Cesare TACCHI

(Roma, 1940 - 2014)


Ho impiegato quasi tre anni per metabolizzare la scomparsa di Cesare Tacchi.

di
Giorgia TERRINONI
 
Ho scritto la mia tesi di laurea sulla sua vicenda artistica. Ho abbandonato i miei miti americani per lavorare su Cesare. Ho scritto una gran bella tesi, conteneva i presupposti per poter diventare altro. Ho lavorato da sola. Ho deciso di lavorare da sola perché, quando ci siamo incontrati, Tacchi aveva bisogno di un discepolo da istruire. Mi voleva come un’emanazione di sé, ma io, che stavo cercando di definire la mia personalità critica, non potevo accettare il suo invito. Qualche tempo dopo aver completato la tesi mi è arrivata notizia della sua morte. Ho avvertito tutto il peso di quell’incontro mancato tra noi. Un incontro che sapevo poter, in qualche modo, recuperare perché Cesare era sempre stato . Ma non l’avevo più fatto. E poi Cesare non c’era stato più.  Ma che vuol dire che Cesare era sempre stato ?
 
Diversi anni fa sono entrata in possesso di una sua opera. Si tratta di un disegno di grandi dimensioni, intitolato Mi rimangio quello che ho detto e realizzato a metà degli anni ottanta. Vi è rappresentata una figura maschile dai tratti grossolani che s’infila in bocca un solido geometrico. L’uomo è seduto a una tavola rozzamente apparecchiata sulla quale giacciono altri solidi geometrici. Anche questi stanno per essere divorati. Alle sue spalle si alza una parete di foglie. Alle due estremità inferiori, compaiono alcuni oggetti incongrui: a sinistra, (forse) una cipolla; a destra, una lumaca fa il suo ingresso nel quadro. Ho osservato questo disegno moltissime volte e sempre mi è parso misterioso. A lungo ho preferito non preoccuparmi troppo di capirlo. Spesso però mi sono accorta che, mentre lo osservavo, il mio pensiero tendeva a fissarsi sul personaggio di Cesare Tacchi. Come lo ricordavo io, un bell’uomo dagli occhi chiari e la voce profonda, i piedi ben piantati a terra
Ho conosciuto Cesare molti anni fa. Non credo che mi sia mai stato presentato. Semplicemente era lì, da qualche parte nei racconti degli altri. Ricordo di aver visto, quando ero poco più che una bambina, una sua mostra che mi piacque molto. Vi erano esposti quadri pieni di foglie e di fogli (la mostra era Sécrétaire e fu allestita nel 1995 al MLAC dell’Università ‘La Sapienza’). Ricordo anche che, quando decise di rifare i quadri imbottiti, andò a trovare una signora che consideravo una mia cara amica. Questa signora creava abiti e viveva in una magnifica casa nel centro di Roma resa quasi impraticabile da tessuti e stoffe accatastati ovunque. Ricordo molti altri racconti da cui spuntava fuori il nome di Tacchi. Ricordo i suoi toni affettuosi nei miei riguardi. Eppure, in definitiva, non sapevo gran che del suo percorso artistico. Non so bene in quale momento io abbia avvertito il desiderio di iniziare a conoscerlo. Sicuramente, la presenza in casa di quel disegno e una certa frustrazione legata al fatto di esserne attratta, ma di non riuscire a decifrarlo, hanno accelerato il passaggio da una curiosità ingenua a un vero e proprio interesse. Fatto sta che, a un certo punto, ho abbandonato l’idea di scrivere la mia tesi su un gigante americano e ho deciso che avrei lavorato su Tacchi.
 
Quando ho iniziato, a nulla mi sono serviti tutti quei vaghi ricordi. Piuttosto, da subito, ho fatto i conti con una certa penuria di materiale documentario. Di qui, l’esigenza di rivolgermi direttamente all’artista. Ho parlato con lui al telefono e l’ho incontrato nel suo studio dalle parti di Torrimpietra. Durante quell’incontro, ho capito immediatamente che non ci sarebbe stato nessun registratore da accendere o appunto da prendere. Cesare mi ha mostrato il contenuto di un paio di cartelle malridotte; all’interno c’erano foto sbiadite, volantini stropicciati che pubblicizzavano le esposizioni della Scuola di Piazza del Popolo, disegni e schizzi suoi e di altri, pagine scritte e una cartellina indirizzata a Filiberto Menna. Tutto qui. Niente cataloghi. Nessuna rassegna stampa. Però, nello studio c’erano davvero tanti quadri. Disposti un po’ ovunque, ma in modo estremamente ordinato. L’artista me ne ha mostrati alcuni. Per vedere gli altri, mi ha detto, sarei dovuta tornare con un operaio volenteroso, in grado di spostare le tele di maggiori dimensioni. Un po’ scoraggiante! Ma mi era già chiaro che Tacchi non voleva essere studiato! Dopo quella visita allo studio, non l’ho più incontrato. Nonostante ciò, anche se indirettamente, egli mi ha fornito un grosso aiuto. Ha alimentato il mio desiderio di conoscerne la lunga storia artistica. E quel poco che mi ha rivelato è stato comunque preziosissimo.
 
Cesare Tacchi è stato un grande artista. Oggi so che, a distanza di anni, il mio desiderio di portare a una visibilità diversa la sua storia è rimasto intatto. Per quel che ne so, è stato fatto molto – da sua figlia e da altri – per sistematizzare tanti anni del suo lavoro. Eppure, a me è rimasta l’urgenza di occuparmene. Prima che quel passato al quale egli è appartenuto divenga un passato troppo lontano.
 
Qui, per ricordarlo a chi lo conosce già, o per incuriosire chi non ne ha mai sentito parlare, ho deciso di portare all’attenzione alcuni s-nodi della sua vicenda di artista.
 
La storia espositiva di Tacchi (nato a Roma nel 1940) inizia alla fine degli anni cinquanta e ricade nella sfera d’influenza della Scuola di Piazza del Popolo, volgarmente nota come pop romana. Nei primi anni sessanta Tacchi condivide con la maggior parte degli artisti del gruppo – Angeli, Ceroli, Festa, Fioroni, Kounellis, Lombardo, Mambor, Pascali e Schifano – l’esigenza di prendere le distanze dall’Informale. Nella maggior parte dei casi, ciò avviene facendo ricorso a un trattamento impersonale della superficie pittorica. Verso la metà del decennio, con le tappezzerie o quadri imbottiti, opere realizzate facendo uso di stoffe e imbottiture, l’artista tenta di ‘uscire dal quadro’ (precedenti della cosiddetta ‘uscita dal quadro’ sono già i Sacchi e i Gobbi di Burri, mentre tentativi coevi a quelli di Tacchi sono condotti da Pascali, Castellani e Bonalumi). 
In uno dei primi dipinti imbottiti, Poltrona gialla (1964), egli disegna sulla stoffa una morbida poltrona dall’aspetto confortevole. L’imbottitura dell’oggetto è enfatizzata dal segno nero. Dal bordo superiore destro della tela sbuca una mano che indica la poltrona. Maurizio Fagiolo Dell’Arco ha suggerito che questa mano segnaletica stia a indicare che la poltrona gialla non è veramente una poltrona. Infatti, nonostante l’imbottitura, si tratta solo del disegno di poltrona. E la stessa mano segnaletica, senza nessun corpo a sostenerla, è pur sempre solo una mano disegnata. La poltrona di Tacchi – come già l’ultimo quadro dipinto da Duchamp, intitolato Tu m’ (1918) – sembra porre una questione relativa ai limiti della pittura, limiti che negli anni successivi si tradurranno nell’impossibilità, per l’artista, di continuare a fare pittura. Procediamo con ordine. I dipinti imbottiti, rispetto ad altri tentativi di uscire dal quadro, presentano due caratteristiche inedite, ovvero l’assimilazione della tela alla tappezzeria e l’idea di modellare l’immagine riproducendo con le sporgenze imbottite le sue naturali prominenze plastiche. Se accostiamo Poltrona gialla (1964) a Letto (1965), ci accorgiamo che, in poco tempo, è accaduto qualcosa. Siamo passati dall’interesse per la sola imbottitura a quello per la stoffa imbottita. Letto è un’opera in tre registri, quasi un trittico rovesciato. Nel registro superiore, la parete-sfondo e la testiera del letto sono realizzate con una stoffa con lo stesso motivo a fiori, ma tinto di due colori diversi. Nei due registri inferiori, la situazione si complica. In quello centrale, una stoffa a bande verticali è impiegata sia per la parete-sfondo, sia per i cuscini sui quali poggia una gamba della donna sdraiata, sia per i suoi capelli. Nell’ultimo registro, la parete-sfondo, i cuscini e la donna sono fatti con la stessa stoffa a fiori, ma tinta di diversi colori. Negli ultimi due riquadri, venendo meno l’uso dell’imbottitura, è difficile distinguere i piani della rappresentazione. È probabile che nel trittico si consumi una storia d’amore. Usando la stessa stoffa, ma trattata diversamente – attraverso il colore e l’imbottitura – Tacchi è riuscito a condensare molteplici piani e tempi della rappresentazione. Il tutto in un unico spazio molto affollato.
 
Nel 1967 Maurizio Calvesi dichiara conclusa l’esperienza della Scuola di Piazza del Popolo; nello stesso anno prende avvio l’Arte Povera, tendenza non priva di relazioni con il fenomeno appena concluso. Tacchi è tra gli artisti invitati da Germano Celant a partecipare alla mostra Arte Povera e Im Spazio, nella quale espone la Poltrona inutile (1967). Nel passaggio dai quadri imbottiti alla Poltrona inutile qualcosa è andato perduto. I primi hanno un aspetto allettante, contengono un tacito ma credibile invito, una promessa di relax; suggeriscono una dimensione sognante e tuttavia accessibile, a portata di mano, anche perché l’artista fa uso di tessuti e icone familiari. Nella Poltrona inutile – come pure nella coeva Cornice – oggetti fruibili e praticabili a tutti gli effetti, è scomparso l’invito. Questi oggetti – ai quali se ne possono accostare altri, come la Porta che non si apre e lo Strumento che non suona, entrambi del 1972 – sembrano dotati di una componente paradossale e, finanche, nichilista. Tacchi li considerava oggetti che “dalla negazione narcisistica di me stesso, negavano anche le immagini, le funzioni e, in definitiva, il mondo”.
 
Con la Cancellazione d’artista, un’azione radicale messa in scena durante il Teatro delle Mostre (1968), il lavoro di Tacchi si avvia verso un decennio di negazione della pittura. L’artista si chiude all’interno di una nicchia dietro un vetro, che poi oscura lentamente, dipingendolo dall’interno con vernice bianca. Fino a scomparire dalla vista degli spettatori.
 
Seguono anni caratterizzati da una ricerca concettuale, dotati di una natura che Calvesi ha definito funk.
 
Il ritorno alla pittura data alla metà degli anni settanta. I lavori di questo periodo hanno un impianto concettuale e sono considerati dall’artista non ancora maturi: possono essere visti quali tappe iniziali di un percorso di riappropriazione degli strumenti della pittura. Le opere dalle quali Tacchi sente di essere realmente ripartito sono due, Della pittura e Sécrétaire, entrambe del 1980.
Sécrétaire occupa un posto particolare nella produzione dell’artista, che la considera all’origine di tutti i suoi lavori successivi. In varie occasioni – il dipinto è stato anche oggetto di analisi da parte di un ‘gruppo esperienziale’ – Tacchi ha insistito sulla necessità di decodificare il quadro, dal momento che egli stesso lo aveva pensato come “il luogo dei segreti e contemporaneamente la ‘secrezione’ materica della pittura”. Proprio a questi due significati allude la parola Sécrétaire, dipinta al centro della tela, e dove l’artista ha messo volutamente due accenti. Sécrétaire è un dipinto misterioso e qualsiasi decodifica sembra condannata a fallire o, quanto meno a rimanere aperta. Nel quadro, sul limitare del bosco, ci sono due figure di spalle. L’artista mi ha raccontato che Sécrétaire è stato dipinto guardando a una foto scattata a Villa Pamphili. Nella foto, le due figure di spalle lo ritraevano in compagnia di un amico. Nel quadro, quella a sinistra resta l’immagine del pittore; l’altra, che con la mano destra impugna una specie di cartella, diventa il ‘Segretario’, ovvero il depositario dei segreti. A che cosa stanno guardando le due figure e quale relazione intercorre tra loro, il bosco con le sue creature e i fogli bianchi sparpagliati in primo piano? Secondo Tacchi, il mistero del dipinto potrebbe essere risolto se solo si potesse vedere di che natura è composta l’immagine. Ma è impossibile farlo, il nostro sguardo non può che rimanere al di qua dell’immagine. È probabile che i fogli rappresentati in primo piano – scritti o da scrivere? Sfuggiti dalla cartella del ‘Segretario’ o in procinto di entrarvi? – solo parzialmente contenuti entro i margini del quadro, contengano un invito a entrare. Essi sembrano virtualmente dar vita a uno spazio liminare, percorribile. Ma i fogli – e le foglie, la loro controparte – potrebbero essere al contempo una trappola. Questo perché il ponte che separa la realtà dalla finzione non potrà in alcun modo essere oltrepassato e non si potrà mai nemmeno scorgere quello che stanno guardando le due figure di spalle. Tacchi, però, ha suggerito un’altra via possibile. Se non per oltrepassare il ponte, quanto meno per immaginare di farlo. Questa via è offerta dalla parola.
Arrivata a questo punto, mi piacerebbe concludere, benché a Sécrétaire seguano altri tre decenni di lavoro artistico, e non solo, da parte di Tacchi. Quando sono andata a trovarlo in studio, Cesare mi ha messo alla prova proprio di fronte a Sécrétaire. È stato un po’ diabolico da parte sua mostrarmi il dipinto proprio mentre radunavo le mie cose, pronta ad andar via. In ogni caso, posticipata la mia partenza, egli mi ha chiesto di parlargliene e io mi sono bloccata di fronte a un’alternativa: se riferire una lezione ben imparata o provare a guardare il quadro. Ho optato per la seconda, ma ho esitato. Lui se n’è accorto e mi ha leggermente maltrattata. Non gli ho mai serbato rancore, anche se in quel momento le sue parole mi hanno fatta avvampare per l’umiliazione. Ma, da allora, non ho mai smesso di guardare a Sécrétaire come a un mistero, non tanto da decodificare, ma da raccontare!
di
Giorgia TERRINONI                         Roma 14 / 3 / 2017