Giovanni Cardone Luglio 2023
Fino al 22 Ottobre 2023si potrà ammirare alla Galleria Civica Giovanni Segantini di Arco - Trento la mostra Orizzonti di luce. Segantini e il paesaggio divisionista: natura, memoria e simbolo progetto espositivo a cura di Alessandro Botta e Niccolò D’Agati. Le opere presenti in mostra provengono dal Segantini Museum di St. Moritz (tra le altre anche il celebre “Il ritorno dal bosco”), dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano, dalla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, dalla Collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria e dalla Pinacoteca Matteo Olivero di Saluzzo (CN), oltre che da numerose collezioni private. L’esposizione indaga la particolare predilezione che Giovanni Segantini ebbe nei confronti della natura e del paesaggio, presentando opere che spaziano in una cronologia ampia, che prende l'avvio dalle prove condotte in Brianza per chiudersi con le ricerche simboliste. Accanto alla figura di Segantini, la mostra presenta lavori nodali dei rispettivi protagonisti della stagione divisionista, offrendo al visitatore la possibilità di confrontare diverse e personali indagini sul tema del paesaggio, in un percorso finalizzato a restituire una fisionomia esemplare di quelle ricerche così come la temperie di una delle stagioni più significative dell’arte italiana. Ad affiancare la figura di Segantini, sono infatti i nomi e le opere dei pittori Giuseppe Pellizza da Volpedo, Angelo Morbelli, Emilio Longoni, Vittore Grubicy De Dragon, Luigi Conconi, Giovanni Sottocornola, Cesare Maggi, Carlo Fornara, Benvenuto Benvenuti, Guido Cinotti, Baldassarre Longoni, Carlo Cressini, Alberto Bonomi e Matteo Olivero. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Giovanni Segantini e sul Divisionismo apro il mio saggio dicendo : Dallo svilupparsi e dal diffondersi degli studî d'ottica e delle teorie scientifiche dei colori stabilite dal Newton e approfondite da H. von Helmholtz e dagli esperimenti di J. Mile ebbero origine quelle scuole pittoriche note sotto i nomi di complementarismo, divisionismo, luminismo che per vie diverse cercarono in pittura la maggiore luminosità. Ma solo molto tempo dopo la scoperta del Newton sulla decomposizione della luce nei sette colori dello spettro il Lambert riconosceva scientificamente come le sostanze coloranti si comportassero nei miscugli in modo diverso dai raggi luminosi, finché nel 1834 il Mile riusciva ad ottenere effetti analoghi al miscuglio delle luci dello spettro, accostando fra loro parti minute di colori complementari. E, poiché è provato che due sostanze coloranti mescolate mantengono attive e inalterate le proprie facoltà di assorbimento della luce, ogni miscuglio vorrà dire maggiore assorbimento di luce, cioè maggiore senso di nero - tanto più grande quanto maggiore è il numero dei colori che formano il miscuglio - mentre con l'accostamento delle sostanze coloranti si avrà una luce maggiore poiché ogni colore assorbirà luce solo secondo la propria facoltà. Si raggiunge così quello che è il significato intrinseco della pittura divisionistica: una maggiore intensità luminosa. Da tali premesse fisiche risulta chiara la tecnica della pittura divisionistica che, abolendo l'impasto e la velatura, non mescola i colori sulla tavolozza ma li stende nei suoi differenti elementi direttamente sulla tela, accostandoli in minute particelle punti, tocchetti, filamenti, perline la cui scabrosità e compattezza si avvantaggia anche di una maggiore rifrazione. La percezione dell'immagine nella sua completa fusione non avviene più in quanto essa è così creata sulla tela, ma esiste solo in quanto può avvenire la sovrapposizione e la fusione delle immagini nella nostra retina. Abbiamo, cioè, in un certo senso, un aumento di possibilità soggettive nella comprensione dell'opera d'arte, poiché è provato che le sensazioni retiniche variano nei diversi individui. Il movimento divisionista fu il frutto di un atteggiamento essenzialmente intellettualistico che trovò il suo conforto e la sua ragione d'essere nelle nuove scoperte scientifiche. Fu una tendenza idealistico-sentimentale con notevoli cenni di misticismo che, volendo reagire alle varie correnti veriste, tendeva già ad oltrepassare il luminismo impressionistico per arrivare al luminismo astratto, alla luce universale, fonte di ogni creatura. In altri termini il divisionismo si può considerare come l'estrema e paradossale conseguenza dell'impressionismo; mentre gl'impressionisti si erano fermati alla realizzazione della luce come elemento cromatico, i divisionisti vollero addirittura raggiungere la sensazione luminosa mediante formule scientifiche. Ma, se con la nuova tecnica si ottenne una pittura più chiara, più luminosa, non si può però dire che più alti fossero i suoi valori, poiché anche il valore luminoso di un quadro non dipende dalla luce che raccoglie e quindi che rimanda, ma da quelle speciali e sottili leggi dei rapporti del chiaro e dello scuro, dei contrasti tra colori caldi e freddi, luminosi o opachi già dagli antichi perfettamente intese e applicate. La troppo stretta e scientifica traduzione della legge fisico-chimica scostò molto sovente l'artista dagl'immutabili valori pittorici per produrre mediante una tecnica eccessivamente meccanica opere fredde e stancanti. Inoltre l'esecuzione risultava lunghissima, la stesa delle particelle coloranti doveva essere definitiva e l'occhio infine doveva poter sostenere sempre lo sforzo di formare immediatamente ed esattamente sulla retina l'impasto risultante dai varî accostamenti cromatici. In queste stesse difficoltà sta la condanna di quella speciale tecnica che oggi si può in realtà considerare come esponente di un movimento artistico superato, anche se alcuni divisionisti italiani hanno, come il Segantini, lasciato grande fama di sé. Il divisionismo è un movimento del tutto moderno in rapporto ai suoi presupposti scientifici; tuttavia la pittura antica mostra come già da tempo si conoscesse la realizzazione dell'immagine mediante l'accostamento e non l'impasto del colore. Tuttavia, mentre il divisionismo moderno non è stato altro che un movimento intellettualistico e un'applicazione di nuovi apporti scientifici, il divisionismo antico fu la naturale espressione di un'arte ai suoi primordî unita a ragioni d'indole essenzialmente pratica. Il più significativo esempio di divisionismo ci è offerto infatti, già nella più alta antichità, dal mosaico . Ma la ragione che spingeva il mosaicista a rafforzare il contrasto dei colori nella giustapposizione delle tessere musive era opposta a quella dei divisionisti, perché egli, così facendo, cercava il raggiungimento di quella forma e di quel disegno che la scuola moderna ha invece dissolto nel dilagante ed assoluto impero della luce. Il divisionismo nel mosaico è tanto più evidente quanto più esso è a tessere grandi e di varietà cromatica limitata; infatti quando arriviamo all'opera eseguita con tessere minutissime e con ricco assortimento cromatico, il trapasso delle zone di colore quasi si annulla nel digradare delle tinte, in modo che la fusione non avviene più nel nostro occhio ma è già avvenuta nell'esecuzione stessa. Ciò si riscontra tanto in epoca classica - sia nei mosaici di ispirazione diretta, sia nelle copie di perdute opere pittoriche quanto in età medievale, ad es. nei dittici portatili finché la logica conseguenza di questo tipo di mosaico a imitazione pittorica saranno le composizioni dei secoli XV e XVI fino ai mosaici moderni della fabbrica di  S. Pietro. Le stesse ragioni istintive che guidarono nell'antichità il mosaicista guidarono anche il pittore; tuttavia non si può parlare che con molta larghezza di senso divisionistico nella pittura classica e in quella dei primissimi secoli cristiani. Si ha divisionismo in quanto vengono usati colori nettamente distinti, non mescolati, in quanto il colorito si disgrega in elementi diversi, in quanto forma, colore, disegno e movimento devono risultare dall'insieme di questa pittura che si può anche chiamare "a macchia". Ma indebolitasi l'influenza classica, assistiamo a quello svolgersi della pittura realizzata con accostamenti di colori puri a strie, a spezzature, a tratti decisi, dove l'abbondanza delle luci bianche nelle vesti e nelle carni cerca di offrire l'idea della forma e della profondità. S. Maria Antiqua a Roma, la cripta del duomo d'Anagni, S. Angelo in Formis, S. Clemente a Roma sono pitture diverse di tempo e di tipo, dove troviamo evidente la tecnica a zone di colori giustapposte che fu seguita negli stessi tempi dai miniaturisti. Ma, se pure col progredire dei secoli tale divisionismo istintivo si mantiene nel mosaico per la stessa natura di questo, con le nuove conquiste la pittura lascia la vecchia tecnica per giungere alla velatura e all'impasto. Un interessante e curioso cenno a intendimenti divisionistici si ritrova molto più tardi nell'opera di Baldassarre Orsini, uno scenografo del '700 che nei suoi scritti sulla scenografia sfiora problemi di prospettiva aerea, di rapporti tra colore e colore, tratta della separazione dei colori puri, della "luminosità" delle masse in pittura, dello smorzamento graduale dei colori nell'ombra senza che perdano la loro luminosità, parlando anche di opere "da vedersi in lontananza e all'aria scoperta" e della conseguente "degradazione dei colori in rapporto alla distanza". In base solamente a osservazioni ed esperienze pittoriche avendo notato l'influenza che i colori esercitano uno sull'altro, ne deriva che questa influenza reciproca delle "piazze" luminose deve essere utilizzata separando sottilmente le tinte in modo che la forza del colore sia equilibrata con l'accostamento di tratti di colore diverso. Di tale divisionismo embrionale, ma tuttavia completamente sentito, egli fa largo uso arrivando infine a dire che non si deve fare uso di una sola tinta ma che questa deve essere "variata, macchiata, dirotta" in modo che le "piazze" acquistino quella luminosità da sembrare masse di colore disgregantisi in vibrazioni di cromatismo luminoso. Determinare dove per primo ai nostri giorni si sia affermato il divisionismo è cosa difficile; poiché se i pointillistes francesi risalgono a circa il 1885, già verso il 1870 in Italia Daniele Ranzoni precedeva intuitivamente le ricerche scientifiche, dipingendo con un divisionismo istintivo alcune teste dove si realizzava la vibrazione luminosa. In Francia il divisionismo ebbe il suo battesimo quando Georges Seurat della schiera dei pointillistes (detti così perché la loro pittura era fatta di puntini) espose nel 1886 Un dimanche à la Grande Jatte. Furono suoi seguaci Camille Pissarro, Paul Signac, Henri-Edmond Cross, Maximilien Luce, Th. van Rysselberghe, ma su tutti si affermò Henri Martin che cercò di applicare il puntinismo anche alla pittura murale. In Italia fra i molti novatori primeggiano Victor Grubicy, Gaetano Previati, Giuseppe Pelizza da Volpedo, Angelo Morbelli, Plinio Nomellini, Enrico Lionne, Giovanni Segantini, Carlo Fornara . Ma non tutti intesero ed espressero il divisiomsmo nello stesso modo. Il Segantini ne seppe fare un'espressione assolutamente personale in virtù della propria potenza artistica. Egli, che si era già affermato con pennellata larga e densa e con buona scienza di chiaroscuro, incitato dal Grubicy, che fu in Italia il banditore della nuova teoria, circa il 1887 rifaceva secondo i metodi divisionisti la sua Ave Maria a Trasbordo. Ma egli non divenne di colpo e non fu totalmente divisionista; nei primi suoi lavori infatti i colori sono divisi ma non ridotti ai soli complementari. Più si accostò al nuovo metodo nei quadri seguenti perché quel dipingere a filamenti si prestava alla sua specialissima pittura di alta montagna, dove tutto è vibrazione di luce. Ma poiché egli non considerò la luce come fine dell'arte ma solamente come mezzo per meglio esprimere la propria visione interiore seppe, con quei filamenti, disegnare e modellare costruendo i suoi quadri con una solidità ignorata dagli altri divisionisti. Così per ragioni più propriamente intime si dedicarono alla pittura il Morbelli e il Pelizza da Volpedo. Per il Morbelli il puntinismo era un efficace mezzo per avvolgere ogni creazione in un'atmosfera di diffuso crepuscolo, per stendere su tutto un velo che togliesse ogni determinatezza, il divisionismo è usato come mezzo di una espressione spirituale. Per il Pelizza la nuova tecnica offrì risorse di levità vaporosa e di realtà sentimentale bene adatte alla traduzione dei suoi più riposti sentimenti in ritmi sottili come nella Pastorale, nel Morticino, nella Processione. Ma mentre questi pittori usarono il divisionismo senza rompere del tutto con la tradizione antica della pittura, Gaetano Previati va considerato come il vero e più convinto divisionista, tanto che giunse a concreta-re le sue ricerche e le sue dottrine in due libri: Della pittura. Tecnica ed arte (Tor?no 1913) e I principi scientifici del divisionismo (Torino 1906). In tutte le sue opere egli si tenne strettamente aderente alla tecnica propugnata, per cui colore, disegno, espressione sono soverchiate e annullate quasi dalla continua e indefinibile vibrazione della luce. Ma a tutta questa inconsistenza vaporosa il Previati seppe dare un significato particolare d'idealità e di misticismo per cui la sua pittura non risente della mancanza di forma e di disegno. In realtà il Re Sole, il Viaggio nell'azzurro e la Passione di Cristo assurgono a valore di simboli dove veramente non si rintraccia più il colore pittorico, ma si trova solamente la luce come elemento generatore di ogni colore. Giovanni Segatini, che solo più tardi cambierà il nome in Segantini dal soprannome “Segante” datogli dagli amici milanesi, nasce ad Arco in Trentino il 15 gennaio 1858. Il padre Agostino è un venditore ambulante di chincaglierie, spesso lontano da casa nel tentativo di sollevare le sorti di una situazione economica familiare drammaticamente precaria. La mamma, Margherita de’ Girardi, una giovane originaria della Val di Fiemme; ammalatasi gravemente dopo il parto, muore, non ancora trentasettenne, nel marzo del 1865. Proprio quello della madre, “bella come un tramonto di primavera” nei ricordi del pittore , sarà uno dei principali motivi ispiratori dell’arte di Segantini. Quando il nonno b rimase orfano di madre aveva solo sette anni. Si mise in viaggio, con suo padre, per andare da Arco a Milano. Erano poveri, dovevano affrontare un cammino lungo e faticoso, questo uomo, che non aveva più la moglie, e questo bambino, senza più la mamma, ma con la stessa, grande tristezza nel cuore. Col papà aveva percorso le strade, le piazze e i giardini di Milano. Sotto un grande arco il papà gli aveva detto che di lì erano passate le truppe di Napoleone, che di lì si poteva arrivare in Francia. E il nonno un giorno, scappato di casa, si mise in marcia per andare in Francia, seguendo la direzione che il padre gli aveva indicato. Perché voleva arruolarsi: non come soldato era troppo piccolo ma come tamburino. A Milano il piccolo Giovanni viene affidato a una sorellastra di diciannove anni, Irene. Gli impegni di lavoro impediscono alla giovane donna di prendersi cura del bambino e così, nell’abbandono e nella solitudine anche il padre nel frattempo è morto “inizia la vicenda personale” di Segantini. Egli stesso la descrive come “alternativamente buona e grama,  perché anche la tristezza e il dolore non lo rendono del tutto infelice”. Il ragazzo vive senza alcuna guida, ai margini della vivace società milanese di cui conosce solo gli ambienti più miseri. Nel 1870 è arrestato per ozio e vagabondaggio e tradotto all’istituto di correzione Marchiondi, dove rimane fino al 30 gennaio del 1873, “applicato alla sezione ciabattini”. Si trasferisce quindi a Borgo Val Sugana dal fratellastro Napoleone, presso il quale lavora, privo di motivazione ed entusiasmo, come garzone e aiuto fotografo. Torna a Milano più di un anno dopo, probabilmente verso la fine del 1874. Per qualche tempo il nonno fece l’apprendista nella bottega di un tipo piuttosto bizzarro e originale. Si chiamava Luigi Tettamanzi, ma lui lo soprannominò scherzosamente “Teta-oss”, per via del suo fisico asciutto e segaligno. Aveva delle qualità, era pittore di bandiere, stendardi, addobbi per cerimonie patriottiche e religiose, insegne commerciali e scene per teatro. Pare che un giorno in cui Tettamanzi compiaciuto gli chiese: “Segantini, cosa faresti se un domani diventassi un grande artista come me?”, il nonno irriverente e ironico gli rispose: “Mi butterei dalla finestra!”.  La frequentazione della bottega di questo singolare personaggio permette tuttavia al giovane Segantini di sviluppare la sua innata propensione all’arte figurativa e di iniziare a raffinare quelle capacità tecniche che già in passato aveva manifestato, sia quando era internato al riformatorio Marchiondi, sia all’epoca in cui, monello di strada, si divertiva a ritrarre i suoi compagni di avventura. Il nonno ebbe molto presto il primo approccio con l’arte. Era ancora bambino, a Milano, quando una madre lo chiamò al capezzale della piccola figlia in punto di morte e gli chiese di farne il ritratto, perché potesse ricordarla viva. Vi si dedicò parecchie ore e, anni più tardi, scrisse di questo episodio: “Non so se il lavoro sia riuscito artistico o no, ma ricordo d’aver visto per un istante la madre così felice che pareami dimenticasse il dolore”  . Risale forse ad allora l’intuizione, che si radicò in seguito come convinzione, secondo la quale l’artista deve sì esprimere dei sentimenti, ma anche e soprattutto deve far provare dei sentimenti, toccare gli osservatori. Il periodo vissuto a Milano a partire dal 1875 è decisivo per la formazione e la maturazione di Segantini uomo e artista. Frequenta l’Accademia di Brera, seguendo dapprima le lezioni serali e poi i corsi regolari, e stringe amicizia con i fratelli Bertoni nella cui drogheria si danno quotidianamente appuntamento intellettuali e artisti. A contatto con questo ambiente culturalmente favorevole si applica e studia con accanimento, sforzo quasi eroico per un analfabeta. Il nonno non era mai andato a scuola, non aveva mai imparato a leggere e a scrivere.
Dai fratelli Bertoni, un giorno, trovò un libro la cui bellissima copertina di pelle blu attirò la sua attenzione. Si trattava di un’edizione delle “Vite parallele” di Plutarco. Si fece leggere alcune pagine e ne restò talmente affascinato che volle a tutti i costi imparare a leggere, per poter continuare da solo, senza dover ricorrere ad altri. Fu in quel periodo che iniziò a raccogliere libri di letteratura classica e moderna, di arte, di storia, di filosofia e di religione: il primo nucleo di una straordinaria biblioteca che più tardi avrebbe allestito nell’atelier di Maloja, ricca di vere e proprie rarità, prime edizioni, incunaboli e testi manoscritti. Minor convinzione Segantini mostra invece nei confronti degli studi accademici, poco incline a condividere la disciplina e i rigidi dettami di una scuola che reputa più adatta a produrre arte mercenaria che a scoprire e stimolare estro e genio. Ciononostante frequenta con regolarità e profitto i corsi annuali, che fino al 1878 conclude se brillantemente, meritando medaglie e menzioni speciali. Non completa tuttavia il curriculum della scuola di pittura, forse a causa dei problemi economici che continuano ad assillarlo e a cui cerca di far fronte impartendo lezioni di disegno e arrivando persino a impegnare le medaglie vinte all’Accademia. Una prima svolta nella vicenda, non solo artistica, di Segantini si verifica nel ’79, quando viene esposto a Brera Il coro di S. Antonio, esercitazione finale del corso di prospettiva. L’inatteso successo dell’opera, che si segnala all’attenzione dei critici più autorevoli del tempo, consente al pittore di entrare in contatto con i galleristi Vittore e Alberto Grubicy de Dragon, che stanno organizzando a Milano un mercato dell’arte italiana sull’esempio di quelli di Londra, Parigi e Amsterdam. Certo del talento del giovane allievo dell’accademia, Vittore inizia ad acquistare per le sue esposizioni i quadri di Segantini; più tardi, nel 1883, stipulerà con lui un contratto di procura che gli assicura tutta la produzione segantiniana, di cui può disporre liberamente, in cambio di un vitalizio. Si risolvono così, almeno in parte, i problemi finanziari di Segantini, che in questo periodo si dedica principalmente a dipingere su commissione fiori, nature morte e ritratti. Nel 1879 conosce Luigia Bugatti, detta Bice, sorella dell’amico ebanista Carlo, futuro disegnatore di mobili di grido e padre di Ettore, il famoso produttore di auto da corsa. Modella per il quadro La falconiera, Bice diventerà la compagna fedele di tutta la sua vita. I due non si sposeranno mai e dalla loro unione, sempre nutrita da un sentimento vivo e profondo, nasceranno Gottardo (1882), Alberto (1883), Mario (1885) e Bianca (1886). Il nonno era apolide e questo è uno dei motivi per cui non si sposò regolarmente. Nacque come cittadino austriaco, perché Arco faceva parte dell’impero asburgico.  A Milano, da poco entrata nel Regno d’Italia, rinunciò alla nazionalità austriaca, senza però richiedere l’iscrizione ai registri del comune. Quando conobbe Bice avrebbe potuto farsi Italiano. Ma Bice non volle, perché altrimenti il nonno avrebbe dovuto andare all’arma: “Le sue mani – diceva erano mani d’artista, non erano mani fatte per toccare le armi”. Dall’ottobre del 1881 alla primavera del 1886 Giovanni e Bice vivono in Brianza cambiando casa più volte, da Pusiano a Carella, da Corneno a Caglio. Come scriverà anni dopo, nella solitudine, nella pace e nella dolcezza di questo ritiro fra i colli e i laghi, “riproduceva i sentimenti che provava, specialmente nelle ore della sera, dopo il tramonto, quando il suo animo si disponeva a soavi melanconie”  . Tuttavia Milano continua a rappresentare per Segantini un punto di riferimento imprescindibile, sia per i legami commerciali con i fratelli Grubicy, sia per la partecipazione al dibattito culturale che ha per principale interlocutore Vittore, ma anche altri intellettuali e artisti. Il mecenate svolge un ruolo di primissimo piano nel processo di maturazione artistica di Segantini: lo informa sul realismo francese e olandese, gli fornisce libri e riproduzioni di dipinti e ne favorisce l’apprezzamento per Millet, che lascerà una traccia sensibile nella sua opera. E grazie a Grubicy, che espone i suoi quadri nelle principali città europee, Segantini ha l’occasione di farsi conoscere e imporsi alla platea internazionale. Le opere di questo periodo, che paiono intonarsi a un verismo in cui la schiettezza popolana viene tradotta con grande evidenza dalla resa formale e dalla altissima tecnica pittorica, assumono in realtà una dimensione simbolica che sopravvanza il modello realistico e la pittura di genere.
È il caso di Ave Maria a trasbordo e di A messa prima. Dipinta a Pusiano su suggerimento dell’amico pittore Emilio Longoni, Ave Maria a trasbordo sembra rappresentare la celebrazione di un rito universale che coinvolge uomini, animali e natura nella gestualità quasi pregante del contadino che voga e nella silenziosa devozione con cui la madre abbraccia il bimbo. Più di ogni altro quadro famoso di Segantini contiene elementi e immagini fortemente evocativi della religiosità dell’artista, sintesi della filosofia panteista con la tradizione cattolica, fede in un Dio che è nell’intimo di ciascun uomo come in tutte le manifestazioni della natura e del cosmo. Il nonno era profondamente religioso, anche se visse il suo rapporto con Dio in maniera molto personale. Con la mamma aveva frequentato la chiesa, perché quando si è poveri, malati e sofferenti si va spesso in chiesa a pregare. E l’atmosfera delle chiese, calda e misteriosa, suscitò nel bambino un’impressione intensa e durevole. In un angolo della casa si era costruito un altarino con le immaginette dei santi. Un giorno il parroco del paese fece visita alla famiglia e regalò al piccolo un quadro del matrimonio di Maria, dove le figure dei sacerdoti erano rappresentate con gli abiti e i paramenti tipici della tradizione ebraica. Il nonno rimase così deluso e confuso nel vedere i preti in una foggia diversa da quella a cui era abituato e in cui credeva che subito distrusse l’altare e da allora guardò sempre con diffidenza e scetticismo alle istituzioni religiose. Penso che Giovanni Segantini sia stato un precursore dell’arte contemporanea tant’è vero che sul finire del XIX secolo, con il colossale trittico dal titolo La vita, La natura e La morte, Giovanni Segantini realizzò una delle ultime e più significative opere programmatiche della propria epoca. Ideato come ciclo monumentale da esporre all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1900, il maestro lo aveva inteso come rappresentazione dell’esistenza umana in perfetta armonia con la natura. Le semplici figure agresti e gli animali in esso raffigurati, infatti, si muovono entro il perenne ciclo delle stagioni. Inoltre, con l’imponente panorama del paesaggio alpino dell’Engadina, l’artista creò una visione panteistica di straordinario impatto figurativo, una vincente controproposta pittorica alla dura e opprimente realtà dell’industrializzazione metropolitana. La fama internazionale di Segantini, così come la sua valenza nella storia dell’arte, sono legate all’originale convivenza, nelle sue opere, di una natura osservata in modo acritico e un intrinseco valore profondamente simbolico. L’artista riuscì a far confluire il paesaggio alpino, colto in tutte le sue sfumature e senza eccessivo illusionismo, in immagini allegoriche di straordinaria luminosità. Se da un lato Segantini, con le sue immagini delle Alpi, può essere inteso come uno dei principali esponenti del simbolismo europeo, dall’altro il divisionismo italiano, che da lui fu notevolmente influenzato, può considerarlo un innovatore dell’arte pittorica. È proprio nella pittura dei divisionisti che possiamo riscontrare il segreto della luminosità dei dipinti di Segantini. La tecnica divisionista caratterizzata da fini pennellate, ravvicinate tra di loro, di puro colore rappresenta il suo determinante contributo alle correnti avanguardiste poco prima dell’avvento del nuovo secolo. Innovativa e rivoluzionaria, influenzò enormemente le successive generazioni di artisti, tant’è che gli stessi futuristi italiani, gli iconoclasti contemporanei, fecero di Segantini il loro modello ispiratore.
La mostra è suddivisa in tre sezioni tematiche:  
Natura, Simbolo, Memoria :
Che propongono uno sguardo complessivo sulle possibili declinazioni del genere del paesaggio in quegli intensi decenni di elaborazione pittorica, offrendo la possibilità di avvicinarsi ad opere note e meno note, difficilmente visibili e raffrontabili direttamente nel loro insieme. Infine, una sala è dedicata alla Collezione permanente della Galleria civica, con opere di Giovanni Segantini del periodo milanese e brianteo di proprietà della Città di Arco ed in deposito a lungo termine presso il Museo.
Natura
Partendo dal caso esemplare di Giovanni Segantini, la sezione si focalizza sull’attrazione del dato naturale e paesaggistico inteso nella sua accezione più pura ed estetizzante, in riferimento soprattutto al contesto ambientale montano. Le celebri tele Ritorno dal bosco (1890) e Vacca bruna all’abbeveratoio (1892), condotte dal maestro arcense attraverso l’uso la tecnica divisionista e realizzate entrambe a Savognino, nel cantone dei Grigioni, in Svizzera, aprono ad un gioco di confronti con le opere di Cesare Maggi, Carlo Fornara ed Emilio Longoni. Rispetto a Segantini, la presenza di queste tele permette di evidenziare non soltanto una comunità d’intenti con artisti a lui contemporanei ma anche l’eredità lasciata da questo nei confronti di una più giovane generazione di pittori, che si pongono – talvolta con riproposizioni quasi palmari delle sue opere, soprattutto da un punto di vista tematico – nel solco della sua lezione.
Simbolo
In linea con le ricerche condotte al di fuori del contesto italiano, la sezione vuole offrire uno sguardo rispetto a quelle indagini ormai mature – attestabili intorno alla seconda metà degli anni Novanta – che si distanziano da quell’approccio di osservazione pura e mimetica del dato naturale tradizionalmente invalso nelle proposte figurative veriste. Per i pittori divisionisti, il paesaggio, oltre a rappresentare un momento di riflessione stimolante rispetto ai suoi valori luminosi, diventa anche il luogo privilegiato per condurre estrinsecazioni di carattere simbolico e ideale, secondo una prassi di gusto e di ricerca che ricorre nel contesto figurativo internazionale dell’epoca. La natura e l’ambiente si caricano di fascinazioni sinestetiche e letterarie, portando le ricerche di alcuni autori verso una resa ormai antinaturalistica del paesaggio. Le variazioni segantiniane sulle tematiche simboliste, attorno al ventaglio L’amore alla fonte della vita (1899) e all’Angelo della vita (1894-1896), sono affiancate dalle opere di artisti quali Giuseppe Pellizza da Volpedo, Vittore Grubicy De Dragon, Matteo Olivero, Benvenuto Benvenuti e Alberto Bonomi, che investono il paesaggio di una profonda risonanza simbolica, mostrando la capacità stessa della pittura di assolutizzarsi in quanto veicolo di un’emozione interiorizzata.
Memoria
La sezione trova fondamento nel pensiero e nell’impegno di Vittore Grubicy De Dragon. Nei suoi scritti, il critico, pittore e mercante mette al centro dell’esperienza figurativa la soggettività dell’artista, attribuendo alla natura il punto di partenza per un processo conoscitivo volto a restituire non tanto il vero naturale, ma piuttosto l’emozione e il sentimento provato di fronte al motivo. Il paesaggio diventa dunque luogo della memoria, in grado di risvegliare sensazioni ed emozioni anche lontane nel tempo, che solo attraverso l’estrinsecazione pittorica possono essere ridestate. Una ricerca che molto spesso spinge gli artisti a privilegiare la resa di fenomeni ambientali e luminosi transitori - albe, crepuscoli, ombre improvvise - ben evidente nelle tele di Giovanni Sottocornola, Carlo Cressini e Luigi Conconi presenti in questa sezione. Stati temporanei e mutevoli della natura che rispecchiano, per estensione, il senso misterioso e inconoscibile della vita come della stessa interiorità umana. Un contesto d’indagine che si unisce ad una profonda riflessione sulla stessa tradizione (intesa appunto anche questa come forma di memoria) della pittura Ottocentesca di paesaggio, che viene riletta dagli artisti di questa generazione alla luce di una esaltazione della valenza decorativa del segno e del colore.
 
 
Galleria Civica Giovanni Segantini di Arco – Trento
Orizzonti di luce. Segantini e il paesaggio divisionista: natura, memoria e simbolo
dal 20 Maggio 2023 al 22 Ottobre 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Lunedì Chiuso 
 
Le foto dell'inaugurazione della mostra sono di Michele Comper - ufficio stampa del Comune di Arco