Giovanni Cardone Gennaio 2023
Fino al 16 Marzo si potrà ammirare presso il Complesso Museale di Santa Maria della Scala Siena la mostra Vivian Maier. The Self-Portrait and its Double a cura di Anne Morin e Loredana De Pace. L’esposizione è composta da novantatre autoritratti che attraversano la misteriosa vita dell’artista americana. La mostra ripercorre l’opera della famosa tata-fotografa che, attraverso la fotocamera Rolleiflex e poi anche con la Leica, trasporta i visitatori per le strade di New York e Chicago, dove i continui giochi di ombre e riflessi mostrano la presenza-assenza dell’artista che, con i suoi autoritratti, cerca di mettersi in relazione con il mondo circostante. In una mia ricerca storiografica e scientifica che è divenuta modulo monografico e seminario universitario sulla figura di Vivian Maier che ha lasciato una tracce indelebile nella storia della fotografia contemporanea.

Apro questo saggio dicendo : Che nel ventennio che intercorse tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti d?America furono teatro di forti e importanti cambiamenti nella percezione del ruolo delle donne. Inimmaginabili libertà personali e politiche, che coinvolgevano il comportamento in pubblico, il modo di vestire più libertino e meno costretto, la possibilità di fumare e bere alcolici, l?opportunità di competere con gli uomini in campo professionale ed economico, diventarono d?un tratto appagante realtà. Ma, nonostante queste dirompenti conquiste sociali, il fondamentale contributo che queste stesse donne avevano profuso prima del conflitto mondiale al fine di risvegliare lo spirito femminista messo a tacere in una società prevalentemente patriarcale, continuarono ad essere clamorosamente accantonate, forse eclissate da problemi sociali ed economici ritenuti più urgenti. Fu allora che vennero abbandonati i concetti di femminilità, eleganza e grazia intrinseche comunemente assunti come giustificazione alla quantità sempre maggiore di donne nel campo della fotografia. Le fotografe stesse iniziarono a pretendere di essere giudicate in primo luogo in base alle loro abilità tecniche, anziché in base al sesso, così da poter competere con i colleghi maschi su un piano il più possibile paritario. Le battaglie, però, non diedero i frutti sperati, e lo dimostra il fatto che i salari e le condizioni lavorative sperimentate dalle donne rimanessero iniqui rispetto alla controparte maschile. Le ingiustizie e le barriere in cui le professioniste della fotografia spesso incorsero negli anni successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale, non impedirono loro di impegnarsi con ostinazione e abnegazione nell’arte visiva moderna per eccellenza, sia in qualità di professioniste, che di artiste indipendenti. Il ritratto a fini commerciali si confermò il modo più semplice e remunerativo per le aspiranti fotografe di avere accesso al mondo fotografico. Anche donne di colore e Afro-americane riuscirono passo passo ad acquisire l?esperienza necessaria per avere successo in un genere, ed eventualmente aprirsi anche ad altri. I miglioramenti ottenuti nelle tecniche di stampa delle immagini resero molto celebre e popolare il ritratto fotografico delle celebrità, pratica in voga già da inizio secolo , a riconferma della straordinaria lungimiranza tipica della fotografia statunitense.

Tra le ritrattiste più celebri di questo periodo, non può essere trascurata Doris Ulmann la quale si dedicò prevalentemente a visi che rappresentassero un popolo, una cultura, uno specifico modo di vivere, in modo da poter catturare l’espressione di un gruppo sociale, e consegnarne al tempo le sembianze, che altrimenti rischiavano di andare irrimediabilmente perdute. Le tendenze moderniste si diffusero in questo periodo storico anche nel Nord America, così come in Europa. Molte fotografe per passione, però, esitarono ad abbandonare i dettami pittorialisti, probabilmente perché ben integrate nell’organizzazione chiamata Pictorial Photographers of America (PPA). Il PPA fu fondato nel 1916 da Clarence White, il quale era impegnato nel promuovere principi egualitari nei confronti delle donne, predisponendo così un ambiente favorevole e accogliente nei confronti dei membri di sesso femminile.
Questo gruppo, inoltre, era schierato artisticamente con la posizione di chi esalta il ruolo della bellezza come elemento imprescindibile nell’espressione fotografica, e contrastava di conseguenza le idee moderniste e più dirette portate avanti da Alfred Stieglitz e Paul Strand. L?associazione era anche attiva nell?organizzare periodicamente esposizioni di opere realizzate dai propri membri, nonché nel promuovere il proprio linguaggio artistico attraverso la pubblicazione annuale di una rivista. Il ben radicato movimento pittorialista emergeva anche in occasione di mostre messe in piedi da altri gruppi fotografici dislocati in varie parti del Paese. I soggetti più battuti da parte delle fotografe dell?epoca erano abbastanza tradizionali: ritratti, paesaggi, nature morte, semiastrazioni, immagini di bambole.

Quando, negli anni ?20 del XX secolo, le barriere precedentemente alzate tra l?arte pura e le immagini prodotte a fini commerciali furono finalmente eliminate, i due ambiti si mescolarono, rendendo lecita la pratica di realizzare immagini di alto livello estetico e artistico destinate poi alla vendita e promozione di beni di consumo. In questo rinnovato contesto culturale, l?industria pubblicitaria iniziò a fare puntuale ricorso alle fotografie e ad uno stile visivo avanguardisticamente modernista per portare all’attenzione delle masse i propri prodotti. Sebbene il settore pubblicitario fosse inizialmente dominato da uomini, anche le donne riuscirono a ricavarsi uno spazio dignitoso grazie all?incremento del potere d?acquisto di consumatrici di prodotti per la casa. Tra le fotografe che ottennero successo in campo pubblicitario ignorando la riduttiva ed obsoleta divisione tra arte e commercio, non possono essere dimenticate Margaret Watkins , Sara Parsons e Wynn Richards . Ciascuna a modo proprio e con uno stile personale, i riconoscimenti ottenuti da queste artiste dimostrarono che anche le donne possedevano la capacità di pensare in modo astratto, di valorizzare le caratteristiche dei prodotti, e di far appello ai desideri delle masse. Contemporaneamente all’impegno in ambito pubblicitario, alcune fotografe investirono energie anche nell?adiacente industria della moda, raggiungendo buoni risultati, ma non riuscendo a porsi ad un livello di equità rispetto ai colleghi uomini. La costa occidentale degli Stati Uniti era meno vivace dal punto di vista culturale, e offriva minori chance di successo per le donne devote alla fotografia. La principale via per raggiungere la popolarità e guadagnarsi da vivere, era offerta dal genere del ritratto. Oltre a ciò, le fotografe decise a non spostarsi verso Est in cerca di fortuna trovavano impiego come ritoccatrici in studi di fotografia, altre si dedicavano a scatti di stampo architettonico, o al settore dell’illustrazione di libri. Sebbene le possibilità di perseguire una brillante carriera fotografica fossero relativamente contenute, uomini e donne di area Pacifica furono attivi nel sostenersi a vicenda nella strada verso il successo.Uno dei più riusciti esempi in tal senso, fu il Group , fondato nel 1932 da Edward Weston, Ansel Adams e Dorothea Lange tra gli altri, allo scopo di facilitare l?interazione tra fotografi e, quindi, aumentare auspicabilmente le possibilità di far conoscere i lavori di ciascuno attraverso esposizioni e mostre in musei e gallerie. Celeberrime fotografe che operarono nell?America occidentale negli anni tra i due conflitti mondiali, sono Imogen Cunningham e Laura Gilpin . Originaria di Seattle, molto devota allo stile modernista, Cunningham individuò il proprio linguaggio figurativo prevalentemente nelle piante, che era solita inquadrare in modo inusuale e ravvicinato, così da far perdere allo spettatore le rassicuranti coordinate spazio-temporali.

Punto focale della sua ricerca fu anche la figura umana nella sua nudità, spesso affrontata con un modernismo non privo di accenti pittorialisti, che contribuisce a collocare le sue immagini in un territorio di confine tra realtà e sogno. Ciò che risalta nell?opera di Cunningham è il legame tra fotografia artistica e ambienti privati, così da rivalutare, agli occhi dello spettatore, anche l?oggetto più banale e quotidiano. I paesaggi dell’Ovest e del Colorado, costituiscono il materiale primario dell’interesse fotografico di Laura Gilpin, la quale realizzò anche ritratti e nature morte floreali. Indifferente alle critiche della comunità fotografica maschile, Gilpin si orientò verso nuovi soggetti sempre alla ricerca di terreni inesplorati da sondare, e provvide da sola alle proprie pubblicazioni. Gli anni 30 portarono con sé importanti cambiamenti dal punto di vista sociale e soprattutto economico, a causa della Grande Depressione che colpì gli Stati Uniti a seguito del tracollo finanziario del 1929. La crisi e la povertà che conseguirono a quel drammatico periodo storico, si abbatterono sul popolo americano con una tale brutalità che tutti gli aspetti della vita e le manifestazioni culturali del Paese ne furono coinvolti e influenzati. La fotografia non fu da meno. Un nuovo corso rispetto alle tematiche affrontate dagli artisti dietro l’obbiettivo iniziò evidentemente a delinearsi, mantenendo inalterato però il ricorso allo stile modernista, al quale fu affidato il compito di porre l?accento sulle sfumature più intime del dramma vissuto dagli americani in quegli anni. Non a caso la nuova tendenza, spesso sostenuta e incoraggiata dal governo e dalle agenzie federali per rendere evidente la necessità di riforme solide, fu definita realismo documentario. Due sono i nomi delle fotografe più celebri e attive nell’offrire uno sguardo documentario, anche se a tratti struggente, sulla situazione sperimentata dai propri concittadini: Margaret Bourke-White e Dorothea Lange . Bourke-White rappresentava una donna nuova, disincantata rispetto all’iniziale entusiasmo collegato all’industrializzazione, non intimorita da alcuna sfida, ambiziosa nel proprio progetto di carriera lavorativa e battagliera per il riconoscimento dei propri diritti eguali a quelli dei fotografi maschi. La donna collaborò con la rivista Life dal 1936 anno della sua fondazione al 1969, realizzando in questo periodo prolifico anche un reportage di guerra. Dorothea Lange iniziò la propria carriera in qualità di ritrattista, ma poi abbandonò questa strada fruttuosa per rivolgere la propria attenzione a tematiche più impellenti per il Paese in cui viveva. Fu allora che decise di lasciare San Francisco per catturare le immagini di persone disperate, rimaste senza terre e possedimenti, che si spostavano verso Ovest in cerca di fortuna. Il desiderio di Lange era evidentemente quello di vivere attraverso la fotografia i problemi della gente comune, della classe operaia, degli agricoltori, delle donne con famiglia. Il suo nome è strettamente collegato al progetto governativo della Farm Security Administration, per il quale fu scelta e che la tenne lontano dai suoi figli per fotografare i volti del proprio tempo e le immagini di un’America in ginocchio. Lo stile modernista la aiutò a cogliere le espressioni facciali più intense e le difficoltà insormontabili affrontate quotidianamente dai suoi soggetti. La sua ricerca è riuscita nella notevole impresa di coniugare il formalismo a volte freddo del modernismo con lo stile documentario del nuovo realismo. Gli straordinari esiti creativi di queste e molte altre artiste che si adoperarono nello stile documentaristico, trovarono un adeguato sbocco, nel corso degli anni ‘30, in giornali di fama internazionale, quali Life e Look. In particolare, divenne evidente il ruolo di primo piano che il fotogiornalismo in rosa avrebbe rivestito negli anni a seguire, quando la copertina del primo numero della rivista Life, risalente al 1936, diede spazio ad un’immagine realizzata da Margaret Bourke-White, già inserita a pieno titolo nello staff giornalistico. Ma la figura che stravolge la fotografia è stata certamente Vivian Maier che inizia a fotografare grazie alla passione che le ha trasmesso un’amica della madre, fotografa professionista, da cui la ragazzina e la madre stessa sono ospiti in seguito alla separazione dei genitori.
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La giovane fotografa viaggia e trasloca parecchie volte durante la sua crescita e all’incirca a
25 anni torna in Francia, terra natia della madre e luogo in cui ha vissuto per un periodo della sua infanzia, dove nell’attesa di vendere all’asta un terreno di sua proprietà decide di fotografare i propri parenti di quella regione. A Chicago ci arriva trentenne e lì comincia a lavorare dai Gensburg come bambinaia. Secondo le testimonianze, quella della bambinaia non è la massima aspirazione di Vivian, ma non sapendo fare altro e con l’amore dimostratole dai bambini, continua a farlo per i successivi quarant’anni. Dai Gensburg ha un
bagno privato, che lei ben presto trasforma in
camera oscura. Nelle sue foto racconta i bambini, le strade, la vita quotidiana dai benestanti agli emarginati, ma anche gli autoritratti, soprattutto nei riflessi con la macchina fotografica in mano.
Tra il 1959 e il 1960 decide di partire da sola per un viaggio di sei mesi, visitando le Filippine, la Thailandia, l’India, lo Yemen, l’Egitto, l’Italia, per poi concludere il suo viaggio ancora una volta in Francia. Dopo 17 anni di lavoro presso i Gensburg i bambini sono cresciuti e Vivian deve cambiare famiglia. In quel periodo cambia anche approccio alla fotografia: smette di scattare con Rolleiflex e di sviluppare i relativi negativi in bianco e nero per
passare alla fotografia a colori con Kodak, Leica, ma non solo. Quello che di tutto il lavoro della Maier è straordinario, è questo sguardo estremamente moderno ancora oggi, mai scontato, con una consapevolezza inspiegabile da parte dell’autrice. Normalmente un fotografo cresce nel proprio sguardo e nel proprio linguaggio soprattutto perché in grado di analizzare il proprio lavoro con occhio critico e costruttivo, oltre che per una crescita personale. Vivian Maier questo percorso l’ha fatto, ma senza spesso vedere le proprie immagini oltre all’istante prima di premere l’otturatore.
Il percorso di crescita dell’autrice è evidente negli anni, sviluppando quelle foto che lei stessa non ha mai visto. Vivian Maier negli ultimi anni della sua vita ha dei grossi problemi finanziari, di lei si prendono cura i fratelli Gensburg fino alla sua morte nel 2009. Il percorso che accompagna il visitatore lungo la mostra suddiviso in tre sezioni: la prima è dedicata a “L’OMBRA”, intesa come autorappresentazione: un tema che attraversa il lavoro di Vivian Maier sin dai suoi esordi, nei primi anni Cinquanta, fino agli anni Novanta. “Miss Viv” ha continuato a sviluppare un registro compositivo di grande ricchezza ed estrema complessità, combinando queste scoperte estetiche insieme alle categorie chiave dell’ombra, del riflesso e dello specchio. Ed e proprio con “IL RIFLESSO”, a cui è dedicata la seconda sezione, che Vivian Maier reinterpreta il campo lessicale della fotografia attraverso l'idea di auto-rappresentazione. L’autrice usa mille stratagemmi per collocare sé stessa al limite tra il visibile e l’invisibile, il riconoscibile e l’irriconoscibile. I suoi lineamenti sono sfocati, qualcosa si interpone davanti a loro o li rimanda altrove, si apre su un fuori campo o si trasforma davanti ai nostri occhi. Il suo volto ci sfugge ma non la certezza della sua presenza nel momento in cui l’immagine viene catturata. Ogni fotografia è un gioco a nascondino. Ogni fotografia è di per sé un atto di resistenza alla sua invisibilità. Infine la sezione e dedicata a “LO SPECCHIO”, un oggetto che appare spesso nelle immagini di Vivian Maier. È frammentato o posto di fronte a un altro specchio oppure posizionato in modo tale che il suo viso sia proiettato su altri specchi, in una cascata infinita. È lo strumento attraverso il quale affronta il proprio sguardo, questo “Io” davanti a “Me”. Una mostra che racconta numerose e diverse sfaccettature di un’autrice che resta ancora oggi avvolta da un alone di mistero. Vivian Maier (1926-2009) ha lavorato come tata, dai primi anni Cinquanta e per oltre quarant’anni, a New York e poi a Chicago.Tutta la sua vita è trascorsa nell’anonimato, fino al 2007 quando il suo corpus fotografico è venuto alla luce. Si tratta di un lavoro enorme e impressionante, composto da oltre 120.000 negativi, pellicole super 8 e 16mm, varie registrazioni audio, alcune fotografie e centinaia di rullini non sviluppati. Il suo hobby divorante ha finito per renderla una delle più acclamate fautrici della fotografia di strada al punto che nella Storia della Fotografia compare a fianco di autori del calibro di Diane Arbus, Robert Frank, Helen Levitt e GarryWinogrand. Nelle splendide immagini in mostra vedremo la seconda metà del Novecento con gli occhi e negli occhi di un’icona della storia della fotografia: in una location quanto mai affascinante quale quella della Corticella che torna aperta al pubblico proprio in questa occasione.
Complesso Museale di Santa Maria della Scala – Siena
Vivian Maier. The Self-Portrait and its Double
dal 16 Dicembre 2022 al 16 Marzo 2023
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00