Con l’inizio degli anni ’60 il “miracolo” disegnò una nuova Italia. Prese forma una vera e propria rivoluzione economica, sociale, culturale e mediatica. L’approccio alle innovative forme di comunicazione aprì la strada alla curiosità verso il “nuovo” artistico. L’arte divenne così il crocevia di nuove forme di linguaggio, con l’utilizzo dell’immagine come strumento per raccontare una
storia colorata, fatta di consumi di massa e di marketing pubblicitario.
L’arte di Mario Schifano interpreta questo cambiamento. Artista poliedrico e di frontiera, nato in Libia nel 1934, esprime nelle sue opere la ricerca del bello nelle nuove forme di comunicazione di massa nella società dei consumi. Trasferitosi a Roma, alla fine degli anni ’50 entra in contatto con il movimento artistico della Scuola di Piazza del Popolo dove, tra gli altri, conosce Mimmo Rotella, Tano Festa e Franco Angeli, e si avvicina ad intellettuali come Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, che definirà Schifano un “egocentrico egoista”. È forse proprio questo il primo processo di avvicinamento alle novità da parte di Schifano. Ma la vera iniziazione all’arte “nuova” è con il viaggio a New York del 1962, dove entra in contatto con la
Factory di Andy Warhol e conosce quindi la Pop Art. Tornato in Italia nel 1964, partecipa alla XXXII Esposizione internazionale d’arte a Venezia per esporre i “paesaggi anemici”, embrioni della sua opera futura. Spesso solo i nomi delle opere evocano realmente qualcosa di distinguibile. In
“Paesaggio anemico I” del 1964, battuto da Christie's nel 2020 per € 644.000, Schifano tanta un primo approccio a questa nuova raffigurazione, quasi accennando un paesaggio “evanescente” frutto della memoria dell’artista e della sua inconscia rielaborazione. La riproduzione dell’immagine, nel nuovo linguaggio di Schifano, diventa modulare, anticipando un metodo quotidiano e comune nella società pop degli anni 60, sia americana che italiana, anche nella produzione artistica.
Nei “monocromi”, degli stessi anni, Schifano tenta un primo approccio alla riproduzione dell’immagine di massa: il colore è quasi abbandonato a stesso, steso in maniera del tutto difforme sulla tela, a voler lasciare una libertà espressiva al colore e interpretativa allo spettatore. Non solo, l’uso cromatico è ridotto a una o massimo due tonalità. È come se si creassero dei veri e propri scenari accennati, mai definiti. Un altro esempio di questa innovativa espressività è l’opera
Tempo moderno del 1962. Sebbene qui il colore sia quasi sfuggente, lo spettatore percepisce qualcosa di ben riconoscibile, forse un marchio o una lettera. Qui l’arte assume una duplice funzione: riportare l’immagine agli elementi essenziali (forme e colore) e condurre lo spettatore verso una visione innovativa, verso una nuova forma di linguaggio.
La prima influenza dell’arte pop nell’opera di Schifano però si vedrà nei lavori della fine degli anni ‘60. Qui Schifano riproduce sagome di scritte pubblicitarie come le famose ESSO o Coca Cola del 1965. La differenza però tra Schifano e la pop art americana sta nella soggettività che l’artista si riserva nell’opera: le scritte sono spesso accennate nei contorni e impulsivamente colorate con vernice, colori ad olio o smalti in maniera “sporca”. L’immagine non è più riprodotta in maniera metodica, fedele, ma vi è un nuovo
realismo soggettivo: è percezione di essa ciò che l’artista riproduce. L’immagine, nell’arte, non è nient’altro che una distorsione della realtà eseguita dall’artista e Schifano interiorizza tale concetto. Passeggiando per le vie della città di Roma viene influenzato, quasi abbagliato, da queste pubblicità nuove. Nasce quindi un “
metalinguaggio” (Bonito Oliva). Schifano espone un’immagine non reale, ma percepita e persistente nella memoria dell’artista, frutto però di un’imposizione. Si pensi alle opere con la scritta Coca Cola, Schifano non riproduce quasi mai fedelmente la scritta in maniera completa, ma solo una parte di essa. Lo spettatore dell’opera però riconosce subito il marchio, tramite il
font e il colore, perché quell’immagine è già immagazzinata nella coscienza dei consumatori della società di massa. Anche l’uso del colore rosso come sfondo, quasi evanescente, è proprio un mezzo che l’artista utilizza per trasferire questa istantanea allo spettatore, il quale deve infatti andare oltre il visibile. Schifano tenta di riprodurre dei veri e propri rapidi “fotogrammi” di queste pubblicità. Nella serie di Paesaggi Tv dei primi anni ’70, Schifano ripropone, spesso su tele emulsionate e smalti, veri e propri fotogrammi “emotivi” di scene di film o pubblicitarie. In quegli anni, infatti, l’artista si era sottoposto alla visione nevrotica e compulsiva di una ventina di televisori, ripetutamente e continuamente nella propria stanza studio. Senza dubbio qui subentra anche la sperimentazione delle droghe che, in quel periodo, Schifano usava abitualmente e che spesso influenzeranno le opere con visioni quasi psichedeliche, difettose e irresponsabili, come lui stesso dichiarerà. Occorre pur dire che Schifano non abbracciò mai completamente l’opera della pop art americana. Si sentiva disturbato, infatti, dall’imposizione quasi “politica” di questa nuova oggettività. A Schifano, come fin qui detto, interessava la riproduzione di un’immagine interiorizzata, quasi una folgorazione che l’artista subiva da una scritta pubblicitaria, un paesaggio o un cartello. Il colpo d’occhio dell’artista diventava quindi l’immagine riprodotta sulla tela. Per Schifano infatti essere artista significava interiorizzare un modo di fare arte, senza una separazione tra vita reale, inconscio e pulsione.
Lo scenario riprodotto sulle tele emulsionate di quegli anni assume un duplice significato: all’interno della bidimensionalità della tela è perimetrata l’immagine fissa e statica raffigurata, ma allo stesso tempo lo spettatore deve essere conscio che ne sta osservando una sua rielaborazione, creandone a sua volta una nuova nella propria percezione di osservatore. Qui l’innovazione di Schifano: ridurre la fruizione dell’opera a contemplazione e rielaborazione linguistica, attribuendo all’arte una nuova funzione semantica. Nell’opera
Intervallo del 1972, Schifano riproduce esattamente la scritta dell’intervallo pubblicitario che compariva sugli schermi televisivi durante le interruzioni dei programmi,
INTERVALLO, quasi una necessaria richiesta di interruzione. Qui lo sfondo è completamente frutto dell’immaginario dell’artista. Non è infatti presente alcun rimando a pubblicità o fotogrammi televisivi, ma il tutto è riprodotto su uno schermo TV riconoscibile nei suoi contorni.
Diverso invece è il carattere di un’opera, sempre del 1972, denominata
Da Freud al Mandrax – ultimo congresso, dove l’artista inserisce una scritta creata con l’utilizzo di neon che cita “
dicembre 1883 Dresda, congresso dei segni come luogo crepuscolare della coscienza”, quasi a voler rimarcare una propria influenza dalla psicanalisi, dallo studio dell’inconscio profondo e dalla trasformazione delle forme di linguaggio e di coscienza. L’opera è stata battuta all’asta da Christie's nel 2018 per € 235.500.
Lo stesso Bonito Oliva più volte ha rimarcato la caratteristica di “arte non pulita” in Schifano, permeata infatti di tutte quelle “sbavature” di colore ed espressività che lo differenziano dalla pop art americana. Di fatto, l’artista lascia aperta la porta alla soggettività nelle proprie produzioni, quasi a rimarcare le origini mediterranee ed europee e negli artisti come Caravaggio, Goya, Van Gogh e Velázquez. Schifano resta senza dubbio un artista nomade. Lui stesso non si allontanò mai da una tradizione di colori e gestualità tipica della sua tradizione pittorica. Questo lo differenzia notevolmente dal Warhol pubblicista e attento alla riproduzione meccanica della figura.
In Schifano c’è una nuova presa di coscienza dell’immagine (L. Caprile). L’uso della fotografia sarà la benedizione per l’opera di Schifano: attraverso il filtro ottico della macchina fotografica, il gesto dell’artista si riduce a immortalare l’istantanea più significativa di quell’attimo che lui sta osservando. Così l’artista cattura il momento. Ma è questa quindi la vera immagine oppure è solo una percezione che l’artista ha avuto di essa?
Schifano forse tenta di dare una risposta a questa domanda con le sue opere più tarde: nei
Senza Titolo degli anni ’90, l’artista riproduce delle fotografie di scene televisive, molto veloci quasi irrealistiche, riprese poi con tecniche miste. Schifano è anche un artista di sperimentazione pittorica oltre che linguistica: già nei lavori della fine degli anni ’60, approcciò ad un “
neofuturismo”, come più volte descritto dalla critica, dove l’uso innovativo della bomboletta spray permetteva di dare vita a sagome e forme, come nell’opera del 1967
Tutte stelle. Anche in questo caso però l’immagine raffigurata non è mai realistica, sembra quasi pensata, una realtà “immaginata” nella mente dell’autore. Schifano estremizza il concetto fin qui espresso: l’immagine deve rappresentare nient’altro che la percezione che l’artista ha di essa, quindi filtrata dall’occhio e dall’inconscio. Sono immagini irrealistiche, come lo erano i
Paesaggi televisivi, che creano un luogo/spazio non definito, esistente solo nella mente dell’artista e nella percezione che egli ha voluto intercettare di essa. Sembra quasi che quanto raffigurato debba la sua esistenza al supporto che lo contiene (Bonami), in questo caso la televisione. Secondo Bonito Oliva: “se
il sogno di Warhol è stato quello di voler essere una macchina, quello di Schifano è stato essere la pittura, portata nella condizione di mass-medium”.
Osservando quindi l’opera di Schifano con gli occhi degli osservatori di oggi, assuefatti all’uso dell’immagine diffusa su tutti i mezzi di comunicazione, si nota subito come il gesto di Schifano di auto imporsi la visione di venti schermi televisivi, non sia altro che una lungimirante e nevrotica anticipazione della contemporaneità.
Tutta l’immagine è evanescente, come la pubblicità nella società dei consumi di massa. Nell’opera di Schifano, artista veloce e di confine, c’è una nuova “esperienza del figurato” che anticipa il rapporto di oggi con i media. L’immagine deve essere vista, pensata e riprodotta, senza questo processo forse neppure esisterebbe.
Giuseppe David-d’Alascio
Fig.1 Paesaggi televisivi
Fig.2 Coca Cola
Fig.3 Paesaggio anemico