Giovanni Cardone Ottobre 2025
Fino al 15 Febbraio 2026 si potrà ammirare al Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto di Torino la mostra dedicata al Movimento Spazialista ‘Da Fontana a Crippa a Tancredi. La formidabile avventura del Movimento spazialista’ a cura di Nicoletta Colombo, Serena Redaelli, Giuliana Godio e con la consulenza scientifica di Luca Massimo Barbero. Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto prosegue da anni la sua ricerca sull’arte italiana del Novecento e intende indagare sul ruolo dello Spazialismo nel rinnovamento artistico dell’immediato secondo dopoguerra. La mostra, che raccoglie 24 maestri rappresentati da circa 50 opere provenienti da musei, raccolte istituzionali e private, si apre con Lucio Fontana, per proseguire con Roberto Crippa, artista in dialogo con le tendenze internazionali del gesto e del segno, interpretate in formule vorticose, spiraliformi e dinamiche, riflessi del personale vitalismo e della passione per il volo acrobatico, con escursioni nel riferimento al surrealismo e al primitivismo totemico. La trasformazione dell’arte italiana iniziata nella seconda metà degli anni quaranta è inimmaginabile senza l’approccio concettuale al problema dello spazio, individuato, in pittura, da segni-base, linee, buchi e tagli nelle tele. Questo cambiamento trova in prima linea i protagonisti del Movimento spazialista, affascinati da una nuova visione del cosmo, sintetizzata nei manifesti usciti tra il 1947 e il 1958.
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Fondamentale è il sodalizio tra Lucio Fontana (1899-1968), artista e autore dell’interpretazione dello spazio allusiva a una nuova dimensione immateriale, e Carlo Cardazzo collezionista, editore e illuminato mercante d’arte, titolare delle prestigiose Galleria del Cavallino di Venezia e Galleria del Naviglio di Milano. Lo Spazialismo, o “concetto spaziale dell’arte”, coinvolge l’interesse di intellettuali, letterati, scrittori, poeti, che riconoscono in Fontana un leader provocatore e rivoluzionario: ideatore dal 1949 delle sperimentazioni sui buchi, costellati da un ordito di materie (pietre, sabbie, vetri colorati) in cui il vuoto diventa elemento costruttivo di un nuovo cosmo, dopo il 1958 prosegue la sua ricerca con i tagli, noti come Concetti spaziali-Attese, ricchissimi di varianti, realizzati con l’intento di introdurre fisicamente la tridimensionalità in pittura. In una mia ricerca storiografia sul Movimento Spazialista e sulle figure di Fontana, Crippa e Tancredi apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che con il termine
Spazialismo si vuole indicare una tendenza artistica che nacque ufficialmente in
Argentina ma si definì in
Italia negli anni Cinquanta. La nascita del movimento è indissolubilmente legata al nome di
Lucio Fontana. A Buenos Aires, nel 1946, l’artista iniziò a fissare le basi della
poetica spazialista. Tornato in Italia l’anno dopo, ebbe modo di continuare a lavorare in questa direzione grazie allo scenario culturale che vi trovò; nonostante si trattasse di uno momento post bellico, non incontrò una situazione povera, ma ebbe modo di vivere una stagione molto intensa e creativa, che portò l’Italia al pari degli altri paesi europei. Negli anni Cinquanta in Italia gli esiti artistici furono essenzialmente l’Astrazione e l’Informale: spesso gli artisti attraversarono varie fasi, passando inevitabilmente dalla figurazione neocubista e picassiana. In questo senso,
Lucio Fontana testimonia una serie di fonti italiane che non ebbero a che fare con il
Surrealismo o col
Cubismo. Infatti, l’artista fu appena toccato dal “picassismo” di quegli anni, rivolgendosi piuttosto a considerare lo slancio progressista pertinente alla poetica del
Futurismo. La definizione dello Spazialismo venne così strutturata da una serie di dibattiti che si svolsero a Milano, alla Galleria del Naviglio. Furono scambi che portarono alla stesura dei manifesti che Fontana firmò a partire dal 1947, col sostegno di altri intellettuali tra cui il critico
Giorgio Kaisserlian, il filosofo
Benjamino Joppolo e la scrittrice
Milena Milani. Il termine fa riferimento alla nuova
“era spaziale”, con gli sviluppi nel campo tecnologico e tutte quelle novità che permisero di disintegrare i limiti creati dalla materia e che condussero verso l’esplorazione della comunicazione via etere. Apparecchi come la
radio e la
televisione divennero modelli d’ispirazione, in quanto capaci di abbattere la tridimensionalità materiale per aprire una finestra sulla “quarta dimensione”. In questo senso, il movimento spaziale restituì pienamente il volto del proprio tempo, costituendo un resoconto della società di quegli anni che stava scoprendo le possibilità consentite dai nuovi mezzi. Data la nuova disponibilità di risorse, furono inevitabili nuovi atteggiamenti e nuovi modi di intendere e praticare l’arte. Al movimento spaziale aderirono artisti come Roberto Crippa , Enrico Donati, Gianni Dova, Tancredi Parmeggiani, Milena Milani. Ebbero qualche esperienza spazialista anche artisti come Giuseppe Capogrossi, Ettore Sottsass, Alberto Burri, Enrico Castellani e Agostino Bonalumi, “L’arte si trova in un periodo latente. C’è una forza che l’uomo non può manifestare. Lucio Fontana, comunemente conosciuto come l’artista dei “Tagli” e dei “Buchi”, nasce scultore ed è tale almeno per i primi venticinque anni di attività. È solo all’età di cinquant’anni, infatti, che inizia a forare le sue tele ed è solo a sessant’anni circa che inizia a praticare su di esse i suoi celebri tagli. La stessa azione di perforare o lacerare la tela, per cercare un altro spazio, una terza dimensione, non può essere definita pittura in senso classico. Invero, pur adoperando nel corso della sua carriera diversi mezzi e supporti, dal gesso alla terracotta, dalla ceramica al grès, dalla tela al legno, non è possibile distinguere un Fontana pittore dal Fontana scultore. Egli persegue “un’arte totale”, scegliendo di superare i limiti della forma e dei generei per sviluppare una maniera, uno stile, che non trova distinzione tra scultura, pittura o architettura, ma che ha la finalità di coinvolgere l’uomo nello spazio immateriale delle sue invenzioni.
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Ad intuire tale tratto distintivo è stato già Lionello Venturi che, in un articolo de “L’Espresso”, afferma: «è difficile parlare di Lucio Fontana (1899), che non si sa bene se sia più scultore o pittore, che ha una genialità senza limiti Forse la colpa è nostra, che non abbiamo sufficiente fantasia per seguirlo.» Se Fontana ha potuto definirsi come “artista spaziale” è perché ha scelto lo spazio come proprio raggio d’azione creativa e immaginativa. Questo primo capitolo ha, dunque, la finalità di delineare l’attività non marginale del primo Lucio Fontana scultore – se è possibile definirla tale, separandola da quella di pittore attraverso un’analisi storico-critica dagli inizi in Argentina presso l’atelier del padre, fino alle ultime sculture “missilistiche” realizzate sul finire degli anni sessanta, con l’intenzione di provare a delineare meglio come si sia sviluppata la sua tecnica in ceramica. Lucio Fontana nasce il 19 febbraio del 1899 a Rosario di Santa Fé, in Argentina. Il padre, Luigi Fontana, originario di Varese, era anch’egli scultore ed aveva avviato in Argentina una profittevole azienda specializzata in scultura cimiteriale e monumentale. È facile, quindi, comprendere come, fin da giovane, la formazione di Lucio sia orientata alla carriera artistica. Affidato allo zio matero, Tiziano Nicora, studia in Italia presso l’Istituto Tecnico Carlo Cattaneo di Milano scuola di capomastri e costruttori edili – e contemporaneamente al Liceo Artistico annesso all’Accademia di Brera. Nel 1916 è ammesso alla Scuola Superiore di Arti Applicate all’Industria, nel Castello Sforzesco, dove studia presso la sezione di architettura. Interrompe gli studi nello stesso anno per arruolarsi come volontario nell’esercito italiano, allora impegnato nella prima guerra mondiale. Qui raggiunge il grado di sottotenente di fanteria, ma a causa di un infortunio e del conseguente congedo ritorna a Milano dove, ripresi gli studi, ottiene il diploma di perito edile. Nel 1922, in seguito alla morte del fratellastro Delfo, figlio di seconde nozze del padre con Anita Campiglio, fa ritorno in Argentina, dove inizia a lavorare nell’azienda paterna, Fontana y Scarabelli. Nel 1924 vince un concorso, bandito dall’Università di Medicina del Litorale, con un bassorilievo commemorativo dedicato a Louis Pasteur e decide di mettersi in proprio aprendo uno studio personale in calle España 565, con la finalità di condurre una ricerca autonoma, indipendente dalla committenza e dall’influenza del padre. Il vero esordio professionale avviene nel 1925, quando partecipa all’ VIII Salòn de Bellas Artes di Rosario, nel quale espose l’opera Melodias «di fatto un ritratto femminile condotto in gagliardo e sommo plasticismo orientato all’accentuazione dell’espressività psicologica, diresti d’eco remota di matrice europea dopo Rodin, fra Bourdelle e Despiau» . Tuttavia, già l’anno dopo, nel Ritratto di Juana Zocchi, esposto nel I er Salòn de Artistas Rosarinos è evidente come la sua ricerca si sia orientata verso un rifiuto del modello tardo rodiniano dimostrando, di contro, un interesse per la scultura cubista a lui contemporanea, rappresentata all’epoca, in Argentina, da Antonio Sibellino, ispirato sia al lavoro di Bourdelle che a quello di Archipenko e Lipchitz. In questi primi anni di attività, quindi, l’arte di Fontana è orientata a un gusto ufficiale, dall’accento simbolista e tardo secessionista, come appare già in alcuni disegni realizzati per il numero di febbraio del 1925 del mensile “Italia”, edito dalla Società Dante Alighieri di Rosario di Santa Fe. In realtà sono due le principali influenze artistiche di questi anni: la prima è rappresentata dall’arte di Archipenko «che lo seduce per l’eleganza e la disinvoltura della forma», come già aveva rilevato Edoardo Persico, mentre la seconda dall’artista simbolista Aristide Maillol, messa in evidenza da Enrico Crispolti in tempi più recenti. Quella di Maillol è un’influenza priva delle citazioni alla mitologia classica, dove però emerge «una figurazione tendente ad accentuare valori plastici assoluti: un plasticismo denso e turgido, con una continua rotondità delle superfici levigate.» Solamente nell’opera La mujer y el balde è stato evidenziato un accento più classicheggiante; emerge, infatti, un plasticismo che predilige la figura, il volume e l’incidenza della luce. L’influenza del sodo plasticismo di Maillol risalta, con maggiore evidenza, in opere come Maternidad, Mary o ancora nel monumento El puerto de Rosario a Jauna Blanco. L’arte di Maillol rappresentava a quel tempo la restituzione di pienezza plastica in senso figurativo in contrapposizione al vitalismo rodiniano. Dall’altra parte, invece, la sintesi plastica dinamica e il sodo plasticismo di Archipenko, emergono in opere come un piccolo nudo del 1926, oppure in la Mujer y el balde, databile tra il 1926 ed il 1927. In entrambe le opere emerge un interesse verso volumi articolati liberamente nello spazio, a cui si unisce la stessa maniera di Archipenko di torcere le figure a cui si unisce un certo decorativismo ancora di ascendenza secessionista e déco. D’altro canto la presenza di Maillol non abbandona il giovane scultore quando, nel 1927, lascia la carriera, già avviata dal padre, nella città natale, per tornare in Italia, con il desiderio di aggiornarsi con le nuove tendenze culturali europee. Arrivato in Italia, scrive all’amico Julio Venzo: « sono a Milano da pochi giorni e già mi sento rinascere a nuova vita. Ieri sono andato a vedere l’Esposizione Permanente di Milano, in cui quest’anno prevalgono i novecentisti. La scultura è stata una delusione l’unico è Wuilt veramente meraviglioso, credo che se resto a Milano frequenterò il suo studio, si dà il caso che mio cugino architetto sia intimo amico di Wuilt . È grazie alle conoscenze del cugino, l’architetto Bruno Fontana, che Lucio inizia a frequentare lo studio dello scultore simbolista Adolfo Wildt, iscrivendosi successivamente ai suoi corsi di scultura, presso Accademia di Belle Arti di Brera, durante l’anno accademico 1927-28, dimostrando una maestria tale da essere promosso, a conclusione del primo anno, direttamente al quarto. L’arte di Wildt presenta una forte matrice romantica di impronta simbolista che risente, con riferimento ad esempio all’uso dell’oro e per l’esaltazione della superficie, delle Secessione Viennese; le sculture dell’artista italiano sono caratterizzate da superfici estremamente levigate e smaterializzate. Le prime opere milanesi di Fontana risentono molto dell’influenza del maestro, come si evince, per esempio, in El Auriga, presentata all’esame di diploma.
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Conosciuto anche come Eroe che doma il cavallo è già evidente come i passaggi dei paini, concavi e convessi, tipici dell’arte del maestro, si modulano nella luce con una sintesi che rivela una predisposizione all’ambientazione spaziale . Oggi perduti, ma visibili tramite una fotografia del suo studio in via Generale Genova 27, sono un Cristo in croce e un San Sebastiano, evidentemente di destinazione funeraria, dove nel gusto calligrafico del San Sebastiano, impostato su uno sfondo piatto, è visibile la lezione wildtiana. Di contro, l’articolazione spaziale della figura stilizzata e la composizione dei segni nello spazio rimandano ancora all’influsso di Archipenko. Queste opere dimostrano come Fontana sia, in questo primo periodo di attività, ancora impegnato nella scultura cimiteriale, soprattutto presso il Cimitero Monumentale di Milano. Questa esperienza rappresenta certamente una “palestra” utile per misurarsi con la scultura architettonica, ma, è, di contro, comunque legata al gusto della committenza e alla necessaria approvazione di una Commissione Tecnica, che ha il compito di verificare l’artisticità del progetto. Inoltre, il gusto dell’epoca è ancora di fortemente improntato al Decò e l’arte di Wildt è caratterizzata in massima parte da un linearismo secco, che rende l’immagine estremamente polita e levigata, quasi scarna. Testimonianza di questa attività è una Madonna in bronzo per la Tomba Mapelli, commissionata nel 1927, ma realizzata nel 1928, in collaborazione con il cugino Bruno ed Ercole Faccioli. La levigata fusione del bronzo denuncia l’influenza di Wildt, che in quel periodo è impegnato nella realizzazione di una Madre per il monumento Ravera, realizzato nel 1929, di cui Fontana ha sicuramente visto i disegni. Al Monumentale di Milano, Fontana lavora anche su commissione di Costantino Lentati alla realizzazione di due loculi. Il primo è quello per la madre, Emilia Pasta, mentre il secondo per la figlia Giuliana, morta precocemente all’età di tre anni. La Madonna Pasta appare la trasposizione in bassorilievo della Madonna Mapelli, qui la lezione del maestro emerge non solo nell’uso dell’oro, steso entro la cavità del marmo, ma soprattutto nella lavorazione dei piani fino alla trasparenza. Per la figlia del committente, Fontana esegue invece un grande Angelo con putto alato ricavato all’interno di una nicchia. Ancora figlia della scuola wildtiana è la politezza formale delle figure, le cui forme vengono quasi astratte e geometrizzate attraverso linee incise e un secco panneggio; ma nella grazia dei volti e nella leggiadria dell’intonazione è stata notata un’affinità con le figure di Giò Ponti e le ceramiche di Arturo Martini. Qualche tempo dopo, dallo stesso Lentati, gli è commissionata la tomba per il suocero Ettore de Medici, padre della moglie Maria, morto nel 1928. Questa è formata, secondo il progetto originario, dalla celebre scultura Dormiente, esposta successivamente alla II Sindacale Lombarda, che funge da coperchio ad un semplice sarcofago in granito. Considerata da Persico come realizzata «nel più puro stile novecentista», è stata accostata da Crispolti al sodo plasticismo di Maillol, mentre Paolo Campiglio la avvicina, per il primitivismo con cui viene delineato il volume della figura umana, alla produzione grafica di Domenico Rambelli. Inoltre, il senso plastico delle figure e la concezione primeva delle masse si avvicinano molto alla plastica di Mario Sironi, filtrata da altri artisti novecentisti attivi nel Cimitero Monumentale di Milano. Allo stile di Sironi e Carrà si accostano, ancora, i bassorilievi in bronzo posti ai lati del sarcofago e di cui ci rimangono i bozzetti in gesso. Il bassorilievo raffigurante ‘La famiglia’, se da un lato ricorda le composizioni di Carrà come l’Attesa o Le figlie di Lot, dall’altro rimanda alla scultura di Martini per la loro figurazione incerta e a tratti scabra e incisa. Mentre il secondo rilievo, quello rappresentante la Vedova, anticipa con il suo profilo squadrato quella che diventerà l’opera simbolo della rottura con l’arte del novecento, l’Uomo Nero, esposto nel 1931 alla sua prima personale milanese. Infine, in ambito cimiteriale, è da citare la Tomba Berardi che rappresenta “la sintesi plastica novecentista, nella compattezza dei volumi, nella sobrietà della composizione, nell’accordo preciso tra architettura e scultura”. In conclusione, la lezione di Wildt si scopre nell’uso dell’oro, costante sia in opere successive che in altri esempi di questo periodo, come nel caso del Ritratto di Teresina o del Fiocinatore. Come ha voluto ricordare Guido Ballo è proprio da Wildt, «che esasperava i piani concavi e quelli convessi, che facevi i buchi negli occhi», che si può individuare la matrice concettuale da cui Fontana trae l’dea prima dei Buchi e successivamente dei Tagli. Intorno ai primi anni Trenta, la ricerca di Fontana si sviluppa e si orienta, di fatto, su almeno tre fronti: le sculture in terracotta colorata del 1931 – 1932, le celebri tavolette graffite e una serie di rilievi in terracotta dalle forme anatomiche appena definite, che trovano il loro antecedente diretto nell’Uomo nero. È con quest’opera, in particolare, esposta tra gennaio e febbraio del 1931, alla sua prima mostra personale, presso la galleria del Milione, che avviene la rottura con l’arte del Novecento. Tale scultura rappresenta «il primo segno di liberazione, un primitivismo un po’ ingenuo e arbitrario» . Primitivismo non da ricondurre a quell’arcaismo culturistico della corrente tardo-metafisica italiana, che aveva in Arturo Martini il suo esponente di punta, ma piuttosto influenzata ancora della lezione di Ossip Zadikine e Archipenko. Purtroppo distrutta, dopo il secondo conflitto mondiale, l’opera è stata realizzata in gesso, sul quale è stato versato del catrame, «dove, in una compattezza di massa instaura motivi strutturali paralleli alla ricerca di Wotruba», cioè la stessa maniera, appunto, rendendo la figura quasi un solido geometrico. L’uomo nero è il superamento della lezione classica verso l’espressionismo, a cui è stato attribuito, tra l’altro, il significato del terrore di ciò che non c’è, lo specchio del non essere. La materia graffiata e incisa rimanda ai primi graffiti delle caverne, all’arte primitiva. Primitivismo che emerge soprattutto per il modo istintivo, arbitrario, con cui è stata realizzata la figura, «massivo concretamente, non idealmente, primevo come magma originario, e non come protostorico in senso più o meno storicistico». Con quest’opera Fontana, quindi, rompe con il passato, con la scultura classicheggiante del Novecento italiano che ha cercato di restaurare la figurazione dopo l’iconoclastica espressionista, futurista e cubista per aprirsi verso l’arte europea. Da questo momento in poi l’arte di Fontana non segue una cronologia logica, ma emergono più ricerche differenti; si susseguono l’un l’altra, come se già, fin dall’inizio, esistessero in lui e solo ora trovassero attuazione. Dopo l’Uomo nero, Fontana inizia a utilizzare materiali come il gesso e la terracotta, forse per quest’ultima influenzato da Arturo Martini, il quale ha avuto il merito di aver rivalutato criticamente le fonti scultoree italiane, rielaborando la scultura etrusca, il torso e il frammento in terracotta. Fontana, forse sotto il suo influsso, verso la fine del 1929, inizia ad utilizzare la terracotta, non come rivisitazione storico-archeologica, ma come mezzo per accentuare l’immediatezza dei caratteri e della forma. Si avvale del suddetto materiale soprattutto per quella serie di rilievi figurativi, appena consistentemente colorati, quali - inter alia - Le amanti dei piloti. Schiacciate, quasi da sembrare un bassorilievo, sono definite da un profilo inciso nella materia dai colori accesi, quasi “fauves”, e lo stesso appiattimento dà alla composizione un spetto al limite tra scultura e pittura. La materia, invece, “appena rappresa, a rigonfi e depressioni improvvise, come di lava, “sa” di spazio, partecipa allo spazio.” Il sopracitato primitivismo di Fontana de l’Uomo nero viene evidenziato, ancora di più, nelle celebri tavolette graffite in gesso, realizzate a partire dal 1930, esposte per la prima volta, presso la Galleria del Milone il 14 gennaio del 1935. Definite da Carlo Carrà “rabeschi plastici”, rappresentano, con la loro figurazione molto sintetica e lineare, la perfetta fusione tra scultura e pittura e uniscono alla suggestione surrealista, anzi parasurrealista, del segno inciso in maniera automatica, l’astrazione organica e fitomorfa. La terracotta, per eseguire ritratti femminili e piccole sculture a tutto tondo. Qui il suo spontaneo primitivismo è risolto rendendo una figurazione al limite della narratività poichè la materia è trattata ancora in maniera elementare e informale. Le sagome delle figure risultano nuovamente segnate dalla materia graffiata e definita solamente con il colore posto a freddo che diventa il vero protagonista. Sono queste le opere a cui Crispolti fa riferimento parlando di “l’espressionismo fenomenologico di Fontana”, cioè di «una figurazione immersa del divenire della materia», «radicalmente opposta al naturalismo lirico della scultura di Martini». Sono opere tra cui Bagnante e Gli amanti, presentate come arredo alla V Triennale di Milano del 1933. La Bagnante è stata realizzata per decorare il bordo piscina della Villa Studio per un artista eseguita dagli architetti razionalisti Figini e Pollini, mente Gli amanti sono pensati per la Casa del Casa del Sabato degli Sposi, opera del gruppo BBPR. Secondo Argan, «il colore non è un fenomeno di superficie, ma è il principio plastico, spaziale, della scultura» cioè viene utilizzato come mezzo per accentuare la superficie, al fine di rendere un risultato maggiormente drammatico. Altre opere, simbolo di queste ricerche in senso coloristico, sono Fiocinatore e la Signorina seduta. Di quest’ultima si è detto come sia un’opera che guarda ancora al passato dialogando con certe figure femminili di Martini, con il Portiere accovacciato di Manzù e ancora con Archipenko e Zadikine, ma allo stesso tempo è piena di futuro poiché, per i colori con cui è realizzata (oro e nero) due colori non colori, astratti sembra rappresentare la stessa aspirazione all’assoluto di Yves Klein. Il Fiocinatore tra il 1933- 1934 realizzato interamente in oro, come fontana per il Mercato del pesce di Milano, sembra piuttosto un ritorno all’ordine, se confrontata con l’Uomo Nero, ma è piuttosto l’opera che più si avvicina al calco aureo di Arman realizzato da Yves Klein nel 1962. Contemporaneamente alle sculture figurative, la ricerca di Fontana si orienta verso la realizzazione di una serie di sculture astratte, eseguite a partire dal 1934, esposte per la prima volta nella celebre mostra alla Galleria del Milione nel gennaio del 1935 (la prima mostra di Arte Astratta in Italia) che è riproposta poco tempo dopo alla 1 a Mostra Collettiva di Arte Astratta Italiana a Torino, tenutasi presso lo studio di Felice Casorati ed Enrico Paolucci. Sono semplici forme ritagliate nello spazio o strutture dinamiche articolate in modo da captare il vuoto, bifronti, di piccole dimensioni, accostamenti di ferro e gesso, linee spezzate che si piegano e che si curvano secondo linee geometriche “fitomorfiche”. Nascono dall’intuizione delle tavolette graffite e hanno il loro miglior esempio nella, purtroppo oggi dispersa, scultura astratta per l’atrio di casa Ghiringhelli in Piazzale Lagosta, che rappresenta il primo esempio di astrattismo italiano su scala monumentale. La loro forma geometrica è stata considerata più semplice di quelle di Arp o dei cubisti ed è stato notato da Palma Bucarelli che, per la prima volta, la linea più elementare dei segni assurgeva a elemento plastico autonomo, unica determinante dello spazio.
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Anche se la forma di queste sculture viene definita geometricamente sulla base dell’imprevedibilità e della sperimentalità queste ultime non hanno, come le opere di Calder o di Melotti, il medesimo rigore dei calcoli matematici, ma sono tali per il disequilibrio o l’equilibrio involontario che nasce dalla sua immaginazione. Nel palare di questo artista la mente corre subito ai tagli. Queste tele incise in maniera netta da parte dell’artista argentino sono probabilmente i suoi lavori più famosi. Ma prima di tutto possono essere considerati come le opere simbolo del movimento Spazialista, fondato dallo stesso Fontana nel 1947 con la scrittura e pubblicazione del primo manifesto dello spazialismo. Scritto in durante un periodo in Argentina il manifesto spazialista pone le base teoriche di questo movimento e pone le basi per gran parte del lavoro dell’artista argentino. Questa corrente artistica aveva come obiettivo primario quello di “superare” l’arte classica, diventata agli occhi di Fontana stagnante e vecchia. Questo doveva avvenire attraverso la produzione di nuove opere con mezzi innovativi frutto dell’evoluzione tecnica e tecnologica. Il principio cardine doveva essere il superamento dell’arte naturalistica attraverso l’utilizzo di nuovi elementi e strumenti come la luce o, appunto, lo spazio. Ad esempio, possiamo ricordare la Struttura al neon che l’artista creò in occasione della
IX Triennale di Milano
. Fontana fonda quindi questo movimento con lo scopo di superare determinati limiti in cui l’arte precedente costringeva l’artista. L’obiettivo dello spazialismo diventa quindi quello di entrare e muoversi in nuove dimensioni inserendo il tempo e lo spazio all’interno della produzione artistica. Nonostante la loro fama le prime opere spazialiste di Fontana non furono i tagli ma un ciclo di opere chiamato “Buchi
” che consistevano in spirali create appunto bucando la tela. Il ciclo dei buchi verrà portato avanti a lungo ma con alcune differenze. I buchi disordinati delle prime opere lasciano infatti spazio all’ordine con cui l’artista crea i suoi buchi costruendo costellazioni ordinate e regolari. Il ciclo dei buchi costituisce solo una delle molteplici parti che costituiscono il grande gruppo dei Concetti spaziali. Sicuramente i Concetti spaziali più famosi sono i Tagli che Fontana incominciò a produrre a metà degli anni Cinquanta. Il senso e l’interpretazione di queste opere sono sempre stati molto vari. Possiamo però dire che Fontana con un solo gesto, non solo crea il taglio ma riesce anche ad andare oltre il confine della tela. Con i tagli e i buchi l’artista mette in discussione la bidimensionalità dello spazio pittorico mostrandocela come una banale superficie in cui ogni rappresentazione è illusoria. Con la lama Fontana riesce a creare una terza dimensione oltre la tela in pieno stile spazialista. Ma ritornando alla figura di Carla Lonzi e per meglio tracciare una storia delle relazioni tra arte e femminismo nell’Italia degli anni Settanta e nello specifico del contesto romano, risulta d’obbligo passare per l’esperienza di una delle protagoniste principali della riflessione teorica femminista del nostro Paese, Carla Lonzi. L’interesse nei confronti di questa pensatrice si rivela in questa sede determinante, perché l’approdo al femminismo si verifica dopo un’intensa attività nell’ambito della critica d’arte. Il lavoro di Lonzi come critica è passato per lungo tempo inosservato, sovrastato dal peso della teorizzazione femminista che si rivela, dopo una lunga riflessione, nel 1970 con il rivoluzionario Manifesto di Rivolta Femminile, oggi pietra miliare del pensiero femminista italiano e internazionale. Tuttavia un’ulteriore causa della mancata identificazione di Carla Lonzi come critica d’arte risiede nella persona di Lonzi stessa. Il passaggio al femminismo determinò un completo abbandono, o meglio un rifiuto, di qualsiasi forma di cultura, prima fra tutte di quella che le era appartenuta e in cui aveva creduto di potersi riconoscere: l’arte. Ciononostante è possibile oggi rintracciare delle linee di continuità nell’esperienza di questa pensatrice, a partire dall’impegno radicale e totalizzante che caratterizza prima il ruolo di critica e poi quello di femminista. Il passaggio per Carla Lonzi è doveroso anche a livello cronologico.
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Prima di tutto per la pubblicazione nel 1969 di Autoritratto, precoce esperienza di entrata del privato in ambito culturale alla figura di Lonzi è inoltre legata la nascita di Rivolta femminile, uno dei primi gruppi femministi italiani, fondato a Roma nel 1970. Laureatasi in Storia dell’arte a Firenze nel 1956 con Roberto Longhi, Lonzi rifiuta la proposta di pubblicazione del suo lavoro, rinunciando così alla professione accademica. Nel 1960 comincia a lavorare a Torino presso la Galleria Notizie diretta da Luciano Pistoi, attraverso la quale entra in contatto con gli artisti che occuperanno le pagine di Autoritratto. Nel frattempo collabora regolarmente con il periodico culturale della RAI, “L’approdo letterario”, e con “Marcatré” nella rubrica Discorsi, lasciando emergere da subito un atteggiamento insolito. Dalla forma usuale dell’intervista, il rigido e strutturato alternarsi di domanda e risposta, si arriva a un fluire più libero di pensieri e parole, fino alla sostituzione delle questioni poste agli artisti con i puntini di sospensione. Così facendo Lonzi sottrae al critico d’arte ruolo e ragion d’essere, eliminando il tradizionale compito di direzione e organizzazione del dibattito. Lo scetticismo nei confronti della critica d’arte è già messo in questione nel corso degli anni Sessanta. Autoritratto, come detto, esce nel 1969, stampato dall’editore De Donato in poche centinaia di copie. L’autrice monta liberamente le conversazioni che ha registrato in momenti distinti nel corso di cinque anni, tra il 1965 e il 1969, con quattordici artisti tra i più significativi rappresentanti dell’avanguardia italiana degli anni Sessanta: Carla Accardi, Getulio Alviani, Enrico Castellani, Pietro Consagra, Luciano Fabro, Lucio Fontana, Jannis Kounellis, Mario Nigro, Giulio Paolini, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, Giulio Turcato, Cy Twombly. Il testo non è diviso in sezioni né tantomeno ordinato cronologicamente; si ha piuttosto l’impressione di un unico lungo incontro, una sorta di grande convivio, a cui Lonzi prende parte ponendo quesiti e formulando opinioni. I temi trattati sono molteplici, dal processo del fare artistico, al rapporto con la società e la critica, al confronto ossessivo con gli artisti americani, fino a questioni apparentemente slegate dal mondo dell’arte. Ne deriva un lavoro strettamente connesso al vivere quotidiano: le pagine di Autoritratto restituiscono efficacemente porzioni di vita. La trascrizione del parlato aderisce il più possibile al momento vissuto, garanzia di autenticità di quanto avvenuto. L’uso del registratore consente di mantenere intatto l’episodio a favore di un vero e proprio «culto della cosa accaduta». L’autoritratto a cui allude il titolo è contemporaneamente unico e plurimo. Ogni artista si ritrae singolarmente con le proprie parole, ma forse più verosimilmente è la stessa Lonzi che ritrae sé stessa, artefice arbitraria del montaggio di quanto viene pronunciato, responsabile della ‘forma’ del testo. Il discorso è ‘modellato’ da Lonzi, segue un percorso preciso da lei pensato, seppure tramite una mescolanza di parole sue e parole di altri. «Io voglio stare vicino agli artisti e liberarmi io», dichiara. Proprio per questo primato della distanza, della visione, della personalizzazione risulta paradossale pensare che accanto alle vergini bizantine e ad alcuni miti pop anche Carla Lonzi abbia rischiato una sorte simile. Archetipo incarnato dell’anti-mito lei che abbandona la produttività dell’autrice per riparare lontano dagli sguardi da sotto in su che l’autorità produce Lonzi si presta bene, con le sue tracce sparpagliate scritti, fotografie, relazioni e i suoi modi non convenzionali registrazioni, ricerche, legami, a essere fatta icona. A lungo in bilico tra una vaga indifferenza troppo lontana dalle rotte consuete e una fiera celebrazione lontana dalle rotte consuete, ella è stata oggetto di una strana forma di appropriazione da parte di autrici, teoriche e artiste di tutti i sessi che ne hanno visto il valore. Distinguo autrici, teoriche e artiste poiché l’entrata nel mito di Carla Lonzi ha proprio a che fare con una lettura parziale che tiene conto solo di alcuni suoi tratti, elidendone altri. Tale scrematura avviene per lei in maniera particolare, ovvero distinguendo tra un pre- e un post-, tra la critica d’arte e la femminista, tra colei che è nel mondo e colei che celebra la differenza attraverso l’assenza. Così, del suo vissuto si racconta una rottura improvvisa, eclatante tra l’esperienza dell’arte e quella del femminismo, rischiando di offrirne un ritratto statico e distante, le cui linee di contorno saturano il quadro. Fuor di metafora, sezionare la vita di Lonzi in questo modo dà luogo a una «narrazione che ha avuto l’effetto di rendere opaco proprio il durante» , ovvero il percorso non il momento, o lo scoppio attraverso il quale il femminismo “si fa”. L’inizio, canonico, è Autoritratto. Tuttavia, nella lettura stimolante e fresca che ne dà Zapperi, quel testo appare come un’epigenesi. Lì, Lonzi devia dal ruolo della critica d’arte sia in quanto persona con una certa autorità, sia in quanto modalità di prendere visione (sguardo ed epistemologia) per istituire un rapporto orizzontale con gli artisti. Composto delle registrazioni delle conversazioni con questi ultimi, il testo lascia che siano gli artisti stessi i soggetti della parola dell’arte, presenti e non rappresentati. Al contempo, la critica d’arte (persona e opera di mediazione) non scompare: è la sua presenza a garantire la diffusione di queste voci. Lonzi è in quel lavoro il soggetto-prisma che incamera la luce e, attraverso l’operazione di montaggio di parole e immagini, la diffrange. Seguendo il percorso trasversale tracciato da Zapperi, la ricomposizione della complessità del pensiero di Lonzi avviene senza forzature, non per tappe, ma per transizioni. Quando non relegato nel “pre-” della retorica sminuente della rottura, Autoritratto si può leggere come il canovaccio sul quale verrà organizzato un processo di liberazione femminile che, sebbene prenda le fattezze di una pratica molto personale il “partire da sé, l’autocoscienza, avrà delle ripercussioni dirompenti, molteplici e plurivoche, tanto da caratterizzarsi «come una pratica collettiva potenzialmente estendibile al di fuori del gruppo» .In Autoritratto, Lonzi si appropria, quasi istintivamente, essendo il femminismo ancora non fatto di una dimensione collettiva, in cui la partecipazione e i rapporti consentono lo schiudersi delle differenti soggettività. L’avvicendarsi di registrazione presenza degli artisti e montaggio presenza di un soggetto che ne fa esperienza e se ne appropria è una pratica sperimentale che si lega ai tanti fili che poi andranno a intessere il femminismo di Rivolta femminile. Qui già si manifestano la vocazione al riportare gli scambi su un piano orizzontale e la necessità a quella connessa di logorare i ruoli che andrebbero occupati. Il “disertare i ruoli”, la messa in mora di una istituzionalizzazione della propria soggettività, rimanda a sua volta alla sperimentazione costante da cui far emergere una soggettività
differente. Ancora, all’interno di un lavoro dalla possibile disposizione accademica, l’uso di tecniche sperimentali e l’integrazione delle conversazioni private, «aspetti tradizionalmente rimossi dalla vita sociale» , guadagnano l’allure di un preludio. Così, si vede come dalla modalità di composizione di questo esperimento affiorino già i «temi dal “significato apertamente politico» della ripetizione, dell’anacronismo e dell’interruzione” poi maturati appieno nel 1972 in Sputiamo su Hegel. Le conversazioni dirette momento quanto mai contingente estendono (e modificano) il loro valore nell’essere tramutate in segni materiali che si nutrono non solo dell’ascolto, ma anche e forse in primo luogo di un gesto di mediazione che li inserisce in un contesto più ampio e complesso. La tecnica della registrazione è la prima esperienza di quello che diventerà poi una «sorta di palinsesto» , sul quale si struttureranno il diario (Taci anzi parla. Diario di una femminista) e il congedo dal compagno Consagra (Vai pure), opere fondazionali per il femminismo di Lonzi. Il montaggio, la scrittura del diario, la trascrizione sono forme distinte, ma contigue tramite le quali rivalutare, a posteriori, un momento contingente ri-presentandolo, esse “segnalano il momento in cui passato e presente si sovrappongono, riconfigurandosi uno attraverso l’altro” . Questo turbinare di momenti, sfilaccia il tempo della storia linea retta che progredisce, tipica di una specifica lettura sui cui si è invitati a sputare, portando alla luce una temporalità fratturata, scandita in primo luogo dalla rivalutazione del presente, quale momento unico, contingente e indomabile in cui il soggetto “si incarna”, delineandosi «nei termini di una potenzialità all’interno di una dinamica collettiva» . In questa temporalità c’è, dice Lonzi, “tutto”. L’intreccio di passato, presente e futuro si pensi ancora al registratore: ascoltare nel futuro un presente che è passato e che viene, nel presente, rimodulato convoglia pratiche per loro natura plurali, collettive e “deperibili” «capaci di innescare processi di soggettivazione che contrastano il proprio assoggettamento» . Ritorna a questo punto centrale il legame che corre tra la femminista e la critica. Infatti, come ben si coglie dalla ricostruzione di Zapperi, è nel rapporto con gli artisti e, soprattutto, con le artiste che Lonzi capisce che l’arte (come chi la produce) non può farsi vettore di quelle forme liberatorie di costituzione del sé e di formazione dei legami. Di più, è a partire da una rinnovata concezione dell’arte impossibile da ottenere se non stando in quel dominio, agendo sui concetti a questa propri che si rende possibile l’articolazione di un pensiero politico imperniato sull’assenza. Andiamo per ordine: sono le incomprensioni con le artiste che gravitano intorno a Rivolta come Suzanne Santoro o quelle, dolorose, che gravano sui rapporti affettivi più intimi Carla Accardi e Pietro Consagra, che accompagnano l’autrice verso inquadramento dell’arte come ad appannaggio “maschile”. L’arte è un campo già strutturato, che presuppone il primato di un soggetto creatore, le cui produzioni possono essere fruite, al massimo possedute. Essa si mostra alfine una pratica istituzionalizzata, i cui prodotti presentano forti affinità con i frutti alienanti del lavoro. Così, la creazione artistica rimanda all’idea dell’unicità del creatore non del prodotto, attenzione, siamo nel mito, postulando l’asimmetria tra l’artista demiurgo e lo spettatore recipiente la cui soggettività si dà nell’accettazione passiva del prodotto. Se in Autoritratto l’interazione con gli artisti era un moto di soggettivazione, Lonzi capisce che l’arte non può avere una vocazione liberatoria quando si avvede che il “mito dell’unicità” che permea arte, attività artistica e artista non lascia spazio per la ritrazione, per il vuoto, per l’assenza. Forme, queste, dello stesso movimento che Lonzi farà femminismo. Il soggetto dell’arte non contempla la ritrazione, poiché pretende di riconoscere l’altra a partire da sé, piuttosto che aprirsi al riconoscimento di sé a partire dall’altra. Allo stesso modo, l’artista abbraccia l’autenticità quale attestazione di unicità individuale, invece di cercarvi l’appartenenza a una collettività riconoscendo il vuoto in sé, facendo vuoto di sé. E infine, la creazione artistica si cristallizza nella presenza, al cospetto del prodotto tangibile dell’attività artistica, mentre per Lonzi la creatività abita il ‘ruolo ricettivo’ che permette all’assenza di farsi compresenza, “permette di far esistere l’altra persona attraverso una relazione” . Eppure, attenzione. Tale movimento verso l’altra persona lo dimostra l’amarezza con cui Carla rimprovera ai suoi affetti assenti o presenti di non accordarle il giusto riconoscimento non è piano, oblativo, estraneo a dinamiche gerarchiche o verticalizzanti. Strappare Lonzi dal mito significa anche lasciar fiorire le profonde contraddizioni che abitano la persona, svelando il complicato rapporto tra vissuto e tessuto forse tra vita e arte della vita. Zapperi, con la levità della sua ricostruzione è difficile scrivere di vite convolute su cui molti, anche chi le ha vissute, hanno scritto, restituisce a Lonzi anche questa dimensione, riconoscendole una grande forza: non quella bruta di dare corpo a uno strappo netto chiusura, abbandono, rigetto, ma quella davvero tutta femminista per come Lonzi stessa tenta di definire cosa questo comporti di fare del fallimento l’occasione paradossale di una liberazione» . Interessante notare che questo passaggio viene confezionato da Zapperi a partire da un montaggio che mette in dialogo Lonzi con le teoriche queer e post-coloniali che molto hanno appreso dal femminismo, ma che anche molto lo hanno perturbato. Strane cose accadono a Lonzi: trascinata nel mito per l’appropriazione di coloro che le sono (state) prossime, viene riscattata da chi scompagina una distinzione sessuata che le è comunque fortemente appartenuta. Artiste e femministe si sono avvicinate troppo spesso a Lonzi come a un’icona, ne sono prova e qui dissento dalla lettura appassionata di Zapperi i modi in cui negli ultimi anni il mondo dell’arte ha rimesso in circolo la voce e, meno spesso, la persona di Lonzi attraverso installazioni, performance e produzioni che ne fanno brillare la radicalità netta. Lavori che strillano che “siamo tutte clitoridee” appiattiscono l’irsuta, agitata pienezza di «colei che si è ribellata all’identificazione con quel prodotto già finito e disponibile che viene chiamato “donna” . Forse, il riconoscimento ready-made offerto da alcuni tributi sancisce l’oscuramento di un femminismo che «coincide con il fallimento» . La mossa di liberazione è proprio quella che si esprime in una “postura di diniego”, in una “soggettività impossibile”, in qualcosa che non “incarna”, né “agisce in conformità” con un sistema unico, univoco, unificante di valori. Il soggetto imprevisto non si fa trovare lì dove deve essere, né nel tempo che le è proprio: questo il nodo. Qualsiasi forma di riconoscimento tradisce Lonzi, perché la tinta della sua politica, vita, esperienza è quella dell’ineffabilità:completamente fuori dal campo della visione, Lonzi tocca, anzi parla. Ed è questo il maggiore dei riconoscimenti: anche quando ritagliata, appiattita, saturata l’esperienza di Lonzi mette in atto degli effetti, muove degli affetti, fa fare cose. Delle quali Lonzi stessa forse si sarebbe lamentata. Concludo con un’immagine per tener fede all’impossibilità di essere fedeli alla lettera lonziana. La bella foto di copertina del libro mostra una Lonzi aureolata dalle luci di un luna-park, che con le braccia conserte si schermisce per poi elargire uno sguardo d’intesa inafferrabile rivolto, comunque, a qualcuno che è poco più sopra e a destra di chi fotografa, o di chi guarda. La conversazione tra Fontana e Lonzi, permettendo la realizzazione di un percorso antologico, ma non dogmatico, con lavori che toccano i momenti salienti e peculiari della ricercafontaniana
, un itinerario nel pensiero e nella pratica di un artista che riteneva che l’arte dovesse essere vissuta attraverso una nuova dimensione, all’interno della quale entravano anche nuove tecnologie e materiali. Vengono esposte opere di vari periodi, dalle sculture degli anni Trenta ai “Concetti spaziali” (“Buchi” e “Tagli”) dagli anni Quaranta ai Sessanta, oltre ai “Teatrini” e alle “Nature” bronzee; spettacolari sono l’enorme
New York 10 del 1962, pannelli di rame con lacerazioni e graffiti,in dialogo con la luce a evocare la sfavillante modernità della metropoli, e la potentissima
La fine di Dio, 1963, grande opera realizzata a olio, squarci, buchi, graffiti e lustrini su tela, emblematica della concezione spazialista e insieme religiosa dell’artista. Noi la esprimiamo in forma letterale in questo manifesto. Per questo chiediamo a tutti gli uomini di scienza del mondo, i quali sanno che l’arte è una necessità vitale della specie, che orientino una parte delle loro investigazioni verso la scoperta di questa sostanza luminosa e malleabile e di strumenti che producano suoni che permettano lo sviluppo dell’arte tetradimensionale”. Si apre così il Manifesto Blanco, testo in cui il movimento spazialista trovò le prime fondamenta. Il manifesto, pubblicato sotto forma di volantino, nacque dalla collaborazione di Lucio Fontana (che tornò in Argentina durante gli anni della Seconda Guerra mondiale) con giovani artisti e intellettuali dell’Accademia di Altamíra, dal loro scambio di nuove idee di ricerca. Pubblicato a Buenos Aires nel 1946, venne redatto da Bernardo Arias, Horacio Cazenueve e Marcos Fridman, e fu firmato anche da Pablo Arias, Rodolfo Burgos, Enrique Benito, César Bernal, Luis Coli, Alfredo Hansen e Jorge (Amelio) Rocamonte. Il testo riecheggia una forza energica già propria dei manifesti futuristi: tra i firmatari non figurò Fontana, che all’epoca fu fondatore e docente dell’Accademia e ricoprì una posizione di riconoscimento ufficiale. Gli artisti esortavano al “superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica, per arrivare a un’arte basata sull’unità del tempo e dello spazio”. Fu una formulazione teorica che denunciava l’urgenza che l’arte aveva di rinnovarsi, l’esigenza di una risposta culturale ai nuovi stimoli che ogni settore della vita andava sperimentando grazie alle conquiste tecnologiche e scientifiche. “Lo sviluppo dell’arte tetradimensionale” fu uno degli obiettivi prioritari nella poetica spazialista, come anche la volontà di uno “sconfinamento” per scoprire le potenzialità dell’espressione artistica oltre la soglia imposta della materia. La ricerca della quanta dimensione , venne incoraggiata in ogni ambito dell’arte : “Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. È necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo”. Nell’ottica di perseguire l’idea di un’arte che fosse totalizzante , si imboccò l’antico solco già battuto dalle Avanguardie storiche. Quando Lucio Fontana rientrò a Milano nel 1947, intraprese una ricerca inedita, completamente rivolta al concetto spaziale. I galleristi Renato e Carlo Cardazzo organizzarono alla Galleria del Naviglio una serie di incontri pubblici per interpretare ed approfondire questa ricerca. Fu da qui che lo Spazialismo trovò la sua prima vera definizione, annunciata nel Primo Manifesto spaziale che portava le firme di Fontana e anche del critico Giorgio Kaisserlian , del filosofo Benjamino Joppolo e della scrittrice Milena Milani . La ricerca intrapresa da Lucio Fontana partì dalla considerazione e dalle idee dell’artista Umberto Boccioni . Secondo l’artista, Boccioni fu l’unico che avviò la propria ricerca espressiva verso l’abbattimento della barriera bidimensionale, guidando la sua arte verso l’espansione fisica e il dinamismo figurativo. Fontana apprezzava una simile “conquista dello spazio”, che riteneva propria anche dello sviluppo dell’arte barocca, con la teatralità delle sue forme bizzarre, “Il barocco ci ha diretti in questo senso, le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati. La fisica di quell’epoca rivela per la prima volta la natura della dinamica, si determina che il movimento è una condizione immanente alla materia come principio della comprensione dell’universo” dal Manifesto Tecnico dello Spazialismo, vedi oltre. Indagini di questa sorta aiutarono a uscire dagli schemi tradizionali, conducendo a quella concezione di immaterialità che confluì nello Spazialismo: nel Primo Manifesto spaziale, infatti, lo statuto dell’opera d’arte è largamente messo in discussione. “L’arte è eterna, ma non può essere immortale. Rimarrà eterna come gesto, ma morrà come materia”. Si diede importanza al gesto come manifestazione del pensiero: sono queste le dichiarazioni che stanno alla base di sperimentazioni come gli ambienti spaziali o il Concetto spaziale al neon che Fontana realizzò negli anni Cinquanta. Una seconda stesura del Manifesto avvenne nel marzo 1948: si ripropose l’esigenza di allentare i legami con l’arte del passato, uscendo dalla sua “campana di vetro”, procedendo all’utilizzo dei nuovi mezzi tecnici. Due anni dopo venne diffusa la Proposta di un regolamento il Terzo Manifesto spaziale, organizzata in nove punti, di cui uno enuncia che “L’Artista Spaziale non impone più allo spettatore un tema figurativo, ma lo pone nella condizione di crearselo da sé, attraverso la sua fantasia e le emozioni che riceve”. Come molti altri movimenti artistici della seconda metà del Novecento, lo Spazialismo abbatte la passività contemplativa del visitatore che è anzi chiamato allo svolgimento di un ruolo attivo, all’interazione con i nuovi concetti spaziali. Nel 1951, nel Manifesto Tecnico dello Spazialismo si recuperò il tema della necessità che l’arte aveva di evolvere in sintonia con le nuove scoperte tecnologiche e scientifiche. “Si trasformano le condizioni della vita e della società e di ogni individuo. Le scoperte della scienza gravitano su ogni organizzazione della vita. L’applicazione di queste scoperte in tutte le forme della vita crea una trasformazione sostanziale del pensiero. Il cartone dipinto, la pietra eretta non hanno più senso; le plastiche consistevano in rappresentazioni ideali di forme conosciute ed immagini alle quali idealmente si attribuivano realtà. Il materialismo stabilito in tutte le coscienze esige un’arte lontana dalla rappresentazione che oggi costituirebbe una farsa”. Seguì la pubblicazione del Quarto Manifesto spaziale nel 1951, che tracciò un bilancio, e nel maggio del 1952 vide la luce il Manifesto del movimento spaziale per la televisione, in concomitanza con gli esperimenti che Fontana condusse per la Rai, servendosi di tele e carte bucate per proiettare immagini luminose in movimento. Il documento riconobbe nella televisione “un mezzo integrativo dei nostri concetti”, ovvero un estensore e un moltiplicatore delle forme ed esperienze visive. Come ebbero a descrivere i vari manifesti, lo spazialismo rappresentò l’esigenza di creare un’arte del futuro, che vivesse nel suo tempo, raccontandone la scienza e che fosse trasmissibile nello spazio. L’attrazione verso il cosmo fu la spinta che Fontana ed altri artisti avvertirono per dirigere la propria ricerca verso una dimensione nuova. Gli esiti di questi studi si raccolsero per la prima volta nel 1952, quando a Milano la Galleria il Naviglio presentò la prima mostra collettiva spaziale : Milena Milani, Gian Carozzi, Roberto Crippa, Beniamino Joppolo, Lucio Fontana, Cesare Peverelli, Henry Mitchell e Vander Spuis. Qui gli spazialisti illustrarono come il concetto, il contenuto dell’opera potesse essere veicolato da qualunque mezzo materiale. Posso affermare che Roberto Crippa con la sua serie di Spirali dipinte a partire dal 1950 data della sua adesione allo Spazialismo segnano un netto momento di rottura rispetto all’impianto compositivo delle precedenti composizioni post-cubiste di fine anni Quaranta. Invece di una suddivisione per piani geometrici è ora il segno a scandire lo spazio della tela. Fu forse l’utilizzo di una linea grafica impulsiva, affiancata alla stesura libera del colore sul piano pittorico, che indusse alcuni critici, tra cui Alain Jouffroy, a definire l’artista. Crippa, tuttavia, non si presentò mai come prefiguratore italiano dell’Action Painting. In un’intervista rilasciata nel 1970 definiva il segno delle sue spirali degli anni Cinquanta non come ritmi gestuali spinti da un impulso interiore, ma «indicazioni accentuate dinamicamente di un mondo di scoperte e di presagi nuovi, unità spaziali in una sintesi che afferra tra uomo e universo». In linea con le teorizzazioni dello Spazialismo, il segno era infatti per Crippa il modo di esperire lo spazio attraverso i mezzi della pittura, di ridefinire l’opera nel «suo rapporto con l’ambiente in cui avrebbe dovuto vivere». In occasione di una delle prime esposizioni personali a lui dedicate dalla galleria del Naviglio a Milano, Giampiero Giani sottolineava la libertà compositiva e il calligrafico ritmo delle Spirali: «un esasperato intensificarsi della linea che si divincola e si trasforma nel guizzo nervoso di un segno ritmico, di calligrafica ossessione, ovale, tondo, lineare, tondo, lineare, ovale, che spazia libero su di un piano di colore». In sostanza, i fluttuanti e filamentosi grovigli di Crippa presentavano uno scarto sottile (ma significativo) rispetto al dripping espressionista di Jackson Pollock, che l’artista aveva certamente ammirato nel 1950, a Milano, durante la mostra che la galleria del Naviglio aveva dedicato al pittore americano, e ancor prima, nel 1948, nelle sale della Biennale di Venezia, dove era stata esposta la tela Occhi nel caldo (1946) proveniente dalla collezione di Peggy Guggenheim. La dissonanza (esecutiva e d’intenti) tra i due artisti fu rimarcata nel 1959 da Lawrence Alloway, in occasione di una mostra collettiva che presentava alcune Spirali all’Institute of Contemporary Arts di Londra. In linea con l'assunto di Alloway, già nei primi anni Cinquanta la stampa italiana aveva messo in luce le differenze che le Spirali spazialiste presentavano rispetto all’automatismo di certe correnti informali coeve: Crippa muove per forme, più che dai fili dello scultore Georges Vantengerloo, dai gomitoli dipanati in senso circolare ed ellissoidale dell'Hartung, ma non accetta di questi l'automatismo, la tristezza che ispirano. Queste forme egli le ravviva, dà loro un ordine matematico (come i bianchi tubi al neon di Lucio Fontana all'ultima Triennale milanese) ed al posto delle nere macchie dei dadaisti e dello stesso Hartung, inserisce canti di soli smaglianti colori, si diverte insomma, a ricreare il caos. Un tale utilizzo del segno – come suggeriva Enrico Crispolti – era una prerogativa degli Spazialisti milanesi: «un segno impresso in una materia dinamica, le cui suggestioni emblematiche involvono una qualche dimensione scientifica». È infatti nell’ambiente artistico milanese che nacque e si sviluppò il segno di Crippa (dalla sua formazione a Brera con Achille Funi, Carlo Carrà e Aldo Carpi, fino allo Spazialismo), ed è sempre a Milano che l’artista si aprì ai nuovi fermenti artistici internazionali legati alle avanguardie storiche. Sulla scia delle teorizzazioni di Lucio Fontana, nei primi anni Cinquanta Crippa aveva infatti utilizzato una linea tesa a generare una spazialità fisico-temporale prima intuita, poi evocata sul piano pittorico attraverso un segno subordinato al caso reduce non tanto delle applicazioni dell’automatismo gestuale (tutto interiore) delle nascenti correnti informali (europee e statunitensi), ma sembra piuttosto guardare alle recenti ricerche sorte Oltreoceano in ambito surrealista, incentrate non più esclusivamente sull’automatismo e l’inconscio, ma interessate a riscoprire le forme dell’immaginazione attraverso i parametri della scienza, dell’alchimia, del mito e del primordio. Fu esattamente tra questi estremi che si giocò l’incontro di Crippa con il surrealismo.
Risalgono all’inizio degli anni Cinquanta i primi contatti diretti di Crippa con alcuni artisti vicini al gruppo surrealista. La sensibilità ai valori di spazio, tempo e materia maturati nel contesto spazialista milanese aveva condotto il pittore a interessarsi alle ricerche di Enrico Donati e Roberto Matta, i quali tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta si trovavano, per varie ragioni, in l’Italia. Espulso a New York dal gruppo bretoniano, nel 1949 Matta si era trasferito nei pressi di Roma, dove aveva iniziato a frequentare il contesto artistico italiano e a condividere la propria decennale ricerca riguardante la geometria non euclidea, il misticismo e gli studi psicoanalitici. Secondo Berto Marucchio era stata «la disciplina spaziale» a fare da collante tra l’artista cileno e il gruppo Spazialista, a cui Matta aderì nel 1952. Durante i precedenti anni di esilio americano (tra il 1939 e il 1949), l’artista aveva acceso un vivace dibattito sulle moderne nozioni di spazio, tempo e materia in relazione al binomio natura e immaginazione, vitalismo e psicologia, di cui, a Parigi, si era già occupato prima dello scoppio del secondo conflitto bellico. Gli apparati visuali e testuali riguardanti tali riflessioni erano stati massivamente divulgati all’interno di due riviste newyorkesi vicine al movimento surrealista e diffuse anche in Europa: «VVV» (1942-1944) e «View» (1940-1947), dirette rispettivamente da André Breton e David Hare. Fu in quest’ultima testata che si delinearono alcune delle più significative considerazioni circa i nuovi parametri di forma, spazio, tempo ed esperienza in relazione all’oggetto artistico e all’atto creativo. Nel 1944, ad esempio, su «View» uscì un significativo articolo di Stanley William Hayter, Line and Space of the Imagination, accompagnato da un disegno realizzato dallo stesso artista con lo scopo di esemplificare visivamente quanto spiegato a livello teorico. Tale testo risulta paradigmatico di una diversa esigenza che in quegli anni si andava profilando nell’entourage surrealista americano, e che consisteva nella ricerca di valori fisico-esperienziali e non più solo di processi legati all’inconscio. In Line and Space of the Imagination Hayter suggeriva quelli che a suo avviso erano i mezzi migliori per poter rendere nello spazio compositivo i sintagmi dell’immaginazione. Ad oggi non è nota l’effettiva circolazione di «VVV» e «View» nel contesto artistico italiano degli anni Quaranta. Tuttavia è possibile affermare che i contenuti delle due riviste giunsero indirettamente in Italia attraverso le opere di Matta e Donati, entrambi attivi collaboratori delle due testate. Matta, in particolare, fu un punto di riferimento costante per tutta una generazione di giovani artisti gravitanti intorno alle gallerie del Cavallino a Venezia e Naviglio a Milano, sedi ufficiali dello Spazialismo e presto detonatore dell’arte informale italiana. Crippa apprezzò della poetica di Matta soprattutto l’attitudine di esperire la vita attraverso le forme: la sua «capacità di esprimere nella vita e nella pittura i propri sentimenti, le immagini più dirette che la vita suggeriva e non delle astrazioni pittoriche, delle fredde speculazione pseudo-filosofiche» La presenza di Donati in Italia fu invece più sporadica rispetto a quella di Matta. Ciononostante, l’artista fu un anello di comunicazione significativo tra l’Italia e gli Stati Uniti. Donati risiedeva stabilmente dal 1940 a New York, ma in virtù delle sue origini (nacque a Milano nel 1909) soggiornò frequentemente sulla penisola, dove nel corso degli anni Cinquanta fu protagonista di mostre collettive e personali, soprattutto tra Milano e Roma: nel 1950 fu invitato a partecipare alla Biennale di Venezia, con i dipinti Sangue di Lucrezia (1948), Alambicco Ermetico (1948) e Le vene del ragno (1949); nella primavera di quello stesso anno espose a Milano, presso la galleria del Milione; in autunno a Roma, all’Obelisco; nel 1951, invece, fu la volta di una mostra personale alla galleria milanese Amici della Francia, in occasione della quale si avvicinò al movimento Spazialista, firmando, alcuni mesi dopo, il Manifesto del Movimento Spaziale per la televisione e partecipando alle successive rassegne espositive allestite dal gruppo presso le gallerie del Naviglio e Cavallino. L’amicizia con Crippa nacque grazie alla mediazione di Matta, che introdusse l’amico spazialista a Donati attraverso una breve nota epistolare che attestava la stima (umana e professionale) verso il pittore: «Enrico, je t'envoi un ami – Crippa – la peinture t'interessera et l'homme aussi»). Laureatosi nel 1929 in scienze all'Università di Pavia, Donati mantenne per tutta la sua carriera una peculiare attrazione verso la biologia e l'alchimia, la natura e la materia nelle sue molteplici trasformazioni. «Un mondo», precisava Parker Tayler, «che sebbene invisibile ad occhio nudo, mostrava una vicinanza con la materia atomizzata al microscopio». Inizialmente affine alle forme organiche, biomorfiche e arcane di Yves Tanguy e Kurt Seligmann, nella seconda metà degli anni Quaranta Donati si direzionò verso figure geometrizzanti, sintomatiche dagli interessi maturati per i modelli delle spirali di crescita presenti in natura teorizzati nel XIII secolo dal matematico pisano Leonardo Fibonacci. Tali iconografie erano state ampiamente diffuse a inizio secolo da alcuni trattati scientifici che presentarono a un pubblico più o meno specializzato un nutrito apparato visuale. Tra questi, particolarmente significativo fu il volume
On Growth and Form (1917), del biologo e matematico scozzese D'Arcy Wentworth Thompson, un testo che ebbe ampio successo nei circuiti avanguardisti europei, soprattutto anglofoni (ma non solo): dal surrealismo all’Independent Group. È alla spirale aurea fibonaccesca che rimandano le forme circolari delle tele di Donati
Lumaca (1949),
Soleil vert (1947) e
Farfalla piumata (1949), quest’ultima pubblicata sia sulla copertina del catalogo della mostra tenuta alla Galleria L’Obelisco di Roma nel novembre del 1950, sia nel piccolo portfolio che la milanese galleria del Milione aveva dedicato al pittore nel 1954. La ricerca di un simbolo che fungesse da ponte tra natura e matematica, tra il cosmo e il suo modello fu un tema della riflessione artistica di Donati che certamente catturò l'attenzione di Crippa, il quale dal 1950 aveva iniziato a includere misteriose ruote meccaniche all'interno delle sue
Spirali, come
In orbita (1950),
Sole (1953) e
Ritmo in verde (1951): opere in cui la lezione formale futurista veniva riletta e attualizzata sulla scia delle recenti sperimentazioni avanguardiste, per le quali l’elemento meccanico aveva ormai perso la programmatica utopia del progresso per indirizzarsi, invece, verso un ideale di movimento e trasformazione inteso come processo organico delle forme. Nel 1946, alla vigilia della fondazione del movimento Spazialista, nel Manifesto Blanco (stilato da Fontana con i suoi allievi a Buenos Aires ma da lui non firmato) si chiamava in causa esattamente le nozioni di mutamento e trasformazione secondo un’accezione organicistica del mondo e dell’esistenza: L'estetica del movimento organico rimpiazza l'estetica vuota delle forme fisse. L'arte nuova prende i suoi elementi dalla natura. L'esistenza, la natura e la materia sono una perfetta unità. Si sviluppano nel tempo e nello spazio. Il cambiamento è la condizione essenziale dell'esistenza. Il movimento, la proprietà di evolversi e svilupparsi è la condizione base della materia. Questa esiste in movimento e in nessun’altra maniera. Il suo sviluppo è eterno. Il colore e il suono si trovano nella natura legati alla materia. Tale concezione sarà al centro dei numerosi dibattiti sull’astrazione che in quegli stessi anni imperversarono per tutta Italia e che videro nell’Art Club di Enrico Prampolini un luogo di ricerche prolifiche. «La natura per noi astrattisti», dichiarava emblematicamente Prampolini nel 1951, «non è una realtà ma un’astrazione, è una formula organica che si concretizza in immagine astratta». Pochi mesi prima di partire per il suo primo viaggio americano, Crippa si era avvicinato all’Art Club prendendo parte alle esposizioni “Arte astratta e concreta in Italia” tenuta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel febbraio del 1951, e “Exposition nationale d’art abstrait”, allestita nella primavera di quello stesso anno a Principato di Monaco. L’Art Club abbracciava l’idea prampoliniana di un’astrazione che ricercava una risoluzione di bilanciamento e non di rottura tra quelle che storicamente erano le due principali scuole astratte: quella geometrizzante-purista di retaggio costruttivista e neoplastico, da un alto, e quella surrealista-fantastica basata invece sulla casualità delle forme e dei colori, dall’altro. Crippa restò ancorato a questa seconda via, come suggerì, appena pochi mesi dopo, quella che fu la sua prima mostra statunitense. «Nel 1950 andai in America per la prima volta», ricordava Crippa nel 1972 in un’intervista, «dopo una settimana dal mio arrivo, la galleria Jolas [
sic] si interessò di me, e due mesi dopo presentava la mia prima mostra in America». A distanza di più di vent’anni i ricordi dell’artista non erano però troppo precisi. Alexander Iolas (ballerino di origini greche diventato poi mercante d'arte) aveva infatti aperto la sua galleria newyorkese, sulla 46 East 57th Street, nel novembre del 1951, per tanto, il viaggio americano di Crippa ebbe verosimilmente luogo nell'estate di quell’anno. Una fotografia dei primi anni Cinquanta lo immortala in posa nello studio newyorkese di Donati, dove aveva potuto ammirare il cospicuo corpus di lavori del collega, nonché il nucleo di opere della sua suggestiva collezione privata, costituita da oggetti naturali, maschere, statuette dei nativi d'America, totem, disegni e dipinti contemporanei (soprattutto surrealisti). Non è chiaro con esattezza in che occasione sia avvenuto il primo incontro tra i due artisti certo è che dopo il rientro di Crippa dagli Stati Uniti i toni divennero molto confidenziali, a dimostrazione del fitto scambio che ormai intercorreva tra i due. A New York Crippa aveva avuto modo di conoscere e osservare anche le ultime tecniche sperimentate da Donati, tra cui il cosiddetto Spatial Molecular-Painting: un particolare processo di automatismo che si fondava sulla casualità materica del comportamento dei pigmenti sul supporto pittorico. «Le molecole di pigmento», spiegava Donati, «hanno un movimento proprio, che non è controllato, la relazione tra le molecole e la superficie crea un’illusione tridimensionale dello spazio».Attraverso l'applicazione di tale tecnica Donati aveva realizzato una serie di opere incentrate sulla nozione di spazio in rapporto alla temporalità del movimento della materia, come le tele Time Exposure (1948), Spaziale (1948), Spaziale 16 (1949), Spaziale 21 (1949-1950) , The Voice of Silence (1949-1950 e Senza Titolo (1950): quadri polimaterici caratterizzati da colature e schizzi di colore attraversati da segni incisori inflitti col fine di modificare e direzionare l’andamento del pigmento sul supporto pittorico: una sperimentazione automatica, ma allo stesso tempo subordinata a un rigoroso controllo del piano pittorico. Intorno al 1951 anche Crippa si aprì alle possibilità offerte dalla casualità della materia in relazione (e reazione) al segno grafico. Spirale gialla (1951) e il Sogno di Anna Bolena II (1951-1952) ad esempio, denotano uno sfondo non più liscio e monocromo, ma composto da strati tattili di pigmenti emulsionati, graffiati e segnati da linee spiraliformi: sintomo di ricerca di una spazialità cromatica (e materica) posta in dialogo con quella puramente segnica. Il debito di Crippa verso la «metafisica della materia» di Donati, fu messo in luce, a distanza di alcuni anni, da Michel Tapié, il quale a New York aveva conosciuto l'artista Spazialista proprio tramite Donati, probabilmente presso la galleria di Alexandre Iolas. Non distante dallo studio di Donati si trovava la Iolas Gallery, dove Crippa entrò in contatto con gli artisti supportati dall'eccentrico mercante (da Wifredo Lam a Victor Brauner, da Marcel Duchamp a Max Ernst) e allestì la sua prima mostra personale statunitense. La permanenza negli Stati Uniti fu per l’artista un momento non solo di revisione e aggiornamento della poetica Spazialista, ma di fondamentale apertura verso il nuovo mercato statunitense. Donati, infatti, era in contatto non solo con la rete di artisti italiani residenti negli Stati Uniti, tra cui Corrado Cagli ad esempio, ma anche con i galleristi, tant’è che fu a lui che si rivolse dall’Italia il gallerista Toninelli per chiedere una mano a inserire alcuni pittori nel circuito espositivo newyorkese. L'esposizione da Iolas fu inaugurata sul finire del 1951, accompagnata da un piccolo pieghevole che accoglieva un breve testo redatto dal critico e poeta surrealista di origini greche Nicolas Calas, il quale offrì al pubblico americano una prima inedita lettura del
corpus in mostra. «Il vuoto che Mondrian include nei suoi quadri non scompare ma si estende se, invece che essere circondato dal nero, è il nero che è circondato dal vuoto. Siamo incerti se dobbiamo dire che i neri di Crippa sono linee o colori. Se la loro funzione è quella di delineare, perché qualche volta sono “infra-blu”?». Nello spazio costellato di linee e campiture di pure cromie liberamente stese sul piano pittorico, Calas rintracciò la sfida che a suo avviso Crippa aveva lanciato all’astrazione. «In Mondrian i suoni hanno un ritmo preciso; [mentre] in Crippa ci incanta
la libertà con la quale le linee nere-bianche-rosse-nere si combinano con monosillabici quadrati e linee». Uno spazio compositivo, dunque, non ritmicamente scandito (come nelle tele di Mondrian), ma libero, mutevole, e per questo generatore di forme combinatorie. La contrapposizione semantica tra i termini “precisione” geometrica e “libertà” compositiva utilizzata da Calas nel suo testo, era da tempo al centro dei dibattiti sull’astrazione sia in Europa che negli Stati Uniti. Nel contesto americano la matrice storica si ritrova nelle due note mostre curate da Alfred Barr nel 1936 al Museum of Modern Art di New York, “Cubism and Abstract Art” e “Fantastic Art, Dada, Surrealism”, dove all’astrazione prettamente geometrica Barr contrapponeva quella «frankly concerned with symbolic, ‘literary’ or poetic subject matter and so finds itself in opposition to pure abstract art». Questa doppia linea fu riconfermata, nel 1950, in “Three Modern Styles”, una mostra itinerante che fece tappa anche al MoMA. La mostra ricostruiva e catalogava visualmente la storia delle forme moderne mettendo in dialogo tra loro le tre arti maggiori (pittura, scultura, architettura) e tracciando un percorso suddiviso in tre principali stili: Art Nouveau, Cubismo geometrico (Cubist-Geometric) e Forma libera (Free Form). Mondrian figurava nella sezione cubista-geometrica, insieme a Pablo Picasso, Georges Braque e Giacomo Balla, mentre nelle sale dedicate alla forma libera campeggiavano le opere astratte di Jean Arp, Joan Miró, Vasilij Kandinskij, Arshile Gorky e Henry Moore. In linea con tale bipartizione, Calas, nel suo testo, presentò Crippa al pubblico americano non come Spazialista, ma come testimone di una ricerca che faceva propri i modelli dell’astrazione della “forma libera” e organica. L’anno successivo Donati tentò di nuovo di portare lo Spazialismo negli Stati Uniti, questa volta proponendo di allestire una mostra con l'ambiente spaziale alla luce di Wood di Lucio Fontana, ma nonostante i primi accordi epistolari con l’artista, l'idea, alla fine, non fu portata a compimento. Bisognerà infatti aspettare il decennio successivo per vedere la prima mostra personale di Fontana a New York, allestita, nel 1961, alla Martha Jackson Gallery. Crippa, invece, nel corso degli anni Cinquanta continuò ad esporre alla Iolas Gallery (nel 1954, nel 1956) mantenendosi fedele alla linea critica proposta da Calas. Nel corso degli anni, la frequentazione di Donati e degli artisti supportati da Iolas, così come la presenza stabile di Matta in Italia fino al 1954, direzionò lo sguardo di Crippa su un vocabolario diverso. Dal 1954 si assiste infatti all’emergere di un nuovo paradigma visivo nelle sue opere. Il segno, ora, non solo delinea lo spazio, ma intreccia e genera delle tracce di figurazione: Crippa sperimenta la figura del totem, il quale andò progressivamente ad affiancare i diagrammi strutturali degli atomi della stagione precedente. «Un tema arcaico e araldico», osservava Renato Giani, emblema «di certa pittura di Matta e di Brauner». I totem, come le spirali altro non erano che una riflessione sullo spazio, il tempo e la materia (intesa come vita e primordio), ma anche un anelito verso la figurazione. «Le apparenze umane parvero di scatto volersi inserire nella materia come pura forma di energie prese dalla natura», puntualizzava Giampiero Giani nel 1956. «Sono sicuro», spiegava Crippa riferendosi alle Spirali e ai Totem, «di aver proceduto in un modo personale e unitario nel mio lavoro. Ho arricchito quelle fantasie, in cui fiori, farfalle e macchine si intrecciavano in una unica sintesi, con nuovi intrecci simbolici, di animali, di primordiali feticci, di vegetazioni lussureggianti, di secchi arbusti: una immagine totemica moderna». Un percorso, quello che dalle Spirali giunse ai Totem, che se pur coerentemente situato all’interno della storia dello Spazialismo si era nutrito delle ricerche surrealiste internazionali. Nella sopravvivenza del motivo biologico, vitalistico, arcano e primordiale presente non solo nelle opere di Matta e di Donati, ma anche di altri artisti supportati da Alexander Iolas nella sua galleria newyorkese (primi fra tutti Wifredo Lam e Victor Brauner), Crippa aveva trovato la formula che in quel momento concretizzava in costrutto formale l’immagine del mondo e dell’uomo, con e oltre i parametri della scienza. Infine posso dire che Tancredi Parmeggiani nasce a Feltre il 25 Settembre 1927. Inizialmente intenzionato a dedicarsi agli studi classici, nel 1942 li interrompe per iscriversi al liceo artistico di Venezia, dove è allievo, tra gli altri, di Gino Morandis e Luciano Gaspari. Sarà anche allievo di Armando Pizzinato all’Accademia di Belle Arti, frequentando i corsi della scuola libera del nudo. Dopo un tumultuoso rapporto con gli studi e un tentativo di espatrio clandestino in Francia, a circa vent’anni Tancredi conquista la stima di alcuni dei più grandi artisti del panorama veneziano dell’epoca, come Guido Cadorin, Emilio Vedova e Virgilio Guidi. Quest’ultimo, nel 1949, presenta il catalogo della prima mostra personale di Tancredi alla Galleria Sandri di Venezia. Nel 1950 si trasferisce a Roma dove si lega a Piero Dorazio, Mino Guerrini, Giulio Turcato e al gruppo L’Age d'Or. È a partire da questo momento che abbandona definitivamente ogni tipo di rappresentazione figurativa ed espressionista realizzata in precedenza – la ritroveremo solo più avanti, nei suoi ultimi anni di vita, con le “facezie” – per concentrarsi maggiormente sullo sviluppo di un’analisi astratta, compiendo delle scelte che lo porteranno in direzione di una poetica informale. Nel 1951 espone nella mostra “Arte astratta e concreta in Italia” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Già prima del 1949 Tancredi si avvicina ad esperienze di diretta ispirazione neo-plastica, derivanti soprattutto dall’astrazione meccanica. In particolare, si sofferma su una ricerca di un elemento che possa “controllare lo spazio”: il puntino. Il punto, mentalmente, è lo spazio più piccolo mai considerato, ed ecco che Tancredi conquista il suo spazio grazie al punto come entità primaria non delimitabile, che diventa fondamentale nelle sue opere, dove cominciano ad emergere figure geometriche all'interno di un impianto astratto. In concomitanza con questo sviluppo fa ritorno a Venezia, dove Peggy Guggenheim si interessa alla sua arte e lo accoglie nel suo palazzo di Ca’ Venier dei Leoni, offrendogli uno studio per lavorare e facendolo conoscere in Francia e negli Stati Uniti. Nel 1952 a Venezia riceve il premio Graziano per la Pittura; a Milano firma “Il manifesto del movimento spaziale per la televisione”, aderendo l’anno successivo al manifesto “Lo spazialismo e la pittura italiana nel XX secolo” pubblicato a Venezia in occasione della mostra spaziale al ridotto di Ca’ Giustinian, scegliendo però sempre di tenersi in posizione isolata, continuando nella propria ricerca autonoma. Per Tancredi lo spazio diventa il concreto della mente, dove energie, ansie e pensieri possono liberare ogni tipo di espressività. È, lo spazio, l’incontro dell’interiorità con l’esterno e la natura, intesa come luogo dell’emozione spontanea. L’obiettivo finale dell’artista è ritrovare e riappropriarsi della natura tramite un cammino che si confonda con l’ebrezza della libertà, e in questo senso si può dire che gran parte della ricerca di Tancredi si basa sulla triade Natura - Spazio - Libertà. Questo periodo segna per la pittura di Tancredi una stagione sostanzialmente felice. E durante questi anni il segno, il colore e il movimento si espandono sull’intero campo visivo orientandosi verso un’interpretazione lirica dello spazio. Tancredi espone in personali alla Galleria del Cavallino di Venezia nel 1952, 1953, 1956 e 1959 e alla Galleria del Naviglio di Milano nel 1953. Nel 1954 partecipa con Jackson Pollock, Wols, Georges Mathieu e altri alla mostra “Tendances Actuelles” alla Kunsthalle Bern. Nel 1955 espone in una collettiva alla Galerie Stadler di Parigi, città che Tancredi visita nello stesso anno, mentre nel 1958 tiene delle personali alla Saidenberg Gallery di New York e all'Hanover Gallery di Londra, e partecipa al Carnegie International di Pittsburgh. Nel 1959, venuto a mancare il sostegno di Peggy Guggenheim, Tancredi decide di lasciare Venezia, celebrando la decisione con la mostra alla Galleria del Cavallino dal titolo “A proposito di Venezia”. Seguono diversi viaggi in giro per l’Europa e per l’Italia, come in occasione della partecipazione alla VIII Quadriennale di Roma o in Norvegia, dove sposa la pittrice norvegese Tove Dietrichson. Nel 1960 partecipa alla manifestazione parigina “Anti-procés” organizzata da Dubuffet, Giacometti, Klein e Alain Jouffroy. Con l’inizio degli anni Sessanta, il peggioramento della situazione mentale si somma a sopraggiunte difficoltà economiche. Nel 1960 alla mostra della Galleria “il Canale” per la prima volta dalla fine degli anni 40’ ritorna a una figurazione pittorica. Qui, inserite all’interno del contesto astratto dell’opera, appaiono delle figure come larve di animali con sembianze umane, grottesche e strazianti che si esprimeranno poi dichiaratamente con le “facezie” nella serie dei matti del 1961. Negli ultimi anni di vita nasce in Tancredi un’urgenza di estrema libertà, come dirà lui nelle sue pagine di diario: «fino a che esisteranno pittori esisterà libertà»; oppure «qualunque limite posto alla libertà d’espressione di un artista e quindi di un uomo è la più seria minaccia alla vita dell’uomo, (…), io so di servire a qualcosa proprio perché non servo nessuno». Non basteranno i cicli delle “facezie” e nemmeno “i fiori dipinti da altri” ad esorcizzare la minaccia di questa realtà, ragion per cui – per Tancredi - fino a che l’uomo non avrà superato la condizione di strumento, l’uomo non potrà esistere. Questa grossa crisi esistenziale di Tancredi sembra risolversi con le ultime opere del “Diario paesano” e con il ricorso al collage. Nel giugno del 1964 partecipa con tre opere alla XXXII Esposizione della Biennale di Venezia, un invito che sembra ridare respiro e tranquillità all’artista. Poco dopo la partecipazione alla Biennale, decide di trasferirsi dal fratello a Roma, dove morirà il 27 settembre 1964, gettandosi nelle acque del Tevere. Il percorso espositivo esplora le poetiche dei principali protagonisti dello Spazialismo milanese, fucina creativa delle ricerche del movimento, con opere di Gianni Dova, Cesare Peverelli , Emilio Scanavino, Ettore Sottsass, Beniamino Joppolo, Aldo Bergolli , Gian Carozzi, autori interessati a implicazioni surrealiste ed esistenziali, sostenuti dalle iniziative espositive e culturali di Cardazzo, gallerista aperto a confronti internazionali e al coinvolgimento collezionistico con Peggy Guggenheim, aspetti che conferiscono allo scenario spazialista importanti riferimenti cosmopoliti. La rassegna documenta inoltre il notevole contributo al movimento da parte degli spazialisti veneziani, giunti alla sperimentazione sulla fenomenologia spaziale tra il 1951 e il 1952: Virgilio Guidi, Mario Deluigi , Edmondo Bacci, Vinicio Vianello, Gino Morandis , Bruna Gasparini , Ennio Finzi, Saverio Rampin e Bruno De Toffoli , protagonisti delle dirompenti novità verificate dalla pittura astratta degli anni cinquanta, con una sensibilizzazione squisitamente veneta alla luce, al colore e a un linguaggio transitato da scansioni spaziali in tramature astratte, al fascino del vuoto palpitante di segni e di deflagrazioni cromatiche. Dal carattere inclusivo del movimento e dalla ampia visione strategica di Cardazzo derivano le temporanee presenze “spazialiste” di Roberto Sebastián Matta Echaurren , di Giuseppe Capogrossi , di Enrico Donati, di Iaroslav Serpan e di Remo Bianco, testimoni delle contaminazioni surrealiste, segniche e nucleari ricorrenti nel clima interdisciplinare degli anni cinquanta. La mostra è arricchita da testimonianze documentarie (cataloghi, riviste e volumi) delle esposizioni degli anni cinquanta e sessanta, provenienti da archivi istituzionali e privati, e presenta, oltre a un contenuto multimediale su Roberto Crippa, un video dedicato ai coinvolgenti Ambienti spaziali-Environments di Fontana, geniali sperimentazioni ambientali effimere incentrate sulla nuova percezione dello spazio, realizzate dal 1949 fino alla scomparsa dell’artista. Accompagna il video una composizione musicale innovativa creata dal sound designer e produttore di musica elettronica Rico Casazza. La mostra è accompagnato da un catalogo edito da Silvana Editoriale.
Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto – Torino
Da Fontana a Crippa a Tancredi. La formidabile avventura del Movimento spazialista
dal 17 Ottobre 2025 al 15 Febbraio 2026
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto dell’Allestimento della Da Fontana a Crippa a Tancredi. La formidabile avventura del Movimento spazialista courtesy Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto – Torino