IN QUESTA SECONDA PARTE DELL'INTERVISTA A CLAUDIO FALCUCCI PROCEDIAMO ALLA DESCRIZIONE DELLE VARIE TECNICHE DI ANALISI SCIENTIFICA DELLE OPERE D'ARTE E DEI RISULTATI CHE SONO IN GRADO DI RAGGIUNGERE.
Ingegnere nucleare, Claudio Falcucci si occupa dal 1992 dell'applicazione delle tecniche scientifiche allo studio e alla conservazione dei Beni Culturali, con particolare interesse alla caratterizzazione delle tecniche artistiche dei dipinti mobili e murali. In questo ventennio ha sottoposto a indagine diagnostica un gran numero di dipinti antichi, compresi alcuni fra i maggiori capolavori dell’arte italiana. In particolare ha al suo attivo un’esperienza straordinaria sull’opera di Caravaggio, del quale ha avuto l’opportunità di analizzare oltre 30 dipinti autografi.
D. Vorrei avviare la seconda parte della nostra chiacchierata chiedendoti di illustrare più nel dettaglio quello che fai e che risultati si ottengono attraverso quello che fai: cosa che, sono convinto, possa costituire un eccellente servizio reso a chi ci legge.
R. Il rapporto tra arte e scienza ha una storia antica. Senza risalire troppo indietro, e assumendo lo specifico angolo di osservazione che ci compete, diciamo che è alla fine del XVIII secolo che si comincia ad affrontare scientificamente il problema della conservazione delle opere d’arte, convocando gli esperti di quella nuova scienza che era la chimica per capire per quale motivi reperti archeologici provenienti dall’Egitto portati in Francia, in Germania o in Inghilterra cominciano rapidamente a deteriorarsi.
Per tutto l’Ottocento il rapporto fra arte e scienza venne affrontato essenzialmente dal punto di vista chimico. Si procedette con lo studio dei pigmenti, dei leganti e di tutti i materiali costitutivi secondo quelle che erano le prassi dell’epoca: quindi prelevando piccoli campioni (piccoli per gli standard dell’epoca, per noi oggi sarebbero enormi!) e cominciando a indagare la materia su questi frammenti con esami microscopici e microchimici. Dopodiché, nel 1895, per opera di Conrad Röntgen avvenne la scoperta che avrebbe dato il via alla nuova scienza del XX secolo, la fisica. Fu in quell’anno che lo scienziato si accorse che da uno strumento che serviva per effettuare esperimenti di laboratorio uscivano delle radiazioni in grado di attraversare strati di materiali molto spessi e completamente opachi alla luce, le quali riuscivano ad impressionare la pellicola fotografica. Aveva scoperto i raggi X, che sarebbero diventati uno strumento di indagine fondamentale nel campo della medicina, dell’industria e, da ultimo, dei beni artistici.
Poco dopo la scoperta dei raggi x si cominciarono a eseguire radiografie dei dipinti per capire se potevano rivelare qualcosa di più di questi oggetti manifestamente bidimensionali; se, cioè, il sottile strato di pochi millimetri di spessore di una pellicola pittorica non celasse informazioni utili a comprendere meglio il dipinto stesso. Con le prime radiografie si fecero le prime scoperte: ci si accorse per esempio che non sempre l’immagine radiografica corrispondeva fedelmente a quello che si osservava sulla superficie del dipinto ma che a volte emergevano figure che erano state in seguito spostate o modificate o cancellate. Si cominciarono così a mettere in evidenza pentimenti, riutilizzi di tele, modifiche compositive etc. Con i raggi X s’iniziò a studiare le opere in maniera non distruttiva, senza prelievi di materia, e non più raccogliendo informazioni relative solo al singolo punto oggetto del campione prelevato ma estese all’intera superficie della tela, consentendo di comprendere meglio come un dipinto era stato effettivamente realizzato.
D. Quali sono le principali tecniche di analisi scientifica con cui si possono studiare oggi le opere d’arte?
R. Dal punto di vista scientifico oggi affrontiamo lo studio di un dipinto da più profili e disponiamo di strumenti diversificati che ci permettono d’indagare molteplici aspetti di un opera. Possiamo studiare i supporti delle opere, per esempio l’assemblaggio delle tavole, o le pezze di tela cucite assieme per realizzate una tela di grandi dimensioni, o le tecniche di lavorazione di una lavagna. I supporti vengono indagati attraverso la radiografia, che grazie ai raggi X, ha questa capacità di attraversare tutti gli strati di un oggetto, su ciascuno dei quali l’immagine radiografica è in grado di fornire informazioni.
Sempre tramite i raggi X possiamo studiare le tele: il più delle volte, infatti, non è possibile ispezionare direttamente la tela originale di un dipinto antico, che quasi certamente sarà stato rifoderato una o più volte nel corso del tempo. La radiografia ci permette di leggere perfettamente la prima tela, indagando il tipo di tessitura, di densità, di vedere le pezze di tela che sono state cucite insieme e se la tela ha mantenuto il formato originale o è stata ritagliata, sfruttando il fatto che quando questa viene tirata sul telaio originale per poi stendere la preparazione, in prossimità dei punti di tiraggio, a causa di questa operazione meccanica, essa subisce una deformazione permanente.
Possiamo ancora capire in che modo è stata stesa la preparazione, se attraverso un pennello, una spatola o altri tipi di strumenti. Un’ulteriore opportunità di indagine che ci offrono i raggi X riguarda la grafica sottogiacente la pittura, la presenza di disegni preparatori che possono essere stati realizzati con le tecniche più varie, a seconda dell’epoca e della scuola dell’artista: e ogni diversa tecnica richiede un approccio diagnostico specifico. Se, per esempio, le incisioni e i disegni a punta di piombo sono ben evidenti in radiografia, per poter individuare disegni a carboncino o a pennello normalmente si ricorre alla riflettografia infrarossa. Si sfrutta la capacità di questo tipo di radiazioni, che non può essere percepito dell’occhio umano ma che è di una lunghezza d’onda molto vicina a quella delle radiazioni visibili, di penetrare attraverso gli strati pittorici molto più di quanto riesca a fare la luce visibile. Penetrando così profondamente può raggiungere, laddove ci sia, il disegno preparatorio. Con opportune telecamere o sensori è possibile osservare il dipinto in luce infrarossa anziché in luce visibile, e avere in questo modo la leggibilità di quello che c’è al di sotto dello strato superficiale. E’ una tecnica che spesso affianca e integra la radiografia, perché consente di leggere perfettamente elementi differenti rispetto alla radiografia a causa di una diversa interazione con la materia.
D. Soffermiamoci sulla tecnica a infrarosso.
R. Si tratta di una tecnica che sta subendo degli sviluppi enormi in questi ultimi anni, ed è attualmente la più lanciata verso il futuro sebbene la sua scoperta risalga a molti decenni fa, quando s'iniziò a lavorare con le prime pellicole fotografiche sensibilizzate verso le radiazioni infrarosse. Dopo la seconda guerra mondiale si cominciarono a utilizzare telecamere modificate per essere in grado di rivelare questo tipo di radiazione, con un grande avanzamento della tecnica: diventava possibile, infatti, avere l’immagine sul monitor, a fianco del dipinto, e nasceva quindi la possibilità di un confronto diretto, immediato, fra la superficie del dipinto e gli strati sottostanti, esattamente come in un’ecografia. Si cominciò anche a lavorare su bande di infrarosso diverse da quelle raggiungibili con le pellicole fotografiche, penetrando sempre di più nella materia e rendendo leggibili dettagli inaccessibili con altre tecniche. Oggi esistono telecamere in grado di rilevare radiazioni che vanno sempre più in profondità all’interno del dipinto, con risoluzioni e qualità dell’immagine sempre migliori. Peraltro si sta progressivamente abbandonando la telecamera in favore di un sensore che viene fatto scorrere lungo l’intera superficie del dipinto, misurando punto per punto quanta radiazione infrarossa viene diffusa dal dipinto. L’immagine viene ricostruita alla fine col sistema dello scanner e in questo modo si riescono ad acquisire più immagini in contemporanea, ottenendo una sorta di iper-immagine, in cui noi abbiamo un immagine a colori del dipinto come lo percepiamo noi perfettamente sovrapponibile alle immagini del dipinto nelle varie bande dell’infrarosso, permettendoci di vedere una quantità senza precedenti di dettagli.
D. Parliamo dell’analisi dei materiali.
R. Proseguendo nel nostro discorso, per così dire, “per strati”, abbiamo la possibilità di studiare i materiali utilizzati dal pittore, indagando per esempio i pigmenti impiegati. Anche qui la fisica fornisce un contributo prezioso, perché ci consente di ottenere un’enorme quantità di informazioni in maniera non distruttiva, direzionando un minuscolo fascio di raggi X sul punto che vogliamo analizzare (parliamo di pennelli di raggi X dell’ordine del millimetro di diametro, che vanno a colpire la superficie dei dipinti senza produrre alcun danno). Gli atomi che costituiscono i materiali nel punto colpito dai raggi X, assorbono questi ultimi e ne riemettono di ulteriori, che possiedono energie diverse rispetto a quelle che hanno assorbito. Questa diversità dipende dagli elementi chimici che hanno riemesso le onde: è così possibile, raccogliendo questa radiazione riemessa, comprendere qual è l’elemento chimico presente, e questo ci permette di eseguire un’analisi chimica estremamente raffinata senza più dover prelevare materia dall’opera.
Ulteriori vantaggi sono rappresentati dalla rapidità di questa analisi, che ha una durata di 1-2 minuti, e dalla possibilità di moltiplicare senza rischi e con costi molti contenuti i punti che vengono sottoposti ad indagine, potendo in tal modo campionare in modo molto più capillare tutti i punti che presentano campiture di colore differente o stati di conservazione che all’occhio appaiono diversi.

Per esempio, lavorando sul
Davide con la testa di Golia di Caravaggio del Kunsthistorisches Museum di Vienna [Fig. 1], che fu dipinto riutilizzando una tavola già impiegata da un altro pittore per raffigurare
Venere e Marte, con le analisi di fluorescenza ai raggi X mi è stato possibile, in una sorta di gioco scientifico, analizzare i pigmenti del dipinto sottostante quello di Caravaggio (che ovviamente nessuno vedrà mai!) ricostruendone la tavolozza. Anche la tecnica di fluorescenza ai raggi X sta facendo passi da gigante, per cui si comincia a sperimentare un sistema di scansione che consente a uno spettrometro di spostarsi punto per punto sulla superficie del dipinto permettendo di ricostruire una mappa precisa della distribuzione degli elementi chimici presenti sopra il supporto, in rapporto 1:1, arrivando a leggere alcuni pentimenti sugli strati sottostanti molto meglio della radiografia.
D. Passiamo al capitolo, spinoso da tutti i punti di vista, delle ridipinture.
Nel caso di ridipinture l’analisi della fluorescenza ai raggi X ci segnala la presenza di elementi chimici ulteriori di cui l’analista dovrà valutare la congruenza alla stesura originale. Tale valutazione si appoggia anche al supporto fornito da altre tecniche di indagine, per esempio la fluorescenza indotta dai raggi ultravioletti, la lampada di Wood che tutti conoscono e impiegano in ambito storico-artistico (anche se spesso in modo superficiale e improprio) e che può dare un notevole contributo allo studio dell’opera, così come, va aggiunto, può suggerire delle lettura completamente fuorvianti. Essendo, infatti, uno strumento di facile utilizzo molto spesso può indurre la sensazione che basti accendere la lampada per distinguere con certezza la pittura originale dai rifacimento o dai restauri, o per datare gli interventi successivi che vengono segnalati o le tecniche con cui quegli interventi sono stati eseguiti. Ma in realtà la fluorescenza ai raggi ultravioletti non è per nulla di così agevole e immediata lettura. Essa ci segnala delle differenze di pigmento, di legante o di grado di invecchiamento fra diverse zone del dipinto, ma affermare che quella certa stesura è originale e quella certa altra è una ridipintura non è un cosa tanto conseguente all’uso della lampada di Wood. Attraverso questa analisi noi otteniamo indizi e suggerimenti, che possono essere più o meno evidenti. Ma ho visto commettere con disinvoltura molte nefandezze su dipinti col presunto avallo degli ultravioletti. La lampada di Wood, al massimo, ci può dare una mappatura degli interventi che ci sono stati sulla superficie del dipinto. Spesso mi è capitato di trovare opere in cui le zone ridipinte evidenziate dalla lampada di Wood erano molto ampie ma in realtà andavano a risarcire lacune molto più piccole e per larga parte dipendevano, diciamo così, dall’arbitrio del restauratore: per cui bastava una semplice pulitura dell’opera per riportare felicemente a vista estese porzioni della pellicola pittorica originale.
E’ solo associando le varie tecniche di indagine e incrociando i dati delle varie analisi che si riesce a capire con certezza se quella certa macchia è o meno una ridipintura, a quando risale, quanto è estesa o “integrativa”, o se è rispettosa dell’originale, e, insomma, arrivare a un affidabile quadro della situazione. Vorrei infine precisare che una vera analisi a fluorescenza ultravioletta è una cosa radicalmente diversa dall’osservazione che normalmente si rivolge a un dipinto con la lampada di Wood. Intanto si lavora in una stanza completamente buia, in cui la quantità di luce che penetra dall’esterna è veramente prossima allo zero; le radiazioni ultraviolette impiegate sono mediamente fra le 200 e le 500 volte più potenti rispetto a quelle emesse da una lampada di wood; infine l’analisi avviene attraverso un’immagine fotografica ottenuta con particolari impostazioni della macchina digitale, o con speciali pellicole, con tempi di posa che in digitale sono di circa 2 minuti mentre con le macchine con pellicola si arriva a 20-40 minuti di posa.
D. I prelievi di materia si possono considerare definitivamente superati dalle tecniche diagnostiche attuali?
R. Può capitare che al termine di una campagna effettuata con tecniche rigorosamente non distruttive si eseguano dei microprelievi per procedere ad analisi chimiche convenzionali, laddove non sia stato possibile approdare a risultati soddisfacenti in altro modo (per esempio per caratterizzare i leganti). Su questi prelievi le analisi che vengono eseguite sono di amplissimo spettro: si va dalla stratigrafia su sezione lucida, che mostra gli strati della pellicola pittorica dalla preparazione alle vernici finali, gli spessori dei diversi strati, fino ad analisi che consentono di appurare quali pigmenti sono presenti in ciascuno di questi strati o quale sia il legante in ognuno di essi. Il micro-campione di prelievo oggi, da standard, deve essere contenuto nelle dimensioni di 2 x 1 mm., ma di fatto normalmente non supera il ½ mm. x ½ mm., con un conseguente danno per la superficie pittorica veramente impercettibile. Queste analisi a mio avviso devono comunque arrivare alla fine di una campagna diagnostica, quando il quadro della situazione è già chiaro, e si devono considerare il mezzo per rispondere a una domanda quanto più possibile precisa e non uno strumento di indagine buttato nel vuoto.
Altre tipologie di indagine riguardano, infine, la datazione di manufatti particolari. Le tecniche disponibili sono le analisi al carbonio 14, la dendrocronologia (specifica per il legno), e la termoluminescenza, per i materiali di origine non organica, in primis la terracotta. Si tratta di analisi complesse, i cui risultati, nonostante gli enormi progressi tecnici, conservano un certo margine di oscillazione e necessitano sempre di essere interpretati con cautela. In ogni modo, il più delle volte esse servono essenzialmente a verificare la compatibilità dei risultati ottenuti con un’ipotesi intorno alla datazione di un opera già formulata su altre basi; e, contrariamente a quello che normalmente si pensa, la datazione rappresenta un campo assolutamente marginale dell’analisi scientifica delle opere d’arte, l’ultimo dei riscontri che si possono ricavare dalle indagini diagnostiche e di fatto quello di gran lunga meno frequentemente richiesto: per dare un’idea, la proporzione fra i dipinti su cui ho lavorato e le analisi al carbonio 14 che ho effettuato è all’incirca di 1 a 100.
Vorrei chiudere con una considerazione fondamentale di carattere generale. La diagnostica prevede un approccio integrato fra il punto di vista scientifico e quello storico-culturale: se io non so nulla del periodo e dell’ambito a cui un’opera appartiene sarà molto difficile impostare una campagna diagnostica adeguata. Nella progettazione di una campagna diagnostica si deve avere presente la storia delle tecniche esecutive, essere perfettamente consapevoli di quali sono i limiti di ogni tecnica diagnostica impiegata e avere necessariamente l’ausilio dello storico dell’arte. Aggiungo che in ogni campagna diagnostica il momento più importante in realtà è l’adeguata osservazione preventiva dell’opera, perché nella maggior parte dei casi le indagini scientifiche non fanno che fornire un conforto scientificamente fondato a intuizioni che erano maturate attraverso un’attenta osservazione. Mi è capitato di definire la diagnostica come l’insieme delle tecniche che servono a far vedere meglio qualcosa che era già perfettamente visibile a occhio nudo. Nella maggior parte dei casi quando mostro un disegno preparatorio all’infrarosso ottengo una reazione meravigliata ed entusiasta: ma posso garantire che se si osserva la stessa opera con una buona lente, con la luce giusta e rivolgendole l’adeguata attenzione spesso, magari con minore evidenze e immediatezza, ci si accorgerà delle stesse cose.
Luca Bortolotti, 05/12/2012