Di Giovanni Cardone maggio 2021
Fino al 29 Agosto 2021 si potrà ammirare al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli la mostra Frida Kahlo“Ojos que no vencorazónque no siente”-“Lontano dagli occhi, lontano dal cuore” a cura di Alejandra Lopez. La  mostra  è stata prodotta da NextExhibition, con il patrocinio dell’Ambasciata del Messico, del Consolato del Messico a Napoli in collaborazione con l’Assessorato all’Istruzione Cultura e Turismo del Comune di Napoli, organizzata da Alta Classe Lab, in collaborazione con NextExhibition, Fast Forward e NextEvent. Lungo il percorso della mostra, per la prima volta in Europa arriva in una città, Napoli che con i suoi millenni di storia ospita un’artista unica, attraverso le fotografie e lettere scritte da Frida Kahlo, mi hanno portato a scoprire dei dettagli della sua vita che ripercorrono in pieno la sua storia, la sua arte, le sue sofferenze d’amore e l’impegno politico per il suo Paese mi sono sentito parte di questo bellissimo viaggio, attraverso la sua calligrafia puoi capire il suo stato d’animo che però è contrastante con i suoi sentimenti che si riflettono nelle sue opere e in ciascuna delle sue lettere. Come dice Alejandra Lopez :”La mostra è una selezione visiva di momenti importanti nella vita di Frida Kahlo. É molto stimolante apprezzare le diverse fasi della sua vita, rivelando informazioni sulla sua cura personale, sull’intimità di incontri amichevoli, catturati magistralmente da famosi fotografi, nonché su momenti iconici nella storia del Messico e del mondo, come il ricevimento nel Porto di Tampico del rifugiato politico León Trotsky, dove era presente Frida”.  Sulla copertina della rivista “Graphic Survey” del 1931 c’è un’illustrazione di  Diego Rivera dal titolo ‘Mexicans in our midst’ che raffigura un lavoratore statunitense e uno messicano che si stringono la mano. Sotto di essi vi è un cartello, da un lato si legge ‘frontera’, dall’altro ‘border’, la parola spagnola per confine e il suo corrispettivo inglese. Solamente un anno più tardi la moglie dell’artista, Frida Kahlo, dipinse il suo ‘Autoritratto’ al confine tra Messico e USA, in cui la sua figura appare al centro di due paesaggi costellati di elementi iconografici relativi a due culture differenti. Il confronto tra queste due immagini aiuta a evidenziare analogie e differenze utili a introdurre alcune chiavi di lettura principali per ripercorrere la storia del confine tra Stati Uniti e Messico. In Diego Rivera lo si nota dall’abbigliamento degli uomini mentre in Frida Kahlo è l’industria statunitense con le sue fabbriche a contrastare visivamente con la dimensione del lavoro agricolo tradizionale della terra messicana. Nella loro diversità le immagini suggeriscono che questa è una storia fatta di momenti di incontro e scontro, di divisioni e mescolanze, di lavoro e cultura. Tracciando in breve le vicende che trasformarono il ‘border’ in una ‘herrida abierta’ che da un semplice cartello si è trasformata nel tempo in un solido muro di ferro,  questo ci permetterà di comprendere le evidenti discontinuità tra i due paesaggi dipinti da Frida Kahlo, nonché coglierne alcune premesse e tematiche centrali alla ‘Border Art’. Nello scrivere “confine” in spagnolo e in inglese, Rivera non solo adotta un codice linguistico che distanzia la sua opera da quella della moglie, ma anticipa anche una riflessione terminologica centrale alle evoluzioni principali del lemma. In inglese le parole border e boundary fanno parte della categoria lessicale degli edge, “i bordi”. Un bordo corrisponde al punto in cui la materia finisce e rinuncia alla sua qualità estensiva. Border e boundary, tuttavia, marcano la fine di qualcosa, ma anche l’inizio di qualcos’altro .
L’etimologia italiana e quella latina possono aiutare a comprendere questa bivalenza, in italiano “confine” deriva dall’aggettivo latino ‘cunfinis’, composto, a sua volta, da cum, “comune” e finis, “termine”. Pertanto, il confine non sarebbe altro che un “bordo condiviso”, il punto in cui qualcosa finisce per qualcuno e qualcosa inizia per qualcun altro. La differenza che, a sua volta, intercorre tra i due sinonimi di confine, border e boundary, è, invece, quella che sta alla base delle trasformazioni del confine USA -Messico. Tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, infatti, gli Stati Uniti incoraggiarono attivamente il movimento di lavoratori dal Messico per settori lavorativi come miniere, ferrovie e soprattutto agricoltura . In quel periodo, oltre alla carenza di lavoratori, a fare spesso da motore per le richieste degli USA furono anche alcune leggi per l’immigrazione, come il Chinese Exclusion Act e il Geary Act del 1892, che vietavano l’arrivo dei cinesi negli USA e portavano, di conseguenza, alla necessità di sopperire alla mancanza di forza lavoro tramite l’apertura delle porte ai messicani. L’idea di una ‘boundary’ facilmente permeabile si vede confermata anche su un piano demografico, queste popolazioni si confusero tra loro, dapprima attraverso l’arrivo dei bianchi e successivamente a causa dell’ingresso temporaneo o definitivo di lavoratori e immigrati messicani. Un’ulteriore conferma delle relazioni pacifiche al confine è il fatto che, fino al 1920, non vi era ancora la distinzione terminologica che divenne in seguito centrale alle politiche immigratorie americane, tra legal e illegal aliens, ovvero stranieri legali e illegali . La coesistenza tra questi due tipi di lavoratori stranieri si rafforzò durante la Prima Guerra Mondiale, in quel momento infatti i lavoratori messicani ebbero la possibilità di fuoriuscire dai settori agrari, minerari e ferroviari per potersi dedicare all’industria necessaria alla guerra, generando per giunta un’urbanizzazione maggiore e un conseguente incremento degli arrivi di altri messicani per sopperire al lavoro nelle campagne . Ciò condusse non solo allo sviluppo delle città di frontiera, ma anche a un consolidamento sociale ed etnico e a una più complessa articolazione di classi sociali anche all’interno delle minoranze. La situazione stabile e tranquilla del confine ritardò tuttavia la consapevolezza da parte di questi lavoratori della loro condizione minoritaria e spesso subordinata all’interno della società statunitense. Solamente a partire dal 1920 il Congresso iniziò a considerare delle legislazioni restrittive per regolamentare l’ingresso di immigrati. Fu con la famosa Grande Depressione del 1929 che si venne a creare l’occasione per cui il confine potè assumere per la prima volta delle sfumature più affini al termine ‘border’. Improvvisamente, la crisi e la povertà a essa conseguenti portarono coloro che prima erano considerati dei lavoratori volenterosi a essere visti negativamente, come dei potenziali concorrenti degli ‘anglos’ per il lavoro e per i sussidi offerti dallo Stato. Dal 1929 al 1937 furono i messicani deportati forzatamente verso le città messicane più vicine al confine, questi episodi resero il ‘border’ simbolicamente più reale per gli americani, mentre l’esperienza di arresto e rimozione lo resero abbastanza tangibile anche per i messicani . L’idea di diaspora dovrebbe risultare più chiara e, se si considera quanto avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale, questa acquista ancora più importanza. Il processo fu molto simile a quello della guerra precedente, ma questa volta ebbe una portata maggiore e una validità anche su un piano politico-istituzionale. Nuovamente, infatti, la mobilitazione militare creò una carenza di forza lavoro nelle campagne e questo condusse a un’ulteriore richiesta di manodopera dal Sud che si concretizzò, in questo caso, in un vero e proprio accordo. Il Bracero Program, come venne chiamato, permise dal 1942 al 1964, l’ingresso negli USA a contadini e operai messicani con visti temporanei e per brevi periodi lavorativi. L’arte come sempre diviene necessariamente la risposta principale all’impossibilità di potersi esprimere col linguaggio ovvero, il ribaltamento dei simboli e la ricerca di iconografie dal passato, la presa di coscienza dei confini etnici del popolo messicano, la tendenza ad analizzare ogni tipo di discriminazione in termini di ‘border’ si configurano come le linee guida di un’arte sempre più indirizzata a rendere ‘nepantla’ un tratto distintivo.  Come tutti noi  sappiamo le figure emblematiche di questo periodo furono Diego Rivera e Frida Kahlo. Ella nasce nel 1907 era di famiglia ebrea-ungherese e ispanico messicana, figlia di Wilhelm Kahlo che era un fotografo, amante della letteratura e della musica, pittore emigrato dall’Ungheria che, appena giunto in Messico, cambia il suo nome in Guillermoe di Matilde Calderon y Gonzales, figlia di una messicana e di un indios, nata a Oaxaca, antichissima città azteca, Frida nasce negli anni della rivoluzione e la sua vita, riflette e trascende l’evento centrale del Messico del ventesimo secolo. Le suggestioni rivoluzionarie ‘esplodono’ nelle immagini di profonde antinomie, spaccature, sofferenze, spargimenti di sangue e mutilazioni presenti nella sua opera e, allo stesso tempo, nell’attaccamento vitale alla terra, al colore e alla forma, sono straordinarie la continuità e la connessione tra il corpo di Frida e le profonde divisioni del Messico al tempo in cui lei era bambina. Molti studiosi dell’artista sostengono la necessità di approfondire il profondo legame che unisce un’opera d’arte a tutti i fatti culturali e i contenuti spirituali di un’epoca, la forma infatti non può essere disgiunta dal contenuto e dalla disposizione delle linee e del colore, dalla luce e dalle ombra, dai volumi e dai piani, per quanto incantevole come spettacolo, dev’essere anche intesa come portatrice di un significato che va al di là del valore visivo. Il Messico è un esempio emblematico di convivenza pluri-culturale, un luogo in cui si realizza quella creolizzazione dello spazio e dell’immaginario che affonda le radici in un rizoma. A mio avviso il Messico fornisce una risposta all’equivoco di origini monoculturali e di presunta purezza originaria, basti pensare all’avvicendarsi di cambiamenti socio-politici dall’Impero Indio al Viceregno spagnolo e poi alla Repubblica indipendente. Durante il periodo coloniale il Messico creò una cultura mestizia india ed europea, barocca e sincretica, nella quale i caratteri ambigui della cultura azteca convivevano con il Dio cristiano crocefisso. La pax porfiriana durò 30 anni fino al 1910 quando le masse contadine di Pancho Villa ed Emiliano Zapata insorsero per disvelare il volto lacerato del Messico, in cui una non numerosa élite ‘dorata’ di privilegiati conviveva con i milioni di dannati della terra. Se la rivoluzione messicana non fu esattamente un successo politico, fu invece un successo culturale, in cui il popolo si riappropriò dei doni della lingua, della musica e dei colori dell’arte popolare. Frida nasce e cresce in questo clima, figlia del Messico di Rivera e Zapata, figlia delle contraddizioni luminose e accattivanti di un paese che lacerato trova forza nel Palacio de BellasArtes e negli intellettuali come Herràn,  che trovano nelle avanguardie accademiche una nuova vitalità e nuove filosofie. L’esperienza della vita di Frida risuona con la pedagogia insita nell’opera di Goya  che, attraverso la sua arte sottile e acuta, rilanciava quell’ influsso illuminista che lo aveva reso reattivo alle condizioni del tempo, trascendendolo, per farne oggetto e tema della propria visione artistico-culturale. Il Goya in questo clima di cultura asfittica, rivedeva gli schemi della sua stessa esistenza ed estendeva la sua critica verso l’esterno, tratteggiando, con l’arte, i temi del pensiero europeo. Frida Kalho  all’età di sei anni è affetta da spina bifida ed erroneamente diagnosticata come poliomielitica ella scopre la malattia e la sofferenza fisica. È straordinaria la documentazione fotografica di quegli anni, il padre fotografo ritrae la figlia con assiduità e grande cura, Frida viene raffigurata spesso insieme ai suoi giocattoli, la dimensione dell’infanzia veniva valorizzata e rispettata, e quindi mostrata con naturalezza al mondo. Per tutta la sua vita la pittrice scrisse un diario, grazie al quale è stato possibile ricostruire una biografia molto dettagliata e ricca, valorizzando una fonte privata e intima. In particolare, sono sei pagine di diario assai dense e dalla scrittura incerta a diventare la fonte privilegiata dei biografi di Frida, sei pagine in cui emerge una forte determinazione a raccontarsi in modo vivido e lucido.Tra le pagine del suo diario personale emergono riflessioni che permettono di capire meglio quella fase della sua infanzia, della madre diceva che era molto simpatica, attiva e intelligente, ma anche calcolatrice, crudele e religiosa in modo fanatico. Frida Kahlo si dipinge piccola nel corpo e con la testa da adulta, la bocca semiaperta e lo sguardo fisso mentre le viene donato quel latte e sangue messicano che sgorga da un seno sezionato e gocciola dall’altro come il cielo che fa da sfondo a una foresta tropicale il latte dato da una donna il cui volto assomiglia a una maschera tribale, un misto di mistero e morte, primitivo e folkloristico come racconta Hayden Herrera nella sua biografia.  Dopo la malattia fece di tutto , dal calcio alla boxe, alla lotta libera al nuoto, per poter ristabilire l’uso “normale” della gamba destra, che rimase invece sempre più piccola, per nascondere questa diversità indossava anche tre o quattro calze e scarpe dal tacco speciale, che le facevano assumere un’andatura lievemente saltellante, che ricordava quella dei passerotti. “Frida pata de palo!”, le urlavano i bambini quando usciva di casa, e a scuola. Lei, per difendersi, tirava fuori i pugni e sbraitava contro i bambini che la importunavano, spesso li faceva fuggire a gambe levate e non si dava mai per vinta, anche se per avere la meglio su di loro doveva diventare sempre più agile, più veloce. Le attività che Frida sceglieva di fare avevano i tratti della compensazione simbolica che, al contrario della somatizzazione, trasformavano l’energia in risorsa, in una parola, erano atti di resilienza. Il bisogno di rivalsa l’aveva infatti spronata a praticare ogni sorta di attività fisica ed esercizi più adatti a un maschio, all’epoca. Ma, vista la sua condizione, i genitori glielo consentivano, una libertà educativa che rinvigoriva e alimentava il suo essere “discola e ribelle” e il suo desiderio di rompere gli schemi. Con il padre passeggiava nei parchi e raccoglieva insetti e piante che poi a casa guardava al microscopio era curiosa e reattiva dal padre apprese l’utilizzo della macchina fotografica, lo studio dell’arte e dell’archeologia messicana. Frida era, delle sei figlie, quella che passava più tempo con lui, quella che conosceva e riconosceva i suoi attacchi epilettici e che empatizzava con una condizione di sofferenza che già le era familiare. La sua famiglia era “inconsueta”, pacifista e progressista, impegnata nella vita politica e attenta alla formazione artistica della figlia. In particolare, nelle pagine del suo diario Frida racconta di esser stata testimone oculare della ‘decena’ tragica e, forse con licenza poetica, scrive che la sua posizione fu chiarissima e schierata sin dalla più tenera età, quando sua madre in Calle Allende, aprendo i balconi della loro casa, dava rifugio agli zapatisti feriti, curandoli e sfamandoli con l’unico cibo che avevano, le ‘gorditas di mais’. L’incontro tra Frida e Diego certamente nei secoli ha fatto discutere e dibattere tantissimi studiosi ma possiamo dire che furono i protagonisti delle loro stessa storia  d’amore anche se c’era una subalternità ma Frida riuscì ha conquistare il suo spazio sia come artista che come donna. Frida Kahlo nei suoi diari scrive di avere avuto due grandi incidenti nel corso della sua esistenza, il primo è  quello in cui è rimasta coinvolta nel 1925, a bordo di un autobus, a causa del quale si rompe spina dorsale, costole, femore e viene sottoposta a trentadue interventi chirurgici. Questo episodio comprometterà la sua vita negli anni successivi per via dei dolori atroci che le lascerà nel corpo. Il secondo è l’incontro con Diego Rivera. La storia d’amore tra questi due artisti messicani non è stata affatto segnata dagli elementi che siamo soliti associare a quella che definiremmo una relazione sentimentale canonica. Di certo non si tratta di un rapporto lineare, semplice e senza intoppi, considerate sia le vicende biografiche di entrambi, sia le modalità con cui il legame, durato oltre vent’anni, viene portato avanti. Prima di tutto, tra Frida e Diego ci sono diversi anni di differenza, una caratteristica che sembra manifestarsi anche attraverso le loro fattezze fisiche. Li chiamano infatti “l’elefante e la colomba” per via del loro aspetto così diametralmente opposto lei era esile, minuta e indebolita dalle numerose patologie di cui soffre in seguito a quell’incidente decisivo mentre lui era un colosso, un uomo alto e robusto, dai tratti per nulla gentili. Certamente non  si può negare che Frida Kahlo sia stata una donna con un’esistenza solcata dalla sofferenza, come non si può ridurre il rapporto con Diego a una semplice subordinazione. Entrambi sono stati artisti importanti e decisivi per la storia del loro Paese, entrambi hanno segnato un’epoca. Ma la cosa più interessante di questa storia d’amore, al di là degli elementi più torbidi, è stato il fatto che ciascuno dei due ha dato energia all’altro per diventare ciò che oggi riconosciamo come un grande artista. Nella turbolenza della loro relazione, nei sentimenti come la gelosia e la rabbia, ha avuto luogo una collaborazione densa, vitale ed estremamente prolifica. Non è facile, col senno di poi e con uno sguardo esterno, identificare e comprendere il sentimento che unisce due persone, nemmeno quando la loro vita è un’opera d’arte resa pubblica a tutto il mondo. Infine all’interno della mostra c’è un’area  multimediale che stata realizzata con il sistema Remix 4.0., brevettato dalla start up innovativa e tecnologica E-Zone. Un’esperienza emozionante che trasporta il visitatore nel mondo di Frida. Un viaggio emozionale per conoscere la donna, viverla e comprenderne l’essenza, la sua forza, il suo coraggio, il suo talento e il suo immenso amore.
Lettera di  Frida Kahlo a Diego Rivera
“La mia notte è senza luna. La mia notte ha grandi occhi che guardano fissi una luce grigia che filtra dalle finestre. La mia notte piange e il cuscino diventa umido e freddo. La mia notte è lunga e sembra tesa verso una fine incerta. La mia notte mi precipita nella tua assenza. Ti cerco, cerco il tuo corpo immenso vicino al mio, il tuo respiro, il tuo odore. La mia notte mi risponde: vuoto; la mia notte mi dà freddo e solitudine. Cerco un punto di contatto: la tua pelle. Dove sei? Dove sei? Mi giro da tutte le parti, il cuscino umido, la mia guancia vi si appiccica, i capelli bagnati contro le tempie. Non è possibile che tu non sia qui. La mia mente vaga, i miei pensieri vanno, vengono e si affollano, il mio corpo non può comprendere. Il mio corpo ti vorrebbe. Il mio corpo, quest’area mutilata, vorrebbe per un attimo dimenticarsi nel tuo calore, il mio corpo reclama qualche ora di serenità. La mia notte è un cuore ridotto a uno straccio. La mia notte sa che mi piacerebbe guardarti, seguire con le mani ogni curva del tuo corpo, riconoscere il tuo viso e accarezzarlo. La mia notte mi soffoca per la tua mancanza. La mia notte palpita d’amore, quello che cerco di arginare ma che palpita nella penombra, in ogni mia fibra. La mia notte vorrebbe chiamarti ma non ha voce. Eppure vorrebbe chiamarti e trovarti e stringersi a te per un attimo e dimenticare questo tempo che massacra. Il mio corpo non può comprendere. Ha bisogno di te quanto me, può darsi che in fondo, io e il mio corpo, formiamo un tutt’uno. Il mio corpo ha bisogno di te, spesso mi hai quasi guarita. La mia notte si scava fino a non sentire più la carne e il sentimento diventa più forte, più acuto, privo della sostanza materiale. La mia notte mi brucia d’amore.” Frida Kahlo
PAN – Palazzo delle Arti di Napoli - Via dei Mille , 60
Frida Kalho - Ojos que no vencorazónque no siente
La mostra sarà aperta tutti i giorni
 Dal Lunedì al Venerdì dalle 9.30  alle  20.00
Sabato e Domenica dalle  9.30 alle 21.30