Giovanni Cardone Settembre 2021
Fino all’8 Novembre a Napoli si potrà ammirare al Museo Madre la mostra Utopia Distopia : il mito del progresso del Sud a cura di Kathryn Weir. Concepita in relazione alla collezione del Madre che intende indagare attraverso le opere di cinquantacinque artisti italiani e internazionali, le pratiche contemporanee che hanno risposto ai massicci cambiamenti sociali dell’ultimo mezzo secolo: urbanizzazione, industrializzazione, creazione di nuove periferie urbane, svuotamento delle campagne, lotte relative alle libertà e alle restrizioni del corpo.  Dopo le chiusure dovute all’emergenza sanitaria, al cui superamento ha dato un significativo contributo ospitando il Covid Vaccine Center, la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee inaugura la nuova stagione del Madre. È una sorta di punto zero +, quello da cui il museo vuole ripartire, non cancellando l’esperienza già vissuta ma vivificandola di una nuova energia che deriva dal riconoscimento della propria capacità di fare rete, di integrarsi non solo con il tessuto campano e italiano, ma anche con quello internazionale, cogliendo ogni possibilità di dialogo e di penetrazione nelle realtà artistiche contemporanee: è questo respiro più profondo e ampio che prova quanto possa la creazione di una salda rete di relazioni virtuose con artisti, collezionisti, galleristi e protagonisti dello scenario dell’arte contemporanea, a cominciare dalla nomina di un Comitato scientifico di altissimo livello internazionale. Perciò è questo un segnale di ripartenza stabile e duratura, che segna crescita e distacco da una stagione in cui, a causa della pandemia, sono stati innescati profondi cambiamenti in tutte le istituzioni culturali. Come afferma  Kathryn Weir : “Il modernismo e l’associata idea del progresso affermano la capacità degli esseri umani di rimodellare la propria vita e il proprio ambiente con l’aiuto della tecnologia e della scienza, creando infrastrutture moderne e dando accesso a servizi medici, all’educazione e al lavoro salariato. Nuove scelte e libertà erano le prospettive delle donne e degli individui emarginati o economicamente svantaggiati. Molti di loro si sono trovati isolati nelle periferie, in piccoli nuclei familiari e con un lavoro precario, mal pagato e pericoloso. Aprire spazi di scambio e sperimentazione artistica nelle periferie è stata una delle grandi utopie che hanno animato diversi artisti nel contesto napoletano a partire dalla fine degli anni Sessanta. Allo stesso tempo, numerose artiste hanno interpretato, attraverso le loro opere, la visione mediatica dominante della donna come oggetto sessuale, lontana dall’indipendenza e dal rispetto dichiarato da una società che si proclamava progressista. Viene esplorato anche il potenziale dell'intervento artistico di aprire spazi di trasformazione all'interno di realtà distopiche, e di creare alternative. Un gran numero di artisti ha cercato la via d’uscita da un apparente vicolo cieco, mettendo in discussione, in prospettiva storica, l’ordine costituito e le norme comunemente accettate. Dal periodo dell’unificazione d’Italia, vissuta spesso come l’indebita imposizione di un sistema economico e sociale settentrionale, l’esistenza di un sud svalorizzato e sfruttato viene rinforzata. Il progresso e il sistema economico di crescita del capitale hanno richiesto un’espansione costante, lavoro a basso costo, nuove risorse. Nel Mezzogiorno questo sistema ha portato all'espropriazione dei terreni e alle migrazioni verso il nord e le grandi città, con la conseguenza della perdita delle radici, dell’identità culturale e della memoria. Il sociologo francese Pierre Bourdieu ha definito il neoliberismo come “un programma di distruzione delle strutture collettive capaci di ostacolare la logica del mercato puro” (Le Monde diplomatique, dicembre 1998). Nonostante ciò, il Sud si afferma come territorio dove queste strutture e i relativi valori vengono preservati, e dove si celebra ancora, collettivamente, l’estrema bellezza e fragilità dell'esistenza: un territorio dove si può immaginare un altro futuro”.  Andando verso il Museo Madre sono passato prima per il Duomo poi per la Cappella di Sansevero ed infine l’arrivo al Madre per vedere questa rinascita dopo il Covid-19  e questa meravigliosa mostra  che nel contempo mi ha fatto pensare a Lucio Amelio e Joseph Beuys che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso molto hanno dato a questa città. Quest’anno  ricorrono i cento anni dalla nascita Beuys, una sua opera farà parte della collezione del Museo Madre ‘La rivoluzione siamo noi’ del 1971. Partendo da questo concetto filosofico, antropologico e politico di Beuys che cerca di perseguire e realizzare il suo «concetto ampliato d’arte» . Uno dei temi che tento di dibattere da anni nelle lezioni e nei seminari  che propongo agli studenti e di capire effettivamente attraverso le sue opere quello che Beuys narrava o meglio raccontava di un capitalismo inteso come sistema economico moderno e occidentale  che si contrapponeva al socialismo e al comunismo argomenti che lui amava parlare, ma nel contempo erano sicuramente scottanti e di una certa rilevanza durante il periodo della Guerra fredda. Perché erano correlati al capitalismo il quale produce senza dubbio, denaro,  merce e infine consumo, certamente su questo tema si sono dibattuti Bürger e i filosofi Cometti e Marcuse. Abbiamo già visto, in realtà, che tutti i filosofi della Scuola di Francoforte prendono come punto di partenza il pensiero di K. Marx e la sua opera più illustre: Il Capitale (Das Kapital), il cui primo libro venne pubblicato nel 1867 e gli altri due invece post-mortem, rispettivamente nel 1885 e nel 1894. Uno degli environment di Beuys più celebri fa riferimento proprio a quest’opera e s’intitola: Das Kapital Raum 1970-1977, dove la parola Raum può venire tradotta dal tedesco come “spazio” o “stanza” (meglio spazio). Verrà riproposto in più sedi espositive: si cercherà di comprendere l’eterogeneità dell’opera nel suo complesso e di capire il senso della parola «capitale» per l’artista. L’environment completo è caratterizzato da trentasei lavagne appese al muro, quattro lavagne appoggiate a una parete laterale e altrettante sparse a terra. Inoltre tra gli oggetti presenti si elencano un pianoforte, un’ascia, unmicrofono, un registratore, un proiettore, un grande secchio con un pezzo di sapone affiancato, un innaffiatoio, una scala e altri piccoli oggetti comuni al repertorio dell’artista. Tra le lavagne le trentasei sopra citate sono state realizzate durante i cento giorni di dibattiti a Documenta 6 di Kassel nel 1977, le quattro lavagne appoggiate ai lati, invece, sono antecedenti e risalgono alle discussioni avvenute all’interno dell’Ufficio per la Democrazia Diretta attraverso Referendum a Documenta 5, nel 1972. Nel 1974 parte di queste lavagne vennero utilizzate per la mostra Art into Society - Society into Art organizzata nell’Institute of Contemporary Arts a Londra. Qualche anno dopo, nel 1978, trentuno lavagne utilizzate per l’environment completo di Das Kapital vennero invece installate all’interno del temporaneo «Museo del denaro» grazie alla volontà di Jürgen Harten, curatore tedesco e direttore per molti anni della Kunsthalle di Düsseldorf. L’environment completo è stato presentato anche alla Biennale di Venezia del 1980, intitolata L’arte degli anni ’70 e poi installato nel 1984 alla Hallen für Neue Kunst a Schaffhausen , una piccola cittadina nel nord della Svizzera. Oggi l’opera è visibile all’interno dell’Hamburger Bahnhof di Berlino  ed è parte della collezione del celebre imprenditore e collezionista d’arte tedesco Erich Marx (che oltre a quelle di Joseph Beuys ha collezionato le opere di Anselm Kiefer, Robert Rauschenberg, Cy Twombly e Andy Warhol). L’intera collezione Marx è, al momento, un prestito permanente della National Gallery di Berlino. Tra le numerose lavagne presenti nell’installazione Das Kapital ve ne sono due rappresentanti un cubo con una leva sottostante: il cubo, figura solida e terrena, rappresenta proprio il soggetto dell’opera, ovvero il capitale che deve essere mosso e capovolto dalla “leva” del cambiamento e della rivoluzione . Tra i tanti diagrammi e disegni abbozzati presenti sulle lavagne si riesce a decifrare bene solo qualche scritta: una di queste, ad esempio, porta il titolo Free International University l’università libera fondata da Beuys, al di sotto del quale la discussione è divisa in punti, quasi fosse una parte del programma della suddetta università. Un’altra iscrizione ripete più volte in carattere maiuscolo e in maniera quasi convulsa: «Non-art as art or art as non-art», una contraddizione in termini e un gioco di parole che sconvolge, ancora una volta come per il “cubo” del capitale, le certezze e i preconcetti riguardo all’arte. Cosa è arte e cosa non-arte? Si domanda Beuys. E soprattutto esiste davvero un confine, un limite che distingue e definisce l’arte dalla non-arte? Molte sono nostre categorie: quello che sostiene l’artista sappiamo essere un «concetto ampliato d’arte» che si ricollega a tutti i campi del sapere e della vita. Un’atra riflessione può essere fatta tenendo in considerazione gli oggetti presenti in questo “environment”: un’ascia si trova appoggiata ai piedi di un pianoforte. A terra vi è della gelatina indurita che sembra essere stata tolta dal pianoforte proprio grazie allo strumento affilato. Qui si nota il contrasto tra uno strumento musicale e raffinato come il pianoforte e uno strumento, invece, rozzo e primitivo quale un’ascia. Sono entrambi strumenti, questo è certo, ma la relazione che intercorre tra i due non è di certo immediata. Anche in questo caso, con un’associazione di questo tipo possono scaturire delle «controimmagini». L’arte è irrazionale, tocca dei punti profondi della nostra psiche che non possono essere facilmente compresi dalla ragione. Per quale motivo, dunque, sembra che in quest’opera tanto complessa si voglia dibattere sull’arte, anche quando nel titolo è presente un termine ‘capitale’ che tocca un ambito apparentemente molto distante da questa? Si cercherà di chiarirlo subito. Innanzitutto dobbiamo definire il termine capitale secondo quanto intendeva K. Marx , per il filosofo il capitale era sostanzialmente legato al denaro e alla ‘forza-lavoro’ necessaria a produrlo. Beuys conosce bene Marx e si rende conto dell’importanza del suo pensiero, ma non concorda affatto né con il suo concetto di capitale né con quello di «materialismo storico» che si connette a esso: mettendo da parte le esigenze materiali di base come quelle di mangiare, bere e vestirsi, infatti, l’uomo possiede una dimensione spirituale che necessita di essere approfondita. Il capitale per Beuys, dunque, non è altro che l’insieme delle energie spese per produrre qualcosa di creativo. Il capitale è arte e l’arte è capitale, come esplica l’equazione e l’identità da lui stesso coniata: Kunst = Kapital, iscrizione che riporta a mano anche in alcuni multipli risalenti al 1979, che sono, in realtà, delle banconote. In questo ‘spazio’ dedicato al capitale,dunque, non si accumulano né beni di consumo, né denaro e non viene data importanza a nessun tipo di valore economico, ma piuttosto a un processo che modella una società di tipo democratico. Bisogna intendere il capitale nell’accezione di «capitale umano»: l’insieme delle capacità dell’uomo come la mente, l’intelligenza, l’arte e la creatività, che lo rendono ciò che è, al massimo grado. Dunque in Das Kapital Raum si riscontra, più che una critica al capitale e al capitalismo intesa in senso strettamente economico, su cui ha fondato la propria teoria K. Marx, una rivalutazione del termine che parte dall’etimologia latina caput, la testa e quindi lo strumento essenziale dell’uomo per sviluppare l’azione creativa. Quest’accezione è quella che davvero interessa Beuys. Alcuni punti di riflessione su questa tematica emergono anche da un’intervista che Volker Harlan, critico d’arte e prete tedesco di Dresda organizza per l’artista il 23 aprile del 1979 presso la chiesa di St. John a Bochum in Germania.Con queste parole incisive e d’impatto l’artista vuole intendere che il vero capitale a cui ogni uomo dovrebbe aspirare è quello legato alla personale dignità e creatività, che hanno un valore inestimabile. L’arte per Beuys deve avere la capacità di modificare il concetto degenerato di capitale che sta alla base dell’economia moderna. Poche righe più avanti l’artista afferma che “capitale è ciò che è l’arte. Capitale è la capacità umana e ciò che fluisce da essa”. Bisogna giocare tutto, perciò, sul pensiero e sulla mente dell’uomo che può essere tanto potente da sviluppare la società e cambiarla in ciò che di meglio ci può essere. Dedicando un’intera opera a questo concetto, Beuys intende dunque affermare che l’arte, in quanto capitale, è l’unico vero mezzo che permette all’uomo di essere libero, anche dalle dinamiche del mercato legate alla produzione e al consumo di merci. E proprio di capitalismo e di mercato si parla durante un’altra intervista che, questa volta, Achille Bonito Oliva critico d’arte, curatore e accademico italiano rivolge a Beuys, il 12 ottobre del 1971 a casa Orlandi, ad Anacapri.
Da questa emerge che l’arte e la creatività rimangono intatte dalle ingiustizie perché operano attraverso un principio sociale e democratico. Beuys afferma che l’ingiustizia è propria di tutti i mercati, indifferentemente, dunque anche di quello dell’arte, ma che questa non viene degradata dall’abuso del mercato, come accade in maniera decisiva in altri campi. Quello che vorrebbe l’artista è che il capitalismo venisse abolito, ma ancora non si è trovata una soluzione affinché questo avvenga. L’artista porta avanti in modo determinato gli ideali di democrazia, comunismo, socialismo, creatività e libertà assoluta: in questo periodo iniziavano le sue prime opposizioni all’Accademia di Düsseldorf affinché ogni studente potesse accedere ai corsi e non venirne escluso. Egli pensava che tutti gli uomini, in quanto, liberi hanno il diritto di studiare. Questi argomenti verranno approfonditi anche in seguito, al momento di parlare dell’impegno politico di Beuys. Dall’intervista con Achille Bonito Oliva l’artista riassume con queste parole la sua visione della libertà dell’uomo: «Penso che il sistema non possiede nessun mezzo di potere contro il desiderio di libertà dell’uomo. Nell’attimo in cui gli uomini dicono: noi siamo liberi, noi vogliamo autodeterminarci, è finito il principio capitalistico».  Il principio di autodeterminazione degli uomini è fondamentale per Beuys e il suo impegno socio- politico, come si vedrà in seguito, è volto anche a questo. Questo era il Beuy che tra il 1979 e il 1980 prese corpo una delle grandi ispirazioni di Amelio attraverso la presentazione di un gruppo di artisti campani subito assorbito in quella particolare temperie figurativa battezzata “Transavanguardia”: Mimmo Paladino, Francesco Clemente e Nino Longobardi esposero nella galleria, mentre in una rassegna disseminata sul territorio venne fatto il punto sulla “Nuova creatività nel Mezzogiorno”. Gli anni ottanta si aprirono con un avvenimento che resta tra i più significativi di quel decennio per Napoli: l’incontro che Amelio riuscì a organizzare tra Andy Warhol e Joseph Beuys, per la presentazione della serie Beuys by Warhol. Incontro tra i meno scontati dell’arte contemporanea: se infatti Beuys poteva rappresentare la spiritualità dell’agire artistico, la concezione dell’arte come un processo di liberazione universale, Warhol era ormai cementato nel ruolo di icona dei mass media, che ne avevano fatto il prototipo dell’artista contemporaneo. Invece tra i due artisti il cui incontro fu seguito con vivissima curiosità dalla stampa e dal pubblico si stabilì inaspettatamente una corrente di interesse reciproco: evidentemente il fiuto di Amelio aveva funzionato anche in questo caso. Tra la profondità di Beuys, la sua fede nella moralità dell’arte, e la freddezza di Warhol, il suo cinismo mercantile che rappresentavano due estremi del mondo dell’arte, le inconciliabili differenze tra cultura americana e cultura europea, ma anche due facce della complessa personalità di Amelio – era scattata una complicità segreta. L’idea di Terrae Motus incominciò a prendere forma la stessa notte del terremoto del 23 novembre 1980 con la terra che tremava e distruggeva. Lucio Amelio intuì immediatamente che la forza creativa dell’arte poteva contrapporsi all’evento naturale, intendendo naturalmente il sisma come metafora di una condizione perenne di sommovimento della coscienza, come qualcosa di connaturato all’”atto artistico”. “Se la natura è in grado di produrre catastrofi e terremoti, solo l’artista riesce a realizzare nel disordine che ci governa un ulteriore gesto di disordine ma organizzato secondo leggi formali che governano un particolare ordine. In tal modo l’arte non è mai duplicazione della realtà, raddoppiamento naturalistico delle cose”. E così artisti quali Andy Warhol, Joseph Beuys, Carlo Alfano, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Nino Longobardi, Piero Gilardi , cominciarono a lavorare su questa idea. Arrivarono le opere in dono. Il 20 novembre 1982 Lucio Amelio decise con le sorelle Anna, Lina e Giuliana di creare la “Fondazione Amelio”, per poter tutelare la complessità del progetto e la collezione che stava nascendo e crescendo sempre di più. A partire dal 1983 cominciarono anche le prime esposizioni internazionali: all’Institute of Contemporary Art di Boston, nel 1984 la prima mostra a Villa Campolieto - Ercolano seguita nel 1986 da una seconda manifestazione; ma nel 1987 ci fu l’evento che sancì il riconoscimento internazionale di “TerraeMotus” al Grand Palais di Parigi.
La collezione conta circa cento opere di 65 artisti provenienti da ogni parte del mondo e per così dire fotografa l’andamento caotico, confuso, magmatico delle correnti artistiche degli anni Ottanta che si presentano con tutte le loro contraddizioni, sovrapposizioni e intrecci. Questo ci fa capire che Napoli una città che vive di luci e di ombre grazie ad Amelio e Beuys i quali sono riusciti ha lasciare una traccia indelebile, oggi più di ieri manca quell’approccio al pensiero sociale e politico che questa mostra ci indica alla riflessione, sulle ‘ideologie’ sul ‘pensiero’ e sull’ ‘azione’. Ecco perché analizzando le parole ‘Utopia e Distopia ’ sono fondamentali per capire questa mostra, la lunga storia dell’utopia, se per alcuni inizia già con la kallipolis platonica o, in generale, nella cultura della Grecia classica in senso stretto e “tecnico” nasce con Thomas More, il quale ne inventò il nome e ne definì il paradigma. Dopo il 1516 utopia diventa “genere”, solo parzialmente narrativo, si sviluppa in una molteplicità di forme nei secoli successivi, raggiungendo la sua acme quantitativa nel XVIII secolo e iniziando un lento declino a partire da metà Ottocento, in concomitanza con il graduale affermarsi della distopia. Lo strutturarsi e il diffondersi del modello distopico non è però la causa della crisi di quello utopico: è semmai più corretto vedere in esso uno stimolo che ha spinto l’utopia a cercare nuove forme di espressione, nuovi terreni su cui misurarsi. Questo processo ha una prima e importante manifestazione a partire dai primi decenni del Novecento quando, con la drastica riduzione di testi volti a descrivere società utopiche, si è assistito al fiorire di studi, quali, ad esempio, quelli di Bloch, Mumford, Mannheim, Marcuse, dedicati a riflettere sulla natura e sul ruolo dell’utopia. Per altro verso, in questi ultimi anni, si è registrato un desiderio di utopia, legato all’ambizione di cambiare i modi di partecipazione alla vita politica. Sono infatti nati alcuni movimenti (gli Indignados, i gruppi dell’Occupy o quelli che teorizzano gli aspetti democratici della rete) che si pongono come alternativi alla politica “tradizionale” di cui affermano la “fine”, esprimendo un generico bisogno di rendere concreta l’utopia. Il limite di tali movimenti sta nel contrasto tra una concezione radicale di quest’ultima e l’esigenza di realizzarla, se è vero che  e forse il ’68 l’aveva già dimostrato la realizzazione comporta l’accettazione del compromesso, teoreticamente incompatibile con l’utopia .Nelle pagine che seguono intendo sviluppare una linea di discorso d’altro genere, individuando due tematiche le quali pur essendo tra loro metodologicamente e contenutisticamente molto diverse  pongono in luce come l’utopia, cambiando parzialmente di natura, di linguaggio, di status abbia oggi ancora delle interessanti prospettive da proporre al dibattito filosofico contemporaneo. Anzitutto vorrei soffermarmi sul destino che nel Novecento ha avuto l’utopia quale modello di “società altra”, proponendo un’analisi incrociata tra alcune distopie che hanno un finale aperto e qualche utopia che presenta uno schema utopico perlomeno incerto. Il mio scopo è mostrare come non sia facile individuare con nettezza un’estraneità di linguaggio tra utopia e distopia, poiché, se nella molteplicità delle distopie ve ne sono alcune che tendono al superamento del negativo, subendo dunque un influsso dalle utopie, spesso queste ultime non riescono a evitare l’incertezza che emerge dalle prime. In secondo luogo, vorrei esaminare il modo in cui due importanti filosofi, quali John Rawls e Robert Nozick, utilizzano e modificano il concetto di utopia inserendolo, seppure in termini differenti, entro la prospettiva della filosofia politica normativa. In questo modo utopia cambia statuto e cessa di essere puntuale descrizione di una società immobile e perfetta, divenendo paradigma di possibile, anche se non di necessaria né immediata, realizzazione. È un luogo comune sostenere che, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, non vi sia più spazio per l’utopia; eppure è proprio il suo intrecciarsi con il modello distopico che probabilmente rende ancora possibile immaginarla e pensarla. A un Legislatore, più autoritario che autorevole, che ha creato un “altrove”, basato sia sul radicale rifiuto del banale, asfittico mondo “normale” sia su un’etica del lavoro fine a se stessa, e che si richiama a un tempo irrimediabilmente passato, si oppone una giovanissima antagonista, non eroica, ma determinata a varcare il muro di questa società altra, dove è nata e di cui sa cogliere lati positivi e limiti.
Il progetto è destinato a fallire: nell’ultima scena del film l’“altrove” appare abbandonato e vuoto, logica conseguenza di una alterità costruita esasperando una diversità insostenibile le cui caratteristiche di fondo hanno aspetti apparentemente contrari, ma in realtà paralleli, a quelli della insulsa e vuota società cui vorrebbe opporsi. Tuttavia è ancora possibile separare i generi e, nello stesso tempo, individuare, come si diceva, sia distopie che subiscono l’influenza dell’utopia, sia utopie “incerte” e problematiche. Il rovesciamento del clima cupo proprio delle distopie è già evidente in un classico quale Fahrenheit 451 di Ray Bradbury  del 1953 la piccola comunità che conserva la memoria dei libri assiste da lontano alla fine della società distopica , accendendo la speranza che la civiltà degli uomini, come la Fenice, possa rinascere ogni volta dalle proprie ceneri .Un finale più radicalmente “ribaltato” è frequente nelle distopie “sconfitte” di José Saramago, che si strutturano su un doppio binario. Saramago spezza l’oppressione distopica opponendo a una situazione vessatoria e opprimente la prospettiva di un futuro migliore. Al destino di tutti coloro che un onnipotente e totalizzante sistema, sorta di enorme città-mercato, ha metaforicamente imprigionato e incatenato, si oppone un piccolo gruppo di persone, formato da due uomini, due donne e un cane che riesce ad allontanarsi dal mondo distopico, intraprendendo un viaggio  ma che è certo premessa di un riscatto. Una prospettiva d’altro genere apre Solaris del1961 di Stanislaw Lem, un “classico” della science fiction, dove l’alieno è solo il simbolo della diversità. L’alterità nasce dall’impossibilità per gli esseri umani di comprendere il pianeta Solaris dal punto di vista gnoseologico ed l’“altro” esiste, ma è, appunto, incomprensibile più che minaccioso. Il pianeta e il suo misterioso oceano subiscono l’invadenza umana, sviluppando solo una blanda forma di curiosità “difensiva”  Solaris rimane tenacemente “altro”, ha una razionalità propria, inaccessibile all’uomo, che giudica le sue manifestazioni miracoli, sebbene “crudeli”, perché gli è impossibile stabilire col pianeta ‘rapporti di intesa’. Per altro verso, le poche utopie contemporanee non sempre descrivono società perfette e compiute. Walden Two, dove il richiamo a Thoreau è solo parziale, è caratterizzata da una convivenza pacifica, da una vita comunitaria egalitaria e collaborativa, dall’educazione comune dei bambini, dalla riduzione dell’orario di lavoro per una buona vita, senza lussi e senza privazioni, dal rispetto per la natura unito al suo uso per la sopravvivenza quotidiana. Nella Walden di Skinner non c’è un legislatore, ma un fondatore, Frazier, che non ricopre alcun ruolo di rilievo nella vita quotidiana e la politica è considerata, come voleva Platone, una tecnica che non tutti sono in grado di gestire; peraltro, non c’è una separazione con il mondo circostante nel quale anzi Walden rimane “ufficialmente” inserita. Il modello skinneriano di behavioural engineering è, però, un’utopia incompiuta o, se vogliamo, un’utopia costantemente in progress, che risponde ai criteri della sperimentazione scientifica e di conseguenza si discosta dalla tradizione utopica della società perfetta e per ciò stesso immobile . Frazier è molto orgoglioso del suo “prodotto”  ma considera la sua opera solo un inizio; se poco contano i concetti di libertà e di democrazia cui Frazier non crede, è importante invece nutrire «quel bisogno imperioso» di andare avanti , caratteristico della scienza, alla quale non sono certo propri la stasi e l’equilibrio. Se Walden è un’utopia non conclusa, Island è un’utopia che viene distrutta. Questo testo fa parte di un trittico dedicato da Huxley all’universo dell’altrove, ma, diversamente dagli altri due scritti , ha la forma, almeno esteriore, di un’utopia. Will Farnaby, giornalista cinico, dal passato doloroso, arriva in modo avventuroso a Pala, «l’isola proibita», mai visitata da alcun estraneo  sebbene il mondo esterno sappia della sua esistenza. L’isola, protetta grazie ad alte scogliere da visite non gradite, è abitata da una popolazione, semplice e raffinata insieme, consapevole dell’esistenza di realtà diverse dalla sua, ma fedele alle proprie norme e ai propri costumi. Farnaby, sotto la guida di una sorta di saggio “legislatore”, impara gradualmente a conoscere e apprezzare il modo di vita di Pala, caratterizzato da rapporti liberi, naturali, disinibiti, dalla convivenza di elementi culturali eterogenei, da una struttura politica semianarchica, da un’economia semplice che rispetta la natura. Ma Island ha una conclusione non utopica: la sfera degli interessi del mondo non-altro irrompe a Pala e sconfigge il sogno dell’utopia. Se la figura del giornalista si collega alla necessità di documentare come è fatto il mondo altro, non a caso un giornalista è anche il protagonista di Ecotopia: questo è l’appellativo che si è dato un nuovo Stato, nato da una secessione operata da alcuni Stati della zona occidentale degli USA. La descrizione di questo mondo collocato geograficamente in posti reali avviene attraverso le note personali e gli articoli che il giornalista Will Weston scrive per sé o per il suo giornale newyorkese una ventina d’anni dopo la secessione. Nei reports, Will descrive in modo “oggettivo” tutto ciò che caratterizza il nuovo Stato: i principi ecologici e una sorta di religione laica della natura, le strade e i mezzi di trasporto, l’alimentazione e l’urbanistica, la cultura e il nuovo modo di concepire lo sport e l’educazione, la situazione sociale, il ruolo delle donne e la relazione tra bianchi e neri, la sanità, le istituzioni, l’economia. Dal diario traspare invece l’impatto soggettivo, le relazioni e le vicende personali che coinvolgono Will nel suo rapportarsi alla vita quotidiana in Ecotopia. Il tono è critico, anche se via via più benevolo, nel primo caso; soggettivamente sofferto, stupito e sempre più coinvolto nel secondo . Dall’insieme emerge l’immagine di un luogo che propone alcuni dei miti ecologici e hippy degli anni ’70: la natura che ritorna incontaminata, la libertà nei rapporti sessuali, la vita in famiglie allargate o in piccole comunità, le città rese vivibili dalle dimensioni e dalla sostituzione del trasporto pubblico a quello privato, un’economia sotto il segno di una sorta di “decrescita felice”. Le descrizioni di Will non mancano, tuttavia, di suscitare alcune perplessità: le donne hanno un compito politicamente dirigenziale, ma rimangono anche ancorate ai loro ruoli più tradizionali; l’integrazione tra bianchi e neri è rifiutata sulla base della salvaguardia della diversità delle culture; vi è un ritorno a ritualità “selvagge” come i “giochi di guerra”, che sembrano un modo per sublimare la naturale violenza degli esseri umani; il sistema pare reggersi con tecniche fortemente dirigenziali e con uno stretto controllo sulla vita privata di ogni cittadino e quindi anche con aspetti, velati, di censura. Alla fine Will percepisce una sorta di sicurezza che Ecotopia gli trasmette e decide di non tornare a New York, rinunciando alla sua vita precedente per rimanere in quella che – come Burris in Walden Two   ha scoperto essere “casa sua” .Callenbach presenta il percorso di Will come quello che dovrebbe essere il migliore per tutti gli esseri umani e in questo egli si pone sulla linea degli autori classici di utopie; ma in fin dei conti di ciò non appare pienamente convinto. La sua descrizione di Ecotopia, infatti, non è priva di aspetti che possono provocare una sorta di inquietudine e per questo può dirsi che Ecotopia rimane un’utopia dell’ambiguità. Tantissimi filosofi attraverso i loro studi sulla realistic utopia capace di riconciliarci con il nostro mondo sociale mostrandoci come sia possibile l’esistenza di una democrazia costituzionale ragionevolmente giusta si tratta di un’idea per la quale un simile mondo può prima o poi esistere, ma non stabilisce che la sua esistenza sia necessaria o lo sarà in futuro. Sarebbe certo importante essere sicuri della realizzabilità di tale utopia, ma poiché non lo si può essere, è di per sé molto rilevante concepirne la possibilità. Si tratta dunque di una prospettiva, ma se non potessimo impegnarci per la possibilità della sua realizzazione saremmo forse costretti a chiederci con Kant  che valore mai abbia per gli esseri umani vivere su questa terra. Nel contempo vengono indagate le pratiche contemporanee che hanno risposto ai massicci cambiamenti sociali dell’ultimo mezzo secolo: urbanizzazione, industrializzazione, creazione di nuove periferie urbane, svuotamento delle campagne, lotte relative alle libertà e alle restrizioni del corpo. Sei sezioni – Spazio Urbano, Spazio Rurale, Spazio Periferico, Spazio Industriale, Spazio Extraterritoriale e Spazio del Corpo – culminano in una sala finale che simboleggia l’apertura alla possibilità di immaginare un futuro altro. La mostra propone un'analisi delle speranze utopistiche messe a confronto con le esperienze distopiche dell'era moderna, con particolare attenzione al Mezzogiorno, oltre alla rappresentazione del sostanziale fallimento delle logiche, a volte violente, che muovono l’ideologia del progresso – fallimento di un sistema che si è sovraccaricato di cui abbiamo vissuto la dimostrazione durante il periodo della pandemia.
Partendo dal film di Francesco Rosi ‘Mani sulla Città’ del 1963 che ancora oggi rappresenta una lezione di urbanistica perché per la prima volta nel cinema italiano si sono abbandonati i canoni del film-verità a favore del film-inchiesta, del film-discorso. Sono le argomentazioni soggettive del regista, la ricerca puntuale dell'obiettività della documentazione, il rigore nella ricostruzione della storia sociale, politica, ambientale, ecc. ad essere prese come riferimento per non banalizzare i processi di governance, quando si vogliono ridurre gli stessi a strumenti di sola partecipazione popolare alle scelte di pianificazione. Nel contempo partendo dal film di Rosi penso all’ Ex Italsider di Bagnoli che certamente ancora oggi sembra una landa deserta dove tutti hanno cercato di dargli una connotazione nel tempo, ma non stata l’unica realtà triste della nostra città e del nostro Sud, penso alle Vele di Scampia la loro costruzione ci riporta agli anni Sessanta e Settanta su un progetto dell’architetto Franz Di Salvo ispirato all’Existenzminimum, una corrente architettonica che prevedeva unità abitative ridotte al minimo indispensabile con una spesa costruttiva contenuta, le Vele avrebbero dovuto agevolare l’integrazione e la creazione di comunità. Una nobile volontà, quella del suo ideatore, che sarebbe svanita molto presto :“L’utopia delle Vele tramonta molto presto anche a causa del terremoto dell’Irpinia del 1980, che porta molte famiglie, rimaste senza tetto, ad occupare anche abusivamente gli alloggi delle Vele. Oggi si assiste alla loro progressiva demolizione e, in parallelo, alla riqualificazione del quartiere. Un segnale di ripresa che prova a porre fine al lungo periodo in cui le Vele sono associate, nell’immaginario collettivo non solo locale ma anche internazionale, a simbolo di abbandono e degrado”. Il recente abbattimento di una delle Vele site nel quartiere di Scampia conferma, dunque, lo stato degradante e inagibile in cui erano e sono ancora , che le hanno rese non recuperabili e hanno determinato la loro inevitabile distruzione. Ma non solo la scomparsa, per ora parziale, delle Vele potrà essere senza alcun dubbio un simbolo di progressiva rinascita per gli abitanti del quartiere a nord di Napoli, che troppo spesso sono stati e sono vittime di un pregiudizio valutativo che porta a discriminarli insieme alla zona interessata. In occasione di questa mostra sette opere entrano in collezione attraverso acquisizioni e donazioni tra cui: l’iconica opera di Joseph Beuys Casa Orlandi  del 1971,  è stata il punto di partenza del manifesto della sua mostra a Napoli del 1971, La rivoluzione siamo noi. L’immagine fu scattata nel viale d’ingresso di Villa Orlandi ad Anacapri, dove per tutti gli anni Settanta e Ottanta Pasquale Trisorio e la sua famiglia ospitarono artisti e intellettuali di ogni provenienza. Il percorso espositivo è suddiviso in sei sezioni, si apre con il racconto  dello  Spazio Urbano questo lo si evince dal lavoro di Cherubino Gambardella l’artista attraverso una mappatura ideale e caotica della città apre la mostra con delle immagini forti tratte dal film Le mani sulla città, pellicola del 1963 diretta da Francesco Rosi. Cherubino Gambaedella cerca di mischiare simbologia e realtà partendo dal contrasto tra un passato che sembra resistere ed un futuro imposto da un potere che aggira e raggira in nome del puro profitto, la videoinstallazione è una betoniera lucidata e riposta come un oggetto prezioso che lascia il fruitore senza parole.  Nella grande sala centrale c’è un racconto fatto di luci e suoni che sovrapposti cercano un rapporto tra l’uomo e lo spazio abitativo questo lo si evince nel video The Game dell’ artista Danilo Correale che mette in scena l’utopia della partecipazione egli immagina delle interviste al pubblico in una desolata periferia che tenta di narrare quell’humus popolare che fa parte del linguaggio dei mass-midia di oggi. Al centro la grande installazione di Perino e Vele rappresenta un bisogno esasperato di capire ciò accade nei luoghi della contemporaneità dove il deserto ha inaridito gli animi. Mentre Giulio Delvé racconta, scegliendo l’ironia, egli tenta confrontare il rapporto tra affetti più intimi e la distanza che l’uomo contemporaneo vive dalle istituzioni. A chiudere questa sezione  Domenico Antonio Mancini  sottolinea il divario e il conflitto si è creato in una società frammentata e che vive ai margini, mentre il poetico lightbox di Raffaela Mariniello che illumina le case dei Quartieri Spagnoli vuole narrare le piccole realtà nascoste.


L’ altra sezione della mostra è lo Spazio Rurale che tende di  raccontare il rapporto con la natura e  le sue sedimentazioni di un passato che a partire dagli Anni ’60 gli artisti con il loro attivismo politico hanno vissuto e rappresentato attraverso le loro opere oppure performance l’intreccio tra arte e antropologia fa parte del nostro essere del Sud, che negli anni attraverso la civiltà contadina è riuscita ha raccontare il mito, il culto e il rito, questo mi riporta al grande lavoro fatto dal grande antropologo  Ernesto De Martino, la documentazione fotografica del duo Bianco Valente che con le loro opere da sempre hanno cercato di indagare l’aspetto relazionale e lo spazio della contemporaneità attraverso una acuta analisi dei segni linguistici in questo percorso hanno chiesto agli abitanti di un paesino del Cilento (Roccagloriosa) che cosa gli mancava e il progressivo svuotamento del piccolo borgo dalle sue radici e dalla sua cultura questo è un grido di dolore perché avviene anche negli altri borghi che man mano si stanno spopolando in Italia. L’artista Maria Lai attraverso la video istallazione delle sue perfomance tenta di riportaci in mondo rurale dove ella tenta di legare case ed abitanti attraverso gli oggetti simbolici ma nel contempo reali di Bruno Esposito. Al centro campeggia l’opera Migrazioni di Michele Iodice, che vuole rappresentare il luogo delle incertezza e il senso del desiderio di approdo sicuro per i tanti braccianti extracomunitari. L’elegante lavoro di Eugenio Giliberti, una grande tela in cui sono catalogati e disegnati piccoli arbusti, indaga la natura come risultato di un’armonia tra l’uomo e il suo ambiente, mentre Salvatore Emblema cattura sulla superficie la pietra lavica come simbolo di forze naturali. Mentre lo Spazio Periferico  diviene un’indagine estetica attraverso lo sguardo di artisti che con il loro impegno e coinvolgendo gli abitanti cercando di  rendere vivi luoghi destinati alla marginalità e all’oblio come nel caso di Riccardo Dalisi , che presenta l’intervista fatta all’attivista intellettuale Felice Pignataro che lega il suo nome alla realtà di Secondigliano e alla nascita del Carnevale di Scampia. La sezione dedicata allo Spazio Industriale si apre con le visioni del grande Mimmo Jodice e di Raffaela Mariniello raccontano a proprio modo lo storico stabilimento siderurgico di Bagnoli e nel contempo Ibrahim Mahama  il quale associa immagini industriali dell’ex stabilimento alle mappe del territorio africano. Nella sezione Spazio Extraterritoriale Monica Biancardi racconta dell’umanità contemporanea la quale ha perso le sue radici, e vive quel vuoto esistenziale che è vivo in tutti noi. Mentre Francesco Arena affida ad una visione onirica il desiderio di terra e approdo sintetizzandola nell’immagine di una sottile striscia di sabbia sul ferro di una trave che attraversa la sala del Museo Madre. La sezione dedicata allo Spazio del corpo ci sono le opere del collettivo storico Gruppo XX  ovvero Mathelda Balatresi, Antonietta Casiello, Rosa Panaro, Mimma Sardella che la lungimiranza di Lucio Amelio fece conoscere al pubblico e che ha indagato le dinamiche ancora attuali del modello culturale patriarcale o per le ultime generazioni di artiste, le opere che ricercano attraverso la performance il tema dell’identità e del genere un tema ancora oggi dibattuto. Mente nel video di Roxy in the Box o nella cruda e allo stesso tempo delicatissima poetica, e nell’opera  Rosy Rox  in mostra vi è una piccola scultura-ventaglio che tanta di giocare con l’ambiguità del nome che allude allo stesso tempo ad un pieno atto di fiducia e alle lamette usate per la cura estetica. In seguito possiamo ammirare la video installazione di Betty Bee che racconta in un intervista la sua vita e il suo lavoro che l’artista ha saputo ben rappresentare quell’unione viscerale tra arte e vita. La mostra si chiude con dei versi meravigliosi di Anna Maria Ortese e di Pier Paolo Pasolini che sembrano voler aprire ad una nuova speranza forse dove passato e futuro cercheranno di trovare un nuovo equilibrio.
 
 
 
Gli artisti: Francesco Arena, Betty Bee, Joseph Beuys, Monica Biancardi, Bianco-Valente, Antonio Biasiucci, Tomaso Binga, Eduardo Castaldo, Tonino Casula, Patty Chang e David Kelley, Danilo Correale, Riccardo Dalisi, Alexandre de Cunha, Giulio Delvè, Maria Adele Del Vecchio, Romina De Novellis, Baldo Diodato, Salvatore Emblema, Bruna Esposito, Cherubino Gambardella, Eugenio Giliberti, Didi Gnocchi, Goldschmied & Chiari, Gruppo XX, John DiLeva Halpern, Rebecca Horn, Michele Iodice, Mimmo Jodice, Kiluanji Kia Henda, Desirèe Klain e Matteo Antonelli, Maria Lai, Ibrahim Mahama, Domenico Antonio Mancini, Lina Mangiacapre, Umberto Manzo, Raffaela Mariniello, Margherita Moscardini, Raffaela Naldi Rossano, Temitayo Ogunbiyi, Catherine Opie, Giulio Paolini, Athena Papadopoulos, Perino & Vele, Felice Pignataro, Giulia Piscitelli, Paolo Puddu, Annalisa Ramondino, Justin Randolph Thompson, Francesco Rosi, Mathilde Rosier, Rosy Rox, Melita Rotondo, Roxy in the Box, Franco Silvestro, Eugenio Tibaldi.
Museo Madre Via Luigi Settembrini – Napoli
Utopia Distopia : il mito del progresso del Sud
Dal  9 Luglio all’ 8 Novembre 2021
Dal Lunedì al Sabato dalle ore 10.00 alle 19.30
Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Martedì Chiuso