, l’edificio delle celle singole, l’edificio dei veterani, la medicheria  e il tenimento agricolo , dove nasceranno orti sociali. E come non notare anche quel che resta della camionetta che accompagnava i nuovi prigionieri dal porto, proprio come la descriveva Elsa Morante nel suo romanzo "L’isola d’Arturo", attraverso gli occhi del giovane protagonista. Gli esterni sono in condizioni pietose , ma non sono inferiori agli interni, con lunghi corridoi , stanzoni con brandine arrugginite  e vecchi tavoli da lavoro . Un luogo unico tra la bellezza del monumento rinascimentale e la durezza del luogo di pena che apre al pubblico diventando luogo comune, grazie a un lavoro collettivo e dal basso delle benemerite associazioni, che conducono i visitatori, avvertendoli:” Lasciate ogni speranza voi che entrate” . La mostra, concepita come una partitura visiva costruita con le fotografie realizzate nel corso della sua residenza a Procida, segna il ritorno di Biasiucci sull’isola a distanza di trent’anni dall’esperienza al fianco di Antonio Neiwiller nel laboratorio che il grande regista e attore napoletano realizzò nella primavera del 1992 nella Casa degli aranci.  Le immagini esposte, montate fuori da un ordine cronologico, accompagnano il visitatore in un andamento scandito dall’oscillazione continua tra la penombra degli ambienti dell’antico carcere di Palazzo d’Avalos e l’intensa luce del paesaggio mediterraneo, come negli scatti dedicati al profilo delle nuvole.  Interno ed esterno, ombra e luce, paesaggio naturale e paesaggio umano, fuori da ogni schematismo, sono inquadrati da Biasiucci in una stessa dimensione visionaria, come i termini di un corpo unico dalle molteplici facce. Gli ambienti dell’antico carcere – custodi della solitudine dei suoi passati abitanti e delle ore perdute nel chiuso delle sue celle – si aprono ad accogliere la mobilità delle forme del paesaggio mediterraneo; e il limite, una volta invalicabile, di quel luogo di reclusione e isolamento si trasforma per il fotografo casertano nel punto di partenza per l’apertura verso una moltitudine di racconti. Su tale piano mobile, Biasiucci dispone a contatto le tracce della presenza dell’uomo e le forme della natura: le une e le altre – antichi abiti di detenuti e limoni, piante di fico e corpi di giovani donne, gabbiani in volo ed enormi gomitoli di stoffa – immaginate come termini di un’unica scrittura visiva. In questo scorrere ciclico, scandito dal sovrapporsi di tempi lontani, l’intera sequenza delle immagini che compongono la mostra Una sola moltitudine, appare attraversata da una sottile tensione narrativa; come se, nel punto di vista dei detenuti un tempo rinchiusi in quegli antichi luoghi e nella loro condizione – esistenziale e visuale –, lo sguardo di Biasiucci abbia rintracciato lo spazio per l’esercizio di una inedita vitalità creativa. Proprio da tale consapevolezza – dell’impossibilità per la fotografia di circoscrivere il mondo fisico e degli occhi di chi è detenuto di abbracciare il paesaggio naturale – le singole fotografie che compongono questo nuovo progetto di Antonio Biasiucci sembrano trarre il loro inedito equilibrio formale, e la possibilità di far incontrare forme contigue ma separate e distanti, riunendo in un’unica cornice il visto e l’immaginato, il chiuso e l’aperto dello sguardo.  
 
 
 
Biografia di Antonio Biasiucci
Nasce a Dragoni (Caserta) nel 1961. Nel 1980 si trasferisce a Napoli, dove comincia un lavoro sugli spazi delle periferie urbane e contemporaneamente una ricerca sulla memoria personale, fotografando riti, ambienti e persone del paese nativo. Nel 1984 inizia una collaborazione con l’Osservatorio vesuviano, svolgendo un ampio lavoro sui vulcani attivi in Italia. Nel 1987 conosce Antonio Neiwiller, attore e regista di teatro: con lui nasce un rapporto di collaborazione che durerà fino al 1993, anno della sua scomparsa. Fin dagli inizi la sua ricerca si sviluppa come un viaggio dentro gli elementi primari dell’esistenza. Numerosissime le mostre personali e le partecipazioni a mostre collettive, a festival e rassegne nazionali e internazionali. Ha collaborato inoltre a diversi progetti editoriali, e ha partecipato a importanti iniziative culturali di carattere sociale. Nel 2012 fonda il Lab per un laboratorio irregolare, un percorso per giovani fotografi, a cui trasmettere un metodo di costante approfondimento e critica del proprio lavoro. Attualmente insegna “Fotografia come linguaggio artistico” all'Accademia di Belle Arti di Napoli e all'Accademia di Belle Arti di Roma e all’Università Iulm di Milano. Ha ottenuto importanti riconoscimenti, tra cui, nel 1992, ad Arles, il premio “European Kodak Panorama”; nel 2005 il “Kraszna/Krausz Photography Book Awards”, per la pubblicazione del volume Res. Lo stato delle cose (2004) e, nello stesso anno, il “Premio Bastianelli”; nel 2016 Premio Cultura Sorrento, nel 2020 la menzione d'onore per il libro “Molti” in occasione del “Premio Bastianelli”; nel 2021 riceve il “Premio Amato Lamberti” e il “Premio Gli Asini di Goffredo Fofi”. Biasiucci è stato invitato fra gli artisti del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2015. Molte sue opere fanno parte della collezione permanente di musei e istituzioni, in Italia e all’estero, tra cui: Istituto nazionale per la grafica, Roma; MAXXI, Roma; PAN Palazzo delle Arti, Napoli; MADRE-Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina, Napoli; Metropolitana di Napoli; Galleria Civica di Modena; Museo di fotografia contemporanea Villa Ghirlanda, Cinisello Balsamo (Milano); Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per l’Arte Contemporanea, Guarene (Cuneo); Fondazione Banco di Napoli; Collezione Banca Unicredit, Bologna; Bibliothèque nationale de France, Parigi; Maison Européenne de la Photographie, Parigi; Château d’Eau, Tolosa; Musée de l’Elysée, Losanna; Centre de la Photographie, Ginevra; Fondazione Banca del Gottardo, Lugano; Centre Méditerranéen de la Photographie, Bastia; Galerie Freihausgasse, Villach (Austria); Departamento de investigación y documentación de la Cultura Audiovisual, Puebla (Messico), Mart, Rovereto; Pio Monte Della Misericordia, Napoli; Fondazione Modena per la fotografia, Modena; Farnesina, Ministero degli esteri, Roma; Palazzo Reale, Caserta; Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), Roma.
 
Palazzo d’Avalos Procida
Antonio Biasucci Una sola moltitudine
dal 28 Luglio 2022 al 29 Settembre 2022
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 13.00 e
dalle ore 16.00 alle ore 19.00
Ingresso Libero